LA VIA REALE di Tamara Triffez – Numero 4 – Aprile 2016

art_triffez-copertina (3)
cat-storia
cat-cultura
cat-arte

LA VIA REALE

 

Mi avventuro sovente, nei reportage, alla ricerca delle antiche radici culturali espresse dagli esseri umani, in vari luoghi del pianeta. Ho seguito in questi anni un percorso che evidenzia le procedure di evoluzione dell’uomo.
Che si manifestano tramite l’arte, i miti, le religioni, questo per affermare pienamente la loro dignità.
Il mio punto di partenza è la descrizione dell’evento, la riflessione sulla vita quotidiana, che si esprime inoltre nelle feste religiose.
E’ dunque partendo da queste premesse che ho deciso di seguire le feste pasquali in Sicilia, con i numerosi eventi che ne conseguono. 
Con entusiasmo e vitalità ho sorvolato la messa in scena delle feste e i protagonisti dei quadri viventi.

Cari amici,   

 

Vi prego di condividere un momento di attenzione attraverso poche mie parole affidate alla cortesia di Tamara. Questa manifestazione si chiama complessivamente l’Italia vista dall’alto, ma, nel caso di Tamara, sarebbe meglio dire “vista da dentro” perché, come tutti i grandi viaggiatori, Tamara è un’artista che si muove per vedere le persone molto da vicino; anzi, per sondare possibilità di identificazione. La sua mostra ha come argomento la Via Reale che vuol dire, in sostanza, la retta via, quella che è, appunto, tracciata dall’Arte. Qui è di scena la Sicilia vista attraverso le processioni, quei momenti in cui particolarmente forte si fa, in ciascuno di noi, la sensazione di un passato che incombe sul presente. Ma, questo passato può essere facilmente visto, almeno dal laico, da due punti di osservazioni opposti e concomitanti: la solennità e il ridicolo. I cittadini che diventano tutti attori della sacra rappresentazione sono vivi e veri ma, nel contempo, assumono parti talmente importanti e preoccupanti da lasciare coloro che li osservano da fuori per lo più esterrefatti. Ci credono veramente? Riescono a identificarsi quelle persone con Cristo, i suoi torturatori, il popolo che assiste, accompagna, soffre e tripudia? Naturalmente la risposta è sì e non è neanche così difficile. La suggestione collettiva è una realtà verificabilissima e commovente. E la nostra Tamara che cosa vede nel suo nitido e pulito bianco e nero con cui scruta le persone a una distanza, appunto, ridottissima? Vede il Personaggio e l’Uomo talmente sovrapposti e indistinguibili da spingerci a credere sul serio a un mondo ancestrale che, nella sua totale inconsapevolezza, percorre la strada del Reale. Tamara Triffez ha dedicato e dedica la sua vita a questo tipo di indagine. Il suo interesse forse più acuto è nel Tibet, in quel tragico paradosso storico che è l’annientamento, o meglio il tentativo di annientamento, di una via Reale che, in nome di una malintesa ideologia, crede di trionfare attraverso la cancellazione. Tamara, come artista, si oppone, e sempre si opporrà, a qualunque ipotesi di cancellazione di retaggi che, pur diversi in diverse parti del mondo, sono intrinseci all’esistenza stessa dell’essere umano. Da questo punto di vista la sua Sicilia e il suo Tibet non sono diversi; e non lo sono perché è l’approccio dell’artista a essere lo stesso. Tamara dà, a chi guarda il suo lavoro, la sensazione di partecipare. La sequenza delle immagini è dentro la processione e non è uno sguardo incuriosito dalla tipicità o dalla stranezza; ma, appunto, è uno sguardo partecipe di chi, evangelicamente, non giudica ma guarda. E vede le grandezze e le debolezze del mondo che si dipanano insieme, perché insieme sono sempre esistite e sempre esisteranno. Certo, i personaggi della processione, in certi luoghi straordinari come Piana degli Albanesi, sono inevitabili citazioni della grande arte figurativa del passato. Le donne loranti sembrano estratte dalle statue lignee del Medioevo e del Rinascimento, il Cristo che passa o giace sembra generato dalla cultura figurativa manierista. Ma questo forse nessuno lo deve sapere, nemmeno l’artista che si aggira tra la gente con la sua macchina fotografica. Quando si avvicina, però, la folla si dirada come se l’atto fotografico fosse un atto sacrale in sé, perché tale da sacralizzare l’incoscienza di chi non sa perché è lì e perché debba assumere atteggiamenti precostituiti. Nella processione tutto è prescritto, tutto è già avvenuto ma Tamara coglie l’espressione di dubbio, perplessità, distrazione, delusione, che trapela nei volti così potentemente connotati di passato da risultare affascinanti in sé. Le foto sono state fatte in occasione della festività pasquale, in tempi recentissimi. Ma la data non importa, perché tutto questo può essere avvenuto sempre, perché è ben probabile che così come lo vediamo nelle foto di Tamara non sia mai avvenuto. Non si tratta di sospendere il tempo, che è impossibile, ma di fare il ritratto alle emozioni con la chiara coscienza che la finzione dell’arte spinge sulla via Reale. Tamara appartiene a quella categoria di persone che vedono l’esistenza solo come energia positiva ma dalle immagini non promana una sensazione di ottimismo inconsapevole. Il fatto è che l’artista è profondamente consapevole di ciò che sta rappresentando e delle sue implicazioni ma non tratta le persone rappresentate come materiale di un esercizio edonistico. Pur nella limpida bellezza di queste immagini, non c’è mai l’impressione della sosta estatica, tale da cogliere quel momento in quanto particolarmente bello o suggestivo. L’avanzata della fotografa dentro la processione procede, invece, con l’intento di farsi spazio entro un mondo che potrebbe respingerci perché non lo conosciamo e forse lo temiamo. Temiamo di urtarne antiche suscettibilità, di non rispettare regole a noi sconosciute ma lì ovvie e scontate; temiamo di mancare di rispetto senza volerlo ma solo per scarsa informazione. Tutti questi timori sono latenti nello sguardo di Tamara ma sono, poi, esorcizzati dalla forza del rapporto tra chi fotografa e chi si trova di fronte alla macchina fotografica. Proprio per questo a noi arriva un senso di pienezza e di dominio della ragione e della spontaneità che, se bene vissute, potrebbero giovarci.   

 

 Con i saluti più cari,   Claudio Strinati

La Sicilia è ancora una terra ricca di tradizioni e di veri rituali ancestrali, che danno tutt’oggi una testimonianza sulle origini mitiche e multiculturali nel cuore del mediterraneo.

L’obbiettivo della macchina fotografica ha seguito la domenica delle Palme, a Piana degli Albanesi, villaggio fondato da una comunità di albanesi secoli fa, che ha conservato la sua tradizione ortodossa, evidenziata, da una quantità di usi e costumi inaspettati, i Pope, le croci… Il Pope sale su di un asino, a ripercorrere l’entrata di Gesù Cristo a Gerusalemme. 
Tra le tante celebrazioni, ho percepito, nella rappresentazione della vita del Cristo di Marsala, la sensazione di un viaggio a ritroso nel tempo; scorci di vita della Gerusalemme di duemila anni fa. La forza evocatrice delle rappresentazioni si rivela grazie alla partecipazione intensa di attori e spettatori, tutti abitanti di città e villaggi.

Sono cerimonie dove ognuno rivive, tramite le rappresentazioni, il proprio percorso di vita ed il suo slancio spirituale. Come negli exempla del Medioevo si tratta di un’esperienza religiosa ed umana fortemente catartica.

Ho seguito inoltre la rappresentazione preparatoria dei misteri di Trapani, dove i giovani figli delle varie congregazioni imparano a portare le vare in miniatura. L’arte del passo ritmato, dell’appoggio, il ritmo del tric e trac, strumento ricorrente nel sud dell’Italia, e quello soggiogante delle fanfare.
Ho documentato le processioni di Palermo, la processione dei Cocchieri, tradizione che si protrae dal XVII secolo; la processione del mercato Ballarò e il Venerdì Santo di San Mauro Castelverde, piccolo villaggio che si arrampica intorno ad un picco montagnoso delle Madonie, dove si può assistere al bacio di Giuda, alla sua impiccagione, alla Via Crucis, alla Crocifissione. Al dolore di un uomo. Durante questa visita la montagna era stranamente avvolta da una nebbia densa e fredda; questa introduceva un senso di sognante inquietudine.
simbolo1
Tamara-Triffez-Blu
Lettera-Di-Claudio

Ogni evento indica così un percorso tra il sacro e il profano.

La domenica di Pasqua a Ribera, ad esempio, dove gli uomini sfiniti dal lungo percorso e dal peso dei diversi quadri – delle rappresentazioni di Cristo, della Vergine Maria e di San Michele – vengono autorizzati a bere l’acqua santa benedetta, in ricompensa della loro devozione. La bottiglia vola rapidamente da una mano all’altra mentre la folla, commossa, canta e salta. La banda si infervora, la cacofonia dei petardi esplode, nuvole di confetti si liberano nell’aria. Tutto per ricordarci la resurrezione di Cristo.

Le colombe volano tra gli stendardi ed ecco, in questi giorni, riapparire, al di là delle espressioni un pò profane, l’anima ansiosa di conoscenza, il percorso della sofferenza e finalmente la gioia, liberatoria, della resurrezione.

Tramite la scelta di questa antica e profonda tematica ho voluto rendere omaggio alla vita del Cristo, svelando attraverso le sue sofferenze estreme, l’essenza divina, la trascendenza. Ricerca che l’uomo esprime da millenni.

Possiamo ugualmente dire che “la Via Reale”, titolo di questo reportage, è un’espressione che si usava nel modo antico. Indica la via, la strada dritta, con la quale si evitano le deviazioni e i meandri che possono confondere l’anima, approdo simbolico alla Gerusalemme celeste, simbolo del Cristo.

ITA | ENG | FR

foto-di-t-triffezST

 

LA TRADIZIONE ORGANARIA NAPOLETANA di Mario Manzin – Numero 4 – Aprile 2016

art_manzin-copertina
cat-arte
cat-storia
Mario-Manzin
Nell-antico-eremo

E’ un positivo firmato Domenico Antonio Rossi 1783

Una cengia a picco sul lago Maggiore ospita un antico Santuario sorto per volontà del beato Alberto Besozzi, un mercante del XII secolo che, investito da una burrasca sulla sua barca mentre si recava da una sponda all’altra del lago, e in serio pericolo, si rivolse a Santa Caterina d’Alessandria per avere salva la vita promettendo in cambio una chiesa in suo onore e, per la sua persona, vita eremitica in quell’angolo allora selvaggio del Verbano orientale. Da allora, l’Eremo, dedicato appunto all’invocata santa, è meta di pellegrinaggi e visitato ogni anno da oltre centomila tra fedeli e turisti di ogni nazionalità.

 

 

LA TRADIZIONE ORGANARIA NAPOLETANA

 

OndeFineP
art_manzin-1
art_manzin-2

Per le sue qualità, l’organaro venne assunto il 10 giugno 1761 dalla Regia Cappella, con uno stipendio di otto ducati al mese, in luogo del defunto Tommaso De Martino, altra personalità di spicco.

Nell’ambito degli studi condotti da Ulisse Prota-Giurleo e da Stefano Romano su quella scuola, particolare attenzione è stata posta al Rossi la cui tecnica costruttiva emerge dagli organi superstiti, quasi tutti del tipo ‘positivo’.

Conserva opere d’arte pittorica di buon livello e, tra gli arredi,

un organo ‘positivo’ opera di Domenico Antonio Rossi 1783, prezioso cimelio che degnamente rappresenta la tradizione organaria napoletana.

Svolse i suoi compiti con grande serietà e competenza fino al 5 gennaio 1789 quando, a causa dell’età avanzata, lasciava il prestigioso incarico al figlio Francesco Saverio.
Lo strumento, già di proprietà privata, è stato acquistato dal Lions Club Laveno Mombello – Santa Caterina del Sasso e ceduto in comodato all’Eremo per accompagnare i riti.
Ci troviamo di fronte ad un manufatto di rilevante interesse storico ed artistico in quanto uno dei pochi usciti dalla bottega del Rossi ancora conservati a Napoli e fuori Napoli1.
Vale citare in questa circostanza il curioso positivo di Villatorre (CH) attribuito al Rossi, in quanto dallo stesso firmato, mentre, in sede di restauro, è emersa la firma dell’altrettanto celebre Giuseppe De Martino e la data 1721, peraltro quella della morte. Con molta probabilità l’organo è stato successivamente restaurato se non addirittura rifatto dal Rossi che ha cancellato la presenza dell’illustre collega.
Due altri strumenti, rispettivamente del 1768 e del 1776, sono di proprietà privata, un altro ancora giaceva semidistrutto nel Museo degli antichi organi napoletani di Capodimonte. Sono attribuiti alla bottega del Rossi due organi anch’essi di privata proprietà in Germania e nel nord della Svezia.
Lo strumento dell’Eremo varesino si presenta in elegante forma, con un prospetto di facciata composto da 19 canne suddivise in tre campate, 7 – 5 – 7. Bocche non allineate, più basse quelle delle campate laterali, labbro superiore a mitria. La disposizione fonica è composta da Principale 8’, Flauto in XII (dal Fa#2), Ottava, Quintadecima, Decimanona, Vigesimaseconda, Turatutti. Tastiera scavezza con prima ottava corta di 45 note, Do1-Do5,. Corista La 415 Hertz (a 16°), temperamento inequabile. Non c’è pedaliera.

