LE COLONNE DELLA VITA di Giovanna Mulas – Numero 3 – Gennaio 2016

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LE COLONNE DELLA VITA

 

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ogni costituente si fonde in un’amabile armonia capace di sopravvivere alle sfide di un progresso che può essere rappresentato da quel turismo di massa oramai divenuto, come dichiara Maurice Aymard, una “invasione pacifica ma non innocente”: in nome di una veloce ricreazione è capace di annientare i fragili equilibri delle società esistenti, considerando il nostro meridione una ricreazione, un gioco, non una realtà da conoscere e nella quale perdersi.
O ritrovarsi.

Se è vero che siamo ciò che siamo stati, la storia, questo remoto crocevia culturale, non è altro che una incessante serie di interrogazioni rivolte al passato in nome dei problemi e delle curiosità di un presente che ci circonda e chiude. Questo è finalmente da assimilare, o saremmo foglie che non sanno di appartenere allo stesso albero.
In realtà tutto aderisce alla natura originaria, nonostante gli uomini pare che non abbiano mai assorbito nulla dalla storia, né agito in base ai principi da essa edotti:

Eppure è indispensabile, per l’Uomo, cominciare a comprendere che il temuto dolore non serve a togliere merito e dignità, ma a maturare, ad abbracciare quell’Attorno che è rappresentazione del Templio che è la nostra interiorità.

Ma la comprensione o meglio, l’accettazione della sofferenza, avviene se non ci distrugge, se non annienta lo spirito quindi il rispetto per le cose semplici, indispensabili. Per dirla alla Pessoa: Ci sono navi dirette verso molti porti, ma nessuna verso dove la vita non è dolore. 
Pare impossibile uscirne per quanti ne attraversano, a piedi nudi, il sentiero; ma passa, passerà: si farà più sopportabile. Occorre lasciare che scorra il tempo, Colui che tutto sana. Pare impossibile uscirne per quanti ne attraversano, a piedi nudi, il sentiero; ma passa, passerà: si farà più sopportabile. Occorre lasciare che scorra il tempo, Colui che tutto sana. 
Pensiamo alle Colonne d’Ercole, ritenute l’accesso verso un nuovo mondo, sorveglianti della rotta per luoghi sacri, simbolo di crescita, illuminazione mentale e spirituale dopo la prova, necessaria ad ogni uomo, del dolore. Secondo Platone, la perduta Atlantide era situata oltre le Colonne d’Ercole, nel regno dell’Ignoto, per Bacon, tra le colonne corre il sentiero che porta verso il superamento delle incertezza terrene, al perfetto ordine dell’Uomo Nuovo. 
“La città degli eletti filosofici si staglia dalla vetta più alta delle montagne della Terra, e qui gli dèi degli sapienti se ne stanno insieme in una felicità eterna”.

Dunque dopo e solo dopo, appare la visione del mondo oltre ogni diversità e cultura: solo questa può e potrà cristallizzare un dato tipo umano al fine di donare all’intera Comunità.

Come scrive Luigi M. Lombardi Satriani: “…Assistiamo a sempre più intensi processi di carnevalizzazione della vita, che marcano nettamente la nostra temperie culturale e politica. Quanto più clownesca la sfera pubblica, tanto più carnevalizzata la vita sociale. Tant’è. Così appare il mondo che ci è dato vivere”.

Durante la fase di evoluzione l’Uomo soffre – perché rinnegare quella sensibilità che ci appartiene come e per Natura? – ma non teme: guarda dall’esterno il suo dolore.

La tradizione rinascimentale riporta che i pilastri recavano l’avvertimento “Nec plus ultra” (anche “non plus ultra” “nulla più in là”), che serviva da ammonimento per i navigatori a non proseguire oltre. “Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate”, ovvero Porta del Buio?. Si ribaltino immagine e pensiero; la Porta del Buio non diviene, forse, Porta della Conoscenza? Buio per la Luce dunque e ancora, disillusione o patimento, comunque attraversamento della propria parte inconscia, quindi rifiutata e temuta ché sconosciuta. L’idea di morte non genera forse immotivato timore dovuto alla comune ignoranza del dopo, se dopo esiste?. Anche qui la superbia umana ha il sopravvento sul raziocinio: voler necessariamente credere a un dopo è ritenere di essere degni di un dopo.

I pilastri si fanno metafora di equilibrio tra due forze opposte, “Stabilità” e “Forza”i due opposti di cui è costituita la natura umana. Sono espressioni attive e passive dell’energia divina, bene e male, il sole e la luna, luce e oscurità.

E’ in questi attimi del navigare l’Esistere che è bello incontrare un legame forte, più forte Di e Tra tutti Noi: 
e qui vedo l’Uovo, espressione figurata dell’embrione primigenio da cui sarebbe scaturita la vita, è ciclo che arriva al sangue e lo continua, dove la terra si ferma. 
Quando la foschia dell’illusione sfuma si apprende, ad esempio, a smascherare l’inutile abbaiare di un altro, a sgonfiarlo di ogni presunzione come farebbe lo spillo sul palloncino ché gonfio, tronfio come è, non riesce più ad accogliere niente altro che non sia la propria boria, e simulazione.
A volte il coraggio di svilire, spezzare il falso e l’apparenza, non rappresentano incoscienza o amore del pericolo quanto capacità di distinguere cosa è ‘male’ per un uomo o per l’intera Comunità, e cosa non lo è. Per dirla alla Seneca, il coraggioso custodisce la propria tutela e nello stesso tempo patisce con risolutezza gli eventi che hanno l’ipocrita apparenza di mali.

Nella ‘Forza’ sarà ‘Stabilità’ la mia dimora.

(Da ‘Riflessioni, Pensieri’)

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AL LIMITE DI UN TEMPO SENZA STORIA di Alessandro Gaudio – Numero 3 – Gennaio 2016

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A proposito dei suoi versi si è spesso parlato di «itinerario fenomenologico e psicolinguistico nell’autobiografia»1 e lei stessa era solita definire la sua scrittura «psicanalitica e subconscia»2, creando poi per essa la categoria della bio-parola, ovvero della bio-poesia. Sono tante le poesie che si rifanno a questo principio − ad esempio, quelle incluse in Mediazioni e ipotesi per maschere (Firenze, Vallecchi, 1985) − ma preferisco trascrivere una di quelle contenute nel terzo volume delle Proporzioni poetiche, antologia curata da Domenico Cara nel 1987 (Milano, Laboratorio delle Arti, 1987, pp. 137-138). Si intitola E non rinasceremo e la riporto qui di seguito, prima di ridiscuterne brevemente la disposizione all’indagine esistenziale per i lettori di «Myrrha».

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AL LIMITE DI UN TEMPO SENZA STORIA

 

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Nella noia di un ritmico esistere, per il tramite della sua operazione poetica, la Verbaro porta avanti il viaggio inquieto che parte dal suo Sud («Quella terra fantastica / persa tra tempi lunghi e spiagge aperte»)

In questa località psichica, che ha una propria spazialità, ma che è priva di una topografia rigorosa, si forma uno degli stadi preliminari delle immagini che prendono parte alla poesia di Giusi Verbaro.

Quella terra fantastica
persa tra tempi lunghi e spiagge aperte
su cui scrivemmo antiche profezie
io l’ho veduta crescere nel sangue
e tingersi di rosso
e poi impazzire al grido degli uccelli
al commiato dolente dell’estate

Questa morte che un vento sterminato
mi colma di occhi bianchi
e mani accese
si consuma straziata
lungo tracce di passi innumerabili
e angeli addormentati nell’attesa

(Senza memoria arrendersi
nei giardini di Tebe
aspettando le piogge)

e mai come stasera − sfiancata dalle nebbie −
poserò le mie fughe
al limite di un tempo senza storia

Non abbiamo proposto che saggezze
al vento secco che straziato incalza
da millenni a millenni
e il torpore ha spianato faglia a faglia
il miracolo inquieto dell’amore
che schiantasse radici
gonfie di linfa viva
sulla soglia di un giorno rinviato
ad altro giorno ancora
ad altro, ad altro…

e non rinasceremo
alla grazia solare dell’estate

e, passando di strato in strato, da «da millenni a millenni / […] faglia a faglia», conduce a un tempo-luogo «su cui il mito affiora a codificare nel simbolo l’implicito, l’inconscio, il non codificabile».3 La poesia, dunque, si configura come rappresentazione che, essendo legata alla parola, al linguaggio verbale, più che subconscia è, per meglio dire, preconscia. Ma in che modo la parola consentirebbe alla Verbaro di pervenire a ciò che è implicitamente presente nell’attività mentale? Si conoscono bene, del resto, le difficoltà che Freud stesso aveva dovuto affrontare nel definire lo spazio del subconscio e che lo avevano indotto ad abbandonare tale categoria, preferendole quella di preconscio ed è quest’ultima che qui si sceglie per definire lo spazio virtuale all’interno del quale si muovono i versi della Verbaro.

