LA MANNA DAL SUD di Viviana Meloni – Numero 8 – Luglio 2017

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La manna dunque fece il suo ingresso nella storia come cibo celeste e dono divino, caricandosi da subito di una spiritualità che l’accompagnerà sino ai giorni nostri come simbolo dell’alleanza tra l’uomo in cammino e Dio che si prende cura di lui. Durante l’attraversamento del deserto la manna cadeva abbondante ogni giorno e gli Ebrei, come racconta il sedicesimo libro dell’Esodo, la raccoglievano “ciascuno secondo il suo bisogno”. Al mattino del sesto giorno ne cadeva il doppio, perché il settimo giorno – lo Shabbat, istituito proprio la prima settimana di caduta della manna – gli Ebrei dovevano rispettare il riposo. Tuttora nelle case ebraiche, quando si prepara il cibo per il sabato, si cuociono due pagnotte, chiamate Challot, che vengono riposte fra due panni di cotone uno sopra e l’altro sotto per ricordare lo strato di brina che ricopriva al mattino la manna nel deserto.
 
 Oggi, anche senza levare gli occhi al cielo, è possibile visitare un luogo dove si trova questo alimento preziosissimo. E’ il Parco delle Madonie, in Sicilia, alle spalle di Cefalù e a un golfo di distanza da Palermo: dal tronco dei frassineti che vi crescono si estrae la manna sin dai tempi della dominazione araba, tra il nono e il decimo secolo.
 
Da allora la coltivazione dei frassineti si estese in tutte le regioni del centrosud fino ai monti della Tolfa nel Lazio e alla Maremma, e nel 1500 vi venne imposto un dazio doganale per aumentare le entrate del Regno. Oggi invece la manna si raccoglie solo in Sicilia, tra Pollina e Castelbuono, Cefalù e San Mauro, Geraci e Isnello. Ormai la superficie coltivata è ridotta e in pochi praticano l’antico mestiere dello “Ntaccaluoru”. La manna è dunque la linfa estratta dalla corteccia di una varietà di frassino chiamato Orniello. Il frassinicoltore attende che la pianta entri nel periodo di quiescenza estiva fino a spingerla allo stress idrico quando il terreno completamente asciutto si stacca dalle radici e le foglie verdi cominciano a virare verso il giallo. Quello è il momento per la prima incisione che viene praticata a circa dieci centimetri da terra con un coltello chiamato “mannaruolu”. Dalla metà di luglio alla fine di settembre, ogni mattina, si fanno le “ntacche” a distanza di un paio di centimetri l’una dall’altra: 
 
 dai tagli fuoriesce una melata azzurrina prima amarognola e poi dolce che, a contatto con l’aria e al sole della Sicilia, diventa bianca 
e prende la forma di piccole stalattiti, o cannoli.
 
La manna a cannolo è la più pregiata perché priva di residui. Poi c’è la manna in sorte (o manna di pala) che è quella che si va a depositare sulle pale di ficodindia disposte alla base del tronco. E per finire la manna rottame che scorre lungo la corteccia e viene staccata con la “rasula”. I cannoli di manna vengono messi ad asciugare, prima, all’ombra e, poi, al sole su degli stenditoi per far loro raggiungere il giusto grado di umidità. Infine, viene inscatolata in appositi contenitori di legno riposti in luoghi asciutti e pronti per la vendita.
 
 Le proprietà curative della manna erano conosciute sin dai tempi 
della scuola di medicina di Salerno.
 
Essa è in primo luogo un blando lassativo privo di effetti collaterali e molto indicato in età pediatrica. A differenza della senna (o cassia) contenuta in tutti i lassativi in circolazione – che alla lunga può causare problemi anche seri – la manna agisce contro la stipsi attirando acqua nell’intestino e facilitando dunque lo svuotamento del colon. E’, poi, un regolatore e rinfrescante delle vie intestinali in quanto è in grado di purificare l’apparato digerente da tossine, parassiti intestinali e residui di cattiva alimentazione. E’ un fluidificante emolliente, sedativo della tosse e un dolcificante naturale a basso contenuto di glucosio e fruttosio indicato per i diabetici. La manna si assume a pezzetti, sciogliendoli in bocca oppure diluendoli in una tisana o nel tè.   
 
Dal 2002 la manna è dal un Presidio Slow Food con un proprio disciplinare di produzione che ne garantisce la provenienza e la qualità. 
 
La “Manna eletta delle Madonie” rientra nell’elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali del ministero delle politiche 
agricole e forestali.
 
Il Presidio coinvolge sette produttori che usano il moderno sistema del filo di nylon su cui cola la manna, novità introdotta nella metà degli anni ‘80 che ha rivoluzionato la tecnica di raccolta consentendo di ottenere molto più prodotto puro di quando gran parte del raccolto scendeva lungo la corteccia riempiendosi di numerose impurità. Oltre ai sette produttori del Presidio, ce ne sono altri, qualche decina, fra cui parecchi anziani che lavorano alla vecchia maniera. Il raccolto complessivo è di 300-400 chili all’anno. Il presidio ha aiutato i produttori anche nella vendita diretta che prima non era possibile in quanto l’intero prodotto veniva conferito alla grande industria senza possibilità di contrattare sul prezzo. Per avere un’idea: il costo della manna-cannoli è di 16 euro per 50 grammi e di 8 euro per 20 grammi di prodotto. La manna da drogheria invece ha un prezzo di 18 euro circa per 100 grammi. 
 
 La manna è leggera e se ne produce un chilo con tre o quattro piante a stagione. Profuma di macchia mediterranea, ha un gusto fra il dolce 
e il lievemente amaro con un retrogusto di mandorla o miele 
e un colore tra il bianco e il giallo caramello a seconda 
del cultivar e del terreno.

Con la manna si fanno dolci, liquori e saponi (una importante casa cosmetica francese la impiega come componente della crema per le mani). Interessante è poi il suo impiego in cucina: nei ristoranti di Castelbuono si può gustare il filetto di maialino nero in crosta di manna con mandorle e pistacchi. Il pasticcere siciliano Nicola Fiasconaro, circa 20 anni fa, ha creato il Mannetto, dolce molto particolare ricoperto di una candida glassa di manna. Provare per credere. 

 

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LA MANNA DAL SUD

 

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Ma cos’è la manna? Se lo chiesero – “Man Hu?” letteralmente in ebraico: “cos’è?” – anche gli Israeliti in fuga dall’Egitto verso la Terra Promessa quando videro cadere dal cielo quel cibo sconosciuto che Dio aveva mandato loro per sfamarli e che da allora fu chiamata, appunto, “ManHu”. 

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TRAPANI E LA PESCA IN TONNARA di Lorena Coluccia – Numero 8 – Luglio 2017

Ci sono storie che sembrano leggende e uomini che incarnano figure epiche. Quella della pesca con il sistema delle tonnare fisse è una tradizione che profuma di mito, un rito sempre uguale a sè stesso, dove esperienza e superstizione, sudore e spiritualità, convivono miracolosamente. 

 

La Sicilia è stata terra di tonnare per secoli e Trapani contava più di 20 impianti. Tonnara è parola dalla semantica ricca e articolata, così come lo sono le attività e le emozioni a essa correlate: tonnara è il termine usato per indicare il complesso sistema di reti che intercettano i tonni rossi del Mediterraneo; ma – per estensione – tonnara è anche il luogo in cui quelle reti si calano e, ancora, il nucleo di edifici di appoggio all’attività e alla lavorazione del pescato.

 

Al di là delle definizioni, la tonnara, per Trapani, rappresentava un microcosmo fatto di uomini – il rais, i tonnaroti, ma anche i mastri d’ascia, i sommozzatori, gli artigiani – e di azioni che, insieme, determinavano la fisionomia di un territorio, la sua economia, il suo sapere, i suoi costumi.

 

La tonnara è un’elaborata architettura subacquea composta da un lungo braccio di rete, il pedale, steso perpendicolarmente alla costa, che termina su un grande rettangolo chiamato isola, dentro cui i tonni si indirizzano quando trovano il cammino sbarrato dal pedale. L’isola è composta a sua volta da più camere, l’ultima delle quali, la camera della morte, è quella in cui avveniva il rito della mattanza.Tutte le azioni legate a questa antica tradizione – la preparazione di reti e imbarcazioni, il calato, il controllo, la pesca, il salpato – sono accompagnate da preghiere, azioni scaramantiche, riti propiziatori, canti (le emozionanti cialome) che, in equilibrio tra sacro e profano, definiscono un patrimonio antropologico non riproducibile. Oggi a Trapani non si calano più tonnare e anche gli edifici che, un tempo, supportavano questa attività sono diventati altro: nei casi più fortunati, sono esempi straordinari di architettura industriale (è il caso dell’ex Stabilimento Florio di Favignana, la cui visita vale un viaggio) o di strutture ricettive e d’accoglienza (come Scopello o Bonagia); nei casi peggiori, sono costruzioni in disarmo, edifici abbandonati a sè stessi e al tempo.