Altra caratteristica sopravvissuta a lungo è quella degli ‘effetti’, quali l’Uccelliera, frequentemente denominata Uccelli, Uccellaia, Rosignoli, oppure Stortae Philomelae, cioè canne ricurve. Il congegno imita il cinguettio degli uccelli.

L’organo si impone anche dal punto di vista estetico in virtù della decorazione della cassa, peraltro una delle caratteristiche di questi positivi. Scultura e intaglio del legno, doratura e decorazione pittorica costituiscono un altro sorprendente capitolo che rileva il talento degli organari partenopei.

Si basa su cannucce ad anima (da tre fino a dieci, quello dell’Eremo varesino ne conta cinque) saldate ad un tubo ripiegato ad angolo retto di cui un braccio è in comunicazione con il somierino sottostante, l’altro regge le cannucce a pelo dell’acqua, immesse in un minuscolo recipiente ovale in piombo, dando aria mediante pomello o stecca: le cannucce soffiano sulla giusta dose d’acqua creando l’effetto del cinguettio.
Il mantice d’alimentazione dell’Eremo, come d’uso, è contenuto nel vano inferiore e sulle portelle di chiusura compare un elegante cartiglio con la scritta: “DOMINICVS ANTONIVS ROSSI / NEAPOLITANVS / REGIAE CAPPELLAE SVAE MAIESTATIS / ORGANARVS FECIT / A D 1783”.

1Un censimento delle opere superstiti curato dallo scrivente ha dato i seguenti risultati:
a Napoli: 
Basilica dell’Incoronata Madre del Buon Consiglio di Capodimonte (1769); S. Giovanni Maggiore (data incerta 17…); 
S. Eligio, Confraternita del SS. Sacramento (1775); S. Maria Incoronatella della Pietà dei Turchini (1776); S. Giovanni Armeno, Arciconfraternita dei SS. Pietro e Paolo (1785), nella celebre via dei presepi, lo strumento si trova collocato nel capellone;
fuori Napoli:
Procida, Abazia di San Michele (data incerta, probabilmente del 1770); Fontanarosa, chiesa dell’Immacolata (1771),
Malta, cattedrale, due strumenti: l’organo maggiore del 1774 è collocato in cantoria nel transetto nord, il positivo, costato 185 scudi, si trova oggi nel Museo della cattedrale; Deliceto, chiesa parrocchiale di S. Antonio (1775);Orsara di Puglia, chiesa di San Nicola (1776) proveniente dalla concattedrale di Troia;Barletta, chiesa di S. Andrea, proveniente dalla chiesa di S. Cataldo (1776);San Sebastiano al Vesuvio, Santuario (data illeggibile); Trento, Conservatorio di Musica (1779); Forio d’Ischia, S. Maria di Loreto (A.D. MDCCLXII); Forio d’Ischia, Santuario S. Francesco di Paola (1781), strumento dotato di un curioso ed elementare sistema di pedali a staffa per l’azionamento dei mantici.

Il lavoro di doratura, ad esempio, viene effettuato con procedimenti diversi, attraverso la mistura sull’argento e l’utilizzo dei fogli d’oro zecchino per creare piacevoli contrasti di lucido e opaco ed ottenere in questo modo affascinanti effetti chiaroscurali.
I positivi presentano un aspetto peculiare dell’originaria napoletana, prodotti in numero imponente di esemplari e destinati alle chiese maggiori, ai piccoli oratori, alle cappelle delle confraternite, ai palazzi nobiliari. Per oltre due secoli e mezzo la tradizione si tramanda e non conosce soluzioni di continuità. Una caratteristica di questi manufatti è la presenza di una canna ad ancia a suono fisso chiamata “zampogna”, particolarità documentata dagli inizi del Seicento fino alla metà del XIX secolo. E’ situata all’interno della cassa ed azionata da una stecca indipendente a tirante. Il timbro non è sempre sonoro e viene utilizzata come pedale armonico per l’esecuzione, ad esempio, di melopee pastorali. Non mancano esempi di zampogna doppia con due canne e due note a distanza di quinta.

Ci troviamo di fronte ad un esemplare che degnamente rappresenta quel barocco che – come scrisse Harold Acton – “ebbe ad esprimersi a Napoli con la stessa gioia di un volo di usignoli liberati da una gabbia d’oro”.

Renato Lunelli, padre dei moderni studi organologici, non nascose il suo interesse per l’organaria napoletana: voleva scoprire anche negli organi il volto della città. “Nei timbri organistici – scriveva – troviamo accoppiata all’impronta mistica una caratteristica storico-ambientale; perché le sonorità dell’organo stilizzano le preferenze di un determinato ambiente musicale per particolari timbri sonori di un certo periodo di tempo”.

Se, da una parte, si è dovuto constatare per anni un saccheggio di questi superbi monumenti sonori, un avanzato concetto di tutela ha consentito recuperi e restauri sotto il controllo di studiosi e di esperti.

E’ stata edita anche una letteratura su queste tematiche, peraltro dibattute in incontri tra organologi di varie estrazioni. All’aspetto tecnico è oggi associato quello musicale e la fruizione di questi positivi è stata anche veicolo per la conoscenza della produzione musicale napoletana – grazie allo spoglio di fonti d’archivio da tempo avviato – eseguita su strumenti che rimandano ad uno degli aspetti più interessanti della cultura di Napoli, permeata da una vivacità intellettuale, com’è nella tradizione, sempre in bilico tra sacro e profano.

 

QUANDO IL FUOCO SI FA DIO di Giovanna Mulas – Numero 4 – Aprile 2016

art_mulas-copertina (1)
cat-storia
cat-cultura
Giovanna-Mulas-Verde
Rammento-che

quando, per la prima volta appresi, attraverso il detto e non detto dei vecchi della Zona, di sciamani – di norma di sesso femminile – dediti in tempi remoti, e durante la notte, a penetrare negli spazi di sepoltura per abbandonarsi a trance purificatoria e dialogo ispiratore coi defunti.

Pare che ogni tanto l’irrequietudine del gigante dia vita a terremoti ed eruzioni. Non pochi i poeti greci e romani che citarono i vulcani: Omero, Virgilio, Orazio, Ovidio e altri ancora hanno descritto l’irreale panorama delle eruzioni. Divinità romana di origine etrusca, Vulcano fu in seguito identificato col greco Efesto (in greco Ἥφαιστος, Hēphaistos), considerato il fabbro degli Dei. E’ il Dio del Fuoco terrestre, celeste divinità guerriera: di norma veniva raffigurato barbuto, descritto come protettore di quelle Arti che trovano base sul fuoco inteso come elemento cosmico e caotico.

Se per le antiche religioni mesopotamiche (e nella prima religione ebraica) tale figura è rappresentata da Lilith e in quella cristiana da Eva, per quella ellenica il complesso ruolo è stato affidato a Pandora.

QUANDO IL FUOCO SI FA DIO

 

Pare che il suo ruolo fosse inferiore perché claudicante, quindi imperfetto: la sua natura caotica poteva determinare una inadeguatezza nell’azione di raffinamento del mondo divino e umano.

art_mulas-2

In dubbio rimane la sua origine: ritenuto inizialmente una divinità ctonia, assunto dall’Olimpo solo in un secondo momento, rimane per altri di unica provenienza celeste. Comunque si devono al suo talento la creazione del carro del sole, i fulmini e lo scettro di Zeus, la corazza d’oro di Eracle, l’elmo di Ares, le armature di Achille e di Enea, il tridente di Poseidone.

Zeus, per l’infelicità del genere umano, diede incarico al dio del fuoco di modellare un’immagine umana servendosi di acqua e argilla; la figura non doveva avere nulla da invidiare alla bellezze delle dee. Efesto fu tanto bravo nel plasmarla che la donna che ne ebbe origine era superiore a ogni possibile immaginazione. Gli dei furono incaricati da Zeus di riporre in lei dei doni: Atena le donò delle vesti morbide e leggere a significare il candore, fiori per adornare il corpo e una corona d’oro, mentre Ermes pose nel suo cuore pensieri malvagi e sulle curve sinuose delle sue labbra frasi tanto seducenti quanto ingannevoli.
Narra Esiodo (Le opere e i giorni) 
“L’adornò del cinto 
E delle vesti, le donar le Grazie 
E Pito veneranda aurei monili, 
E de’ più vaghi fior di primavera 
L’Ore chiamate, le intrecciar corone. 
Ma l’uccisor d’Argo, Mercurio, a lei, 
Ché tal di Giove era il voler, l’ingegno 
Scaltri d’astuzie e blande pargolette 
E fallaci costumi …”

A questa complessa creatura fu dato nome Pandora (dal greco “pan doron” = “tutti i doni”) perché ogni divinità dell’Olimpo le aveva fatto un regalo. Mancava solo il regalo di Zeus che, ovviamente, fu superiore agli altri. Egli infatti, donò alla fanciulla un vaso con l’assoluto divieto di aprirlo. Il vaso raccoglieva tutti quei mali ancora sconosciuti all’umanità: la malattia, la pazzia, il vizio, la malattia e la fame…

Un sonno in grado di trascinarli all’inferno e ritorno. Il fuoco, elemento principe sia all’ingresso del mondo dei morti che all’uscita, sarebbe riuscito a salvarli soltanto se questi vivi eletti dai defunti, imboccando l’uscita del monte/grotta del demonio di turno, avessero camminato sollevando un piede, zoppicando e senza voltarsi indietro. 
Sinonimo del coraggio necessario ad andare avanti nonostante le difficoltà; continuare a vivere lasciandosi alle spalle un passato di assenze sofferte, comunque portatrici d’insegnamento. E quel fuoco: lume da seguire e di cui farsi scudo per uscire dalle tenebre dell’inconscio ed il viaggio necessario alla maturazione, alla crescita dell’Uomo in quanto Uomo; la fuga, vista come rinascita, dal pozzo profondo dell’Io.
Euripide, nel dramma satiresco “Ciclope“, attraverso l’invocazione di Odisseo così definisce il Dio del fuoco: “Efesto, signore dell’Etna, brucia la luminosa pupilla del tuo ignobile vicino, lìberati da lui una volta per sempre.” Ancora, si narra del gigante Tifeo, deciso a insidiare l’Olimpo. Giove, adirato per l’irrispettoso atto, dopo una lunga e turbolenta lotta decise di punire il gigante

obbligandolo a sorreggere la Sicilia tenendo i piedi sotto il Lilibeo (Trapani), il braccio destro sotto il Peloro (Messina) e quello sinistro sotto Pachino (Siracusa), la testa in prossimità dell’Etna.

Efesto, già all’età di nove anni dimostrò di possedere abili capacità nel forgiare i metalli: prese a creare gioielli d’ inestimabile bellezza, soprattutto per coloro che l’avevano accudito e amato. Quando Era venne a conoscenza dell’abilità del figlio si recò da lui per ordinargli di costruire un trono d’ineguagliabile bellezza e valore. Nel presentarsi al figlio, la Dea non rivelò la sua identità, ma Efesto comprese comunque e accettò il lavoro commissionatogli, mirando alla vendetta nei confronti di una madre che l’aveva ripudiato. Costruì per Era un trono interamente d’oro, tanto bello quanto maledetto: avrebbe imprigionato per sempre la Dea che, una volta seduta, non sarebbe più riuscita ad alzarsi. Si narra che, per potersi liberare dal maleficio, Era dovette promettere in sposa al figlio la bellissima Afrodite, e che, successivamente alla sua liberazione, permise al Dio del fuoco di poter tornare nell’Olimpo assieme alle altre divinità. Afrodite non riuscì mai ad accettare la decisione di Era e tradì frequentemente il marito – si racconta che decise di non congiungersi carnalmente con il Dio del fuoco e che, presa con la forza, si smaterializzò dal talamo.
Dunque Efesto abbandonò volontariamente l’Olimpo per rifugiarsi nelle profondità del Monte Etna, stufo delle continue derisioni da parte degli altri dei e per il suo aspetto fisico e per le infedeltà della moglie.

