LA VIA REALE di Tamara Triffez – Numero 4 – Aprile 2016

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LA VIA REALE

 

Mi avventuro sovente, nei reportage, alla ricerca delle antiche radici culturali espresse dagli esseri umani, in vari luoghi del pianeta. Ho seguito in questi anni un percorso che evidenzia le procedure di evoluzione dell’uomo.
Che si manifestano tramite l’arte, i miti, le religioni, questo per affermare pienamente la loro dignità.
Il mio punto di partenza è la descrizione dell’evento, la riflessione sulla vita quotidiana, che si esprime inoltre nelle feste religiose.
E’ dunque partendo da queste premesse che ho deciso di seguire le feste pasquali in Sicilia, con i numerosi eventi che ne conseguono. 
Con entusiasmo e vitalità ho sorvolato la messa in scena delle feste e i protagonisti dei quadri viventi.

Cari amici,   

 

Vi prego di condividere un momento di attenzione attraverso poche mie parole affidate alla cortesia di Tamara. Questa manifestazione si chiama complessivamente l’Italia vista dall’alto, ma, nel caso di Tamara, sarebbe meglio dire “vista da dentro” perché, come tutti i grandi viaggiatori, Tamara è un’artista che si muove per vedere le persone molto da vicino; anzi, per sondare possibilità di identificazione. La sua mostra ha come argomento la Via Reale che vuol dire, in sostanza, la retta via, quella che è, appunto, tracciata dall’Arte. Qui è di scena la Sicilia vista attraverso le processioni, quei momenti in cui particolarmente forte si fa, in ciascuno di noi, la sensazione di un passato che incombe sul presente. Ma, questo passato può essere facilmente visto, almeno dal laico, da due punti di osservazioni opposti e concomitanti: la solennità e il ridicolo. I cittadini che diventano tutti attori della sacra rappresentazione sono vivi e veri ma, nel contempo, assumono parti talmente importanti e preoccupanti da lasciare coloro che li osservano da fuori per lo più esterrefatti. Ci credono veramente? Riescono a identificarsi quelle persone con Cristo, i suoi torturatori, il popolo che assiste, accompagna, soffre e tripudia? Naturalmente la risposta è sì e non è neanche così difficile. La suggestione collettiva è una realtà verificabilissima e commovente. E la nostra Tamara che cosa vede nel suo nitido e pulito bianco e nero con cui scruta le persone a una distanza, appunto, ridottissima? Vede il Personaggio e l’Uomo talmente sovrapposti e indistinguibili da spingerci a credere sul serio a un mondo ancestrale che, nella sua totale inconsapevolezza, percorre la strada del Reale. Tamara Triffez ha dedicato e dedica la sua vita a questo tipo di indagine. Il suo interesse forse più acuto è nel Tibet, in quel tragico paradosso storico che è l’annientamento, o meglio il tentativo di annientamento, di una via Reale che, in nome di una malintesa ideologia, crede di trionfare attraverso la cancellazione. Tamara, come artista, si oppone, e sempre si opporrà, a qualunque ipotesi di cancellazione di retaggi che, pur diversi in diverse parti del mondo, sono intrinseci all’esistenza stessa dell’essere umano. Da questo punto di vista la sua Sicilia e il suo Tibet non sono diversi; e non lo sono perché è l’approccio dell’artista a essere lo stesso. Tamara dà, a chi guarda il suo lavoro, la sensazione di partecipare. La sequenza delle immagini è dentro la processione e non è uno sguardo incuriosito dalla tipicità o dalla stranezza; ma, appunto, è uno sguardo partecipe di chi, evangelicamente, non giudica ma guarda. E vede le grandezze e le debolezze del mondo che si dipanano insieme, perché insieme sono sempre esistite e sempre esisteranno. Certo, i personaggi della processione, in certi luoghi straordinari come Piana degli Albanesi, sono inevitabili citazioni della grande arte figurativa del passato. Le donne loranti sembrano estratte dalle statue lignee del Medioevo e del Rinascimento, il Cristo che passa o giace sembra generato dalla cultura figurativa manierista. Ma questo forse nessuno lo deve sapere, nemmeno l’artista che si aggira tra la gente con la sua macchina fotografica. Quando si avvicina, però, la folla si dirada come se l’atto fotografico fosse un atto sacrale in sé, perché tale da sacralizzare l’incoscienza di chi non sa perché è lì e perché debba assumere atteggiamenti precostituiti. Nella processione tutto è prescritto, tutto è già avvenuto ma Tamara coglie l’espressione di dubbio, perplessità, distrazione, delusione, che trapela nei volti così potentemente connotati di passato da risultare affascinanti in sé. Le foto sono state fatte in occasione della festività pasquale, in tempi recentissimi. Ma la data non importa, perché tutto questo può essere avvenuto sempre, perché è ben probabile che così come lo vediamo nelle foto di Tamara non sia mai avvenuto. Non si tratta di sospendere il tempo, che è impossibile, ma di fare il ritratto alle emozioni con la chiara coscienza che la finzione dell’arte spinge sulla via Reale. Tamara appartiene a quella categoria di persone che vedono l’esistenza solo come energia positiva ma dalle immagini non promana una sensazione di ottimismo inconsapevole. Il fatto è che l’artista è profondamente consapevole di ciò che sta rappresentando e delle sue implicazioni ma non tratta le persone rappresentate come materiale di un esercizio edonistico. Pur nella limpida bellezza di queste immagini, non c’è mai l’impressione della sosta estatica, tale da cogliere quel momento in quanto particolarmente bello o suggestivo. L’avanzata della fotografa dentro la processione procede, invece, con l’intento di farsi spazio entro un mondo che potrebbe respingerci perché non lo conosciamo e forse lo temiamo. Temiamo di urtarne antiche suscettibilità, di non rispettare regole a noi sconosciute ma lì ovvie e scontate; temiamo di mancare di rispetto senza volerlo ma solo per scarsa informazione. Tutti questi timori sono latenti nello sguardo di Tamara ma sono, poi, esorcizzati dalla forza del rapporto tra chi fotografa e chi si trova di fronte alla macchina fotografica. Proprio per questo a noi arriva un senso di pienezza e di dominio della ragione e della spontaneità che, se bene vissute, potrebbero giovarci.   