 

In tutta la Sicilia vi è un’unica realtà, proprio a Trapani, che ha conservato la sua originale funzione, quella di lavorazione e inscatolamento del tonno 

in scatola. Si tratta della tonnara di San Cusumano, oggi azienda 

Nino Castiglione, sulla cui torre si scorge ancora l’originale tonno 

di metallo che, in cima a un’asta, indica la direzione del vento.

 

Dal suo movimento dipendevano le speranze dell’omonimo fondatore di poter contare su un maestrale favorevole o le paure di dover temere il vento di scirocco che allontanava i tonni dalla costa. Oggi questa azienda, nata dall’amore di don Nino per la tonnara, è il primo produttore in Italia di tonno in scatola a marchio delle maggiori insegne della grande distribuzione e occupa 230 persone; numero che, in un angolo del sud così periferico, significa molto più che in qualunque altra parte del paese.

 

Ma, sebbene l’azienda rappresenti un’avanguardia in termini di automazione 

e tecnologia, sicurezza alimentare e innovazione, continua ad ambire al recupero della tradizione della pesca con la tonnara fissa.

 

Sistema che ha volontariamente interrotto nel 2003, a differenza di altri soggetti economici, con l’obiettivo di restare al 100% sostenibile e nel rispetto delle misure dell’Unione Europea per la salvaguardia del tonno rosso del Mediterraneo, definito specie a rischio. Fortunatamente tali misure (l’assegnazione all’Italia di quote tonno ridotte a poche tonnellate) ha funzionato così bene che in meno di un ventennio vi è stato un significativo ripopolamento della specie, tanto da indurre l’Europa ad aumentare le quantità di tonno rosso pescabile. Si riaccende, quindi, la speranza per l’azienda Nino Castiglione e per il territorio tutto di recuperare un patrimonio di conoscenze e tradizioni che altrimenti rischia di essere perduto per sempre.

 

Sia chiaro: la tonnara non contemplerà mai più il rito della mattanza, considerato troppo sanguinolento da chi non ne conosce i metodi e lo giudica solo sulla base dell’apparenza; ma il sistema di pesca ha invece qualche possibilità di essere recuperato.

 

Tutte le principali istituzioni nazionali ed europee, e le più importanti associazioni ambientaliste, hanno, infatti, finalmente convenuto che tale tecnica è la più ecosostenibile al mondo. Le maglie larghe delle reti che trattengono solo pesci di grossa taglia; lo sbarramento costituito dal pedale che interrompe il cammino dei tonni solo per un breve tratto; l’impossibilità di inseguire la preda (come avviene con le tonnare volanti); l’ancoraggio al fondale tramite pietre che non lo danneggiano (come invece fanno le reti a strascico); la continuazione del processo di riproduzione anche all’interno delle reti, garantiscono il rispetto del sistema marino e della specie, scongiurandone il depauperamento.

 

Attività sostenibile anche rispetto alle produzioni tipiche: è associata alla pesca con tonnara, infatti, anche la creazione di prodotti di nicchia come tunninamosciameficazzabottargalattume; nomi che rievocano una tradizione gastronomica antica, un tempo in cui il tonno era un dono del mare che non andava sprecato e di cui si lavorava ogni parte.

 

Nella primavera del 2016 la Nino Castiglione, come partner tecnico del comune di Favignana e dell’Area Marina Protetta delle Isole Egadi, ha calato la tonnara sullo specchio acqueo davanti a Favignana, proprio nel luogo da sempre deputato a questa attività. È stata una tonnara a scopo scientifico e di monitoraggio – indispensabile a scongiurare la cancellazione definitiva di Favignana dalla lista dei siti vocati a questo sistema di pesca – senza l’assegnazione di quote e, quindi, senza possibilità di commercializzare il pescato.

 

Ora, ciò che bisogna augurarsi è che l’isola ottenga le quote tonno, così da rendere l’operazione economicamente sostenibile e, in questo modo, garantire la sopravvivenza di un patrimonio che Trapani, la Sicilia, l’Italia tutta 

non possono permettersi di perdere.

 

 

 

 

 

 

FOTO di Stefano Benazzo_79
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TRAPANI         E LA PESCA IN TONNARA

 

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“I pescatori, che hanno la faccia solcata da rughe che sembrano sorrisi e, qualsiasi cosa tu gli confidi, l’hanno già saputa dal mare”
(Fabrizio De André)

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I BRONZI RICOLLOCATI di Daniele M. Cananzi – Numero 7 – Aprile 2017

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I BRONZI RICOLLOCATI

 

Atteso da alcuni anni, il nuovo museo – evento nell’evento – ha portato alla ricollocazione dei Bronzi di Riace nella sede naturale che li ha accolti da quando vennero ritrovati nel 1972 a largo della costa ionica e dopo le operazioni di ripulitura e restauro attente e delicate, che hanno restituito la bellezza e l’incanto dei due nudi del V sec. a.C. che il mare nostrum si è preso la briga di conservare e preservare tanto a lungo.

 

 

E evidentemente, se si ammette l’assunto, è perché l’evento non è poi così tanto piccolo, e perché magari trova compimento in un momento di favorevole concatenazione di fatti che agevolano il verificarsi della novità. Fatto è che nel profondo Sud un evento, piccolo ma non tanto piccolo, si è verificato: la riapertura del Museo Archeologico Nazionale della Magna Grecia di Reggio Calabria. Uno dei più importanti siti magno greci, punto di riferimento internazionale, uno dei pochi edifici progettati sin dall’origine come museo e che esce dalla matita di Marcello Piacentini nel 1932.

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Cosa significa che due capolavori indiscussi dell’arte di ogni tempo sono stati ricollocati nel Museo? Si potrebbe pensare che nulla è più ovvio
di un’opera d’arte in un museo. 
Eppure parlare di evento
non è esagerato in questo caso.

 

Il Sud, specie quando è profondo, si ammansisce dietro un trascorrere del tempo che si dilata e sembra, in taluni casi, quasi arrestarsi. È quanto è accaduto per il Museo di Palazzo Piacentiniquando, sette anni addietro, è stato chiuso per una restaurazione che è diventata una ricostruzione, tanto da mantenere le mura esterne del progetto originario e da ristrutturare lo spazio interno quasi totalmente. Tanti anni, troppi, trascorsi nell’assenza di uno spazio essenziale, vitale, per una città. 
Finanziato nei progetti di elevato interesse tra quelli che dovevano essere rimessi a nuovo per i centocinquant’anni anni dell’Unità d’Italia, i lavori hanno trovato una serie di difficoltà che hanno ritardato il loro completamento, avvenuto solo con l’inaugurazione del 2016. Cose che capitano, purtroppo, togliendo così però spazi essenziali perché “spazi pubblici di apparizione” – per dirla con Hanna Arendt – nei quali e grazie ai quali si mantiene e raccoglie la cittadinanza, si mantiene e raccoglie la vita, quella migliore, di un territorio e di una città.

 

Ricollocare i due Bronzi, allora, ha un forte valore simbolico oltre che culturale. Durante la chiusura del Museo per restauro,essi sono stati trasferiti
a Palazzo Campanella dove a loro volta sono stati sottoposti

a un delicato intervento di ripulitura interna.

 

Si  era  infatti  osservato  che  le  crete di fusione,  rimaste al loro interno,  stavano lentamente corrodendo il bronzo. Con strumenti  chirurgici  e  sonde,  una équipe  specializzata  ha  provveduto  a  rimuovere il materiale in modo da impedire il processo corrosivo. Per tutto il periodo di questo nuovo restauro, i due Bronzi sono rimasti in una apposita sala costruita per permettere al pubblico di seguire le operazioni.

 

Un vetro, come nelle nursery, ha permesso di andare a trovare
i due augusti ‘malati’ nel letto di ricovero, 
rivelando l’amore
e l’affezione non solo di turisti e appassionati,
ma dell’intero popolo reggino.

 

Il quale non ha mancato di farvi visita e così di mostrare la partecipazione –come avviene per ogni degente – alle cure prima e alla guarigione dopo, dimostrando il perdurare di un legame profondo del popolo rispetto ai suoi illustri e antichi campioni che, ora perfettamente ristabiliti, si ergono nuovamente nella sala museale, fieri eredi di un nobile passato, audaci narratori di una storia che sfida, proprio attraverso loro, il tempo. Avere ricollocato i due Bronzi, dicevo, acquista così un valore simbolico altissimo.