Teti e Eurionome, due ninfe del mare che si presero cura di lui decidendo di allevarlo in una caverna. 
Si narra che proprio la grotta che l’accolse proteggendolo, divenne la sua prima officina di fabbro.

Così come Lilith (ripudiata dall’Uomo ché ribelle) ed Eva (responsabile della cacciata dall’Eden) anche Pandora carica sulle spalle una travagliata eredità di disgrazie, destinate alla razza umana. Efesto: fuoco terrestre inteso in senso positivo, fuoco come elemento di civiltà. È possibile riscontrare un suo corrispondente in Loge o Loki della mitologia nordica – ricordiamo che, in onore di Efesto, venivano celebrate le Efestie, le Apaturia e le Calceia.

Sfere-Fine-Pagina
suferentzia
Sfere-Fine-Pagina

Secondo la maggior parte degli studiosi, Efesto era figlio di Zeus e di Era, mentre per Esiodo sarebbe nato soltanto da Era, per punire Zeus dei numerosi tradimenti con dee e mortali. Accadde però che, alla nascita di Efesto, la madre rimase terrorizzata dal suo aspetto, e decise di scaraventare l’innocente giù dall’Olimpo. Efesto precipitò in prossimità dell’isola di Lemno, e la caduta lo rese zoppo. Per fortuna il piccolo Dio fu raccolto da

Si deve ad Efesto anche la nascita della prima donna.

Trovo di forte interesse, sul tema, la figura de L’Anticristo descritto da Nostradamus nella visione dell’Apocalisse.

simbolo-articolo-marrone

Il vero aspetto dell’Anticristo, infatti, verrà individuato esotericamente attraverso il riferimento specifico a Vulcan-Hermes (IV, 29) cioè Vulcano, il nostro Efesto dio del fuoco. Per il Veggente, L’Anticristo/Efesto sarà addentrato nell’Arte Ermetica della quale falserà i principi. Il notorio riferimento di Efesto a Hermes o Ermete si ricollegherebbe alla tradizione ermetica secondo la quale il corpus di ancestrali dottrine magico-ermetiche giunte fino ad oggi, fu rivelato agli uomini da angeli caduti, discesi sul monte Ermone. Secondo M. Del Gatto (“L’Apocalisse di Nostradamus”), questa affermazione trova fondamento nell’apocrifo di Enoch (cap. 15-69), come pure in altri testi religiosi quali il Vecchio Testamento (Gen. 3-6), il Nuovo Testamento (Apoc. Cap. 12) e il Corano (cap. 15, 30-42).

I testi descrivono come gli angeli ribelli, cacciati dal cielo, scesero sulla terra per ostacolare l’evoluzione degli uomini, li istruirono sulla ‘scienza del fuoco’ e altri artifici contro la Natura, a causa dei quali gli antidiluviani vennero distrutti.

Dunque un Efesto Conoscitore? Un angelo ribelle esperto in scienze pagane? Probabilmente alla stregua di quell’Adamo profanatore dell’Albero della Vita (simbolo di processo cosmico), colui che pose l’uomo nella condizione di essere redento. 
La mia Sardegna è terra di vulcani spenti, forze della natura in stasi da tempo. Il vulcano sardo Monte Santo è chiaro esempio di come l’Isola non sia mai stata asismica. Diverse le alture che presentano, secondo gli esperti, caratteristiche vulcaniche: Monte Ruju, Monte Arana, Monte Cuccureddu, Monte Annaru, Monte Traessu e, appunto, Monte Santo. Le cime sono localizzate a ovest dell’Isola, a breve distanza dalla città catalana di Alghero e dalle spiagge di Bosa e Stintino.

I vecchi narrano che uno di questi monti ospiterebbe un immenso tesoro destinato ad una giovane coppia di futuri sposi.

I due dovrebbero scalare il monte la notte precedente le nozze, a mezzanotte, ora in cui giungerebbe una strega su un carro. Ma solo vendendo l’anima al diavolo, i fidanzati otterranno dalla strega i suggerimenti necessari ad accedere al luogo del tesoro. Naturale citare, nel contesto in oggetto, il mito tutto sardo di un Sant’Antoni che, giocando di astuzia, sfidò i diavoli entrando nell’inferno e rubò il fuoco per donarlo agli uomini. In ricordo di questo episodio, la notte del 16 e del 17 gennaio in centinaia di paesi della Sardegna si accendono dei grandi falò; riti pagani ancora vivi e sempre volti ad ingraziarsi una natura ostile, nei momenti più delicati di passaggio tra i cicli della terra. Tramite la figura di Sant’Antonio – protettore degli agricoltori, secondo la tradizione morto ultracentenario proprio il 17 di gennaio – , la Chiesa ha cristianizzato un culto ben più arcaico, teso a risvegliare la e alla luce dopo il lungo, freddo buio invernale. La festa è indubbiamente pagana, legata ai riti di morte e rinascita del Dio, della natura, del ciclo vitale.

 

L’ECLISSE DI UN REGNO di Cesare Imbriani – Numero 4 – Aprile 2016

art_imbriani-copertina
cat-storia
cat-cultura
Cesare-Imbriani
La-nobile

Nelle Memorie di Giuseppe Garibaldi si legge “La presenza di due legni da guerra inglesi influì alquanto sulla determinazione dei comandanti dei legni nemici, naturalmente impazienti di fulminarci, e ciò diede tempo a ordinare lo sbarco nostro. 

 

L’ECLISSE DI UN REGNO

 

simbolo1
art_imbriani-1
art_imbriani-2

Fu però inesatta la notizia data dai nemici nostri che gli inglesi avessero favorito lo sbarco in massa direttamente e con i loro mezzi. I rispettati e imponenti colori della Gran Bretagna imposero titubanza ai mercenari del Borbone.”
Si compì, pertanto, a Marsala, un fato che consentì con alterne vicende a Garibaldi, con i suoi Mille e più, di sbarcare in Sicilia, di traversare lo Stretto, arrivando in Calabria; di entrare a Napoli per poi ricongiungersi con le truppe di Vittorio Emanuele II.

Purtroppo l’atto finale che si concretizzò in tale vicenda unitaria, che comportò il dissolvimento del più grande Stato italiano dell’epoca, sembrava annunciato da tempo.

Era opinione non diffusa, ma ben presente, nell’ambiente di Corte, che fosse necessario incamminarsi sulla via delle riforme istituzionali volute dalla Francia,

sia per i suoi vecchi rapporti con la Sicilia, sia per la strategica collocazione geografica del Regno al centro del Mediterraneo.
Ciò faceva ritenere importante un meccanismo di avvicinamento e alleanza della Gran Bretagna al Piemonte come contrappeso alla situazione determinatasi in genere con la crescita di influenza della Francia in Italia, nello specifico nei riguardi dello Stato borbonico.
Nel Regno delle due Sicilie, vi era coscienza del fatto che vi fosse una sorta di isolamento sia per ciò che riguardava i problemi della politica interna, specie per il problema di un costituzionalismo mai risolto, sia per quelli di politica estera, dove, a fronte di un preteso approccio neutrale dei Borbone, non corrispondeva da parte delle grandi potenze dell’epoca una adeguata considerazione.

come si direbbe oggi, in termini geo-politici, la preoccupazione inglese derivava dal timore di un allargamento della sfera di influenza del neo-bonapartismo francese su una realtà, quella del regno delle due Sicilie, che essa riteneva strategica

1si veda, tra gli altri, Eugenio di Rienzo: il Regno delle due Sicilie e le potenze europee, 1830-1861

Fatti e indizi, unitamente ad errori strategici, sono facilmente individuabili. Spesso, discorsi da “salotto” pretendono di individuare astratte ragioni che, però, restano avulse dalla triste logica storica che produsse il dissolvimento del Regno dei Borbone. Innanzitutto, come è stato nella letteratura sull’argomento evidenziato1, il vero problema per il Regno delle due Sicilie derivava dal deciso mutamento di strategia della Gran Bretagna sulla questione italiana;

tant’è che, dopo una defalcante trattativa con il potente alleato, era stato presentato un progetto di Costituzione di stampo moderato, che, come nella tradizione della dinastia, fu però rifiutato dal re. 
Ciò che avrebbe salvaguardato dal pericolo di un’aggressione rivoluzionaria (come poi di fatto avvenne) grazie alla copertura politica francese, divenne una ennesima occasione mancata per abbandonare l’assolutismo monarchico e collocarsi tra le nazioni a struttura istituzionale democratica.

In aggiunta a ciò, Francesco ll rifiutò di partecipare ad un evento fondamentale per l’epoca.

La crisi italiana dopo la seconda guerra di indipendenza fu discussa nella conferenza di pace di Zurigo tra Austria, Francia, Piemonte e vide concretizzare ulteriori opzioni di adesione al Piemonte (prima i Ducati padani, poi il voto delle Assemblee di Firenze e delle legazioni pontificie).
Francesco ll, indotto in ciò anche da suoi non preveggenti ed incapaci collaboratori, sostenne che, ove vi fosse stata una partecipazione a detto convivio, ciò non avrebbe favorito il ruolo di neutralità e la indipendente natura del Regno delle due Sicilie.
Insomma anche il naturale alleato, la Francia, che unico avrebbe potuto controbilanciare la deriva all’isolamento del Regno delle due Sicilie – dovuto sia all’atteggiamento ottusamente anticostituzionale borbonico (che non metteva in campo le richieste riforme istituzionali), sia alla sua chiusura al dialogo esterno a cagione di una pretesa (ma non richiesta) neutralità che isolava nei fatti un regno con confini rappresentati dal mare e dallo Stato pontificio – era in difficoltà.
Ciò nonostante vari furono i tentativi francesi per perseguire e realizzare la sua strategia di influenza: ad esempio,

Napoleone III cercò di rilanciare il programma federativo dell’Italia basato su tre Stati sotto la influenza francese;

programma ovviamente osteggiato dalla Gran Bretagna che ormai vedeva lo stato piemontese come l’utile medium dei suoi disegni.
Ma le cose correvano ed arriviamo alle battute finali.
La corruzione operata ad opera dall’ammiraglio Persano sulla Marina napoletana facilitò lo sbarco sul continente delle truppe garibaldine: la Gran Bretagna, nella logica dei suoi interessi, rifiutò di unirsi alla Francia per impedire tale evento.
Un cupio dissolvi inarrestabile, per una dinastia sorda alle tendenze del vero corso della storia, si realizzava; iniziava la triste pagina nazionale di quella che è stata definita una unità debole e precaria, di cui ancora il Mezzogiorno sopporta le conseguenze.
Ma quella del Mezzogiorno post-unitario è un’altra storia, che merita ben più approfondite considerazioni, partendo da una unità nazionale in buona parte subita.

 

SAN PIETRO AD ORATORIUM di Roberta Lucchini – Numero 4 – Aprile 2016

art_lucchini-copertina (3)
cat-storia
cat-cultura
cat-arte
Accostarsi-alla

Trovarsi in terra d’Abruzzo in una calda giornata di inverno beffardo. Inverno stranito, addolcito, vestito con insoliti abiti a fiori in rilievo di meli selvatici e violette odorose; abiti confezionati anzitempo dall’atelier creativo di una Natura imbizzarrita, che rifugge sempre più spesso dai canoni stagionali, cadenzati, da queste parti, in termometri sottozero, coltri nevose sulle alture e risvegli pacati.

In effetti, l’impressione è confermata. Spento il motore, lasciata l’auto nel parcheggio, la sensazione è di un mondo sospeso, dove la sola colonna sonora che accompagna l’andare curioso su brecciolino e foglie morte è il cinguettio tra le querce e i cipressi secolari insieme al garrulo scrosciare del fiume Tirino da presso.

La scritta sull’architrave dà l’ulteriore informazione di un rimaneggiamento nell’anno 1100 (anno milleno centeno renovata), avvenuto secondo gli schemi dell’architettura romanica tanto presente in Abruzzo e che, ad oggi, caratterizza impianto e decorazioni dell’edificio sacro. Ai lati degli stipiti due bassorilievi, uno di Vincenzo Diacono, l’altro con capo coronato, che alcuni hanno indicato essere proprio re Desiderio, altri hanno attribuito a Davide. Ma Angelo è ansioso di aprire il portone; e mentre lui armeggia con la serratura, la mente divaga, chiedendosi chi e come abbia scelto, mille anni fa, di aggiungere quegli inserti di greche e intrecci e fiori e animali, posti a caso fra i conci della facciata senza un disegno preordinato, ma con la lungimiranza di lasciare traccia degli ornamenti provenienti dal nucleo originario della Chiesa o da reperti di edifici risalenti ad epoche ancora precedenti.