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Cos’è, d’altra parte, il subconscio? Ciò che è debolmente conscio? Oppure ciò che si trova nella psiche al di sotto della soglia della coscienza? Oppure ciò che ad essa è precluso?

Si potrebbe dire che lo spazio preconscio, restando implicito, qualifichi ciò che sfugge alla coscienza; ed effettivamente lo fa, mediante il vaglio di una censura che, a un estremo, evita che i contenuti inconsci trovino la via per il preconscio e la coscienza, facendoli passare come in una strettoia; all’altro, controlla l’accesso alla coscienza, essendo in grado di selezionare i contenuti sui quali esercitare la propria attenzione. La bio-parola della Verbaro individua e descrive il residuo cosciente delle preoccupazioni perturbanti presenti nella sua esistenza; il soggetto, così, è perfettamente in grado di rievocare i propri ricordi lungo un viaggio poetico − tra memoria e mito, al limite di un tempo senza storia − che adegua una località psichica (psychische Lokalität, diceva Freud) a un sapere cosciente ma che, cionondimeno, non è dotato di una scansione predeterminata ed esatta.

Ciò avviene perché la poetessa, nei versi qui trascritti così come in altre occasioni, brandisce l’estraneità di ciò che le è familiare, situandosi in un altrove privo di ordinamento − dove il vento diviene sterminato e straziato e straziata è anche la morte, dove i passi sono innumerabili e il miracolo dell’amore è inquieto − la cui idea non può essere immediatamente analogica, ma che, nondimeno, le consente di instaurare un rapporto produttivo con il suo Io e con l’ambiente che lo circonda. Ciò, peraltro, chiarisce la funzione che − a detta della stessa Verbaro − ha avuto la poesia nel corso della sua esistenza: vale a dire, come preannunciato all’inizio, mappa, bussola, rotta, ragione e mezzo d’indagine di un’intera esistenza.

 1 S. Lanuzza, Lo sparviero sul pugno. Guida ai poeti italiani degli anni ottanta, Milano, Spirali, 1987, p. 256.
2G. Verbaro Cipollina, Le alchimie dello stregone. Appunti e riflessioni sulla poesia italiana degli anni ’80, Soveria Mannelli, Catanzaro, 1984, p. 60. Il saggio dal quale si trae la definizione riportata introduceva già la bella antologia intitolata Poeti della Calabria e curata dalla stessa poetessa nel 1982 per i tipi di Forum / Quinta Generazione; la citazione figura a p. 20.
3È quanto sostiene la stessa Verbaro Cipollina nella nota introduttiva a Mediazioni e ipotesi di maschere, silloge del 1985 già citata più in alto (p. 9).

 

LA COSTITUZIONE MANCATA A NAPOLI di Cesare Imbriani – Numero 3 – Gennaio 2016

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Avrei potuto, anzi forse dovuto titolare le poche cose che dirò: “i Borbone e le Costituzioni mancate” o, meglio, “i Borbone e le occasioni mancate”, riferendomi così ai vari problemi di politica interna e internazionale, un insieme di nodi irrisolti o mal gestiti la cui somma si è riflessa alla fine nel dissolvimento del Regno delle due Sicilie. Basti ricordare la “questione dello zolfo”, che vide coinvolte con differenti ruoli le due maggiori potenze dell’epoca, Inghilterra e Francia, oppure la necessità della riconquista della Sicilia manu militari da parte di un sovrano della dinastia restato nel dire comune (dopo il bombardamento della città di Messina) con l’appellativo di Re Bomba, o ancora le mancate risposte ad una laicizzazione costituzionale in una Europa che era una polveriera di richieste di rappresentatività democratica.
Ho scelto invece di riferirmi alla Costituzione Napoletana del 1820/21 per tre ordini di motivi:
1- Perché, nei fatti, ritengo che, insieme ai noti problemi interni del Regno delle Due Sicilie (legati essenzialmente al mancato costituzionalismo ed anche ai problemi della annessione in una logica di stato unitario del Regno di Sicilia), la fine dello

 

LA COSTITUZIONE MANCATA
A NAPOLI

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In definitiva si può ritenere che il 1820/21, per dirla con un termine molto usato in economia, rappresenti una sorta di benchmark interpretativo. In tale periodo re Ferdinando, stretto dai suoi rapporti con l’Austria per la attuazione ed il rispetto degli impegni derivanti dal Congresso di Vienna, ma anche da quelli della restaurazione del Regno fece esporre il figlio Principe vicario Francesco che, quale suo mandatario, promulgò una Costituzione sul modello di quella spagnola di Cadice.

Ciò però si realizza in un quadro di costanti e mancate risposte istituzionali e politiche da parte dei Borbone alle problematiche interne specie al costituzionalismo, di cui quello del 1820/21 fu una occasione a mio avviso stoltamente mancata, perché avrebbe consentito alla Casa regnante di collocarsi dal lato giusto della storia.
2- Certo, e siamo al secondo motivo, anche (per alcuni, soprattutto)

l’ottuso rifiuto di una effettiva modernizzazione istituzionale – dopo il periodo rivoluzionario del 1789 e quello murattiano dell’inizio del secolo – ebbe un ruolo fondamentale e favorì nel momento della dissoluzione del Regno

davanti alla avanzata delle truppe garibaldine (in palese violazione del diritto internazionale) un comportamento di non interventismo, un benign neglect all’incontrario, delle varie potenze: tale atteggiamento riguardò oltre a Francia e Gran Bretagna (come poteva essere prevedibile), persino l’Austria, frenata nel suo intervento anche dalle superiori capacità della flotta inglese. La Prussia era invece distante, ancora in crescita ed alla ricerca di un consolidamento di ruolo in Europa; la Spagna era ormai troppo debole e poco ascoltata nel contesto dell’equilibrio dei poteri. Solo la Russia cercò di intervenire diplomaticamente davanti all’evidente sopruso militare e politico che veniva perpetrato, anche in ricordo dell’atteggiamento a lei favorevole del Regno delle Due Sicilie in occasione della Guerra di Crimea, quando di contro il Piemonte le si era schierato contro con Francia e Gran Bretagna; ma ciò non bastò.
3- Ecco, quindi, e siamo al terzo motivo, l’importanza politica della vicenda del 1820/21 e della

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(concessa dopo moti insurrezionali di matrice carbonara che coinvolsero guarnigioni nella zona di Nola – gli ufficiali Morelli e Silvati, il prete Minichini – e poi in Irpinia), la quale

avrebbe collocato il Regno napoletano dal lato delle monarchie costituzionali, prima di tutte nell’Italia Continentale.

Per il vero, una prima Costituzione sulla falsariga di quella inglese fu concessa dai Borbone alla Sicilia nel 1812,quando la parte continentale del loro Regno era sotto il dominio francese nella persona di Murat. Tale costituzione viene quindi correttamente ricordata come l’assetto costituzionale italiano che anticipò il normale decorso di democratizzazione già implicito nelle dinamiche risorgimentali; purtroppo la Sicilia, nell’ambito delle sue continue vicende indipendentiste, quando si concretizzò una Costituzione ispirata da Lord Bentinck, la vide dismessa nel successivo accorpamento unitario del Regno di Borbone. Ed è ben noto che la mancata risoluzione, almeno in termini federali, della questione siciliana fu un altro fondamentale motivo di debolezza del Regno napoletano.

all’inizio del 1821, Re Ferdinando l si recò a Lubiana, al Congresso convocato con fini di Restaurazione dopo i moti insurrezionali di quel periodo; promise solennemente nel partire da Napoli, che avrebbe difeso e giustificato la Costituzione nel consesso delle altre nazioni.