 

Si tratta di un intero territorio che tenta di risollevarsi, che ora deve nuovamente ergersi, superando le difficoltà della sua storia recente e meno recente,
per ritrovare la fierezza e l’audacia che non può rimanere solo
entro le mura del Museo a testimonianza del passato,

 

ma da lì ed esemplarmente deve uscire per tornare a vivere tra le vie di una Città, Reggio Calabria, che tenta di risorgere, tra tante difficoltà, per riacquisire lo splendore del suo antico passato. Perché il Museo e proprio dal Museo ci si può aspettare tanto? Perché lì è conservata la memoria, perché nel percorso appassionante che conduce il visitatore dalla Preistoria e dalla Protostoria all’età Magnogreca, passando dalla terra al mare, dal mare alla terra, c’è la possibilità di verificare la grande bellezza e l’ineguagliabile capacità svelata nelle crete, negli oggetti di uso comune, nei pinakes, nelle opere decorative degli edifici pubblici e privati che ci narrano di un gusto, di una spiritualità, di un modo, che in realtà è un modo di vedere lo spazio, un modo di pensare, riempire, abitare lo spazio; di pensare e abitare la città.

 

I due Bronzi ricollocati anche questo rappresentano, e di questo rimangono in un tempo senza tempo – com’è quello che si avverte nella sala quando si è a loro cospetto – esemplari e testimoni.

 

Una terra martoriata, com’è quella della neo Città metropolitana di Reggio Calabria, da qui può e deve ripartire; lavorando sui problemi e superando le difficoltà, ricollocandosi – proprio come i Bronzi – in uno spazio diversamente pensato rispetto a quello asfittico che ne ha segnato drammaticamente, soprattutto dagli anni ottanta dello scorso secolo, una sub-condizione urbana. Anche per la Città c’è da rimuovere incrostazioni che ne deturpano e corrodono l’anima, quella nobile, quella bella; anche per la Città c’è bisogno di una opera di riqualificazione.

 

Ecco perché un evento piccolo, ma neanche troppo piccolo, potrebbe portare una grande novità che deve venire dal popolo innanzitutto.
Quello stesso che ha dimostrato la sua partecipazione
alla salute dei Bronzi 
e che deve volere rivendicare
l’orgoglio del Sud, della sua bellezza 

tutt’altro che sfiorita.

 

E forse proprio il combinato disposto di nuovo Museo, dunque luogo della memoria e del passato, con l’istituzione (nel 2014) della Città Metropolitana, dunque di una nuova struttura amministrativa territoriale operativa e luogo del futuro, potrebbe essere quella concatenazione favorevole per una svolta, finalmente, attesa e desiderata da tempo che i cittadini meritano ma di cui si devono essi stessi fare primi promotori; loro per primi devono riqualificare responsabilmente il loro spazio e le architetture sociali che lo determinano; magari proprio riprendendo quel gusto antico e magno greco per lo spazio pubblico che è bene comune. Una città, in fondo, è fatta dai cittadini, a loro si conforma e con loro cresce o si involve. Nei momenti difficili sono proprio i cittadini, è il popolo che deve riconquistare il diritto ad avere un futuro, esercitando quella tenacia iscritta nel DNA italico e meridionale in particolare.

 

 

I Bronzi ricollocati rappresentano la possibilità, rappresentano la speranza, indicano la via che è quella della bellezza mediterranea, nel tempo e fuori dal tempo, di un modo di pensare il proprio spazio, il proprio futuro.  

 

 

 

 

Cananzi
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 Immagini concesse dal Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria

 

PALERMO CAPITALE DELLA CULTURA di Ilaria Borletti Buitoni – Numero 7 – Aprile 2017

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PALERMO CAPITALE DELLA CULTURA

 

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Nessuna strada o tratto del cammino umano è mai obbligato. Esistono sempre delle alternative. E se la politica riesce a fare il suo mestiere queste alternative le disegna per poi suggerirle per la scelta libera del popolo. Ciò vale anche in campo culturale. Per questo la vittoria di Palermo come Capitale Italiana della Cultura per il 2018 mi sembra molto significativa.

 

Palermo è stata certo premiata per la qualità informativa del dossier presentato al Ministero, per la significatività del progetto e per la sostenibilità del progetto stesso. Ed il riconoscimento di Capitale Italiana della Cultura è un riconoscimento alla capacità di progetto, 

e non solo alla città più bella o ricca di storia.

 

 

Un progetto che ha un fiore all’occhiello: Palermo ospiterà infatti nel 2018 MANIFESTA12, una fra le principale biennali di arte contemporanea su scala mondiale. “Nel 2018” ha dichiarato il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, “la nostra città sarà di fatto una capitale dell’arte contemporanea e la possibilità di abbinare le attività con quelle di Capitale Italiana della Cultura rappresenta una grande opportunità non solo per Palermo, ma per tutto il nostro Paese. La Capitale italiana potrà diventare un palcoscenico, facendo di quello che sarebbe un evento nazionale, un grande evento internazionale. La visibilità internazionale data da Manifesta sarà uno straordinario strumento per venire incontro alla volontà del Governo di diffondere il valore della cultura come volano per la coesione sociale, l’integrazione e lo sviluppo”.

 

Dunque non di sola bellezza parliamo. Palermo infatti non primeggia così tanto rispetto agli altri finalisti ­Alghero, Aquileia, Comacchio, Ercolano, Montebelluna, Recanati, Settimo Torinese, Trento e l’Unione comuni
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Lo ha spiegato del resto assai bene il Sindaco del capoluogo siciliano Leoluca Orlando quando, andando al microfono per ringraziare e dichiarare la propria gioia per la vittoria, ha subito “costretto” tutti gli altri sindaci a salire sul palco con lui, perché “questa è una vittoria di tutti”, e “nessuno può vincere da solo”.

 

 

Ma piuttosto Palermo ha vinto perché con Palermo vince e afferma la sua forza un modello di cultura che si è fondato nei secoli sulla capacità
di essere crocevia tra diverse civiltà, ­con un’impronta indelebile
lasciata da quella araba­ e diversi popoli, 

 

 

piuttosto che sulla capacità di erigere muri sempre più alti, come sembra purtroppo essere la moda odierna. Muri la cui altezza è direttamente proporzionale all’incapacità di stare nel mondo del territorio recintato. 

 

 

Palermo ci parla invece della forza e della vitalità che viene dal sapersi mescolare in spezie e pensieri, in tratti artistici e tratti somatici, 

in caratteri linguistici e musicali.

 

 

Questa capacità di attrazione ­- questa e non altro – è il vero segreto per una forte capacità di innovazione anche economica, come dimostra la resistenza che sta opponendo la Silicon Valley ai propositi isolazionisti del neo Presidente Trump. Su questo si è basato il segreto della prosperità di Palermo, da cui si è irraggiata la sua grande cultura e da cui, ­non a caso, è nata anche la nostra lingua italiana. Non appena anche a Palermo si sono cominciati ad erigere muri, essa ha cominciato a spengersi. Teniamolo a mente.

 

 

PalSolo cercando di governare i processi storici e vincendo paure
e superstizioni, una nazione può prosperare. E il mondo
diventare un po’ più sicuro. 

 

 Grazie Palermo.

 

 

 

 

 

 

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LA VUCCIRIA DEV’ESSERE SALVATA di Salvatore Maraventano – Numero 7 – Aprile 2017

LA VUCCIRIA DEV’ESSERE SALVATA  

 

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 Fino a qualche tempo fa, quando voleva farsi riferimento ad un evento che non sarebbe mai accaduto, in dialetto palermitano si diceva che sarebbe successo quando le balate della Vucciria si sarebbero asciugate.
 

In effetti, per centinaia di anni, il pavimento di Piazza Caracciolo, cuore pulsante di quello che, un tempo, era il mercato della Vucciria, è rimasto costantemente bagnato per effetto della massiccia attività di vendita del pesce e conseguente scarico del ghiaccio. Anche lo stesso nome del mercato racconta, poi, qualcosa della sua gloriosa storia: vucciria, in siciliano, significa “casino”, rumore, e testimonia la presenza dei cosiddetti abbanniatori (dal siciliano abbanniare: gridare), mercanti che propongono la loro merce con un urlo intonato che arriva a sembrare quasi un canto.

 

Ebbene, ciò che un tempo era metro di paragone dell’ impossibile è infine successo; le balate della Vucciria si sono asciugate.

 

Passeggiando per la piazza del mercato si percepisce un silenzio che, per chi ha memoria, è quasi assordante: gli abbanniatori non ci sono più. I commercianti rimasti nel mercato, ormai, sono veramente pochissimi. Ancora più inquietante, poi, è la desolazione di tutto il quartiere circostante – chiamato Della Loggia –in cui la fanno da protagonisti antichissimi e un tempo stupendi palazzi nobiliari abbandonati, diroccati, caduti in rovina, dove ormai a vivere è rimasta solo la nostalgia di tempi migliori.

 

 Le cause dello stato in cui versa oggi tutto il quartiere della Loggia – che per mille anni, grazie alla sua vicinanza col porto, è stato casa di ricchi armatori e mercanti provenienti da tutto il Mediterraneo e oggi, invece, è un deserto di tufo – sono molteplici e tutte, più o meno, legate alla complicata storia del capoluogo siciliano e alle sue contraddizioni.