La mano non sa resistere all’istinto, si protende, sfiora quelle lettere incise nella pietra, ripercorre una ad una le concavità che lo scalpellino ha immortalato sul blocco e il costruttore ha, forse sbadatamente, forse perché analfabeta o forse per qualche ragione inspiegabile, inserito fra i conci capovolgendo la scritta. Ma l’essenza non muta: SATOR AREPO TENET OPERA ROTAS, il Quadrato magico.

simbolo1

SAN PIETRO AD ORATORIUM

 

Roberta-Lucchini

Trovarsi lontano dal clangore di voci e ingranaggi della tentacolare metropoli da cui conviene, talvolta, allontanarsi, per riconquistare spazi di silenzi e di solitudine che fanno bene all’anima.

Viaggiare alla scoperta di uno dei tanti, sconosciuti luoghi di pregio, forzieri di storia e di arte, che appartengono all’Abruzzo più interno, geloso dei suoi borghi, delle sue chiese, delle sue rocche

Con sorpresa, non è la facciata della Chiesa che si mostra arrivando, bensì le tre absidi circolari con monofore che corrispondono alle tre navate in cui è suddivisa la struttura basilicale. E cresce quindi l’attesa. Finalmente Angelo, il custode – ironia della sorte! – contattato telefonicamente qualche giorno prima, arriva a bordo della sua Ape verde, tipico veicolo per brevi percorsi nei piccoli centri, dove da molti decenni ha sostituito il mulo negli spostamenti fra abitazioni e poderi. Uomo solido, mani da lavoratore. 
Apre il cancello, evviva. Lenta discesa sul viale di gradini bassi e profondi in acciottolato che costeggia, a sinistra, il lato lungo fino alla facciata: lo sguardo voglioso ignora per il momento il primo tratto di parete, sapendo di tornarci a breve, per concentrarsi sul portale. I piedritti plastici, con decorazioni in rilievo non riprodotte simmetricamente, dai motivi naturalistici ad intreccio, accompagnano lo sviluppo verticale fino ai capitelli, le cui foglie sembrano staccarsi dal blocco di pietra. Un bellissimo archivolto con due corone concentriche di palmette, sullo stile di S. Liberatore a Majella, sovrasta l’architrave. A rege Desiderio fondata, vi si legge. Desiderio. A rifletterci, quasi uno stridore. Il fascino garbato di un nome tanto evocativo – etimologicamente riconducibile alla mancanza di stelle (de – sidus), di buoni auspici, di prospettive leggibili, da cui tensione verso l’appagamento – accostato alla figura di un re “barbaro”, l’ultimo dei Longobardi che, giunti in Italia alla guida di Alboino nella seconda metà del VI sec. d.C., imperversarono lungo la penisola nel corso di due secoli, fino alla definitiva sconfitta ad opera dei Franchi di Carlo Magno nel 774. Desiderio. Padre di Adelchi (col quale governò nell’ultimo periodo del suo regno allo sbando) e padre, forse, della sfortunata Ermengarda, data in sposa, forse, proprio a Carlo Magno e da questi, forse, ripudiata nel 771; eppure così reale per l’indimenticabile acconciatura e per lo straziante affanno in letto di morte cantati dal Manzoni. Desiderio, dunque, passò di qui, prendendo sotto la sua protezione, piuttosto che ordinarne l’edificazione (come si ritiene essere erroneamente indicato nell’iscrizione), il primo e più antico corpo della Chiesa, la quale è

menzionata come esistente nel 752 (mentre Desiderio salì al potere nel 756) dal Chronicon Volturnense, una delle testimonianze più valide e importanti per lo studio della civiltà alto­medievale, redatto fra il 1124 e il 1130 dal monaco Giovanni presso il monastero benedettino di S. Vincenzo al Volturno e conservato, nei suoi 341 fogli di pergamena, presso la Biblioteca Vaticana.

ancora distanti dalle corsie affollate del turismo di massa, salvo assurgere all’onore delle cronache quando un passo falso della Madre Terra ne scuote e sconquassa muri e certezze. 
Non si arriva qui per caso. Bisogna cercare attentamente quell’indicazione, sulla Strada Statale 153, che dall’uscita “Bussi sul Tirino” dell’Autostrada A25 raccorda, salendo, la via Tiburtina Valeria con la Strada Statale 17, all’altezza di Navelli. Finché, dopo circa 10 km di percorrenza, nei pressi del comune di Capestrano, trovi il cartello sulla sinistra: S. Pietro ad Oratorium. E la strada asfaltata si stringe man mano, permettendo il passaggio di un’auto alla volta, anche per l’invadenza non contenuta di ginestre e roverelle che si appoggiano ostinate sul manto stradale. Poi, l’asfalto lascia il posto al terreno battuto, e ti rendi conto che stai entrando in una dimensione diversa, troppo lontana dalla quotidianità convulsa lasciata ad un’ora e mezza da qui.

Il portone è aperto: sarà che fuori il sole è alto e caldo, sarà che le mura in pietra isolano dall’esterno, sarà la mancanza di arredi, ma una cortina di aria fredda si para davanti, come impedendo l’accesso.

Poi è subito chiaro. Angelo racconta, quasi sussurrando, del restauro dopo il terremoto, che ha ricostruito il soffitto, palesemente rinnovato nella copertura lignea, che ha rinforzato le colonne e che dovrebbe ripristinare il bel ciborio centrale, a base ottagonale, con tiburio decorato da insolite maioliche in ceramica colorata: ma i soldi sono finiti, per ora non c’è che da accontentarsi. Ecco il gelo, è evidente. Secoli di storia hanno patito lo scossone, e il cemento usato per rattoppare è ancora fresco, troppo fresco, non sufficiente a risanare la crepa, qui come negli altri posti feriti… Per fortuna l’abside centrale attira l’attenzione: l’arcone con gli affreschi di un color rosso quasi monocromo – una particolarità assoluta – in cui è ritratto il Cristo in trono, in stile bizantino, con il tetramorfo ai lati, al di sotto di cui si dispongono i 24 Vegliardi dell’Apocalisse; e la fascia inferiore affrescata con immagini di 6 monaci benedettini, stigmatizzati dalla tonsura del capo e dalla Regola fra le mani, disposti lateralmente alla finestra centrale dell’abside. Pensare che questi affreschi sono considerati una delle primissime testimonianze della pittura romanica abruzzese, ancora così vicina, nell’impostazione grafica, nella fissità degli sguardi, nella linearità dei panneggi, al prototipo dell’iconografia bizantina. Qualcosa, tuttavia, suggerisce di uscire, di tornare sui propri passi, lasciandosi alle spalle, lentamente, quelle colonne massicce, sei per lato, che creano la navata centrale lungo la quale, dal mese prossimo, e dopo la pausa invernale, incederanno fra emozioni e fiori freschi coppie di innamorati che qui decidono di sugellare il proprio patto per la vita. Non c’è esitazione, gli occhi sanno dove cercare. Eccolo, a destra del portale.

Più e più volte letto sui libri, adesso materializzato. Il bagaglio di notizie, in un attimo, fluisce in un’unica immagine onnicomprensiva. Il “latercolo (di forma quadrata), pentadico (con parole di cinque lettere), palindromo (leggibile nei vari sensi)”, secondo la sintesi di Rino Camilleri nel suo scritto del 2004 dedicato a questo argomento, ha affascinato, incuriosito e stimolato la riflessione di studiosi che in tutto il mondo si sono confrontati con questo enigma senza essere riusciti, ancora oggi, a trovarne una spiegazione univoca. Una sola certezza: rispetto ad altri palindromi diffusi nell’antichità, questo è l’unico, rinvenuto negli angoli più disparati del Mondo Antico (solo in Italia presente in almeno 30 siti), ad aver resistito per secoli, inciso su mattoni, vergato su papiri, graffiato sui muri, utilizzato a fini taumaturgici o esorcistici. Perché mai? Cosa vi si nasconde? Qual è la chiave del crittogramma? Il solo tentarne una traduzione è cosa ardua. Le varie interpretazioni proposte convergono sull’idea del Sator quale Creatore, Seminatore (in questo senso il termine è già presente in opere di scrittori latini quali Cicerone, Virgilio e altri), per cui l’idea sarebbe di una Entità che governa (tenet) con fatica (opera) le ruote (rotas), forse riferito alle Sfere celesti.

Ma la logica si incaglia nella parola arepo, dal significato oscuro (nome proprio di persona?, verbo?, radice celtica?),

da taluni considerato solo come un escamotage per garantire la simmetricità del termine opera. Possibile una tale superficialità? Possibile che una siffatta orditura di lettere, riconducibile a scienze esoteriche, legato a numerologia ed aritmomanzia, si perda in una simile leggerezza? Ma sciogliere il nodo non è facile. Ed ancora: il Quadrato è un simbolo pagano? Da escludersi, non conoscendosene di antecedenti a quelli rinvenuti nel 1936 a Pompei (sepolta, si ricorda, nel 79 d.C.) sul muro della Grande Palestra e sulla casa di Proquio Paculo (dove, fra l’altro, l’ordine delle parole è invertito, iniziandosi da Rotas, caratteristica comune ai Quadrati più antichi, superata in epoca medievale ma che si verificherebbe anche qui, a S. Pietro, se capovolgessimo il mattone). È quindi un simbolo cristiano? Probabile, come dimostrano centinaia di ricerche effettuate nel corso dei secoli, che hanno condotto alla sensazionale scoperta, negli anni Venti del Novecento, ad opera di tre studiosi (i quali non si conoscevano fra loro) che anagrammando le 25 lettere si ottiene la parola PATERNOSTER, ripetuta due volte, che si incrocia sulla lettera N (presente centralmente una sola volta e contenente una simbologia antichissima, collegabile fra l’altro alla lettera fenicia nun, segno di acqua o di pesce), lasciando escluse soltanto la A e la O: la cosiddetta tesi Grosser – Agrell dimostrerebbe che il Quadrato racchiude la preghiera cristiana per eccellenza (quindi già diffusa a pochi anni dalla morte di Gesù), con un riferimento esplicito all’alfa e all’omega dell’Apocalisse. Il che comporterebbe una diversa datazione dell’Apocalisse stessa, fino a quel momento ritenuta composta dopo il 100 d.C., dovendosi fare i conti con la ricordata distruzione di Pompei nel ricordato 79 d.C., presupporrebbe la presenza dei cristiani in questa località, suggerirebbe la lettura in chiave cristiana di tutta una serie di rimandi ai culti mitraici, pitagorici, celtici e alessandrini che, scavando, si rinvengono in questa piccola, esigua, griglia di lettere. Esigua?

Come può considerarsi tale se alla base vi è il quadrato, la figura geometrica che da sempre ha incarnato il collegamento fra Cielo e Terra, fra l’uomo e Dio, così nelle Piramidi egizie, come nelle Ziggurat, come nelle Piramidi dei Maja (per i quali la Terra stessa era quadrata), come nel Sancta Sanctorum del Tempio di Salomone, per giungere fino alla prefigurata Gerusalemme Celeste.

Maria Grazia Lopardi, studiosa aquilana dedita soprattutto alla storia medievale, all’architettura dei principali edifici sacri della sua città ed alla simbologia che vi si nasconde, si spinge oltre: nel Quadrato, fra l’altro comune, seppur con differenti segni grafici, a rappresentazioni rinvenute ai poli opposti del globo, come ad esempio nella civiltà Inca, si celerebbe non un semplice – eppur complesso ­ passatempo, ma la “Matrice”, l’Arché, il principio ispiratore dell’architettura sacra che ha permesso per secoli di innalzare templi facendo a meno di progetti scritti e disegnati, affidandosi piuttosto ai rapporti che scaturirebbero dal sistema di griglie che lega le varie lettere dello schema. C’è di più: nel Quadrato magico sarebbe contenuto il mistero costruttivo del Tempio di Gerusalemme, recuperato successivamente dai Cavalieri Templari ed arrivato fino alla Massoneria, i cui simboli si potrebbero ricondurre al Quadrato stesso. Salvo il volerlo considerare privo di significato (come pure qualcuno ha fatto), questo arcano non potrebbe essere un mero esercizio enigmistico, un banale bisticcio di parole, troppe le coincidenze, impossibile la casualità.