Era una Costituzione con evidenti limiti istituzionali, ma rappresentò un’occasione importante perché era determinata in un clima sicuramente lealista rispetto all’istituto monarchico. Gli stessi deputati dell’epoca, tra cui Giuseppe Poerio, padre del più noto Carlo (storicamente conosciuto, perché alcuni anni dopo divenne un simbolo internazionale della repressione delle libertà attuate dai Borbone) erano per la massima parte fedeli all’istituto monarchico, seppur recependo le abbondanti tracce dell’illuminismo locale.
In ciò Napoli dopo le esperienze rivoluzionarie del 1799 e l’epoca murattiana, piena di cambiamenti ideali e strutturali, si era sempre differenziata idealmente e culturalmente dall’altra “capitale agognata”, Palermo, dove invece il riconoscimento del Regno passava attraverso un complicato gioco di richieste di rappresentatività politica e gestionale, al fine di ripristinare autonomie statuali, che configgevano con l’atteggiamento fortemente unitario, da un punto di vista politico ed economico, dei Borbone.
Ma i patti sottoscritti non furono rispettati:

la Costituzione del 1820, seppure nei suoi limiti, era la cosa giusta al posto giusto, nel momento giusto, da un lato, per allentare la sudditanza verso l’Impero Austro-ungarico (che a sua volta si dissolse nel 1918,cioè meno di sessanta anni dopo il Regno delle due Sicilie); dall’altro, per far divenire lo Stato napoletano un Attore rispettato ed autorevole del processo di unità nazionale, che all’ epoca perseguiva anche vie federaliste;

Viceversa, la sua richiesta di intervento giustificò una spedizione di truppe austriache, che attraversò la penisola e si scontrò con l’esercito napoletano guidato dal generale Guglielmo Pepe nei pressi di Rieti e poi alle gole di Antrodoco.
La sconfitta dell’esercito costituzionale comportò il ripristino di un regime di monarchia assoluta nel Regno delle due Sicilie; le dolorose esecuzioni di vari rivoltosi, seppur leali ad un istituto monarchico costituzionale, la diaspora dei Deputati del primo Parlamento napoletano ed il pagamento per molti anni del corpo di spedizione austriaco (una sorta di beffardo tutoraggio, come ancora oggi si vede nel contesto delle relazioni internazionali) furono i dolorosi residui di una vicenda che peserà negli anni a venire, sconnettendo la intellighenzia risorgimentale del Sud dai destini dei Borbone. Per inciso, il generale Pepe lo ritroviamo nel 1848 a difendere Venezia per poi morire nel 1855 esule a Torino.
Insomma,

tutto ciò avveniva ben prima che il Piemonte si impossessasse di quel ruolo che ci condusse all’unità nazionale.

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TAMBURO, IL RITMO DEL CUORE di Titta Mancini – Numero 3 – Gennaio 2016

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Infatti, è essenzialmente poverissimo nella fattura, costruito con materiali facilmente offerti all’uomo dalla natura – pelle animale (di capra o capretto), legno e, a volte ma non sempre, pezzetti di latta o altro metallo di poco valore per i piattini (o cimbali) di accompagnamento lungo il bordo. 
Il nostro tamburello italiano o tamburo – ce ne sono di diverse circonferenze – è detto ‘a cornice’ proprio per la cornice di legno che contorna la pelle animale sulla quale il percussionista batte il tempo, dando origine alla vibrazione sonora, che costituisce la musica del tamburo, o se vogliamo, la sua voce.

TAMBURO, IL RITMO DEL CUORE

 

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Il tamburo è l’unico strumento musicale presente in tutte le culture del mondo, dagli indiani d’America all’estremo Oriente, dal nord Europa all’Africa, e il Mediterraneo dall’Italia al mondo arabo. Questo, in ogni epoca della storia. Ci sono testimonianze primitive dell’uso di strumenti a percussione di forma circolare. A noi vicine, le immagini dell’epoca fenicia o romana:

Una danza continua, le cui movenze ricordano i nostri antenati, il viaggio che dalla semina conduce al raccolto. Che lo si eserciti come ballo o che soltanto lo si apprezzi per il valore simbolico.

Sono soltanto esempi. L’iconografia ne è ricca, sia popolare laica, sia cattolica cristiana.
Dalle origini mitologiche all’uso nei campi, più di recente. La storia del nostro paese e, in particolare, del Sud, ci consegna la musica popolare come madre di ogni ritmo. Non a caso l’universalità dello strumento descritto, come si diceva, presente in ogni continente, nasce proprio dalla sua peculiarità:

le sacerdotesse fenice usavano suonare il tamburello nei riti propiziatori per la fertilità; i romani lo utilizzavano ad accompagnare le feste dionisiache, vino, canti e musica nelle ville di Pompei, e lo raccontano gli stessi affreschi salvati dalla distruzione della città antica.

Ci sono anche uomini e donne, per lo più anziani oggi, che hanno creato maniere di suonare, stili, che portano quindi il loro nome, alla maniera di…
Si accennava al mondo dei campi. Dal medioevo ad oggi la musica popolare, con il suono del tamburo, semplice, potente, evocativo, profondo o acuto, è servita a più scopi. Sul ritmo nascono rime e invocazioni, proteste e incoraggiamenti, riti propiziatori di derivazione pagana in favore della fertilità in senso lato, dell’amore come forma di corteggiamento, provocazione, sfida. Il lavoro nei campi e la fatica di guadagnarsi il pane, la necessaria ricompensa e la protesta in caso contrario, in nome di una sociale giustizia. Sono tutti temi che hanno attraversato il canto popolare dando corpo, voce e musica proprio a questi sentimenti di comunanza.

Il culto mariano, soprattutto nella regione Campania, ha riadattato la musica popolare in chiave religiosa, sacra; il popolo con le cosiddette ‘tammurriate’ (e qui il tamburo usato è di dimensioni più grandi, la tammorra) si rivolge direttamente alla Madonna

Il tamburo non è l’unico strumento del mondo popolare – spesso ad esempio è accompagnato da piccole nacchere o castagnette (così dette nel vesuviano), indossate e suonate dai danzatori sul ritmo della percussione – ma è certamente, il tamburo, l’oggetto musicale che meglio rappresenta nella sua stessa struttura la filosofia della musica nata dal popolo: una musica ancora viva nel nostro Sud e che continua a garantire il legame profondo che unisce l’uomo meridionale alla sua storia. E’ una musica circolare. Come il sole, come la luna, come il ciclo intero della vita.

il tempo sul tamburo rievoca, o addirittura imita, il ritmo del cuore. Il primo e più antico suono che l’orecchio umano abbia mai percepito, addirittura in se stesso.

(sette Madonne, secondo la tradizione quasi leggendaria, sette Sorelle, sei belle ed una nera), per una grazia che si chiede cantando e suonando. 
Il suonatore e i danzatori: nella cultura salentina, leccese, il tamburo accompagna invece il violino perché la musica ripetuta e ipnotica risvegli nella tarantata, quasi sempre donna, le capacità innate di guarigione, contro il veleno del ragno. E qui parliamo di pizzica: il morso vero o presunto, reale o immaginato, sempre certamente simbolico, l’espiazione del male e la liberazione attraverso la musica. 
Difficile sintetizzare in poche righe la sacralità che accompagna l’uso del tamburo anche laddove il rito o l’iniziativa musicale prende forma da una semplice necessità di aggregazione, come la festa, una tarantella via l’altra; c’è sempre nel sottofondo del ritmo il passo antico di una sonorità che ci appartiene, nel profondo. Quasi magica. Come la terra, la nascita, il cuore che batte.

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E forse ancor prima di nascere. Ecco il battere sulla pelle animale. E non c’è niente di scritto in questa musica che si tramanda di generazione in generazione, di padre in figlio, di nonno in nipote. E’ a trasmissione orale e manuale: il movimento delle mani, quella che regge lo strumento e quella che lo percuote, dall’impugnatura alla riproduzione del suono in tempo binario o terzinato, si impara osservando e provando assieme al maestro della tradizione, in genere un riconosciuto ‘grande vecchio’ del paese,

così al Sud, dove ancora è molto forte la cultura della musica sul tamburo e altrettanto forte la gelosia che accompagna la sapienza. Tecniche conosciute da centinaia di anni, ma riposte nelle mani di pochi.

Per accordare un tamburo servono acqua e fuoco, acqua per allentare la pelle, fuoco per renderla più tesa. Umidità e calore. E torniamo alle origini, per fare musica.

 

LIBRERIA MARESCRITTO di Matteo Eremo – Numero 3 – Gennaio 2016

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“Il seguente articolo – estratto da un racconto più ampio contenuto nel volume: La voce dei libri II. Storie di libraie coraggiose raccolte e raccontate da Matteo Eremo – è qui pubblicato per gentile concessione dell’editore Marcos y Marcos e dell’autore”.

Immaginate una libreria vicino al mare, in Salento, in uno dei punti più estremi della nostra penisola, a due passi dalle coste dell’Albania e della Grecia. Immaginate un luogo minuscolo ma coloratissimo, dove è possibile sfogliare le pagine di un libro con in sottofondo le note celestiali di un capolavoro come Kind of Blue di Miles Davis.

a Tricase, fino a quel momento, non c’era stata richiesta di libri perché era mancata l’offerta, non il contrario. Il problema non era aprire una libreria al Sud ma, semmai, superare i pregiudizi. Perché la gente desiderosa di leggere c’è, eccome: bisogna solo offrire un servizio e un luogo adatti alle loro esigenze.

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LIBRERIA MARESCRITTO

 

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Un tempietto consacrato all’olimpo dei libri da una giovane donna che, dopo essere emigrata al Nord come tanti suoi conterranei del Sud, ha deciso di tornare nella propria città di origine per aprire una libreria. Sì, avete capito bene. Vendere libri nella più periferica delle periferie, dove nemmeno le librerie di catena osano andare, in una piccola cittadina del Capo di Leuca, al confine tra due mari: l’Adriatico e lo Ionio.