Durante la seconda guerra mondiale, la città di Palermo subì numerosissimi bombardamenti che ne sfigurarono i bellissimi palazzi nobiliari del centro storico. In quel periodo, le classi più abbienti si spostarono verso le periferie o verso i paesi delle montagne per sfuggire ai pericoli della guerra. Le classi più povere, invece, non ebbero la stessa possibilità e furono costrette a subire la pioggia di bombe. I danni agli edifici, oltre che quelli alle persone, furono enormi, al punto che la maggior parte dei palazzi risultava completamente inagibile. Nell’ immediato dopoguerra la borghesia palermitana si tenne lontana dal centro storico e, in mezzo alle macerie della città dal cuore arabo, rimasero a vivere solo pochi disperati. La connivenza tra mafia e politica, infatti, permise a imprenditori edili senza scrupoli di inaugurare una fase di speculazione edilizia che consumò letteralmente tutte le campagne della periferia della città e portò alla demolizione di numerose antiche ville ed esempi unici di architettura liberty. Il cosiddetto “Sacco di Palermo” fornì alle classi medie della città nuovi e splendenti palazzi a basso costo dove andare a vivere. Al contempo, tra le macerie del centro storico crescevano povertà, miseria e quindi criminalità. Il processo di ricostruzione sarebbe ripartito solo negli anni ‘ 90 ed è, attualmente, ancora lungi dall’ essere completato.

 

I mercati del Capo e di Ballarò, che in precedenza si raccontavano essere vivi
e vitali come non mai, risentirono meno di questo processo di desertificazione. La ragione sta nel fatto che questi due mercati sono sempre stati, nella storia,
i mercati più popolari. La Vucciria era, invece, il mercato più ricco
e rivolto alle classi abbienti.

 

Alla fine degli anni ’ 90, il mercato della Vucciria, per quanto claudicante e in difficoltà, ancora resisteva. Ad assestargli il colpo di grazia fu l’ interesse che il luogo cominciò, agli inizi degli anni 2000, a suscitare per la movida della città. Piazza Caracciolo, la piazza principale del mercato cominciò a diventare luogo di ritrovo serale per i giovani palermitani. Qualche anno dopo, la vicina Piazza Garraffello diventava una delle più grandi discoteche a cielo aperto d’ Europa. Non si può negare che in quegli anni la movida della Vucciria esercitasse un fascino unico e inconfondibile: il sabato sera, centinaia di persone si ritrovavano a ballare all’ aperto, tra le rovine e le macerie di un quartiere bombardato in cui un tempo vivevano ricchi mercanti amalfitani e pisani, tra i fumi densi e fitti degli stigghiolari (venditori di stigghiole, un tipico cibo da strada palermitano), comprando birra a due lire da commercianti improvvisati e con la possibilità di trovare erba e anfetamine nel vicolo dietro l’ angolo. A quei tempi la Vucciria non era bella, ma sicuramente affascinante.

 

C’era la decadenza, c’era l’ anarchia e c’era l’unicità di un luogo che probabilmente non aveva simili in tutto il mondo.

La movida sregolata e gli enormi interessi degli abusivi, che cominciavano a sviluppare importanti volumi d’ affari, resero la Vucciria una zona franca e senza regole nel pieno centro di Palermo. Fu così che la Vucciria divenne pericolosa e violenta. Fu così che cominciarono a susseguirsi senza sosta notizie di scippi, aggressioni gratuite e crimini di vario genere. Eppure, ancora oggi, le stesse forze dell’ ordine si mostrano restie ad entrare nel quartiere.
Il declino della Vucciria non si è arrestato. Dopo il boom della movida anche quella oggi sembra starla abbandonando, a causa dei troppi pericoli e dei numerosi episodi di violenze. Da quanto raccontato, risulta chiaro che oggi il quartiere della Loggia e il suo storico mercato della Vucciria abbiano bisogno di essere salvati dal declino. Che nel 2017 si permetta che un tale contenitore di storia e di bellezza rimanga ignorato, calpestato e insultato – e per di più in una città che riesce a dimostrare fermento e vitalità – è intollerabile.

 

Da queste considerazioni, nasce l’ idea della Professoressa Giovanna Acampa, docente di Estimo all’ Università Kore di Enna, di stimolare la rigenerazione
del quartiere attraverso micro-interventi di agopuntura urbana.

 

L’ idea alla base di questa metodologia di intervento è che progetti di rigenerazione su larga scala ed eterodiretti abbiano spesso scarsa capacità di incidere sul tessuto urbano del quartiere e, al contempo, generino frequentemente fenomeni di gentrification. Al contrario, micro-interventi accurati e chirurgici, a basso costo e a basso impatto sociale – quando messi a sistema in un quadro progettuale dagli obiettivi omogenei – hanno maggiore capacità di catalizzare la rigenerazione urbana e renderla più inclusiva e rispettosa del tessuto sociale preesistente.

 

Dalla creazione di orti urbani per i residenti, alla pulizia di piazze e spazi dove prima insistevano discariche abusive, etc., è questo il tipo di intervento su cui, in periodo di crisi, vale la pena scommettere.

 

Su questi presupposti metodologici la Professoressa Giovanna Acampa ha cominciato a coinvolgere numerose realtà all’ interno di questa cornice progettuale; da liberi cittadini a residenti, associazioni giovanili come il PYC, un gruppo di editori, il CODIFAS per lo sviluppo di Orti Urbani, il FAI, alcuni esperti di virtual reality per sviluppare forme di fruizione innovative del patrimonio storico, etc. Il lavoro di questo comitato spontaneo, che è chiaramente aperto a chiunque volesse contribuire, è appena iniziato, ma già sono numerosissime le iniziative in cantiere. Speriamo divengano presto realtà.

 

Se però, oggi, altri mercati come quello di Ballarò o del Capo sono ancora in grado di esprimere la stessa vitalità umana e commerciale e la stessa atmosfera da suq arabo che li hanno consacrati nella storia millenaria della città, negli ultimi decenni la Vucciria è andata, al contrario, incontro ad un graduale e lento processo di decadenza e desertificazione.

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SAN LEUCIO. GENIUS LOCI di Helene Blignaut – Numero 7 – Aprile 2017

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SAN LEUCIO. GENIUs         LOCI

 

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La bellezza conquista e innamora perché, oltre al fascino della superficie percepita dallo sguardo umano, nasconde e palesa una profondità, una sub-stantia che irradia valore e che chiede di non essere trattenuta, bensì diffusa a chi ne sappia godere.

Bellezza contagia bellezza e, in un luogo che riesca ad apparire nello splendore che gli viene dalla sua propria storia, ogni cosa e ogni avvenimento che vi s’inseriscano saranno belli per conseguenza e brilleranno della stessa luce, seguendo naturalmente il palinsesto prospettico generato dal mirabile contenitore.

 

Esiste  un l uogo,  nel Sud d’Italia, la cui bellezza, come in una fiaba, deve tutto alle sue stesse vicende secolari e alle opere  che  proprio  lì furono create.  Opere  che,  ancora  oggi, escono da sapienti mani artigiane per essere offerte all’intelligenza  dell’estimatore  in  tutta  la  loro  profondità  estetica  atemporale  e  che  perpetuano l’ambizione di una virtuosa  sintesi  tra  il  bello  e  il  giusto  così  come la pretese l’assoluto iniziatore, il re Ferdinando IV di Borbone. Si parla   dunque   di  San  Leucio,  frazione  della  città  di  Caserta, che,  per  volere  di  questo  re,  divenne  subito   un imprevedibile  unicum  tra  nobiltà  monumentale  affacciata  su verdi paesaggi pensosi e una comunità umana che si ritrovò privilegiata nell’apprendere l’arte della tessitura della seta e della produzione di straordinari manufatti.

 

Mentre la Real Colonia di San Leucio vedeva la luce e si avviava quieta e operosa a realizzare, giorno dopo giorno, pur nel suo esiguo limite territoriale, il regale sogno sconfinato, i cognati di Ferdinando IV lasciavano la testa sotto la lama di una cruenta rivoluzione.

 

Il nostro re aveva preso in moglie Maria Carolina d’Asburgo e Lorena, sorella dell’Autri-chienne (ndr. Chienne in francese significa cagna), così come era chiamata, dal popolo francese in rivolta, Maria Antonietta d’Austria, sposa del re Luigi XVI. Sangue e terrore la cui eco, tuttavia, non riuscì a fermare la volontà di questo visionario che, forse sopraffatto dall’eccessiva pompa della reggia di Caserta, aveva deciso di trasformare il borgo in una splendida nicchia la cui esistenza e meraviglia non restassero, però, fini a sé stesse. Nel luogo già esisteva una deliziosa antica chiesetta e lui fece costruire, nell’area del Belvedere, un casino di caccia e vi mandò a vivere alcune famiglie perché vi si dedicassero. Il re era dotato di una mentalità moderna e così pensò di dare vita a un modello sociale di assoluta novità, imponendo un armonico assetto urbano con una piazza circolare e strade a sistema radiale; promuovendo un’autonomia economica con la creazione di un opificio per la produzione di sete di eccellenza, di qualcosa che davvero mai si fosse visto prima.