Sia che lo si voglia considerare di origine non cristiana, legato cioè a miti pagani, all’esoterismo o più semplicemente all’occultismo, o che si accolga l’idea di una realtà rivelata in esso secretato, forse la trasposizione di quel Verbo, di quella Parola alla radice del Creato, rimane un dato di fondo,

vale a dire l’intrigante gioco di parole che si inseguono, si amalgamano, si uniscono e poi separano in un intreccio senza fine di cui a noi, uomini del XXI secolo, sfugge il senso profondo. “Il mondo è stato creato con delle frasi, composte da parole, formate da lettere. Dietro queste ultime sono nascosti dei numeri, rappresentazione di una struttura, di una costruzione ove appaiono senza dubbio degli altri mondi ed io voglio analizzarli e capirli perché l’importante non è questo o quel fenomeno, ma il nucleo, la vera essenza dell’universo.” Così scriveva Einstein. Forse prima di lui qualcun altro lo aveva intuito. Molto accattivante. 
Le informazioni scoloriscono, però, e si fa strada un lieve senso di invidia per l’Iniziato, per colui che ha avuto la fortuna di sapere e di custodire, insieme a pochi altri, un segreto le cui fondamenta si sono perse nella nebbia dei tempi… Colui che forse non ha dovuto interrogarsi, perché aveva già tutte le risposte. 
D’un tratto le notizie si disperdono, come se il bagaglio si aprisse lasciando cadere indumenti in ordine sparso; o come se un groviglio di fili lanosi e intrecciati si dipanasse creando spazio nella testa, mentre, dopo un veloce saluto ad Angelo, i passi assecondano il richiamo, abbandonano il cortile, risalgono il vialetto, conducono inconsapevolmente verso quel corso d’acqua, così peculiare nelle sue caratteristiche biologiche da essere oggetto di studi e monitoraggi, come indicato nella bacheca di legno che precede l’accesso al bacino: il fiume Tirino inserito in un progetto dell’Unione europea (Aqualife) per la valutazione dello stato di conservazione di ecosistemi dipendenti dal sistema di acque sotterranee, la cui biodiversità è minacciata dalle attività antropiche, per giunta troppo incisive solo pochi chilometri più a valle, ove insiste il polo chimico di Bussi. Il dato scientifico, ancorché interessante, è al momento secondario: un invito troppo forte va accolto, troppo forte l’impulso di immergere la mano nello scorrere limpido e festante, avvertendo quel brivido che scuote i sensi, brivido vitale che per un attimo ti fonde con la natura intorno, cancellando ombre e perplessità. Ed in quell’attimo sembra di avvertire “il nucleo”, quella unità nella diversità spesso millantata, mai veramente assaporata. 
Ma è un momento. Poi tutto torna al proprio posto, nella realtà frammentata e diffratta di una vita di rincorse affannose. E, ripartendo, rimane alle spalle un mondo sfiorato, una Storia millenaria che porta con sé molte domande, spesso non soddisfatte, per lo meno non abbastanza. Qui si chiude il cerchio. Dubito, ergo sum.

 

MATTEO DE AUGUSTINIS, DIVULGATORE E MAESTRO di Umberto de Augustinis – Numero 4 – Aprile 2016

art_deaugustinis-copertina
cat-storia
cat-cultura
augustinis
La-summa

Matteo de Augustinis è stato un figlio del profondo Cilento, nel quale è nato 207 anni fa, a Felitto, un anno dopo lo scoppio della rivoluzione francese, da una famiglia che fu fatta oggetto della più bieca reazione da parte delle marmaglie del Cardinale Ruffo. 
La sua casa natale fu data alle fiamme, ed i suoi parenti costretti ad una terribile diaspora. Morì troppo presto, e nel luogo sbagliato (nel 1845 in quella Napoli, la cui classe colta era stata più che decimata con la restaurazione e chi che era sopravvissuto viveva nel sospetto e nel terrore), per essere incluso fin dall’inizio tra i padri della Patria.

MATTEO DE AUGUSTINIS, DIVULGATORE E MAESTRO

 

simbolo1
art_deaugustinis-1
art_deaugustinis-2

Incarcerato ben due volte perché di idee sovversive, Matteo de Augustinis era un giurista (avvocato), professore ed economista, incarnando un’idea consolidatasi nella tradizione partenopea: prima che economisti, bisognava essere giuristi, perché

L’abolizione del feudalesimo fu una grande svolta “epocale”, dovuta anche all’impegno di molti economisti, come Giuseppe Palmieri, che aveva scritto, tra l’altro, “Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli e altri scritti” (1788), in cui, per “pubblica felicità” si intendeva l’uscita del popolo dall’ignoranza e dall’oscurità verso la luce, secondo il più ortodosso illuminismo. 
L’idea delle pubblica felicità è fondamentale nell’insegnamento di de Augustinis. Dal post-feudalesimo era derivato un complicato contenzioso che contrapponeva anche i proprietari latifondisti (baroni) alle città (università), in cui si riconoscevano le classi sociali borghesi ed operaie in formazione. Il tutto si svolgeva in uno Stato rigorosamente chiuso all’esterno, che faceva della politica dei dazi il suo centro propulsore economico. Vaghi accenni riformatori duravano poco e creavano delusioni (anche a de Augustinis).

il grande evento di quegli anni era stato l’adozione, per il Regno delle due Sicilie, della legge n. 130 del 2 agosto 1806, il cui primo articolo recitava: «La feudalità con tutte le sue attribuzioni resta abolita. Tutte le giurisdizioni sinora baronali, ed i proventi qualunque che vi siano stati annessi, sono reintegrati alla sovranità, dalla quale saranno inseparabili».

Il primo da ricordare è Antonio Genovesi (che era morto a Napoli nel 1796), il quale, nel teorizzare la necessità di far uscire l’uomo dallo stato di “oscurità”, è colui che, per primo, aveva compreso la decadenza culturale, materiale e spirituale del Regno di Napoli e, quindi, si era reso conto della necessità di intervenire, invitando le nuove generazioni ad approfondire lo studio dell’economia. All’Università di Napoli aveva insegnato economia politica, con un insegnamento istituito appositamente per lui, denominato “Cattedra di commercio e di meccanica”. Genovesi teneva sempre le sue lezioni in lingua italiana e questo costituì il modo per diffondere ad ampio spettro lo studio dell’economia e delle scienze tra sempre maggiori segmenti di popolazione. Matteo de Augustinis si innamorò subito dell’idea di raggiungere il maggior numero di persone con l’insegnamento.
Tra i suoi “economisti defunti” sono anche citati: Antonio SERRA (calabrese di nascita, ma morto a Napoli intorno al 1625), un’originale figura di genio meridionalista, che ha scritto, mentre era detenuto al carcere della Vicaria, l’introvabile “Breve trattato delle cause che possono far abbondare li regni d’oro e d’argento dove non sono miniere”, con applicazione al Regno di Napoli, esaltando l’importanza del mercato interno per un’economia troppo ripiegata su se stessa; Giovan Donato TURBOLO, (prima metà del 1600) un precursore del mercantilismo, esperto della politica monetaria del Regno di Napoli, da Ischitella; Francesco MENGOTTI, collaboratore di Cesare Beccaria, e ministro della Repubblica Cisalpina, che aveva analizzato l’economia di mercato, osteggiata dal protezionismo borbonico, alla luce del mercantilismo; Pietro VERRI (morto nel 1797), in qualche modo precursore di Adam Smith, perché, nelle Meditazioni sull’Economia Politica (1771), aveva enunciato (per primo in forma matematica) le leggi di domanda e offerta, aveva spiegato il ruolo della moneta quale “merce universale”, aveva appoggiato il libero scambio e sostenuto che l’equilibrio nella bilancia dei pagamenti è assicurato da aggiustamenti del prodotto interno lordo (quantità) e non del tasso di cambio (prezzo). Matteo de Augustinis rimase affascinato dall’idea che la libera concorrenza potesse servire a distribuire correttamente la proprietà privata. In questo si spiega la sua ammirazione, testimoniata nell’opera “Lettere” per Ferdinando GALIANI (educato a Napoli), che, nel 1751, aveva teorizzato nel trattato Della Moneta il valore economico dei beni, passando attraverso una relazione nientemeno che tra quantità e qualità del lavoro, tempi di produzione, utilità e rarità del prodotto. Dalla lettura di Sallustio BANDINI (morto nel 1760), senese e gesuita, esperto in diritto bancario (la cui statua è a Siena, davanti alla sede del Monte dei Paschi), de Augustinis apprezzò l’idea di porre il sistema bancario a servizio di tutte le classi sociali, avvalorata dal libro di Lodovico Ricci, storico ed economista, che aveva pubblicato il libro “Riforma de’ pii Istituti della Città di Modena”.

In questo contesto, bisognava creare, da una parte, una coscienza tra la gente per sradicare l’idea stessa di vassallaggio e, nello stesso tempo, creare e utilizzare sia le nuove risorse che si erano liberate sia nuove frontiere di occupazione e produzione per ideare e favorire le riforme sociali, politiche ed economiche:

era, cioè, necessario coniugare la scienza giuridica e quella economica, nell’ambito della quale era fondamentale anche il ruolo della neonata statistica, che affascinò molto de Augustinis. Leggendo la prefazione, curata dall’autore stesso, del volume “Elementi di economia sociale” pubblicato a Napoli nel 1842, si nota che la dedica è fatta “ai grandi economisti defunti”, citati con rispetto e devozione, nel preambolo del libro. A costoro fa dire: “Noi non morimmo, ma viviamo, tuttavia, colaggiù, siam vivi nelle nostre opere e nella memoria di coloro che tanto amammo”. De Augustinis collega, dunque, la propria opera agli economisti defunti che vivono “colaggiù” e, cioè, nell’impegno dei suoi contemporanei. 
L’elenco che ne fa è lungo, ma ragionandoci sopra, è molto importante per capire da che parte stava.

La lettura della lista ha una sua logica e chiave interpretativa, che, senza mezzi termini, fa capire che Matteo de Augustinis si reputa una delle voci che intende saldare il nuovo al vecchio, assimilando e sviluppando la summa del pensiero della tradizione “colta napoletana”.

Da queste letture deriva a Matteo de Augustinis l’idea di ipotizzare un obbligo di investire nelle casse di risparmio, enunciata nel suo discorso sulla povertà degli Stati. In questo riecheggiano anche le idee di Cesare Beccaria.

 Nell’ambito dei grandi defunti non poteva mancare Gaetano FILANGIERI, brillante esponente dei “nobili liberali” napoletani, quelli dai quali derivò la rivoluzione del ‘99. Altri grandi economisti cari al Nostro furono Melchiorre GIOIA, che, dopo la caduta di Napoleone, aveva prodotto le sue opere maggiori, come il “Nuovo prospetto delle scienze economiche” e, ancor più, “Sulle manifatture nazionali” (1819), la cui eco si sente nell’ultima fatica di Matteo de Augustinis “della Valle del Liri e delle sue industrie”, che sarà, poi, anche la relazione tenuta a Napoli nei giorni della sua morte (1845) in un convegno di economisti italiani. Il libro sulle manifatture di Gioia, peraltro, non era stato gradito al Governo borbonico: il volume fu messo all’indice e Gioia fu arrestato, nel 1820. 
La stessa sorte, non foss’altro che per aver condiviso le tesi di Gioia, fu riservata a Matteo de Augustinis.
Da Carlo Antonio BROGGIA, autore di un Trattato de’ tributi, delle Monete, e del Governo politico della Sanità, de Augustinis trasse la logica del metodo nel gestire le risorse pubbliche in vista del loro uso sociale. Da Gian Domenico Romagnosi, de Augustinis derivò la convinzione che l’intera esperienza politico-sociale del XVIII secolo sia stata compresa, riassunta e condensata attraverso la fiducia nello sviluppo capitalistico e nella libera concorrenza economica, teorizzando che i poteri pubblici devono far rispettare le corrette regole della libertà di concorrenza. Di qui l’assoluta presunta centralità del pensiero di Romagnosi, secondo de Augustinis, nell’ambito del pensiero dell’800.

De Augustinis fu, in effetti, un acuto osservatore della realtà contadina ed industriale (come emerge nel discorso sulla Valle del Liri, di cui si è detto); non gradiva gli eccessi, ma si commuoveva davanti allo sfascio della sanità e della scuola della Napoli dell’epoca (pronunciò un accorato “discorso sulla povertà”). 
Si lanciava in ardite proposte “globali”, pur conoscendo l’Europa solo attraverso i libri: e così commise anche errori, come il considerare l’Inghilterra bersaglio di molti strali, pur apprezzando Adam Smith, o come arrivare a negare l’aumento della miseria nel Regno; ma,

la sua logica, in genere, è sempre quella di trovare forme di mediazione fra tendenze diverse, esaltando le specificità della vita del Sud, del Tavoliere pugliese, del Cilento, del casertano, della Calabria etc., e ritenendo, comunque, che ogni teoria economica possa essere, almeno in parte, buona per la causa di consolidare l’uscita del popolo di Napoli e del Sud da una situazione di abiezione, e di rassegnazione,

vera origine della sua povertà, stimolandone l’azione, il lavoro, il commercio e, dunque, la via della “felicità” nei termini elaborati da Genovesi. De Augustinis manifesta la fiducia che la strada intrapresa dagli economisti “amici” sia indefettibilmente esatta.