Letture contro i pregiudizi

 

“A vent’anni” racconta Isabella “ho sentito una forte esigenza di compensare le mie lacune culturali. Si trattava di un’autentica necessità di emancipazione da certi limiti del pensiero, di liberarmi da quelle che Henry Miller chiama ‘pastoie della propria natura’. Cercavo letture in grado di farmi vedere le cose da un punto di vista alternativo. 
“È così che è avvenuto l’incontro con gli autori che più amo e da cui mi sono lasciata influenzare: Marguerite Duras, Céline, Kafka, Simone de Beauvoir, la Beat Generation, Musil, Pasolini, Boris Vian, John Fante… Lo definirei un vero e proprio punto di non ritorno. Già mentre mi immergevo per la prima volta in quelle letture scoprivo nuovi orizzonti di senso. I miei libri erano tutti sottolineati, annotati, con le pagine usurate e ingiallite per il mio continuo soffermarmi su passaggi che ritenevo illuminanti.
“Mentre studiavo e lavoravo saltuariamente, ho cominciato a chiedermi cosa volessi fare nella vita, finché non ho raggiunto i miei fratelli a Bologna. Lì, all’ombra delle due torri, mentre mi reinventavo in diversi ruoli, mi sono posta la fatidica domanda: perché non aprire una libreria a Tricase, dove sono nata e cresciuta? 
“Gli aspetti positivi che potevano decretare la buona riuscita dell’impresa non mancavano di certo in quel periodo, alla fine degli anni Novanta. Pur essendo il centro più grande del Capo di Leuca, innanzitutto, Tricase aveva qualche piccola cartoleria rifornita di scolastica, ma nemmeno una vera libreria. Poi si trovava a soli tre chilometri dal mare, in una posizione privilegiata. 
“All’epoca, inoltre, stava per esplodere il fenomeno del Salento, con la riscoperta di forme musicali come la pizzica e la taranta. Eravamo ancora lontani dal successo turistico di oggi, ma già in quel momento si poteva intuire che ci sarebbe stato un grande rilancio della mia terra. Avevo però un dubbio: perché nessuno aveva aperto una libreria a Tricase? 
“All’epoca, purtroppo, ero ancora vittima del preconcetto secondo il quale al Sud è tutto più difficile. Per tanti anni, d’altronde, i nostri giovani sono emigrati al Nord o all’estero rafforzando una paura e un complesso di inferiorità con il quale chi nasce nel meridione prima o poi deve fare i conti. 
“La situazione, in realtà, è diversa:

Isabella Litti, l’intraprendente e coraggiosa libraia di Marescritto, è un perfetto testimonial della forza e della portata, troppo spesso sottovalutate, dei libri. 
La sua vita è infatti segnata da un netto spartiacque: c’è un prima e un dopo aver cominciato a leggere. E il dopo, ça va sans dire, è tutta un’altra storia.

“Un contesto in cui rientra anche la riscoperta della lentezza, una virtù messa in cattiva luce da una società frenetica, iperproduttiva e isterica. Del resto, chi l’ha detto che la velocità è tutto? Al contrario, come ci insegna Franco Cassano con una bellissima metafora, dovremmo ‘essere lenti come un vecchio treno di campagna, come chi va a piedi e vede aprirsi magicamente il mondo, perché andare a piedi è sfogliare il libro e invece correre è guardarne soltanto la copertina’. 
“Il futuro dei libri, non solo quello del Sud, passa anche da concetti come questo”.

basta leggere un libro come Il pensiero meridiano di Franco Cassano per assumere tutta un’altra prospettiva e capire che occorre restituire al Sud la sua antica dignità di soggetto del pensiero, riformulando l’immagine che esso stesso ha di sé. Non più ‘periferia degradata dell’impero’, ma centro di un’identità ricca e molteplice, autenticamente mediterranea.

“Non era un problema di domanda, ma di offerta”

 

L’avventura di Isabella Litti parte ufficialmente nel giugno del 2004, in un piccolissimo locale di appena trenta metri quadrati nel cuore del centro storico di Tricase. 
Il nome, così evocativo e sinestesico, è un omaggio a un ricercato libretto fotografico dell’amata Marguerite Duras: Il mare scritto, appunto. 
L’avvio è tutto in salita. Il budget limitato costringe Isabella a partire con grande cautela, con un catalogo di soli duemila titoli, e a passare attraverso i grossisti.
“Già nel corso del primo anno” ricorda Isabella Litti “ho però iniziato ad avere diversi riscontri positivi e ho capito una cosa fondamentale:

“Rinfrancata da queste considerazioni, ho speso tutte le mie energie per crescere in maniera costante, reinvestendo tutti i guadagni nella libreria: in pochi anni il catalogo è così passato da due a quattordicimila titoli, grazie anche ai rapporti di fiducia sviluppati nel tempo con gli editori”.
Marescritto è un piccolo mondo senza tempo a due passi dalla piazza principale di Tricase, dove svettano le sagome severe di due chiese e il profilo fiabesco del castello, nella cui Sala del trono Isabella organizza spesso le presentazioni. Il locale che ospita la libreria, d’altronde, è troppo piccolo per gli eventi.

La limitatezza degli spazi, però, non è vista dai clienti come un aspetto negativo, anzi. Isabella è infatti riuscita a creare un ambiente estremamente bello, intimo e di qualità. Un luogo vivace, ricco di spunti e di contaminazioni sotto le solide volte a botte del soffitto.

Qual è, dunque, il segreto di questo minuscolo scrigno? “Innanzitutto” spiega la libraia “contano molto il catalogo e la piacevolezza del luogo, entrambi studiati accuratamente. Marescritto si è formata attorno alle esigenze dei lettori, ma tenendo conto dei miei gusti e delle accortezze che studio stando qui, mentre osservo quello che accade in libreria.
“Il secondo segreto è invece la terra su cui sorge. Tricase è una cittadina vivace, con ben tre cinema, e si trova a due passi dal mare, la cui vista opera un vero e proprio sfondamento nel modo di pensare”.

Festina lente

 

Nonostante la sua lontananza rispetto ai grandi centri produttivi del paese, Tricase si è dunque rivelato da diversi punti di vista un luogo privilegiato in cui aprire una libreria. Tanto che Isabella Litti, dopo aver confutato molti stereotipi, ora guarda con estrema fiducia al futuro del libro e del proprio mestiere. 
“Il turismo” spiega la libraia “garantisce un grande volume di vendite da maggio a settembre, ma anche durante tutto il resto dell’anno non ci possiamo lamentare, anzi.

Siamo infatti troppo periferici per subire la concorrenza delle librerie di catena, che non ci pensano proprio ad aprire da noi. E la base di clienti su cui possiamo contare è molto solida, anche perché il Salento, in controtendenza con molte zone del Sud e persino del Nord, subisce sempre meno il problema dell’esodo dei propri giovani.

Molti, anzi, stanno rientrando negli ultimi anni. 
“Col tempo siamo diventati un punto di riferimento per il tessuto sociale del luogo e abbiamo contribuito a rivitalizzare il centro storico. Ora ci sono numerosi ragazzi che vengono qui a chiacchierare e a confrontarsi, comprando tanti libri. Siamo diventati un luogo di aggregazione e confronto”.

Circondato dalle acque del Mediterraneo, a più di mille chilometri dalla frenesia della grande capitale italiana dell’editoria e dell’industria, c’è un Sud che, riscoprendo la propria identità e i benefici della lentezza, va decisamente più forte di tante realtà del Nord.

 

MINO DELLE SITE COSMICO E PROFETICO di Lorenzo Canova – Numero 3 – Gennaio 2016

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un codice visionario di immagini lanciate nel futuro, uno spazio celeste in bilico tra immaginazione e realtà: dopo un secolo, Mino Delle Site continua a trasportare i suoi spettatori in un vortice di pittura sospeso tra cielo e terra, in un universo parallelo che ci rivela costellazioni ignote e ci fa scoprire volti nuovi del mondo che credevamo di conoscere.

Nel suo turbine futurista, Delle Site viaggia nel tempo unendo epoche e stili, fondendo in modo profetico la pittura al mondo digitale, aprendosi allo spazio della vita attraverso l’architettura e i mass media, lavorando nel cinema e preconizzando gli intrecci visivi della nostra epoca.

Delle Site, infatti, come tutti i grandi futuristi, da Marinetti a Boccioni o a Balla, ma anche come il suo amico Prampolini, paradossalmente può essere più apprezzato oggi che nella sua epoca, ammirando il suo metodo costruttivo fatto di rotture di tradizioni e di aperture di nuove prospettive, di fasci luminosi e di interazioni tra piani spaziali e visivi, anticipando sviluppi interattivi e i dati di una percezione del domani.