   

Non solo visionario, ma anticipatore di quella uguaglianza 

che fondava la dignità del vivere sul lavoro ma anche
sulla previdenza sociale e la considerazione (ante-litteram) 

dei diritti umani con l’orario giornaliero di lavoro ridotto a undici ore anziché le quattordici in vigore nel resto d’Europa, con la parità di paga per uomini e donne, la formazione scolastica obbligatoria e gratuita

e con l’avviamento al lavoro che teneva conto delle attitudini 

dei ragazzi. 

 

Anche la casa di abitazione era gratuita e costruita con tutti i comfort possibili all’epoca. La vaccinazione per prevenire il vaiolo era obbligatoria. La gestione di questa impresa, che inoltre sapeva produrre un notevole indotto, anticipava infatti l’affermazione di diritti la cui rivendicazione avrebbe segnato in seguito la storia politica e sociale del continente. Una sorta di Fernandopoli con un Codice, i cui principi fondamentali erano: l’educazione, la buona fede e il merito e in cui non vi era spazio per distinzioni di grado e condizione. Dal patrimonio vivente dei bachi da seta che venivano coltivati nell’edificio della cuculliera, fino alla preparazione delle matasse, ai filatoi, ai telai, alla seteria meccanica, la creazione di tessuti lussuosi per l’abbigliamento e per prestigiosi arredi seppe evolvere in una straordinaria gamma di broccati di seta con oro e argento, di particolari gros de Naples e anche in un originale tessuto innovativo che venne chiamato Leucide.

   

Con l’introduzione nella prima metà dell’Ottocento del jacquard,

la tecnica di tessitura, di cui si vantava la Francia,

vennero create opere che ne nobilitavano i risultati 

e si avvicinavano più all’arte che a oggetti 

di uso comune.
 

I colori erano naturali e l’ispirazione culturale delle sfumature inusitate imponeva definizioni che già da sé evocavano emozioni e desideri: verde salice, verde di Prussia, Siviglia, Acqua del Nilo… Nomi suggestivi di stoffe per tappezzerie, arazzi, tendaggi, coperture di divani e cuscini, ma anche scialli, corsetti, fazzoletti e altri deliziosi capi d’abbigliamento. I tessuti per l’arredo affascinavano re e regine e Papi e ancora oggi impreziosiscono gli ambienti del Quirinale, del Vaticano, di Buckingham Palace, della Casa Bianca e di altri prestigiosi siti. Ancora, famosi stilisti della moda internazionale si lasciano tentare per le loro creazioni di altissima gamma. La storia scorre, il divenire del progresso produce decadenze e nuovi inizi; così, con l’avvento dell’Unità d’Italia, il sogno di Fernandopoli venne inglobato dal demanio statale. Tuttavia, la mitologia di una materia nata dalla volontà imperterrita di un re non poteva soccombere.

 

Oggi, i tessuti di San Leucio restano un patrimonio d’eccezione e,

in quelle trame, resta immutata una vitalità del fare che non ha mai smesso di nutrire sé stessa. Con l’opportuno ausilio delle nuove tecnologie,senza snaturare il lavoro artigianale, si realizzano opere

che ancora ci riportano la profondità multipla della loro bellezza,

la loro storia, la loro eredità utopica,
 

ma anche la delicatezza tattile o lo spessore cremoso di certe lavorazioni, la consistenza – che pare profumata – dei grandi disegni floreali, le tonalità sonore delle sete croccanti. Sensazioni che stimolano un’appassionata attenzione euristica per scoprirne ulteriori significati. Gli appartamenti reali e la casa del tessitore sono visibili oggi nella loro formula museale; tuttavia, il consorzio delle aziende che discendono da quelle antiche famiglie è più che mai attivo e disponibile. Le iniziative culturali richiamano visitatori da tutto il mondo: in luglio, il Leuciana Festival è un’evocazione storica in costume. In ottobre, la Festa del Vino, delle Vigne e della Seta perpetua, in maniera felicemente materiale, quella fantasticheria che animò un antico re. Nelle fabbriche e nelle botteghe tutta una ricchezza di tesori da scoprire.

 

 

 

 

 

Le foto sono state gentilmente concesse dal Complesso Monumentale di San Leucio

 

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Helene Blignaut

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TARTUFI E RICERCA ALL’UNIVERSITÀ DELL’AQUILA Di Giovanni Pacioni – Anna Maria Ragnelli – Numero 7 – Aprile 2017

Confezioni di tartufo bianco trattato con film edibile

Tartufi
e ricerca
all’università
dell’aquila

 

 

Tomografia del suolo effettuata con uno speciale georadar.
Tartufi bianchetti, Tuber borchii, nel loro habitat naturale
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I tartufi sono i corpi fruttiferi sotterranei di alcune specie di funghi appartenenti al genere Tuber (Ascomiceti) che vivono in simbiosi con gli apparati radicali di piante ospiti, principalmente alberi quali noccioli, querce, carpini. Tale simbiosi è detta “micorriza” (dal greco mico= fungo e riza= radice) ed è fondamentale per la sopravvivenza della quasi totalità delle piante. Dal punto di vista biologico, i corpi fruttiferi dei funghi sono strutture deputate ad assicurare la sopravvivenza e la diffusione della specie tramite la produzione di spore, un po’ come i semi per le piante 

 Sviluppandosi tuttavia in maniera sotterranea, i tartufi sono impossibilitati a disperdere nell’aria le loro spore, 

come fanno la maggior parte dei funghi. 

Nel corso della loro evoluzione – che dovrebbe 

esser durata oltre cento milioni di anni – hanno però sviluppato complessi meccanismi per relazionarsi con l’ambiente 

ed anche risolvere il problema della dispersione 

delle spore.

I tartufi, infatti, producono moltissime sostanze volatili (VOCs, Volatile Organic Compounds) che regolano la loro vita sociale nei confronti dei microrganismi del suolo e delle piante, ed alcune di queste sostanze, che noi percepiamo come odore, svolgono il compito di attirare animali (insetti e mammiferi) per farsi mangiare e, in questa maniera, poter disperdere le spore. Esse, infatti, sono estremamente resistenti e possono attraversare indenni gli apparati digerenti degli animali, che in questa operazione vengono ricompensati, oltre che da cibo, da uno stato di grande benessere dovuto a sostanze, biologicamente attive, prodotte dai tartufi stessi: questi, dunque, sono nati per essere mangiati e perciò non ne esistono, di per sé, di velenosi. La raccolta del prodotto naturale è affiancata dalla coltivazione di piante arboree con gli apparati radicali opportunamente infettati dal tartufo. Diverse specie, infatti, sono coltivabili e ciò ha esteso la produzione delle specie europee in altri continenti nelle aree con clima mediterraneo, ovvero con inverni miti e primavera ed autunni piovosi. Non a caso, oggi, accanto a Italia, Francia e Spagna, abbiamo l’Australia come quarto produttore mondiale.

È noto che alcuni tartufi, come il bianco Tuber magnatum 

od il nero pregiato Tuber melanosporum, sono tra gli alimenti più costosi al mondo.

Le loro qualità risiedono nella emissione, a piena maturità, di un complesso di sostanze volatili che vengono prodotte in condizioni di microaerobiosi, ovvero di scarsa presenza di ossigeno data la crescita sotterranea, ed alla loro produzione partecipa anche la microflora (batteri e funghi lievitiformi e filamentosi), estremamente ricca ed abbondante, che vive in maniera asintomatica al loro interno. La cultura gastronomica del tartufo ha una storia millenaria ed è strettamente legata all’Italia, dalla quale è passata in Francia per diffondersi a livello planetario.

Per molti secoli, fino al Novecento, L’Aquila, insieme a Norcia, è stata la capitale del tartufo nero, il centro di raccolta e di una rete commerciale che nel Rinascimento arrivava sino in Germania. 

Oggi, la sua Università ospita uno dei gruppi di ricerca sulla biologia del tartufo maggiormente apprezzati a livello internazionale. Attivo dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso, ha iniziato ad occuparsi della biologia dei tartufi in maniera totale, dalla ecologia, biochimica, fisiologia fino alle attuali scienze “omiche”, una neonascente classe di discipline legate alla biologia molecolare e alla genetica, nell’ambito delle quali a L’Aquila si studiano la genomica, la trascrittomica ed a breve la metabolomica. 