 

 Con i saluti più cari,   Claudio Strinati

La Sicilia è ancora una terra ricca di tradizioni e di veri rituali ancestrali, che danno tutt’oggi una testimonianza sulle origini mitiche e multiculturali nel cuore del mediterraneo.

L’obbiettivo della macchina fotografica ha seguito la domenica delle Palme, a Piana degli Albanesi, villaggio fondato da una comunità di albanesi secoli fa, che ha conservato la sua tradizione ortodossa, evidenziata, da una quantità di usi e costumi inaspettati, i Pope, le croci… Il Pope sale su di un asino, a ripercorrere l’entrata di Gesù Cristo a Gerusalemme. 
Tra le tante celebrazioni, ho percepito, nella rappresentazione della vita del Cristo di Marsala, la sensazione di un viaggio a ritroso nel tempo; scorci di vita della Gerusalemme di duemila anni fa. La forza evocatrice delle rappresentazioni si rivela grazie alla partecipazione intensa di attori e spettatori, tutti abitanti di città e villaggi.

Sono cerimonie dove ognuno rivive, tramite le rappresentazioni, il proprio percorso di vita ed il suo slancio spirituale. Come negli exempla del Medioevo si tratta di un’esperienza religiosa ed umana fortemente catartica.

Ho seguito inoltre la rappresentazione preparatoria dei misteri di Trapani, dove i giovani figli delle varie congregazioni imparano a portare le vare in miniatura. L’arte del passo ritmato, dell’appoggio, il ritmo del tric e trac, strumento ricorrente nel sud dell’Italia, e quello soggiogante delle fanfare.
Ho documentato le processioni di Palermo, la processione dei Cocchieri, tradizione che si protrae dal XVII secolo; la processione del mercato Ballarò e il Venerdì Santo di San Mauro Castelverde, piccolo villaggio che si arrampica intorno ad un picco montagnoso delle Madonie, dove si può assistere al bacio di Giuda, alla sua impiccagione, alla Via Crucis, alla Crocifissione. Al dolore di un uomo. Durante questa visita la montagna era stranamente avvolta da una nebbia densa e fredda; questa introduceva un senso di sognante inquietudine.
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Ogni evento indica così un percorso tra il sacro e il profano.