Simbolo-articolo

Napoli, in realtà, a quell’epoca, era un centro di prima grandezza in Europa per tradizioni di influenza nei confronti delle istituzioni e del potere politico locale, consolidate e robuste nella cultura del diritto meridionale; ma era anche, diremmo oggi, in qualche modo terribilmente isolata ed autoreferenziale a seguito delle purghe post-1799.

Matteo de Augustinis resta vittima di questa situazione: il destino non gli concesse il tempo di collocarsi nell’Italia unificata.

La sua speculazione scientifica si concentrò sullo studio e l’analisi della realtà del Regno e della sua gente. E, in questo, fu davvero grande: lo stesso famoso VII Congresso degli scienziati italiani, tenutosi a Napoli nel 1845, puntò a dimostrare quanto i giuristi-economisti napoletani fossero assolutamente attenti ad incrementare la “felicità” essenzialmente del proprio popolo, con questo attirandosi ovvie ed autorevoli critiche (in particolare dalla Germania, che vedeva la miseria della gente). 
Il tempo in qualche modo, fu, però, galantuomo, perché alcuni di quelli che si allontanarono da Napoli, come Pasquale Stanislao Mancini, allievo, al pari di Antonio Scialoja, di Matteo de Augustinis, contribuirono con la loro idea di mercato libero ed allargato alla formazione dell’ideologia risorgimentale ed ai fondamenti economici della nuova realtà, mentre, nella seconda metà dell’800, chi era rimasto, senza colpa, nella logica e nella storia della Napoli preunitaria ne fu soffocato dalla decadenza. 
Forse questa conclusione potrebbe portare a capire come un’intelligenza eccezionale, interamente cresciuta e misurata sulla cultura e sulla gente del meridione, ha pagato il suo amore verso il Sud con l’emarginazione, dovuta alla diffidenza della grande tradizione economica continentale, pur potendo dire di aver contribuito seriamente al meglio della tradizione socio-economica italiana post-unitaria.

simbolo1

 

SALENTO LE PIETREFITTE di Giusto Puri Purini – Numero 5 – Luglio 2016

art_purini-copertina (1)
cat-storia
cat-ambiente
cat-arte
Mediterraneo

“La vita è dono degli immortali, dono della filosofia, è vivere bene. Fu la filosofia ad erigere tutti quei torreggianti casamenti, tanto rischiosi per chi vi dimora? Credimi, felice età fu quella, prima dei giorni degli architetti, prima dei giorni dei costruttori”.

Negli ultimi anni, queste strutture sono diventate prelibate ed accattivanti per tanti compratori venuti da fuori che, nei limiti delle regole restrittive che le governano, le hanno trasformate ed adattate, creando comunque un nuovo mercato edilizio, ad uso soprattutto dei mesi estivi.
Nella nostra operazione, abbiamo, con l’architetto Nicolardi, cercato di bypassare questo passaggio del “dolore”, rendendo la masseria sostenibile e fruibile oggi, con l’uso di materiali biocompatibili, con tecniche innovative per l’approvvigionamento energetico, come l’uso di infissi a taglio termico in legno, di serpentine riscaldanti sotto il coccio pesto alimentate da una pompa di calore, mantenendo gli interni con la loro configurazione, fatta di volte a botte, nicchie, sporgenze, camini inseriti nello spessore delle pareti.
Il tentativo, insomma, è stato quello di mostrare anche alla popolazione locale, alle autorità che legiferano, alle Belle Arti che pontificano, come arrivare, attraverso un restauro conservativo, a migliorare la già vasta (intellighenzia) di queste strutture, in un passaggio ambizioso che dal “dolore” portasse al “piacere”, in questa miriade di Genius Loci presenti nel territorio”, affondati tra gli Ulivi sgargianti e maestosi…i terreni coltivati e gli orti..grondanti di prodotti…e di bontà.

OndeFineP

SALENTO. 
LE PIETREFITTE

 

Giusto-Puro-Purini

Così scriveva Seneca in una lettera all’amico Lucilio (frase tratta da “Le Meraviglia dell’Architettura Spontanea” di Bernard Rudofsky). Evidentemente, con acuto senso del paradosso, Seneca scriveva riferendosi a quella fase pre-storica in cui le esigenze primarie e l’uso di materiali locali (pietra) spingevano l’uomo, dopo una lunga fase nomadica, a stabilizzare la propria esistenza, diventando “costruttori” casuali, espandendo le loro già acquisite capacità artigianali e manifatturiere. Era una casualità relativa, perché, invece di costruire siti legati ad una logica economica espansionista, seguivano le antiche leggi della natura, legate ai cicli delle stagioni, dalla semina ai raccolti, all’accumulo di riserve alimentari per le stagioni difficili ed improduttive.

L’uso della pietra, quasi sempre locale, trovava una simbiosi con il fluire di un arcaico rapporto “religioso-emozionale” rappresentato dai simboli astrali, appartenenti al mito, e le raffigurazioni geometriche in terra,

quali Menhir, Dolmen, cripte votive con gigantesche coperture in lastroni di pietra e Tombe dei Giganti, con preziose geometrie ricurve e piccoli archi aperti, ritagliati dove le pietre toccavano terra (pietrefitte), ad evidenziare il rapporto con il cielo dell’anima del defunto (il KA-BA ). L’Area del Mediterraneo era un gigantesco crogiolo di civiltà diverse che interagivano tra di loro come i semi delle piante trasportate dai venti. E così in Sardegna, nella Tomba dei Giganti, appare evidente l’influenza dell’antico Egitto (KA-BA), così nelle antiche mura megalitiche dei Messapi di Puglia – antichi abitanti del Salento – con i tagli delle pietre puliti e precisi, ritroviamo influenze forse pre-celtiche (Stonehenge), che dalle aree del Maelstroem, il grande gorgo nel Nord…..giù, giù…attraverso Corsica e Sardegna, scivolavano nel Mediterraneo. Cosicché, da un lontano miscuglio Mito-Storia, il racconto delle pietre, come interfaccia nel dialogo cielo-terra, si compiva.
Qui, in Salento, i prodi Messapi dall’area di Manduria, nel nord del Salento, fin giù a Leuca, occuparono stabilmente e civilizzarono quasi tutte quelle terre, così in Sardegna e Corsica le culture nuragiche progredivano, fino alla costruzione di grandi insediamenti urbani, come sa Barumini, di inni architettonici dedicati alle preziose acque, le Fonti Sacre. Un’unica visione cosmica si affacciava nel Mediterraneo. In quella Valle Messapica, a ridosso di Leuca, il detto di Seneca, con cui inizia questo articolo, diventava “Fatto”.

I Contadini-Guerrieri, su quel letto di pietra che è il Salento, realizzarono quell’architettura “pre–storica” caduta quasi nel dimenticatoio, con somma creatività, immaginazione, capacità geometriche e riferimenti geografici, assi e rapporti cosmici, in uno splendido Feng-Shui messapico.
Furono architetti eccellenti e le loro capacità progettuali ed artistiche non furono disattese dai loro eredi, fino a quasi la soglia dei giorni nostri.

Un Miracolo? Usando ancora i materiali dei loro terreni, stratificazioni di pietre che da morbide tufacee diventano dure – il capraio – realizzarono, con tecniche antiche, fascinose costruzioni (Pagliare), masserie contadine, depositi per i raccolti, complessi ed articolati muri di cinta con massi giganteschi, tagliati e levigati, in un continuo variare di tipologie, forni, muri a secco dovunque, ed osservando le architetture dei proprietari terrieri si lanciarono nelle volte a stella, a botte, architravi sagomate, archi in pietra e colonne.
In una di queste masserie contadine del basso Salento ora vi abito io con mia moglie Tamara, da circa un anno, liberatici parzialmente di quell’ingombrante peso tra la “La Grande Bellezza”… e “La Totale Inefficienza”… che oggi rappresenta Roma…(vi sono nato…è da sempre nella mia mobile vita di architetto, la base di lancio per tante avventure in molteplici direzioni).
Con l’aiuto di Vito de Giovanni (che ci ha trovato la Masseria), dell’Impresa di Stefano Russo, erede delle “conoscenze” strutturali, e soprattutto dell’architetto Luigi Nicolardi, per almeno 10 anni sindaco di Alessano, abbiamo realizzato un restauro conservativo di una di queste architetture contadine, dove le pietre stesse raccontano, una ad una, la difficoltà degli scavi, della posa in opera, della costruzione delle volte, del coccio pesto a terra e così via, testimoniando in modo didascalico e “rosselliniano”, se posso dire, il progredire del loro tempo, dei loro usi e costumi.

Erano tempi duri ed i figli dei primi costruttori e gli attuali nipoti e pronipoti le hanno chiamate le case del “dolore”.
La vita ed i raccolti erano duri e faticosi.

Correlato:

Luigi Nicolardi

I “LUOGHI DELL’IDENTITÀ SALENTINA”

 

I “LUOGHI DELL’IDENTITÀ SALENTINA” di Luigi Nicolardi – Numero 5 – Luglio 2016

art_nicolardi-copertina
cat-arte
cat-storia
Luigi-Nicolardi
La-Campagna

Se solo volessimo immaginare quale fosse l’immagine del paesaggio salentino anche solo agli inizi del secolo scorso, molto probabilmente dovremmo pensare una grande distesa di banco roccioso che costituiva la crosta terrestre. Ancora oggi, basta fare una passeggiata nella campagna, ormai abbandonata, per rendersi conto della enorme quantità di pietre che vi sono depositate. Ovunque intorno si vedono pietre. La maggior parte sotto forma di muretti a secco che delimitano le proprietà, definiscono confini, disegnano terrazzamenti; oppure sotto forma di ricoveri temporanei, fabbricati monocellulari pajare, lamie, caseddhe, furneddhi, ancora ammucchiate l’una sull’altra a costituire enormi “specchie”, o come imponenti blocchi monolitici, dolmen e menhir.

 

I “LUOGHI DELL’IDENTITÀ SALENTINA”

 

OndeFineP
art_nicolardi-1
art_nicolardi-2

La pietra, dunque, domina incontrastata il paesaggio salentino. Pietre mute all’apparenza, ma, per chi le sa ascoltare, parlano e raccontano storie di dolore, di sacrifici e di sofferenze di intere generazioni

impegnate a strappare alla dura crosta porzioni sempre più ampie di territorio da destinare dapprima ai coltivi e poi alla propria residenza.
Lo aveva intuito bene Maria Brandon Albini, quando nel 1959, nel suo “Viaggio nel Salento”, così si esprimeva: “la campagna svela subito la sua struttura di altopiano leggermente digradante verso il mare che lo cinge da tre lati; ossatura antica, petrosa, bianca, sulla quale è posato un sottile strato di terra, trenta centimetri circa, rossa e argillosa.

Lo scheletro della penisola salentina par quello di un mammuth pietrificato, che si scuota di dosso la terra che le piogge d’autunno o il badile del contadino tentano di buttargli addosso. La lotta millenaria del contadino contro la natura è scritta, a ogni passo…”.

Maria Brabdon Albini, prima ancora di Ernesto De Martino con la sua “Terra del Rimorso”, ci restituisce, fissandola in una sorta di grande dagherrotipo, l’ultima immagine di una civiltà contadina che non era ancora stata toccata dalla modernità; ormai ridotta allo stremo, provata e privata da lunghi secoli di soprusi e di sfruttamento; tutta arroccata su se stessa, sui suoi riti e sulle sue tradizioni, sui suoi miti e sulle sue leggende; scavata nei volti e nell’animo delle sue genti, che fondava la propria esistenza sui principi di solidarietà, di accoglienza, di tolleranza e di condivisione tra le genti. Una civiltà che fondava la propria esistenza sui principi di solidarietà, di accoglienza, di tolleranza e di condivisione tra le persone e sul mito dell’autosufficienza famigliare, incentrato sul rapporto utilitaristico con la natura, che le consentiva di non estinguersi e al tempo stesso di superare le avversità.
Lo studio dell’Antropologa rappresenta l’inizio della fine della civiltà contadina; da quel momento in poi, la storia non sarà più la stessa, il Salento viene aggredito dalla modernità. Gli anni che seguiranno saranno caratterizzati in particolar modo dal progressivo abbandono della campagna da parte dei “popliti” che, fino ad allora, l’avevano vissuta secondo due modalità: da un lato, l’emigrazione verso il nord Italia e verso il nord Europa; dall’altro, lo spostamento di quelli rimasti nei piccoli paesi, alla ricerca di maggiori comodità e di una vita più consona per sé e per i propri figli, che la campagna non era più in grado di offrire perché incapace di produrre reddito.