È stato il primo laboratorio nel mondo, a studiare: 

– la composizione dell’odore di diverse specie dei tartufi neri e la composizione dei prodotti aromatizzati al tartufo; –  gli effetti delle sostanze volatili sulla flora microbica del suolo, sulla germinazione dei semi delle piante erbacee e sulla attrazione degli animali deputati alla dispersione delle spore; 

 –  il processo di melanizzazione e di morte cellulare programmata durante lo sviluppo dei corpi fruttiferi; 

 – a seguire le fasi di sviluppo dei tartufi nel suolo attraverso uno speciale georadar; 

 – ad evidenziare la presenza di una ricca microflora batterica e fungina (microbioma) all’interno dei tartufi sani; 

 – ad ottenere la prima fase embrionale della formazione del tartufo; 

 – a scoprire che i tartufi maturi contengono cannabinoidi, tra i quali l’anandamide, il cosiddetto “ormone della felicità”. Ha, inoltre, fatto parte del consorzio internazionale che ha sequenziato il genoma di Tuber melanosporum, pubblicato nel 2010 su Nature, ed ha organizzato nel 1992 un Congresso Internazionale sul Tartufo, presso il Forte spagnolo della città, che ha visto la presenza di oltre 650 partecipanti provenienti da tutti i continenti.

Nel corso della sua attività ha ottenuto tre brevetti, due dei quali sulla produzione vivaistica di piante micorrizate che danno lavoro da più di venti anni ad una cooperativa, ed uno per la conservazione dei tartufi freschi, che è stato oggetto di ripetute presentazioni nel corso dell’EXPO2015 ed ha permesso la nascita di una start-up di successo sul territorio aquilano.

L’interesse suscitato da quest’ultima ricerca risiede nell’aver superato le difficoltà finora incontrate in campo scientifico nel migliorare la qualità e la conservazione del prodotto fresco. Numerosi sono, infatti, i problemi che si rilevano in proposito, ascrivibili a molteplici fattori: brevi periodi di maturazione per le diverse specie commerciali; stagionalità della produzione; limitata possibilità di conservazione; perdita della capacità di produrre gli aromi in conseguenza dei cambiamenti metabolici; perdita di acqua e di peso; controllo della microflora ospite all’interno del tartufo; differenziazione della conservazione a seconda della pezzatura e dell’integrità del corpo fruttifero. 

A L’Aquila, abbiamo sviluppato un sistema di conservazione basato su un film edibile specificatamente realizzato per questi scopi.

“Film edibile” significa che il tartufo viene rivestito con un sottilissimo strato continuo di materiale, composto da sostanze commestibili, e che quindi può essere consumato così com’è. Nel nostro caso, si è ricorsi ad una proteina vegetale purissima, alla quale sono state aggiunte diverse altre sostanze, che hanno permesso di ottenere un prodotto, invisibile e insapore, estremamente efficace per ovviare a tutti i problemi sopra esposti. Una volta estratti dal suolo, infatti, i tartufi subiscono un cambiamento di condizioni (aria ed ossigeno) che porta ad una perdita progressiva della capacità di produrre VOCs e ad un cambiamento della stessa composizione dell’aroma, data la presenza di ossigeno e la diminuzione dell’attività metabolica. Gli aromi dei tartufi vengono infatti prodotti solo da esemplari vivi e mantenuti quanto più possibile nelle condizioni originarie. Le diverse forme di condizionamento (inscatolamento o surgelazione) uccidono il tartufo ed alterano completamente le sue qualità organolettiche. Chiudendoli in contenitori, il loro ricchissimo microbioma non è più sotto controllo ed i batteri e funghi ospiti innescano fenomeni putrefattivi. Accanto ai metodi tradizionali ed empirici per prolungare la vitalità dei tartufi, negli anni più recenti sono stati proposti diversi sistemi innovativi, oggetto anche di alcuni brevetti, come immersione in olio, irradiazione, rivestimenti plastici o atmosfera controllata, ma che non rispondono pienamente agli obiettivi. 

La globalizzazione imperante, che non ha risparmiato neanche la produzione tartuficola, ha imposto una riflessione ancor più attenta sul problema della conservazione del prodotto fresco, quanto mai sentito al giorno d’oggi anche per l’uso del tartufo nella cucina internazionale. Ed il nostro film edibile sembra attualmente rappresentare la soluzione più idonea.

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LA FABBRICA SALERNITANA DELL’INNOVAZIONE: di Maurizio Campagna – Numero 7 – Aprile 2017

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Il settore farmaceutico costituisce un motore trainante dell’economia nazionale: nel 2015 l’Italia è stata il secondo produttore nell’area UE, preceduta di misura soltanto dalla Germania e staccando la Francia per oltre 6 miliardi di euro nel valore della produzione totale. Quest’ultima ha superato i 30 miliardi. Secondo la Banca d’Italia, dopo la doppia recessione, il settore farmaceutico è l’unico ad aver aumentato la propria capacità produttiva1. Gli addetti superano le 63.000 unità alle quali devono essere aggiunti i 66.000 lavoratori dell’indotto.

LA FABBRICA SALERNITANA DELL’INNOVAZIONE

 

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Nel periodo compreso tra il 2010 e il 2015 l’export italiano del settore ha fatto registrare una crescita del 57% a fronte del valore medio UE del +33%. Anche il Sud fa la sua parte. L’industria farmaceutica, infatti, è presente in modo significativo anche nelle regioni meridionali: in Abruzzo, Campania, Puglia e Sicilia si contano complessivamente più di 13.000 unità tra addetti diretti e nell’indotto. In alcuni distretti, come ad esempio a Bari, Brindisi e Catania, l’industria farmaceutica copre un’elevatissima percentuale dell’exportcomplessivo. Tra le ragioni di questo “miracolo italiano”, un ruolo di primo piano deve essere riconosciuto agli investimenti in ricerca e sviluppo (R&S) che, negli ultimi due anni, sono aumentati del 15%.

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Lo sviluppo e la crescita del settore pharma, infatti, favoriscono virtuose sinergie tra comparti produttivi: si pensi, infatti, alle ricadute positive, anche in termini occupazionali, principalmente nell’ambito della meccanica o del packaging.

L’industria del farmaco è terza per spesa totale in R&S,

dopo quella dei trasporti e quella meccanica, e prima per volume di investimenti in rapporto agli addetti. Le domande di brevetto sono cresciute del 54% e sono più di 300 i prodotti biotech in sviluppo. Il settore farmaceutico ben rappresenta, dunque, quel modello di produzione che, da più parti, è indicato come l’unico in grado di traghettare la stanca economia italiana, al di fuori delle secche di una crisi ormai duratura. Si tratta, infatti, di una crescita economica basata sull’elevata professionalità dei lavoratori: il 53% del totale degli addetti nel settore è costituito, infatti, da personale laureato2. Il pharma, inoltre, più di altri comparti della produzione, vive e si alimenta di ricerca e innovazione. Il buon rapporto con l’Università è quindi cruciale, non soltanto perché gli atenei formano i professionisti che saranno impiegati nelle diverse realtà aziendali del Paese, ma anche perché l’innovazione farmaceutica non può fare a meno della collaborazione con l’industria se si vuole assicurare l’immediata trasferibilità dei risultati della ricerca sul mercato.

In questo contesto si inseriscono le attività del Dipartimento di Farmacia dell’Università degli Studi di Salerno (DIFARMA).

Istituito nel 2010 in applicazione della riforma universitaria Gelmini (l. n. 240 del 2010) che, come è noto, ha sostituito le Facoltà con i Dipartimenti, il DIFARMA riunisce l’esperienza e il lavoro della Facoltà di Farmacia e del Dipartimento di Scienze Farmaceutiche e Biomediche, oggi disattivati, e costituisce la sola struttura scientifica e didattica di riferimento sul “Farmaco”nell’Università di Salerno. Il Dipartimento può contare su una dotazione strutturale e strumentale competitiva e all’avanguardia: 3000 mq di laboratori e attrezzature per un valore superiore agli 8 milioni di euro. Per il completamento della ricerca biologica, farmacologica, medica e farmaceutica è stato creato un moderno stabulario per il mantenimento e l’utilizzazione degli animali da laboratorio per la ricerca in vivo. Il suo funzionamento risponde ai criteri della Good Laboratory Practice e le attività di ricerca al suo interno sono condotte nel rispetto delle disposizioni recate dal d.lgs. n. 116 del 1992 di attuazione della direttiva (CEE) n. 609/86 in materia di protezione degli animali utilizzati a fini sperimentali o ad altri fini scientifici.

Le attività di ricerca del DIFARMA non sono limitate al farmaco, ma si estendono anche ai medicinali di origine biotecnologica e ad altri prodotti salutistici.

Istituito Gli oggetti degli studi condotti dai ricercatori salernitani spaziano dai meccanismi fisiopatologici alla base della malattie acute e croniche, alla loro epidemiologia e prevenzione; dai meccanismi di azione dei farmaci, alle nuove metodologie di valutazione dei medicinali. La ricerca, tuttavia, non è volta soltanto ai prodotti, ma anche all’innovazione dei processi tecnologici di produzione dei medicinali nonché alla scoperta di nuovi metodi intelligenti di somministrazione dei farmaci. Di assoluto rilievo è la produzione di pubblicazioni scientifiche che ha permesso al DIFARMA di ottenere un’ottima valutazione da parte dell’Agenzia Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR).