La pittura di Delle Site trova dunque una giusta collocazione in un contesto che oltrepassa addirittura la dimensione ristretta delle arti visive e si colloca in quel contesto allargato attuale che Marinetti aveva previsto, ad esempio, nella sua difesa della pubblicità come nuova forma d’arte lanciata sulle strade come nuovi musei urbani e nella sua volontà di utilizzo consapevole dei mass media. 
Così le immagini di Delle Site, come quelli di altri grandi aeropittori come Dottori o Tullio Crali, precorse da quelle di Boccioni e di Severini, presagiscono le nostre visioni della terra vista dai satelliti, le mappe di Google Earth e la nostra realtà aumentata dove tutto si fonde in un intreccio simultaneo.

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MINO DELLE SITE COSMICO E PROFETICO

 

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Le diagonali di Delle Site tagliano allora il quadro e lo ricompongono, le linee fissano orbite astrali e configurano viaggi interplanetari, le geometrie convergono verso punti di fuga allucinati e iperbolici: l’autore rende tattile l’accelerazione della pittura che si trasforma in un vettore di luce per fendere i territori sorvolati dall’artista-pilota con i suoi tagli cromatici che bruciano le coste, i mari, le nuvole e i cieli come razzi sparati dall’occhio sovrumano del pittore demiurgo. 
Così, quando saremo immersi nel delirio visivo delle metropoli contemporanee, come, ad esempio, tra gli schermi interattivi e sbalorditivi di Times Square o se ammireremo gli effetti speciali di Star Wars o di Interstellar, ci potremo ricordare di artisti come Mino Delle Site che hanno contribuito a creare questo immenso mosaico visivo contemporaneo incrociando la loro ricerca e dirigendola verso i confini infiniti di uno spazio oltreumano, dove la conoscenza trova nuove frontiere, dove il viaggio incontra nuovi porti e dove, forse, le dita stesse di Dio giocano con il firmamento ricomponendo in eterno l’ordine cosmico del giorno e della notte.

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Delle Site si apre quindi all’avvenire con una pittura raffinatissima che divora la tradizione per farla rinascere con nuove forme, diventa elettronico usando ancora i pennelli e le velature dell’olio e dei pigmenti, supera lo spazio e il tempo lanciando la sua pittura su rotte interstellari al di là della nostra galassia.

 

LA SANITÀ MODERNA “UNDER THE SICILY SUN” di Maurizio Campagna – Numero 3 – Gennaio 2016

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Quando si è moderni? Si è moderni quando non si teme il cambiamento. Quando, ad esempio, si fa apparire qualcosa come inesorabilmente superato. E quando si è moderni in sanità? Quando si supera un concetto vecchio di assistenza e si accoglie un significato nuovo di benessere; quando, cioè, la salute all’interno delle strutture diventa uno stato soggettivo e smette di essere solo una dimensione oggettiva coincidente con l’assenza di patologie.

LA SANITÀ MODERNA “UNDER THE SICILY SUN”

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Finalmente insieme, gestione clinica e organizzativa, senza essere l’un con l’altro armate. In questo connubio vi è finalmente il riconoscimento che le aziende sanitarie sono strutture complesse dove i professionisti della salute devono coabitare con i titolari delle funzioni gestionali.

non solo quando si ha la disponibilità dell’ultima versione della tecnologia sanitaria, ma quando la struttura è permeata da una cultura aziendale industriale, orientata ai risultati;

C’è progresso

Così l’Istituto Mediterraneo per i Trapianti e Terapie ad Alta Specializzazione (ISMETT) di Palermo sembra seguire l’imperativo del poeta “Bisogna essere assolutamente moderni”
“Geneticamente” l’ISMETT è un contenitore di innovazione. Frutto della partnership internazionale tra la Regione Siciliana per il tramite dell’Azienda Ospedaliera di Rilievo Nazionale e di Alta Specializzazione (ARNAS) Civico di Palermo e l’UPMC (University of Pittsburgh Medical Center), l’Istituto è un esempio del modello organizzativo delle sperimentazioni gestionali previste dalla legge di riordino del servizio sanitario. La cosiddetta controriforma della sanità del 1992 ha disciplinato la possibilità di attuare sperimentazioni gestionali attraverso convenzioni con organismi pubblici e privati per lo svolgimento in forma integrata sia di opere che di servizi in un’ottica di miglioramento della qualità dell’assistenza. A tal fine le Regioni possono costituire società miste a capitale pubblico e privato. L’ISMETT ha la forma di una società a responsabilità limitata il cui capitale è suddiviso tra Azienda Ospedaliera Civico di Palermo (55%) e UPMC (45%) e, in questo quadro normativo, rappresenta il risultato virtuoso di una collaborazione tra pubblico e privato in sanità, culturalmente ancora condannati da un pregiudizio storico a occupare fronti contrapposti.
Dal punto di vista della natura di ente sanitario, l’ISMETT è un IRCCS (Istituto di Ricerca e Cura a Carattere Scientifico) di diritto privato. Il carattere scientifico, riconosciuto alla struttura sulla base degli specifici requisiti stabiliti dal d.lgs. del 2003 che ha provveduto al riordino degli IRCCS, consente alla stessa di accedere a un finanziamento statale appositamente finalizzato alla ricerca ulteriore rispetto a quello già erogato dalla Regione di appartenenza. In particolare, con decreto del Ministero della salute del 12 settembre 2014, all’Istituto è stato riconosciuto il carattere scientifico nella disciplina “Cura e ricerca delle insufficienze sanitarie d’organo”. 
L’ISMETT è il primo ospedale italiano specializzato nei trapianti multiorgano.
Il Protocollo di intesa adottato dalla Conferenza Stato Regioni il 20 Marzo 1997, che ha dato vita all’Istituto, è un vero e proprio manifesto per le politiche sanitarie al sud d’Italia. Tra gli obiettivi dichiarati vi sono “lo sviluppo di un nuovo modello di gestione medica ed organizzativa nel settore sanitario, capace, tra le altre cose, di portare in Sicilia, grazie alla collaborazione tra UPMC e la Regione Sicilia, i benefici della ricerca e della formazione, propri della partner statunitense” e “la realizzazione di un modello che dimostri come il settore pubblico e quello privato possano positivamente unire le forze, al fine di contribuire allo sviluppo economico del sud del Paese”.

se le differenze di genere sono valorizzate nell’ottica di un’accoglienza efficace. Se pubblico e privato finalmente cooperano. Quando le esperienze nazionali e internazionali si contaminano.

la sanità è un settore produttivo e che il suo funzionamento deve rispondere a logiche industriali di produzione se si vuol raggiungere l’obiettivo di un più ampio accesso alle cure.

Ma se nel modello azienda pubblica non è ancora superata la guerra fredda tra medici e management, il modello gestionale dell’ISMETT sembra abbattere il muro tra le due anime aziendali. 
Finalmente insieme pubblico e privato impegnati in un obiettivo comune. Costruire l’eccellenza in sanità in un settore complesso come quello dei trapianti. 
Il modello di innovazione dell’ISMETT ben potrebbe essere replicato fino a diventare il modo ordinario di gestione del settore sanitario. In un periodo di tagli e di preoccupazione per la sopravvivenza della sanità pubblica, iconografia del welfare all’italiana, una nuova modulazione dell’impegno pubblico e di quello privato dovrebbe finalmente rappresentare la nuova frontiera condivisa. Colpisce la dichiarata finalizzazione della partnership allo sviluppo economico del sud del Paese. Si conferma cioè che

L’ISMETT è un contenitore di innovazione. È moderno perché dimostra che pubblico e privato in sanità possono cooperare per raggiungere comuni obiettivi generali, superando quell’immagine di due poli contrapposti e divergenti.

Buona organizzazione, qualità dei servizi e buona pratica clinica sono all’ISMETT un unico blocco di eccellenza. L’Istituto, non a caso, è il primo ospedale del sud ad aver ricevuto l’accreditamento da parte della Joint Commission International (JCI), uno dei più avanzati sistemi di accreditamento per l’assistenza sanitaria. Essere accreditati JCI vuol dire aver intrapreso un percorso continuo verso il miglioramento della qualità e delle performance, ma soprattutto è una chiara indicazione sul cambiamento culturale in atto presso l’Istituto. Gli sforzi per raggiungere il traguardo ambito dell’accreditamento non sono percepiti come un costo economico e organizzativo, ma come investimento a lungo termine per la competitività e la sostenibilità della struttura. Chi sceglie il percorso JCI sceglie di sottoporsi a una serie di valutazioni severe da parte di esperti esterni sui più svariati profili attinenti alla qualità delle cure. 
Ma

Tutte le ragioni di una sanità moderna, compresa la salvaguardia della salute di genere, sono promosse presso ISMETT che rappresenta un polo di eccellenza per la Sicilia e per il sud, ma anche per l’intera utenza che si affaccia sul Mediterraneo.