La domenica di Pasqua a Ribera, ad esempio, dove gli uomini sfiniti dal lungo percorso e dal peso dei diversi quadri – delle rappresentazioni di Cristo, della Vergine Maria e di San Michele – vengono autorizzati a bere l’acqua santa benedetta, in ricompensa della loro devozione. La bottiglia vola rapidamente da una mano all’altra mentre la folla, commossa, canta e salta. La banda si infervora, la cacofonia dei petardi esplode, nuvole di confetti si liberano nell’aria. Tutto per ricordarci la resurrezione di Cristo.

Le colombe volano tra gli stendardi ed ecco, in questi giorni, riapparire, al di là delle espressioni un pò profane, l’anima ansiosa di conoscenza, il percorso della sofferenza e finalmente la gioia, liberatoria, della resurrezione.

Tramite la scelta di questa antica e profonda tematica ho voluto rendere omaggio alla vita del Cristo, svelando attraverso le sue sofferenze estreme, l’essenza divina, la trascendenza. Ricerca che l’uomo esprime da millenni.

Possiamo ugualmente dire che “la Via Reale”, titolo di questo reportage, è un’espressione che si usava nel modo antico. Indica la via, la strada dritta, con la quale si evitano le deviazioni e i meandri che possono confondere l’anima, approdo simbolico alla Gerusalemme celeste, simbolo del Cristo.

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CLEMENTIME: LA CALABRIA A PORTATA DI “INSERT YOUR COIN HERE” di Dorotea Manco – Numero 4 – Aprile 2016

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Da ex-studentessa posso affermare che anche nella più anonima delle università (dopo il bar, la sala computer ed il cortile dei fumatori incalliti – ​una roba che farebbe impallidire persino le fumerie d’oppio cinesi del primo ‘900!​) esiste uno specifico ​luogo di perdizione​: 

CLEMENTIME: LA CALABRIA A PORTATA DI “INSERT YOUR COIN HERE”

 

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Che “che vuoi che siano due tarallini” oggi, “che vuoi che ti faccia una girella al cioccolato” domani e poi abbiamo pure il coraggio di lamentarci se facciamo la stessa fine di quella famosa ​Bridget Jones​ mentre canta “​All by myself​”.

Ora che sono passata dai libri dell’università al camice dell’ospedale, la situazione è rimasta praticamente invariata: i distributori automatici degli snack sono sempre lì a ricordarmi che “​l’unico modo per liberarsi di una tentazione è…digitare il codice dei crackers gusto pizza​”. O fare il giro largo del corridoio.
Un bel giorno però mi dicono che qualcuno si è messo la mano sul cuore ed ha sposato la causa di chi, come me, vorrebbe trovare un po’ più di ​genuinità (​e di solidarietà!​) anche al di là del vetro di un distributore automatico:

ed il gioco è fatto: ​ClemenTime è il ​sud ​a portata di “​Insert your coin here​”, è l’estro (intelligente) di un meridione che sa reinventarsi e ​riscattarsi​, è la dimostrazione che la ​(nostra) ​terra ​può ancora fare rima con ​futuro​.
Dalla Piana di Sibari ​with love​:
ClemenTime ​nasce dalla fusione di due storiche aziende del territorio (l’azienda agricola “Favella Spa” – dedita ormai da anni all’agrumicoltura – e la ​“COAB” – indiscusso leader di distribuzione delle clementine), con l’obiettivo di ​esportare in modo ​innovativo non solo uno dei frutti ​più caratteristici ​della ​Regione Calabria ​(secondo per vendite solo alle arance), ma soprattutto un alimento salubre e dall’importante contenuto vitaminico (vitamina C​ e vitamina A in primis).
Non solo numeri:
la giovanissima ​newco calabrese (oltre a 90 anni di storia alle spalle, 70 ettari di agrumeti, 35000 alberi e 18000 quintali di clementine) può contare su importanti vantaggi legati all’unicità del suo prodotto. La clementina di ​ClemenTime è infatti un ​agrume naturale (raccolto e confezionato ​senza lavorazione alcuna​) e stagionale (​prodotto tra Ottobre e Febbraio, periodo poco redditizio per la restante frutta in formato “snack”) c​on una shelf-life ​stimata tra i 15 ed i 18 giorni: tutti elementi che – insieme alla ​facilità di consumo della stessa clementina (buccia ​easy-to-remove e totale assenza di semi) – permettono di tracciarne un ​profilo commerciale perfettamente in linea ​con le attuali esigenze di mercato e di distribuzione.

dopo l’iniziativa da parte dei due giovani calabresi, non potrò certo più permettermi di esclamare con aria da femminista​ annoiata che “​gli uomini sono tutti uguali​”.
Almeno ​non al Sud.