L’innovazione e la sperimentazione investono anche la formazione: di recente è stato proposto e attivato un nuovissimo Corso di Laurea di primo livello in Gestione e Valorizzazione delle Risorse agrarie e delle aree protette.

Si tratta di un’offerta formativa multidisciplinare che si avvale della collaborazione di altre strutture dell’Ateneo salernitano che fornisce “strumenti tecnico-scientifici tesi a massimizzare l’efficienza delle agrotecniche, migliorare e valorizzare la qualità delle produzioni ottimizzando i costi, intervenire nella compatibilità ambientale delle produzioni e dell’agrosistema, con riduzione degli sprechi e dell’impatto ambientale”. Il nuovo Corso di Laurea è stato pensato e costruito in un’ottica di sviluppo del territorio locale mediante l’inserimento di professionisti agronomi dotati di competenze tecnico-scientifiche, ma anche gestionali e, per questo, in grado di valorizzare le ricchezze paesaggistiche e agricole. L’attenzione al mondo del lavoro e al futuro placement dei neolauereati è testimoniata dal lunghissimo elenco di aziende convenzionate con il DIFARMA per il tirocinio pree post lauream. L’eccellenza nella formazione e nella ricerca rappresentano la via d’uscita da una crisi ormai di lungo corso. L’elevata preparazione dei lavoratori di domani è la soluzione concreta alla fine del lavoro e al lento declino di un sistema di produzione superato e obsoleto. Il DIFARMA rappresenta un esempio di come l’università possa cambiare e adeguarsi alle esigenze del nostro tempo. Il successo di questa realtà, però, sta anche e soprattutto nei valori che ne ispirano l’attività. Il Dipartimento si presenta al pubblico come idealmente collegato alla Scuola Medica Salernitana di cui condivide i principi ispiratori, moderni e attuali:

il laicismo, la tolleranza e l’internazionalità, la collocazione non solo geografica, ma anche culturale, al centro del Mediterraneo, la tutela della salute dell’uomo intesa anche come promozione di uno stile di vita sano, la centralità dell’insegnamento e del rapporto tra docenti e studenti, la tutela delle pari opportunità.

Come non vedere in questo manifesto dei valori non solo una ricetta valida per un Dipartimento universitario, bensì il programma per il rilancio di una società stanca e afflitta dalle sue paure che proprio nella conoscenza potrebbe trovare la sua salvezza?

1 Cfr., L. Monforte, G. Zevi, Un’indagine sulla capacità manifatturiera in Italia dopo la doppia recessione, Questioni di economia e finanza, Occasional Papers, 302, Banca d’Italia, 2016 

2 La fonte dei dati riportati nel testo è il Rapporto Annuale curato dal Centro Studi di Farmindustria Indicatori Farmaceutici, giugno 2016, consultabile al sito www.farmindustria.it

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Bottles of medications and a bowls of weights. Manufacture of me

 

LA REGIONE MEDITERRANEA DESTINAZIONE PRIVILEGIATA PER GLI INVESTIMENTI STRANIERI di Gaia Bay Rossi – Numero 1 – Luglio 2015

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destinata ad accogliere, nei prossimi anni, investimenti superiori a quelli dell’Europa continentale, dell’Africa e dell’Asia. Difficile a credersi, ma stiamo parlando dell’area mediterranea, ad onta della crisi greca e delle difficoltà economiche di Spagna, Italia e Francia.
Le previsioni non sono nostre: provengono da una fonte internazionale che gode di una reputazione acclarata, la Ernst & Young. Secondo quest’ultima, infatti, la regione mediterranea rappresenta una delle destinazioni privilegiate per i progetti di investimento stranieri, e i risultati saranno tangibili e sotto gli occhi di tutti già a partire dal decennio 2020-2030.

Secondo Ernst & Young, la Regione è ricca di idee, energie e competenze non ancora sfruttate. 
Il Mediterraneo ospiterà più di 750 milioni di persone entro il 2040, con un potere d’acquisto sempre più crescente. Quella del Mediterraneo è considerata un’area più attrattiva dell’Europa (51%), dell’Africa (60%) e dell’Asia (52%).

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* I 27 Paesi presi in considerazione dal BaroMed sono: Albania, Algeria, Bahrein, Bosnia Erzegovina, Croazia, Cipro, Egitto, Francia, Grecia, Israele, Italia, Giordania, Kuwait, Libano, Libia, Malta, Montenegro, Marocco, Oman, Qatar, Arabia Saudita, Slovenia, Spagna, Siria, Tunisia, Turchia, Emirati Arabi Uniti.
** In linea con il Worldwide Tourism Organization (UNWTO), secondo una cui ricerca a lungo termine, gli arrivi di turisti nelle destinazioni del Mediterraneo nel 2030 raggiungeranno i 500 milioni. 
***Si vedano in proposito i dati ottimistici del Population Reference Bureau e gli studi del prof. Fawaz A. 
Gerges della London School of Economics. Il prof. Gerges è un accademico libanese-americano e autore con esperienza sul Medio Oriente, politica estera statunitense, relazioni internazionali, Al Qaeda e relazioni tra il mondo islamico e occidentale. Gerges è un importante intellettuale e uno dei più importanti studiosi al mondo del Medio Oriente. È apparso sulle reti televisive e radiofoniche di tutto il mondo, incluse la CNN, ABC, CBS, BBC e Al Jazeera.
“L’IS è molto più fragile di quanto Baghdadi ci vorrebbe far credere. La sua chiamata non ha trovato seguaci né tra i predicatori, né tra i dirigenti di organizzazioni islamiche jihadiste internazionali, mentre gli studiosi islamici – tra cui i religiosi salafiti più importanti – hanno respinto la sua dichiarazione come nulla. 
Finché IS ha una serie di successi, si può allontanare con la sua povertà di idee e diffusa opposizione da parte dell’opinione pubblica musulmana: promette utopia e la esprime vincendo. La sfida del gruppo è che una volta che i suoi progressi vengano controllati, la sua mancanza di un’ideologia coerente accelererà il suo degrado sociale”. (www.bbc.com/news/world-middle-east-30681224).

LA REGIONE MEDITERRANEA DESTINAZIONE PRIVILEGIATA PER GLI INVESTIMENTI STRANIERI

 

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“Se si continuerà a promuovere l’integrazione e la collaborazione all’interno dei Paesi del Mediterraneo, nei prossimi anni la mappa mondiale sarà arricchita dalla nascita di un nuovo mercato emergente.

In quella zona, infatti, la crescita economica è più rapida rispetto alle altre regioni e le opportunità di affari sono maggiori, spinte dalla crescita demografica e dall’urbanizzazione, con la nascita di nuove enormi città che sorgono negli Stati del Golfo, in Turchia e in Nord Africa.

Così comunica Ernst & Young, presentando la ricerca BaroMed Attractivness Survey 2015 “The Next Opportunity” (che ha coinvolto 156 dirigenti di 20 paesi del mondo) al Convegno internazionale Strategic Growth Forum, dedicato alle strategie di crescita dei Paesi dell’area mediterranea, alle possibili sinergie con quelli europei e al ruolo che l’Italia può assumere in questo contesto.
Il convegno ha visto protagonisti il 16 aprile 2015, a Roma, oltre 70 rappresentanti delle più importanti aziende dei Paesi dell’area mediterranea di fronte ad una platea composta da oltre cinquecento imprenditori. I dati emersi destano stupore, anche se, sorprendentemente, hanno avuto scarsa attenzione da parte dei media. 
Secondo la ricerca, tra il 2009 e il 2013, i Paesi del Mediterraneo, Medio Oriente e quelli del Golfo hanno attirato 17.110 progetti di investimenti stranieri diretti, principalmente realizzati nell’area dell’Europa mediterranea e dei Paesi del Golfo. Ben più consistenti saranno quelli che arriveranno nei prossimi anni.

Donato Iacovone, Amministratore Delegato di Ernst & Young in Italia e Managing Partner dell’Area Mediterranea, afferma:

Nell’immediato futuro si prevede una crescita positiva e gli investitori sembrano dimostrare interesse nella Regione. Grazie ad un mercato non ancora saturo e alle risorse presenti, non solo l’Europa e gli Stati Uniti, ma anche Cina e India considerano l’area come una meta altamente attrattiva per gli investimenti.”