I bollini rosa, assegnati dall’Osservatorio Nazionale per la salute delle Donne, segnalano le strutture che si prendono cura delle donne a partire dalla consapevolezza che la differenza è una ricchezza. Da valorizzare anche in un’ottica di corretto impiego delle risorse e di un più ampio accesso ai servizi erogati.
E dopo un lungo elenco di risultati eccellenti non sanitari, l’ISMETT continua a primeggiare anche nel core business di un ospedale: è di questi giorni la notizia che l’istituto si colloca ben al di sotto della media nazionale con riferimento all’indicatore della mortalità a 30 giorni dello 0% dopo un intervento di chirurgia per tumore al polmone, fegato e colon, a fronte di medie nazionali che si attestano rispettivamente al 1,3%; al 2,65% e al 4,07%. Con riferimento all’attività per la sostituzione di valvole cardiache, invece, la mortalità a 30 giorni presso ISMETT è dello 0,93%, contro una media nazionale del 2,84%. Il risultato è certificato dal PNE, Programma Nazionale Esiti, condotto da AgeNaS, Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari.

È moderno perché dimostra che la qualità delle cure non attiene soltanto al profilo sanitario, ma anche a tanti altri fattori che nel loro inestricabile insieme contribuiscono alla produzione del valore salute. L’ISMETT sostituisce l’autoreferenzialità al confronto, accorcia le distanze e avvicina il mondo, facendo di Palermo e della Sicilia due luoghi del progresso.

ISMETT è inserito anche nel network degli ospedali “vicini alle donne” vale a dire quelle strutture che riservano particolare attenzione alle specifiche esigenze dell’utenza femminile.

La vocazione internazionale in un settore specialistico come quello dei trapianti è senza dubbio un’eccellenza nell’eccellenza. Il confronto su una dimensione extranazionale significa poter affacciarsi regolarmente su una finestra aperta sul mondo, sul progresso e sul confronto. Vuol dire poter contare su una comunità scientifica senza confini. È come se vi fosse un ponte per il transito delle idee dalla Sicilia agli Stati Uniti. Iniziative come questa contribuiscono a far cessare l’isolamento del Sud. Cosa vuol dire Sud? Spesso non è soltanto un’indicazione della bussola, ma al di là della geografia, con “sud” si indicano luoghi malati di marginalità, lontani dal flusso delle novità e del progresso.

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THE ROYAL WAY di Tamara triffez – Numero 4 – Aprile 2016

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THE ROYAL WAY

 

Dear friends,   

 

Please share a moment of attention through my few words entrusted to the courtesy of Tamara. This event is called “A view of Italy from above”, but, in the case of Tamara, I should say “view from inside” because, like all great travelers, Tamara is an artist who moves to see people from very near; indeed, to probe the possibility of identification. Her exhibition has as theme the Royal Way which means the right way, the one that is, in fact, drawn from Art.   Here the protagonist is Sicily seen through processions, those moments when the feeling of a past that looms over the present becomes particularly strong, in each of us. But, this past can be easily seen, at least by a layman’s point of view, from two opposite and associated points: the solemnity and the ridicule. Citizens who all become actors of the sacred representation are living and true but, at the same time, take on such important and worrying roles that leave those who observe them from outside mostly stunned. Do they truly believe? Are they really able to identify those people with Christ, with his torturers, with the people attending, accompanying suffering and exulting? Of course the answer is yes, and it’s not even that difficult. The collective suggestion is a verifiable and moving reality. And what does our Tamara see in her crisp, clean black and white with which she scrutinizes people from a short distance? She sees the Character and the Man so overlapping and indistinguishable from each other that they push us to seriously believe in an ancestral world that, in its total unawareness, walks along the Royal Way.   Tamara Triffez dedicated and dedicates her life to this type of investigation. Perhaps, her most acute interest is Tibet, that tragic historical paradox that is the destruction, or rather the attempted annihilation of a Royal Way that, in the name of a misguided ideology, believes in the possibility of triumphing through elimination. Tamara, as an artist, opposes and always will oppose to any form of cancellation of the legacies which, although different in different parts of the world, are intrinsic to the very existence of the human being.   From this point of view her Sicily and her Tibet are no different; and they are not because it is the artist’s approach that is the same. Tamara gives a sense of participation to those who look at her work. The sequence of images is taken from within the procession and it is not a curious look caused by the peculiarity or strangeness; but, in fact, it is the vision of a participant who, evangelically, does not judge but only looks. And by looking, sees the greatness and weaknesses of the world winding together, because together they have always existed and will always exist. Sure, the characters of the procession, in some extraordinary places as Piana degli Albanesi, are inevitable quotations of the great figurative arts of the past. The Weeping women seem extracted from the wooden statues of the Middle Ages and the Renaissance, the Christ that passes or the lying one seem to be created by the figurative Mannerist culture. But maybe no one needs to know this, not even the artist who wanders among the people with her camera. When she approaches, though, the crowds thin out as if the photographic act were a sacred act itself, because it sanctifies the recklessness of those who do not know why they are there and why they should carry on preconceived attitudes.   In the procession everything has been already written, everything has already happened, but Tamara captures the expressions of doubt, perplexity, distraction, delusion, that show on the faces so powerfully filled with past that they result fascinating as they are. The photos were taken on the occasion of the Easter holidays, in recent times. But the date does not matter, because all this can always be lived, because it is very likely that it has never happened in the exact way we see it in Tamara’s photos. It is not a matter of stopping the time, which is impossible, but of portraying the emotions with a clear awareness that the fiction of art pushes towards the Royal Way.   Tamara belongs to that group of people who see life only as positive energy, but her images do not emanate a feeling of unconscious optimism. The fact is that the artist is keenly aware of what they are representing and its implications but does not treat the people represented as elements of a hedonistic exercise. Despite the clear beauty of these images, there is never the feeling of an ecstatic stop, that seizes that moment as particularly beautiful or charming.   The advance of the photographer in the procession proceeds, however, with the intent to make room within a world that could reject us because we do not know and perhaps fear it. We are afraid of hurting its ancient susceptibility, of not respecting rules that are unknown to us but obvious and granted for the locals; afraid of unintentionally disrespecting it, but only due to a lack of information. All these fears are latent in Tamara’s eyes but then exorcised by the strength of the relationship between the photographer and those who are in front of the camera. Precisely for this reason we get a sense of fullness and dominance of reason and spontaneity that, if well lived, could be good for us.   

 

 With my warmest wishes,   

 

 Claudio Strinati

In my reports, I venture often in search of ancient cultural roots expressed by humans, in various places on the planet. In recent years I have followed a path that highlights the procedures of human evolution.
That manifest themselves through art, myths, religions, to affirm their dignity.
My starting point is the event description, the reflection on everyday life, which expresses itself also in religious festivals.
Starting from these premises, therefore I have decided to follow the Easter celebrations in Sicily, with the many events that ensue.
With enthusiasm and vitality I flew over the staging of the festivities and the protagonists of living paintings.

Sicily is still a land rich in tradition and true ancestral rituals, which still give a testimony on the legendary and multi-cultural origins in the heart of the Mediterranean.
The camera lens has followed the Palm Sunday, in Piana degli Albanesi, a village founded by Albanian communities centuries ago, that has preserved its Orthodox tradition, highlighted by an unexpected amount of uses and customs, the Pope, the crosses… the Pope climbs on a donkey, to retrace the entry of Jesus Christ into Jerusalem.
Among the many celebrations, I perceived in the representation of Christ’s life of Marsala, the feeling of a journey back in time; glimpses of life in Jerusalem two thousand years ago. The evocative power of the representations is revealed thanks to the intense participation of actors and spectators, all inhabitants of towns and villages.

These are ceremonies where everyone re-lives, through representations, their own way of life and spiritual momentum. As in the exempla of the Middle Ages it comes to a religious and strongly cathartic human experience.
I also followed the preparatory representation of the mysteries of Trapani, where young children of various congregations learn to bring the “vare” miniatures. The art of the rhythmic step, the support, and the pace of the “trice e trac”, recurrent instrument in southern Italy, and the subduing of the fanfare (brass bands).
I documented processions of Palermo, the procession of the Cocchieri, tradition that has continued since the seventeenth century; the Ballarò market and the Good Friday procession of San Mauro Castelverde, a small village that climbs around a mountainous peak of the Madonie, where you can watch the kiss of Judas, his hanging, the Way of the Cross, the Crucifixion. The pain of a man. During this visit the mountain was strangely enveloped in a dense and cold fog; This introduced a dreamy sense of unease

Each event so indicates a path between the sacred and the profane.
On Easter Sunday in Ribera, for example, where men who are exhausted from the long journey and the weight of the different paintings – of representations of Christ, the Virgin Mary and St. Michael – are allowed to drink the holy blessed water as a reward for their devotion. The bottle flies quickly from hand to hand as the crowd, moved, sings and jumps.
The band gets excited, the cacophony of the firecrackers explodes, clouds of confetti are released into the air. All to remind us of the resurrection of Christ.
Doves flying between the banners and behold, in those days, reappearing beyond the slightly profane expressions, the soul anxious of knowledge, the path of suffering and finally the liberating joy of resurrection

Through the choice of this ancient and profound theme I wanted to pay tribute to the life of Christ, revealing through his extreme suffering, the divine essence, the transcendence. Research that man has expressed for millennia.