Sul finire degli anni ottanta, quella civiltà contadina – con i suoi riti, i suoi miti, le sue credenze, le sue superstizioni, le sue tradizioni che erano alla base dello studio della Brandon Albini – era quasi del tutto scomparsa.

Quel mondo arcaico fatto di panare, lamie, furneddhi, pozzi e pozzelle, dolmen e menhir, muretti a secco, masserie, di licurda, di cicidi e tria, di acqua e sale, di ficandò, di diavulicchi e di municeddhi, di Santi, di tarantate e di pizzicate si era completamente dissolto come neve al sole nel giro di due decenni.
La scomparsa della civiltà contadina aveva lasciato dietro di sé “innumerevoli segni”, scolpiti nella pietra, che nel corso di secoli si erano depositati sul territorio e che i nostri padri e le nostre madri avevano in fretta e furia abbandonato perché considerati “i luoghi del dolore e della sofferenza”.

cat-ambiente

Passeggiare nella campagna salentina abbandonata vuol dire ripercorrere quella “civiltà di pietra” così tenacemente radicata in quel sottile strato di argilla, fare i conti con questo recente passato.

Dopo secoli di soprusi, di sofferenze, di delusioni, quei “luoghi del dolore” sono diventati il simbolo di una rinascita culturale dell’identità salentina. Per una sorta di nemesi storica la nuova identità salentina si fonda proprio sulla riconoscibilità di quei caratteri che per secoli hanno rappresentato la subalternità. E’ bastato scrostare appena la polvere che ricopriva quel recente passato per scoprire che sotto c’era il fuoco ardente della passione di un popolo che aveva tanta voglia di rinascere.

Il veleno della taranta, che pure aveva alimentato tante storie, tante illusioni, tante paure, tante credenze popolari custodite gelosamente dentro le mura domestiche, ritorna a scorrere ancora dentro le nostre vene e dentro le vene dei nostri padri;

solo che, questa volta, non provoca più convulsioni, ma la gioia di un popolo che – liberatosi dalle catene della storia che, per secoli, l’avevano tenuto relegato ai margini delle vie dello sviluppo – non ha più paura del proprio passato.
Tuttavia, se, da un lato, tutta questa attenzione al passato ha consentito il recupero di una memoria che rischiava di perdersi; dall’altro, ha provocato una frattura tra presente e futuro.
Oggi le condizioni sono cambiate: ai tempi di internet non è più necessario affidare alle ali di una rondine il canto d’amore per l’innamorato/a nella campagna abbandonata al suo inesorabile declino, la taranta non morde più i piedi scalzi delle contadine costringendole a lunghe ed estenuanti danze di guarigione. Di ben altri antidoti ha bisogno la società contemporanea per curare i suoi mali: non basta più ballare fino allo sfinimento per liberarsi dalle tossine. Ben altri veleni la affliggono, ma, ancora una volta, sicuramente il più mortale di tutti è quello della perdita della memoria. Questo presente, ancora una volta è incapace di prefigurare un futuro, ma sta prendendo le distanze dal suo passato. I “luoghi dell’identità salentina” stanno diventando “non luoghi”, sacrificati come sono alle regole del mercato capitalistico che li svuota dei propri significati. Oggi, la campagna, lungi dall’essere il luogo del lavoro e dell’incontro di un popolo, sta diventando sempre di più un “luogo dell’eterotopia”, sempre più avulso dal contesto sociale, dove si va solo per trascorrere brevi periodi di riposo senza più nessun rapporto con essa.

Oggi più che mai occorre impegnarsi per continuare a tenere unito quel filo rosso che lega il passato al futuro; non più solo per esorcizzare il veleno del ragno, ma per continuare a esorcizzare i nuovi veleni che la società contemporanea ci propina

quotidianamente, che sono legati alla incapacità di accoglienza nei confronti dei migranti, allo sfruttamento del lavoro nero e clandestino, alla perdita del lavoro e al progressivo impoverimento di una parte cospicua della popolazione; al nuovo senso di estraniamento che ha colpito il ceto medio della nuova società capitalistica.

La campagna deve tornare ad essere il luogo entro cui depositare i nuovi progetti della trasformazione urbana con un occhio al passato, ma con lo sguardo dritto verso il futuro.

Correlato:

Giusto Puri Purini

SALENTO. LE PIETREFITTE

 

LA DEA E I SUOI TABÙ di Giovanna Mulas – Numero 5 – Luglio 2016

art_mulas-copertina
cat-cultura
cat-storia
Giovanna-Mulas
Dall-Economico

“Che cosa poteva sapere, Socrate, quando l’ho presa con me? Non aveva ancora quindici anni quando è venuta nella mia casa; fino allora era vissuta sotto stretta sorveglianza, doveva vedere meno cose possibili, udirne il meno possibili e fare meno domande possibili”.

Altra causa frequente di ripudio era la sterilità; rimandando al padre la moglie sterile, lo sposo adempiva addirittura a un obbligo religioso e patriottico. E in ogni caso l’eventuale gravidanza della moglie non costituiva ostacolo al ripudio. Il marito che ripudiava la moglie, però, doveva restituirne la dote e questa costrizione costituiva il solo freno – spesso efficace – al moltiplicarsi dei divorzi.

Ecco, questa è probabilmente la parola magica: follia, ma non rappresenta IL Tutto, ché sarebbe riduttivo parlare soltanto di follia,

LA DEA

E I SUOI

TABÙ

 

A scrivere queste righe è una donna ‘diversa’: forse più forte o forse no ma che in un capitolo nuovo, questa nuova vita, vive l’amore amata di stesso amore; ciò che ogni donna è portata fisiologicamente a vivere e dovrebbe vivere: in libertà, dignità, purezza.

art_mulas-1

rivolgersi all’arconte, protettore naturale degli incapaci, e consegnargli una dichiarazione scritta dove venivano esposti i motivi sui quali si fondava la sua richiesta di separazione. E’ probabile che l’evidente infedeltà del marito non bastasse a far deliberare all’arconte la separazione giacché i costumi tolleravano la libertà sessuale del maschio; al contrario, percosse e maltrattamenti subiti dalla moglie, se accertati nel corso dell’inchiesta, costituivano motivo valido seppure l’opinione pubblica sarebbe rimasta comunque sfavorevole alle donne che si separavano dai mariti: “Lasciare lo sposo è infamante per le donne e non è loro permesso di ripudiarlo” (Euripide, “Medea”, vv.236-237).
Sappiamo che esistono ferite, nella vita, che non rimargineranno.
Il tempo potrà ammansirle, vestirle di una nuova prospettiva di saggezza e serenità, ma, mai, queste ferite potranno cicatrizzare del tutto. Vuoi perché sono troppo profonde; vuoi perché, oramai, fanno parte di noi, e solo con noi scompariranno. 
E ogni volta che una donna, Sorella di Lune e Destino, muore per mano di un amore malato, la mia ferita grida ancora. A volte vorrei che smettesse, qualche volta io stessa ho voluto smettere, ma il richiamo alla vita è sempre stato, purtroppo o per fortuna, più forte e maledetto, istintuale. La vita mi ha chiamato quando pensavo di non avere più nulla da darle o da risponderle, e credo che è pure per questo che io, oggi, sono qui a raccontarlo.

L’opera venne commissionata dal Vescovo di Ariano, Mons. Diomede Carafa al Pittore suo amico Leonardo da Pistoia, e allude alle tentazioni dalle quali si deve – dalle quali il prelato deve – trovare la forza di allontanarsi. 
Il Quadro raffigura un San Michele che abbatte il diavolo con un incantevole volto di donna. Il viso tentatore era quello della Nobildonna Vittoria d’Avulso, che aveva fatto perdere la testa al Carafa. Ancora oggi, a Napoli, una donna che reca solo guai è detta ‘bella come il diavolo di Mergellina’.
Dea uguale viaggio?: nell’ipocrisia, nei tristi, malsani pregiudizi di donne nei confronti di altre donne, noi che dovremmo essere sorelle e unite di quella forza che la Natura già ci dona semplicemente perché donne, creatrici, mestruate sempre, portatrici partorienti di energia.

Tale era dunque l’ideale della buona educazione, della sofrosine per le fanciulle. E’ il tutore della giovinetta – padre o nonno o tutore legale -, nel momento giusto, a scegliere il marito decidendo per lei e senza che il consenso dell’interessata fosse necessario. La principale ragione del matrimonio era di ordine religioso: ci si sposava per avere dei figli maschi, almeno uno che perpetuasse la razza e assicurasse a suo padre il culto che questi aveva dedicato ai suoi antenati, indispensabile per la felicità del defunto nell’al di là (tutta la vita era scandita dal ritmo delle feste religiose della famiglia, del demo, della città e dalla minuziosa esecuzione dei riti ereditati dagli antenati). Le fanciulle potevano sposarsi appena raggiungevano la pubertà, verso i 12 o 13 anni ma, in genere si aspettava che ne avessero 14 o 15. Esiodo consigliava all’uomo di sposarsi verso i 30 anni con una fanciulla di 16 (“le opere e i giorni”, vv. 696-698).

Il matrimonio legittimo fra un cittadino ed una figlia di cittadino era caratterizzato ad Atene dall’engyesis (“consegna di un pegno”) ch’era più di un semplice fidanzamento.

Era in realtà un accordo che si ha ragione di credere avesse luogo presso l’altare domestico; una convenzione orale ma solenne fra due persone: da una parte il pretendente, dall’altra il kyrios della fanciulla che era il padre, se ancora in vita. Ci si scambiava la stretta di mano e qualche frase rituale (da “La fanciulla dai capelli corti”, Menandro, vv.435-437):
PATAICOS -ti do questa fanciulla perché metta al mondo dei figli legittimi.
POLEMON – Io l’accolgo.
PATAICOS – Aggiungo una dote di tre talenti (il talento valeva 6.000 dracme, n.d.r.)
POLEMON – L’accolgo con piacere.
“Abbiamo le cortigiane per il piacere, le concubine per le cure quotidiane, le mogli per darci dei figli legittimi ed essere le custodi fedeli delle nostre case”. (Pseudo-Demostene, ‘Contro Neaira’, 122). E ancora, da Esiodo, ‘Le opere e i giorni’, vv. 376-377: “Abbi un figlio unico (…) E’ così che la ricchezza cresce nella casa.”.

Ben diversa era la situazione quando a volersi separare era la moglie, collocata dalla legge in una condizione d’endemica incapacità giuridica. La donna aveva una sola possibilità:

Una singolare tela, che va sotto il nome di ‘San Michele che calpesta il demonio’ o anche ‘Diavolo di Mergellina’, è conservata nella Chiesa di Santa Maria del Parto a Napoli.

Italia, i dati: dall’inizio del 2016, almeno 58 donne sono state uccise dal partner o dall’ex fidanzato. Tornando indietro nel tempo al gennaio 2015, risultano 155 le uccisioni. Telefono Rosa denuncia 9.000 casi di violenza e altri mille di stalking; quindi, una legge che non basta.
Una donna su tre (circa 6 milioni e 788mila persone) ha subìto violenza fisica o sessuale almeno una volta nel corso della vita. La percentuale è il 31,5% delle donne italiane fra i 16 e i 70 anni. Il 20,2% ha subìto violenza fisica, il 21% violenza sessuale, il 5,4% (un milione e 157mila) le forme più gravi della violenza sessuale come lo stupro (652mila) e il tentato stupro (746mila).

simbolo1

Un marito aveva sempre il diritto di ripudiare la propria moglie, anche senza alcun motivo valido. L’adulterio della donna, quando giuridicamente accertato; rendeva addirittura obbligatorio il ripudio, pena l’atimia per il marito che non lo intimasse.

Curioso che, ancora oggi, si debba rimarcare che a una donna la libertà spetta di diritto, per nascita. 
La mia è una storia come tante, e per raccontarla volo indietro nel tempo, al 2001, in un’apparentemente tranquilla cittadina di provincia, la mia Nuoro: una richiesta di divorzio dall’uomo che era mio marito, tre tentativi di omicidio subìto dei quali l’ultimo, per strangolamento e accoltellamento, avvenuto davanti agli occhi dei nostri quattro figli, allora tutti minori.
Sospesa tra la vita e la morte, un limbo.
Di quei giorni ‘non miei’ – tre anni di distacco dalla vita, dal mondo – porto, voglio portare, il ricordo nebuloso; incerto.
Infiniti perché, il pozzo profondo della depressione, il buio e l’alcol, la profonda crisi artistica, intima: perché ero viva, perché io e perché a me, perché i nostri bambini avevano dovuto assistere a tutto questo, perché lui aveva tentato il suicidio, perché lui a me, dove avevo sbagliato, come e ancora perché…e lui, che fino al giorno prima aveva ripetuto di amarmi alla follia.

e offensivo nei confronti delle sorelle che, per mano di un amore malato hanno perso e perdono la vita, o il sorriso o la speranza…donne che, in ogni modo, si sono perse dentro e non sempre riuscendo a ritrovarsi.
Troppi nomi, tabù e colpe, croci.