Le aziende considerate più interessanti sono quelle appartenenti ai settori delle telecomunicazioni, dei media, delle tecnologie, della vendita al dettaglio, dei prodotti di consumo e dell’energia.
Sfruttando la posizione centrale tra Europa, Asia e Africa, la Regione sta sviluppando i settori dell’immobiliare, del turismo e del commercio al dettaglio con l’ambizione di diventare una destinazione primaria ed una delle più importanti mete turistiche del mondo**.
Ciò che rimane problematico, secondo gli investitori, sono i rischi all’interno della Regione: l’instabilità (una media del 53% nelle 5 sotto-regioni) e la mancanza di trasparenza (29%) sono i principali ostacoli agli investimenti e ad una crescita sostenibile. Tuttavia, nel medio periodo, tale livello d’instabilità dovrebbe diminuire. Concorrono in questa direzione diversi fattori, quali una sorprendente contrazione del tasso di fertilità regionale e la fragilità di un’IS oggi molto sopravvalutato.***
Sul sito Viaggiare Sicuri del Ministero degli Esteri, gli avvisi per le unità di crisi particolari nel mese di giugno 2015, sui Paesi che ci interessano, riguardano solo Israele, nella cui nota all’interno sono citati anche Libia, Libano e Siria (consigliano in ogni caso di consultare il sito dell’Home Front Command israeliano www.oref.org.il).
L’Italia non deve e non vuole rimanere a guardare, anche perché secondo Ernst & Young “nel 2050, le economie emergenti della Regione supereranno in termini di PIL, di crescita, d’innovazione e di adozione di tecnologie rivoluzionarie alcuni dei Paesi sviluppati”. 
Insomma, dialogo, patrimonio e diversità culturali contribuiranno alla crescita di una delle Regioni più affascinanti del mondo.

 

LA RADICE DEL DESIDERIO di Giorgio Salvatori – Numero 1 – Luglio 2015

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metallo miniato, familiari all’occhio e alla gola che, da decenni, ci tentano dai banchi delle farmacie, delle erboristerie, dei negozi di dolciumi. Tutto parte da una radice estratta, per la prima volta, molti secoli fa. Una radice legnosa che, pulita, essiccata, lavorata, diventa una ghiottoneria amata da molti: personaggi celebri e comuni mortali, adulti e bambini. Ma può un bastoncino legnoso e bitorzoluto dare origine a una leggenda? Si, se ad estrarlo e trasformarlo sono mani esperte. Le mani sono quelle della famiglia Amarelli di Rossano, in Calabria. Una dinastia che dal ‘500 ad oggi ha costruito, sulla radice della “glycyrrhiza glabra” – la liquirizia per chi non avesse capito – un piccolo impero.

LA RADICE 
DEL DESIDERIO

 

Giorgio-Salvatori-azzuro

I dipendenti sono appena 50, ma – sarà per la forte coesione aziendale o forse per la tradizione che vede anch’essi, come i proprietari, passarsi il testimone di padre in figlio – il fascino discreto del marchio Amarelli ha ormai conquistato tutto il mondo: dall’Europa, agli Stati Uniti, dal Sud America ai Paesi Arabi approdando perfino in Giappone.
Il quartier generale è ancora quello di molti secoli fa: un palazzo dall’aspetto severo che denuncia la sua origine di struttura difensiva con caditoie, feritoie, mura massicce.
Dentro si lavora alacremente per produrre una serie di dolciumi, tutti a base di liquirizia, che spaziano dall’eterno e spartano tronchetto di radice naturale, da succhiare e masticare con imperturbabile lentezza, ai tanti pezzettini neri, colorati, multiformi, che, in una gamma incredibile di proposte, allettano lo sguardo e stimolano papille gustative e ghiandole salivari.
Quel dolce pizzicorino della glycyrrhiza offerto in mille forme e dando libero sfogo alla fantasia ed all’ingegno.
Oggi, a rappresentare la dinastia, c’è una volitiva signora, Pina Amarelli, capelli biondissimi, occhi azzurri e portamento elegante, che, per le sue doti personali e le tradizioni dinastico-aziendali, può vantare, unica donna in Calabria, il titolo di Cavaliere del lavoro.
Infaticabile imprenditrice, la nostra signora, vola ovunque si possa aprire nuovo spazio per ampliare la rete di conoscenza, e quindi di vendita, della rinomata liquirizia Amarelli.
Unica, a sentire il suo appassionato racconto, per qualità della pianta e metodo di estrazione e lavorazione.
“La raccolta è già di per sé stessa impegnativa – ci dice Pina Amarelli – perché il ramo sotterraneo aderisce al terreno in modo obliquo e richiede, quindi, la massima attenzione all’atto dell’estrazione.
Bisogna conoscere bene i luoghi dove cresce e approfittare dei periodi di pioggia, da ottobre a marzo, per operare lo scasso nel terreno, altrimenti impossibile o rischioso per la compattezza del suolo e la vulnerabilità della radice.

Nella remota e, per molti versi, ancora arcaica Calabria! I numeri, oggi, ci dicono anche che l’azienda Amarelli non ha subito scosse dalla crisi economica internazionale (le esportazioni sono aumentate nel 2014 del 7 per cento) e fattura addirittura 7-800 mila euro solo dalla piccola rivendita presente all’uscita del museo.
E la criminalità organizzata? Possibile che abbia lasciato indisturbata un’azienda con queste caratteristiche? “Problemi veri, pressioni dirette non ne abbiamo mai subiti -afferma la signora Amarelli – forse proprio in virtù del fatto che la nostra famiglia ha radici così antiche e ha sempre goduto di un rispetto che, spesso, si tributa a personalità dell’imprenditoria e della cultura lontane dal mondo dei partiti e della spartizione del potere.
Non mi riferisco, ovviamente, ai cavalieri fondatori della dinastia – continua Pina Amarelli, ma ai tanti che si sono avvicendati nella famiglia e nell’azienda.
Ne cito solo due: Giovanni Leonardo Amarelli, fondatore dell’Università di Messina nel ‘500, e, perché no, mio marito, Franco Amarelli, attivo nell’azienda, ma anche stimato docente universitario. Sono tutti lontani mille miglia dal sottobosco delle clientele” – taglia corto la Amarelli – e aggiunge: “la nostra forza, semmai, risiede nella continuità della tradizione della famiglia allargata. Da noi è facile trovare dipendenti che vantano quattro generazioni di lavoro nella nostra azienda. Una famiglia allargata, che mette al primo posto la condivisione degli obbiettivi da raggiungere, il calore umano, la collaborazione.
Se si lavora con questi principi il rispetto è assicurato, parola di Pina Amarelli”. Cosa vede Pina Amarelli nel futuro del sud? “Un gioco di squadra per fare sistema”. Accade nella Calabria dei numeri in negativo e delle cronache di mafia. Non solo un’eccellenza, ma un primato indiscutibile.

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Lavaggio, asciugatura e tritatura sono le fasi successive, dosando i tempi della lavorazione a mano con quelli della trasformazione industriale”.
Inevitabile, quest’ultima, per garantire standard igienico-sanitari di massimo livello.
“I risultati sono straordinari. La liquirizia Amarelli, senza alcun supporto di pubblicità diretta, televisiva o sulla carta stampata, è riuscita, piano piano, a conquistare i palati dei popoli dei cinque continenti, con una minore affermazione solo in asia – precisa la Amarelli – perché lì esiste una varietà di liquirizia più scadente che viene tradizionalmente usata per presunte finalità terapeutiche; tutte, ancora, da dimostrare”.
“L’uso dolciario e alimentare è invece nella tradizione italiana e occidentale senza trascurare le proprietà digestive e stimolatrici dei succhi gastrici che caratterizzano la nostra più pregiata glychirriza glabra.
Avidi consumatori della rinomata liquirizia calabrese, cui si attribuivano addirittura proprietà afrodisiache, erano personaggi famosi come Casanova e Napoleone – ci fa notare ancora la signora Amarelli – e la qualità della nostra glychirriza non si è perduta nel tempo se a rappresentare la Regione Calabria, all’Expo milanese, ci sono, in prima fila, anche i nostri prodotti”. Ma c’è di più.
All’ingresso del padiglione della Regione Calabria, campeggia perfino una statuina che raffigura lei, Pina Amarelli, “Lady liquirizia”, come ha titolato, con scarsa fantasia, un giornale locale.
Un tributo un po’ “fetish” alla signora della glycyrrhiza glabra.
Ma le ragioni di tanto attaccamento all’icona Amarelli, in Calabria, hanno una scaturigine ben più remota del secolo in cui, il ‘500, avvenne la prima estrazione a fini commerciali.
Il piccolo impero Amarelli avrebbe infatti un’origine feudale se è vero, come attesterebbe un documento scoperto nella biblioteca di famiglia, che la dinastia discende da un cavaliere crociato – forse un templare – che approdò in Calabria al seguito dei Normanni e lì trovò la patria per i suoi figli e per i figli dei suoi figli.
Vennero al mondo altri cavalieri, e poi letterati, mecenati, imprenditori.
La storia dell’inizio della lavorazione della liquirizia, e degli strumenti per la raccolta e la trasformazione, sono documentati in un museo ricavato nel severo ed antico maniero Amarelli.
Ed è anch’esso un successo: 35 mila visitatori l’anno, il più visitato tra i musei imprenditoriali italiani dopo quello di Maranello della Ferrari.

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