We can also say that “the Royal Way”, the title of this report, is an expression that was used in the ancient world. It shows the way, the straight road, by which we avoid the deviations and the twists and turns that can confuse the soul, symbolic approach to the heavenly Jerusalem, the symbol of Christ.

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LA MEDITERRANEE ET NOUS di Ferdinando Sanfelice di Monteforte – Numero 4 – Aprile 2016

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mais nous ne nous en rendons compte qu’en juillet, lorsque nous emmenons notre familles «à la mer”, et que nous voyons passer des formes étranges à l’horizon, sans nous demander ce qu’elles font là et pourquoi. Nous vivons avec une mer qui source à la fois de bien-être et de problèmes, et il est bon d’en comprendre les qualités et les limites.
Selon les chercheurs, le terme «méditerranée» a de nombreuses significations.

Fernand BRAUDEL disait «la méditerranée est un millier de choses mises ensemble. Ce n’est pas un paysage, mais un nombre infini de paysages. Ce n’est pas une civilisation, mais un certain nombre de civilisations superposées les unes aux autres. Cela est dû au fait que la méditerranée est un carrefour très ancien. Depuis des milliers d’années tout s’y rencontre, compliquant et enrichissant son histoire “.

Nous devons être conscients de ses caractéristiques et ses limites, et prendre des mesures pour réduire ces dernières au minimum, pour le bénéfice des générations futures.

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LA MEDITERRANEE ET NOUS

 

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Pour nous méridionaux, qui connaissons les difficultés que nos ancêtres ont dû affronter pour survivre aux dangers provenant de la mer, cette phrase semble quelque peu optimiste, mais, dans l’ensemble, il est difficile d’être en désaccord avec le jugement historique de BRAUDEL. Un premier aspect de la méditerranée est son climat relativement doux, du moins sur les côtes, grâce au “chauffage central” que constitue le désert du Sahara, qui, dans notre partie du monde, déplace l’équateur thermique beaucoup plus au nord que l’équateur géographique.
Ce n’est pas par hasard que certains géographes ont défini la méditerranée comme la zone qui “s’étend de la limite nord des oliviers à la limite nord de la palme.” Soyons clairs: le climat de la méditerranée n’est pas idyllique, en raison de ses violentes tempêtes et du froid en hiver, mais il est certainement meilleur que celui de beaucoup d’autres régions du monde situées aux mêmes latitudes.
En revanche, les terres bordant la méditerranée sont soumises à des éruptions fréquentes, des tremblements de terre et des raz de marée qui ont toujours rendu la vie de ses habitants dangereuse. Elles sont par ailleurs, en grande partie montagneuses, ce qui pendant des siècles à empêché l’agriculture de se développer au-delà de la simple subsistance. Aujourd’hui nous voyons nos collines bien entretenues et couvertes de cultures, parfois de pointe, mais c’est le résultat du génie italien et des progrès de la technique.
En dépit de ces problèmes, la région méditerranéenne a attiré depuis la préhistoire de nombreux groupes ethniques essayant d’échapper à une situation insupportable et de migrer vers ses rives à la recherche d’une meilleure qualité de vie. Bien sûr, les nouveaux arrivants n’avaient aucun scrupule à exterminer, asservir, ou soumettre ceux qui vivaient dans ces lieux choisis par ces masses humaines pour s’y établir.
C’est seulement très récemment que les migrations de masse ont pris un caractère moins violent, simples fuites devant la guerre et l’injustice, même si de nombreux gouvernements ont exploité ces pauvres gens pour parvenir à leurs propres fins politiques; cela explique peut-être aussi les réactions des résidents des zones privilégiées de la méditerranée qui ne se sont pas toujours montrés très accueillants. Ces arrivées massives de l’est et du sud nous font comprendre pourquoi notre mer, où se croisent divers flux, doit être considéré comme un «carrefour stratégique», militairement et, surtout, commercialement.
En fait,

la «nouvelle route de la soie”, un énorme flux de marchandises qui transporte des matières premières et des produits manufacturés entre l’Asie et l’Europe, traversant le détroit de Malacca , le golfe d’Aden, Bab-el-Mandeb et Suez, pour entrer ensuite dans le bassin méditerranéen.

En conclusion, la méditerranée est notre principale source de bien-être et peut devenir le moteur du développement de notre Sud et plus généralement de l’ensemble de l’Italie côtière.

Il en dérive le concept actuel de «méditerranée élargie», qui comprend également la mer rouge, jusqu’au détroit de Bab-el-Mandeb et à la corne de l’Afrique, des zones où les événements ont des répercussions immédiates sur nous. Il suffit d’observer que, pendant les huit années où la piraterie a agi sans que personne ne s’y oppose de 2000 à 2008, le prix des céréales a augmenté, alors que le transit à travers le canal de Suez chutait de 20%, conduisant à un net appauvrissement de l’Egypte .
En fait, la méditerranée est une mer fermée, presque comme un bonbon bien emballé, dont le papier est tordu aux extrémités de manière à en retenir le contenu. Pour la méditerranée, ces extrémités sont précisément le détroit de Gibraltar et le canal de Suez / Bab-el-Mandeb, dont les “propriétaires” peuvent étrangler à leur guise la vie économique de tout le bassin.
A l’intérieur, la ligne principale de la circulation court vers l’est, avant de passer près de la côte nord-africaine, puis de traverser le détroit de Sicile et de continuer en pleine mer à l’est jusqu’à Suez. De cette ligne partent d’autres flux en direction nord-sud, vers les ports de la rive nord, liées à l’Europe centrale et orientale.
Le trafic maritime en méditerranée est cependant surtout un segment de ce que l’on appelle aujourd’hui

Nous avons vu que, dans les années d’activité maximale de la piraterie, la méditerranée s’est appauvrie. Ceci est un phénomène qui se répète: il y a des siècles, dans les années qui ont suivi la prise de Constantinople, le trafic avec l’Asie s’est déplacé vers la “route du Cap “, appauvrissant les populations méditerranéennes par la hausse des prix et de laissant nos ports à moitié vide. Le risque est que ce phénomène se répète!
Notre destin méditerranéen nous impose donc des priorités stratégiques claires. Aucune défense de notre qualité de vie ne sera possible si nous n’agissons pas sur deux fronts:
– le contrôle des zones marines, afin de réduire l’anarchie et la criminalité en mer, et de protéger les principales lignes de circulation contre ceux qui veulent les attaquer, dans la méditerranée élargie et, si nécessaire, même au-delà;
– la poursuite du développement de l’économie maritime, un secteur dont le potentiel de croissance est énorme: nos ports sont très inadaptés aux caractéristiques et aux besoins des marchands aujourd’hui. Il suffit de penser que seul Gioia Tauro, un noeud dans le trafic international des conteneurs, est en mesure , par Sto arrivando! flotte et de ses équipements, de répondre à ces besoins.

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le commerce international a toujours été le meilleur moyen de gagner leur vie pour les peuples de la méditerranée. Cela nous amène à la définition selon laquelle cette mer est «le point focal du commerce, des richesse accumulées, qui changeaient de mains et parfois se perdaient à jamais, de sorte que la méditerranée peut être perçue par son impacts sur des zones plus étendues.”

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LA ROUTE ROYALE di Tamara Triffez – Numero 4 – Aprile 2016

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LA ROUTE ROYALE

 

Je me hasarde souvent, dans mes reportages, à la recherche des anciennes racines culturelles que conservent les êtres humains en divers endroits de la planète. J’ai suivi ces dernières années, un parcours qui met en évidence les procédures de l’évolution humaine.
Qui se manifestent à travers l’art, les mythes, les religions, dans le but d’affirmer pleinement leur dignité.
Mon point de départ est la description des événements, la réflexion sur la vie quotidienne, qui s’exprime, entre autre, dans les fêtes religieuses. Et c’est à partir de cette prémisse que je décidai de suivre les fêtes de Pâques en Sicile, et les nombreux événements qu’elles incluent. Avec enthousiasme et vitalité j’ai côtoyé la mise en scène des fêtes et les protagonistes des tableaux vivants.