Francesco Rizzo ed ​Antonio Braico hanno infatti saputo fare della loro amicizia e dell’​amore ​per la loro terra un coraggioso trampolino di lancio per il progetto ​ClemenTime​.
Prendi le ​clementine ​di ​Calabria (IGP) ​- quel delizioso e profumato ibrido tra l’arancio ed il mandarino – fagli ​indossare ​un ​packaging ​in cartone alimentare ​pratico ​ed ​accattivante​, distribuiscile in ​tutta Italia (​next stop​: Europa!) offrendo una valida alternativa alla merendina “finché-colesterolo-buono-m’assista”

L’azienda ​ClemenTime è per definizione “​ribelle ​(​Francesco ed Antonio​, dopo aver accantonato le carriere di regista e di geologo, si sono infatti cimentati in un percorso ambizioso e “fuori dagli schemi” per entrambi), ​vitale ​(come solo la terra sa essere) ​e creativa ​(promotrice di una merenda ​come non l’avete mai vista prima​)”:

il suo non è dunque semplice marketing, ma una sfida vivente in cui pulsa un cuore ​(bio) dalle mille sfaccettature.
La rivincita delle “​rosse light​” di Calabria (che insieme al cedro e al bergamotto rappresentato un vero e proprio fiore all’occhiello per la produzione agricola locale) non è infatti solo un’audace frontiera del ​vending ​(quale “vendita di prodotti alimentari mediante l’impiego di distributori automatici”), ma soprattutto una mano protesa verso il ​progresso (a favore di un’alimentazione ​più sana​) ed una verso la ​tradizione (che odora di ​pregiati agrumeti​ per troppo tempo ingiustamente dimenticati).
Quello di ​ClemenTime ​è un mondo fatto di ​giovani che ritornano alla terra (chi come imprenditore e produttore, chi come consumatore), di università, ospedali, scuole ed uffici che si lasciano riscaldare da quel ​sole di Calabria ​in grado di rendere “​lo spazio antistante i distributori automatici degli snack​” un posto decisamente migliore in cui sostare.
Ed anche se mi costa parecchia fatica doverlo ammettere,

 

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LA TRADIZIONE ORGANARIA NAPOLETANA di Mario Manzin – Numero 4 – Aprile 2016

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E’ un positivo firmato Domenico Antonio Rossi 1783

Una cengia a picco sul lago Maggiore ospita un antico Santuario sorto per volontà del beato Alberto Besozzi, un mercante del XII secolo che, investito da una burrasca sulla sua barca mentre si recava da una sponda all’altra del lago, e in serio pericolo, si rivolse a Santa Caterina d’Alessandria per avere salva la vita promettendo in cambio una chiesa in suo onore e, per la sua persona, vita eremitica in quell’angolo allora selvaggio del Verbano orientale. Da allora, l’Eremo, dedicato appunto all’invocata santa, è meta di pellegrinaggi e visitato ogni anno da oltre centomila tra fedeli e turisti di ogni nazionalità.

 

 

LA TRADIZIONE ORGANARIA NAPOLETANA

 

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Per le sue qualità, l’organaro venne assunto il 10 giugno 1761 dalla Regia Cappella, con uno stipendio di otto ducati al mese, in luogo del defunto Tommaso De Martino, altra personalità di spicco.

Nell’ambito degli studi condotti da Ulisse Prota-Giurleo e da Stefano Romano su quella scuola, particolare attenzione è stata posta al Rossi la cui tecnica costruttiva emerge dagli organi superstiti, quasi tutti del tipo ‘positivo’.

Conserva opere d’arte pittorica di buon livello e, tra gli arredi,

un organo ‘positivo’ opera di Domenico Antonio Rossi 1783, prezioso cimelio che degnamente rappresenta la tradizione organaria napoletana.