Viaggio in una chiesa misogina, in uno Stato che tenta di curare la donna vittima di violenza, tampona le ferite ma, paradossalmente, lo fa senza intaccare la radice della violenza, senza punire severamente chi la attua.

Si muore a “mani nude”, per le percosse, strangolamento o soffocamento: così nel 2013 è morta, uccisa, una donna su tre.

A rilevarlo è il rapporto Eures che mette in relazione tale modalità di esecuzione ad un “più alto grado di violenza e rancore”: 51 vittime, pari al 28,5% dei casi; in particolare le percosse hanno riguardato il 5,6% dei casi, lo strangolamento il 10,6% e il soffocamento per il 12,3%. Di poco inferiore la percentuale dei femminicidi con armi da fuoco (49, pari al 27,4% del totale) e con armi da taglio (45 vittime, pari al 25,1%).
La violenza fisica è più frequente fra le straniere (25,7% contro 19,6%), mentre quella sessuale più tra le italiane (21,5% contro 16,2%). Le donne che subiscono più violenze fisiche o sessuali sono le separate e le divorziate; i casi più gravi di violenze vengono perpetrati dai partner attuali o ex compagni. Il 62,7% degli stupri è commesso da un partner attuale o precedente. Gli sconosciuti sono nella maggior parte dei casi autori di molestie sessuali (76,8%).
Aumentano le violenze che hanno causato ferite (dal 26,3% al 40,2% da partner) e il numero di donne che hanno temuto per la propria vita (dal 18,8% del 2006 al 34,5% del 2015). Il 16,1% delle donne (3 milioni e 466mila) ha subìto stalking nel corso della vita, nella metà dei casi dall’ex partner.
Oggi e ieri la violenza continua a nutrirsi di mala cultura, di omertà, di informazione perversa, di Non legge. Denunciamo la violenza e ovunque: oggi, domani e sempre. Come madri, insegnamo la Non violenza e che finalmente, in questa Italia da emergenza femminicidio, si faccia una Legge, giustizia vera contro la violenza.

Da Posidippo, frammento 11: un figlio lo si alleva comunque, anche se si è poveri, mentre una figlia la si espone anche se si è ricchi.

 

CASTEL DEL MONTE di Roberta Lucchini – Numero 5 – Luglio 2016

art_lucchini-copertina (2)
cat-arte
cat-storia
Roberta-Lucchini
L-Eredità-federiciana

La dovizia di informazioni che liberamente circolano sulle autostrade di cavi in rame o fibra o sui corridoi aerei rappresenta, come noto, la grande opportunità di conoscenza mai offerta all’essere umano; il quale, nel percorrere corsie talvolta sconosciute, può imbattersi, per curiosità o semplicemente per caso, in notizie che, seppure singolari, accendono un qualche anelito di riflessione.

A sostegno di tale ipotesi sia l’analisi delle tecniche costruttive, del sistema di raccolta delle acque pluviali, di quello di scolo all’interno delle stanze (che, si ricorda, sono otto al pian terreno e otto al piano superiore, di forma trapezoidale, con grandi caminetti solo in alcuni ambienti), sia la presenza di veri e propri bagni in alcune delle torri ottagonali esterne e di sistemi di adduzione dell’acqua negli stessi, sia, ancor prima di tutto questo, la valutazione della geometria stessa della costruzione, cioè la base ottagonale, presente già in epoca romana nelle strutture termali (si pensi, ad esempio, all’Aula Ottagona nelle Terme di Diocleziano) e successivamente nell’architettura cristiana del Fonte Battesimale.

Vien da pensare qui, come per contrappasso con la possanza di queste mura, alla freschezza dei giovani scalpitanti, ai ragazzi in età scolare che dovrebbero venire a conoscere luoghi come questo per liberarsi da un nozionismo sterile, che non può dare conto della complessità e della ricchezza di molti scenari e personaggi.

CASTEL

DEL

MONTE

 

Ora, il visitatore, trovandosi nell’abbraccio del cortile centrale, mentre osserva i tre portali di accesso al piano terra o le tre porte-finestre del piano superiore incorniciate di breccia corallina, può sentirsi libero di sposare l’una o l’altra opzione, od anche di non prendere posizione.

art_lucchini-1 (1)

Nel farlo, però, deve ammettere che le parole altisonanti utilizzate dalla Principessa Von Hohenstaufen nella sua domanda di restituzione di Castel del Monte, secondo cui quest’ultimo dovrebbe diventare “omfalos della sapienza, scienza, centro della pace e dialogo tra i popoli”, parole capaci, ad una prima lettura, di strappare un sorriso, non risultano totalmente prive di una qualche suggestione, se consideriamo che l’origine di tutto ciò è nella personalità eclettica, poliedrica, illuminata e affascinante del preteso trisavolo Federico II, colui che, fra l’altro, preferì alla guerra guerreggiata la via del dialogo col sultano Al-Malik al–Kamil. E se combiniamo il tutto con le affermazioni di De Biase, secondo il quale “i cittadini possono diventare i maggiori tutori e fruitori del patrimonio culturale”, sorge spontanea un’ulteriore riflessione, che assume caratteri più generali. Vien da pensare qui al testamento che abbiamo il dovere morale di redigere.

Senza dimenticare che il pericolo di isolamento cui i nativi digitali sono esposti, altra faccia della medaglia rispetto alla facilità di reperire notizie a basso costo sul web, potrebbe allontanarli dal desiderio di entrare “fisicamente” in contatto con la realtà, accontentandosi del mondo virtuale. Si dovrebbe approfittare in positivo, come d’altronde si sta già facendo, delle limitazioni che la cronaca recente impone alle istituzioni scolastiche circa le mete delle cosiddette uscite didattiche, orientate oggi, per esigenze di sicurezza, alla scoperta della nostra Penisola: siti pregnanti come questo devono essere stabilmente inseriti all’interno dei circuiti delle gite degli studenti che frequentano gli ultimi anni delle scuole secondarie di primo e secondo grado, e selezionati innanzitutto per familiarizzare con periodi della nostra storia che sono spesso percepiti come ostici e troppo distanti; secondariamente

cat-sud

Capita così di leggere che, nel 2009, la Principessa Yasmine Aprile, che si dichiara erede unica della casa Hohenstaufen, abbia inviato un telegramma al Comune di Andria ed alla Regione Puglia per ottenere la restituzione di Castel del Monte, la celeberrima costruzione sulla Murgia voluta nel XIII secolo dal suo presunto avo Federico II di Svevia, lo Stupor mundi, adducendo a pretesto l’estremo degrado, l’incuria e l’ignominia in cui il Castello sarebbe piombato. A parte la leggerezza di una simile richiesta, erroneamente indirizzata a destinatari che non godono della proprietà del sito, avendo lo Stato italiano acquistato Castel del Monte nel 1876 dalla famiglia Carafa d’Andria per venticinquemila lire; a parte che lo stesso è entrato nel 1996 nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’ Unesco (evento di cui è stato celebrato il Ventennale lo scorso 27 maggio presso la Sala Consiliare del Comune di Andria); a parte l’aver verificato che la principessa è avvezza a rivendicare possedimenti “irrinunciabili e imprescrittibili” appartenuti ai suoi antenati, come ha fatto per la reggia di Carditello e per l’Isola di San Giulio sul lago d’Orta; tuttavia un moto di orgoglio meridionale, in cerca di redenzione per i continui e frustranti luoghi comuni sulla trascuratezza del Sud e la latitanza delle istituzioni pubbliche anche nella gestione del patrimonio culturale, innesca quel desiderio di “accertamento” dello stato dei fatti che solo può dare il reale polso della situazione.

Cosa significa recarsi oggi a Castel del Monte,

vale a dire presso uno dei trenta siti storici più visitati in Italia, il primo della Puglia, in cui nel 2015 si sono registrate circa 250.000 presenze, con un incremento di circa il 20% rispetto all’anno precedente?

Vuol dire, come testimoniano i numeri, doversi ricredere rispetto alla drammatica situazione dipinta dalla nobildonna qualche anno fa.

E’ lampante l’impegno a rendere questo sito sempre più fruibile, attraverso il tentativo di risolvere alcuni dei problemi, come la questione della viabilità e dei parcheggi a ridosso dell’area museale o quella dei servizi legati alle informazioni al turista, con i quali il Mezzogiorno d’Italia sembra destinato a confrontarsi quasi come in un atavico supplizio di Tantalo. 
Inoltre, i recenti lavori di sistemazione della zona verde subito sottostante il Castello dimostrano la volontà di intraprendere un virtuoso percorso di valorizzazione dell’intera area, in modo da aprirsi più e meglio ad un turismo di ampio respiro. Del resto, il nuovo direttore del Museo Archeologico di Castel del Monte, il foggiano Alfredo De Biase, nominato lo scorso gennaio, ha manifestato con chiarezza la propria visione della funzione museale: non più l’arte riservata ad una élite, ma un patrimonio culturale che si offre alla comunità. 
E, certamente, quello custodito fra le mura di Castel del Monte rappresenta un capitale ricco e a tutt’oggi non totalmente disgelato, un serbatoio da cui si può ancora attingere, se si considera la perdurante attenzione degli studiosi su struttura e funzioni dell’edificio, nella speranza di carpirne il significato. Si scopre infatti che, dopo averne esclusa la natura di castrum per le inesistenti caratteristiche difensive; dopo aver scartato la eventuale funzione di residenza, non essendovi traccia di cucine e quant’altro possa riportare alla possibilità di soggiornarvi; dopo aver ridimensionato il legame fra Federico II ed il maniero, avendone sicuramente il primo ordinato l’edificazione (come risulta da un atto scritto risalente al 1240) ma visitato lo stesso pochissime volte (sicuramente in occasione del matrimonio della figlia Violante con Riccardo conte di Caserta nel 1249); dopo aver avanzato ipotesi legate a misteriose finalità esoteriche, data la posizione geografica, i rapporti fra le dimensioni costruttive, l’orientamento rispetto agli astri (ipotesi in parte smentite da più accurati studi sulle reali misure e geometrie del palazzo), o aver immaginato funzioni “formative”, come luogo di incontro e discussione sulle varie discipline umanistiche e scientifiche,

spunta fuori, qualche anno fa, ad opera di due ricercatori dell’Università di Bari, una nuova teoria: il Castello sarebbe un esempio di Spa, un hammam, un luogo dove godere dei benefici dell’acqua, ritemprando lo spirito.

perché trovarsi in un monumento come Castel del Monte, ove simbologie cristiane, ebraiche e musulmane si sono fuse armonicamente significa comprendere che dal passato, quello più insospettabile, quello delle Crociate e della frammentazione di regni e dinastie, arrivano messaggi attualissimi di tolleranza e pacifica convivenza;

in terzo luogo perché favorire la domanda di cultura equivale a stimolarne l’offerta, avviando peraltro meccanismi generatori di impiego per le comunità locali; infine perché, riallacciandosi alle parole di De Biase, solo trasmettendo “sul campo” alle nuove generazioni l’importanza della conoscenza delle nostre radici, il rispetto per il passato, la curiosità di ricercare nuove chiavi di lettura attraverso l’approfondimento scientifico, possiamo auspicare di mettere insieme un asse ereditario che non potrà essere passibile di rivendicazioni perché realmente condiviso e tutelato come patrimonio comune, nella speranza di favorire il superamento di una cultura che percepisce il bene pubblico come terra di nessuno. La trappola dell’indifferenza è il pericolo maggiore. E il Mezzogiorno lo ha compreso, per non dover essere ancora, stancamente, demagogicamente, additato di disinteresse, incuria, disamore…

La volontà di riscatto da una simile etichetta è forte, sulla Murgia come in molte altre aree del nostro Meridione, dove sarebbe logico raccogliere l’eredità federiciana favorendo nel visitatore quel senso di “stupore” che contraddistinse il sovrano. Ma il patrimonio, anche quello culturale, va amministrato: nel farlo, si pensi anche, e prima, ai giovani e al loro futuro, è l’unica ancora di salvezza.

simbolo1