Chers amis,   

 

Je vous prie de me prêter un moment d’attention pour quelques mots confiés à la courtoisie de Tamara. Cet événement s’appelle globalement L’Italie Vue d’En Haut, mais dans le cas de Tamara, je devrais dire “vue de l’intérieur» parce que, comme tous les grands voyageurs, Tamara est une artiste qui se meut pour voir les gens de très près, pour étudier la possibilité de s’identifier avec eux. Son exposition a pour thème la Voie Royale qui indique, en substance, la route rectiligne, celle est tracée par l’Art. C’est la Sicile qui se met en scène à travers les processions, ces moments où se fait particulièrement fort, en chacun de nous, le sentiment d’un passé qui pèse sur le présent. Mais, ce passé peut être facilement vu, du moins par le profane, de deux points de vue opposés et associés: la solennité et le ridicule. Les citoyens qui deviennent tous acteurs de la représentation sacrée sont des êtres vivants de chair et d’os, mais ils incarnent dans le même temps des rôles tellement importants et inquiétants qu’ils laissent la plupart du temps ceux qui les observent de l’extérieur, interloqués. Y croient-ils vraiment? Sont-ils capables d’identifier ces personnes avec le Christ, ses tortionnaires, le peuple spectateur qui accompagne la souffrance et exulte? Bien sûr, la réponse est oui, et elle n’est pas difficile à donner. La suggestion collective est une réalité vérifiable et émouvante. Et notre Tamara, que voit-elle de son noir et blanc net et propre avec lequel elle scrute les gens à une distance, qu’elle réduit au minimum? Elle voit le Personnage et l’Homme se chevaucher, tellement indiscernables qu’ils nous incitent à croire sérieusement dans un monde ancestral qui, en toute ignorance totale, parcourt la Voie Royale. Tamara Triffez a dédié et consacré Sto arrivando! vie à ce type d’enquête. Son intérêt est peut-être plus aigu au Tibet, sur ce paradoxe historique tragique que constitue la destruction, ou plutôt la tentative d’anéantissement d’une Voie Royale, au nom d’une idéologie erronée, qui a cru triompher par l’annihilation. Tamara, en tant qu’artiste, s’est opposée, et s’opposera toujours, en tout effort d’annihilation des héritages qui, même s’ils sont différents dans diverses parties du monde, sont intrinsèques à l’existence même de l’être humain. De ce point de vue Sto arrivando! Sicile et son Tibet ne sont pas différents; et ils ne le sont pas car l’approche de l’artiste est la même. Tamara donne à ceux qui regardent son travail un sentiment de participation. La séquence d’images est dans la procession, ce n’est pas un regard curieux de l’originalité typique ou de l’étrangeté; mais le regard de ceux qui, évangéliquement, ne jugent pas mais regardent. Il voit les grandeurs et les faiblesses du monde que le vent assemble, parce que, ensemble, ils ont toujours existé et existeront toujours. Bien sûr, les personnages de la procession, dans certains endroits extraordinaires come Piana degli Albanesi, sont des citations incontournables des grands arts figuratifs du passé. Les pleureuses semblent sorties des statues de bois du Moyen Age et de la Renaissance, le Christ qui passe ou git semble généré par la culture figurative maniériste. Mais cela, personne ne doit le savoir, pas même l’artiste qui erre parmi les gens avec son appareil photo. À son approche, cependant, la foule se disperse comme si l’acte photographique était lui-même acte sacré, parce qu’il sanctifie l’inconscience de ceux qui ne savent pas pourquoi il sont là ni pourquoi il faut prendre des attitudes préconçues. Dans la procession tout est prescrit, tout est déjà arrivé, mais Tamara cueille l’expression de doute, la perplexité, la distraction, l’illusion, qui transparaissent dans les visages si puissamment chargés de passé qu’ils en deviennent fascinants. Les photos ont été faites récemment à l’occasion des fêtes de Pâques. Mais la date n’a pas d’importance, parce que tout cela peut avoir toujours existé, bien qu’il soit très probable qu’il ne se soit jamais produit comme nous le voyons dans les photos de Tamara. Il ne s’agit pas suspendre le temps, ce qui est impossible, mais de dépeindre les émotions avec une claire conscience que la fiction de l’art conduit sur la Voie Royale. Tamara appartient à cette catégorie de personnes qui voit la vie uniquement comme énergie positive, mais de ses images n’émane aucun sentiment d’optimisme inconscient. Le fait est que l’artiste est profondément consciente de ce qu’elle représente et de ses implications, mais ne traite pas les personnes représentées en tant que matière d’un exercice hédoniste. Malgré la beauté claire de ses images, il n’y a jamais de sentiment d’arrêt extatique, qui saisirait un moment comme particulièrement beau ou suggestif. L’entrée du photographe dans la procession se déroule, au contraire, avec l’intention de se faire une place dans un monde qui pourrait nous rejeter parce que nous ne le connaissons pas et que peut-être nous le craignons. Nous craignons de blesser des sensibilités anciennes, de ne pas respecter les règles qui nous sont inconnues, mais qui semblent, là, évidentes; nous avons peur de manquer de respect involontairement seulement par manque d’information. Toutes ces craintes sont latentes dans le regard de Tamara mais elles sont exorcisées par la force de la relation entre la photographe et celui est en face de la caméra. C’est précisément pour cette raison, que nous ressentons une plénitude et une impression de raison et de spontanéité, qui, si nous les vivons bien, pourraient nous rajeunir.   

 

Avec mes salutations les plus chaleureuses,   

 

Claudio Strinati

La Sicile est une terre riche en tradition et véritables rituels ancestraux, qui témoignent encore aujourd’hui des origines légendaires et multi-culturelles au cœur de la Méditerranée.

L’objectif de mon appareil photo a suivi le dimanche des Rameaux à Piana degli Albanesi, un village fondé il y a des siècles par les communautés albanaises, et a conservé sa tradition orthodoxe, mise en évidence par quantité d’us et des coutumes, inattendus, les popes, les croix … le pope chevauche un âne, pour retracer l’entrée de Jésus-Christ à Jérusalem. Parmi les nombreuses célébrations, j’ai ressenti dans la représentation de la vie du Christ de Marsala, le sentiment d’un voyage dans le temps; un aperçu de la vie à Jérusalem il y a deux mille ans. La puissance évocatrice des représentations trouve Sto arrivando! source dans la participation intense des acteurs et spectateurs, tous habitants des villes et villages.

Il y a des cérémonies où tout le monde vit, à travers des représentations, son propre parcours de vie et son propre élan spirituel. Comme dans les Mystères du Moyen Age, il s’agit d’une expérience humaine religieuse fortement cathartique.

J’ai également suivi la représentation préparatoire des mystères de Trapani, où les jeunes enfants des diverses congrégations apprennent à porter des statues miniature. L’art du pas rythmé, du portage, et le rythme de tric trac, instrument récurrent dans le sud de l’Italie et celui conquérant de la fanfare.
J’ai documenté les processions de Palerme, la procession de Cocchieri, des traditions qui se poursuivent depuis le XVIIe siècle; la procession du marché Ballarò et le Vendredi Saint de San Mauro Castelverde, un petit village lové autour d’un pic montagneux des Madonie, où on peut assister au baiser de Judas, à Sto arrivando! pendaison, au Chemin de la Croix, à la Crucifixion. À la douleur d’un homme. Au cours de cette visite, la montagne était étrangement enveloppée dans un brouillard dense et froid, qui donnait un sentiment de malaise et d’irréalité.
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Chaque événement indique ainsi un chemin entre sacré et profane.

Le dimanche de Pâques à Ribera, par exemple, où les hommes épuisés par le long parcours et le poids des différents tableaux – représentations du Christ, de la Vierge Marie et de Saint-Michel – sont autorisés à boire l’eau bénite, en récompense de leur dévouement. La bouteille vole rapidement de main en main pendant que la foule, émue, chante et saute. La ferveur s’approfondit, la cacophonie des pétards explose, des nuages de confettis sont libérés dans l’air. Le tout pour nous rappeler de la résurrection du Christ.

Les colombes volent entre les bannières et, en ces jours, réapparaissent, au-delà des expressions un peu profane, l’âme anxieuse de connaissance, le chemin de la souffrance et, enfin, la joie, la libération, de la résurrection.

Par le choix de ce thème ancien et profond j’ai voulu rendre hommage à la vie du Christ, révélant par Sto arrivando! souffrance extrême, l’essence divine, la transcendance. La recherche que l’homme exprime depuis des millénaires.
 
«La Voie Royale», le titre de ce reportage, est une expression utilisée dans la passé. Elle indique le chemin, la route droite, par laquelle on évite les déviations et les tours et détours qui peuvent confondre l’âme, l’approche symbolique de la Jérusalem céleste, symbole du Christ.

 

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