Svolse i suoi compiti con grande serietà e competenza fino al 5 gennaio 1789 quando, a causa dell’età avanzata, lasciava il prestigioso incarico al figlio Francesco Saverio.
Lo strumento, già di proprietà privata, è stato acquistato dal Lions Club Laveno Mombello – Santa Caterina del Sasso e ceduto in comodato all’Eremo per accompagnare i riti.
Ci troviamo di fronte ad un manufatto di rilevante interesse storico ed artistico in quanto uno dei pochi usciti dalla bottega del Rossi ancora conservati a Napoli e fuori Napoli1.
Vale citare in questa circostanza il curioso positivo di Villatorre (CH) attribuito al Rossi, in quanto dallo stesso firmato, mentre, in sede di restauro, è emersa la firma dell’altrettanto celebre Giuseppe De Martino e la data 1721, peraltro quella della morte. Con molta probabilità l’organo è stato successivamente restaurato se non addirittura rifatto dal Rossi che ha cancellato la presenza dell’illustre collega.
Due altri strumenti, rispettivamente del 1768 e del 1776, sono di proprietà privata, un altro ancora giaceva semidistrutto nel Museo degli antichi organi napoletani di Capodimonte. Sono attribuiti alla bottega del Rossi due organi anch’essi di privata proprietà in Germania e nel nord della Svezia.
Lo strumento dell’Eremo varesino si presenta in elegante forma, con un prospetto di facciata composto da 19 canne suddivise in tre campate, 7 – 5 – 7. Bocche non allineate, più basse quelle delle campate laterali, labbro superiore a mitria. La disposizione fonica è composta da Principale 8’, Flauto in XII (dal Fa#2), Ottava, Quintadecima, Decimanona, Vigesimaseconda, Turatutti. Tastiera scavezza con prima ottava corta di 45 note, Do1-Do5,. Corista La 415 Hertz (a 16°), temperamento inequabile. Non c’è pedaliera.

Altra caratteristica sopravvissuta a lungo è quella degli ‘effetti’, quali l’Uccelliera, frequentemente denominata Uccelli, Uccellaia, Rosignoli, oppure Stortae Philomelae, cioè canne ricurve. Il congegno imita il cinguettio degli uccelli.

L’organo si impone anche dal punto di vista estetico in virtù della decorazione della cassa, peraltro una delle caratteristiche di questi positivi. Scultura e intaglio del legno, doratura e decorazione pittorica costituiscono un altro sorprendente capitolo che rileva il talento degli organari partenopei.

Si basa su cannucce ad anima (da tre fino a dieci, quello dell’Eremo varesino ne conta cinque) saldate ad un tubo ripiegato ad angolo retto di cui un braccio è in comunicazione con il somierino sottostante, l’altro regge le cannucce a pelo dell’acqua, immesse in un minuscolo recipiente ovale in piombo, dando aria mediante pomello o stecca: le cannucce soffiano sulla giusta dose d’acqua creando l’effetto del cinguettio.
Il mantice d’alimentazione dell’Eremo, come d’uso, è contenuto nel vano inferiore e sulle portelle di chiusura compare un elegante cartiglio con la scritta: “DOMINICVS ANTONIVS ROSSI / NEAPOLITANVS / REGIAE CAPPELLAE SVAE MAIESTATIS / ORGANARVS FECIT / A D 1783”.

1Un censimento delle opere superstiti curato dallo scrivente ha dato i seguenti risultati:
a Napoli: 
Basilica dell’Incoronata Madre del Buon Consiglio di Capodimonte (1769); S. Giovanni Maggiore (data incerta 17…); 
S. Eligio, Confraternita del SS. Sacramento (1775); S. Maria Incoronatella della Pietà dei Turchini (1776); S. Giovanni Armeno, Arciconfraternita dei SS. Pietro e Paolo (1785), nella celebre via dei presepi, lo strumento si trova collocato nel capellone;
fuori Napoli:
Procida, Abazia di San Michele (data incerta, probabilmente del 1770); Fontanarosa, chiesa dell’Immacolata (1771),
Malta, cattedrale, due strumenti: l’organo maggiore del 1774 è collocato in cantoria nel transetto nord, il positivo, costato 185 scudi, si trova oggi nel Museo della cattedrale; Deliceto, chiesa parrocchiale di S. Antonio (1775);Orsara di Puglia, chiesa di San Nicola (1776) proveniente dalla concattedrale di Troia;Barletta, chiesa di S. Andrea, proveniente dalla chiesa di S. Cataldo (1776);San Sebastiano al Vesuvio, Santuario (data illeggibile); Trento, Conservatorio di Musica (1779); Forio d’Ischia, S. Maria di Loreto (A.D. MDCCLXII); Forio d’Ischia, Santuario S. Francesco di Paola (1781), strumento dotato di un curioso ed elementare sistema di pedali a staffa per l’azionamento dei mantici.

Il lavoro di doratura, ad esempio, viene effettuato con procedimenti diversi, attraverso la mistura sull’argento e l’utilizzo dei fogli d’oro zecchino per creare piacevoli contrasti di lucido e opaco ed ottenere in questo modo affascinanti effetti chiaroscurali.
I positivi presentano un aspetto peculiare dell’originaria napoletana, prodotti in numero imponente di esemplari e destinati alle chiese maggiori, ai piccoli oratori, alle cappelle delle confraternite, ai palazzi nobiliari. Per oltre due secoli e mezzo la tradizione si tramanda e non conosce soluzioni di continuità. Una caratteristica di questi manufatti è la presenza di una canna ad ancia a suono fisso chiamata “zampogna”, particolarità documentata dagli inizi del Seicento fino alla metà del XIX secolo. E’ situata all’interno della cassa ed azionata da una stecca indipendente a tirante. Il timbro non è sempre sonoro e viene utilizzata come pedale armonico per l’esecuzione, ad esempio, di melopee pastorali. Non mancano esempi di zampogna doppia con due canne e due note a distanza di quinta.

Ci troviamo di fronte ad un esemplare che degnamente rappresenta quel barocco che – come scrisse Harold Acton – “ebbe ad esprimersi a Napoli con la stessa gioia di un volo di usignoli liberati da una gabbia d’oro”.

Renato Lunelli, padre dei moderni studi organologici, non nascose il suo interesse per l’organaria napoletana: voleva scoprire anche negli organi il volto della città. “Nei timbri organistici – scriveva – troviamo accoppiata all’impronta mistica una caratteristica storico-ambientale; perché le sonorità dell’organo stilizzano le preferenze di un determinato ambiente musicale per particolari timbri sonori di un certo periodo di tempo”.

Se, da una parte, si è dovuto constatare per anni un saccheggio di questi superbi monumenti sonori, un avanzato concetto di tutela ha consentito recuperi e restauri sotto il controllo di studiosi e di esperti.

E’ stata edita anche una letteratura su queste tematiche, peraltro dibattute in incontri tra organologi di varie estrazioni. All’aspetto tecnico è oggi associato quello musicale e la fruizione di questi positivi è stata anche veicolo per la conoscenza della produzione musicale napoletana – grazie allo spoglio di fonti d’archivio da tempo avviato – eseguita su strumenti che rimandano ad uno degli aspetti più interessanti della cultura di Napoli, permeata da una vivacità intellettuale, com’è nella tradizione, sempre in bilico tra sacro e profano.

 

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QUANDO IL FUOCO SI FA DIO di Giovanna Mulas – Numero 4 – Aprile 2016

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quando, per la prima volta appresi, attraverso il detto e non detto dei vecchi della Zona, di sciamani – di norma di sesso femminile – dediti in tempi remoti, e durante la notte, a penetrare negli spazi di sepoltura per abbandonarsi a trance purificatoria e dialogo ispiratore coi defunti.

Pare che ogni tanto l’irrequietudine del gigante dia vita a terremoti ed eruzioni. Non pochi i poeti greci e romani che citarono i vulcani: Omero, Virgilio, Orazio, Ovidio e altri ancora hanno descritto l’irreale panorama delle eruzioni. Divinità romana di origine etrusca, Vulcano fu in seguito identificato col greco Efesto (in greco Ἥφαιστος, Hēphaistos), considerato il fabbro degli Dei. E’ il Dio del Fuoco terrestre, celeste divinità guerriera: di norma veniva raffigurato barbuto, descritto come protettore di quelle Arti che trovano base sul fuoco inteso come elemento cosmico e caotico.

Se per le antiche religioni mesopotamiche (e nella prima religione ebraica) tale figura è rappresentata da Lilith e in quella cristiana da Eva, per quella ellenica il complesso ruolo è stato affidato a Pandora.

QUANDO IL FUOCO SI FA DIO

 

Pare che il suo ruolo fosse inferiore perché claudicante, quindi imperfetto: la sua natura caotica poteva determinare una inadeguatezza nell’azione di raffinamento del mondo divino e umano.

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In dubbio rimane la sua origine: ritenuto inizialmente una divinità ctonia, assunto dall’Olimpo solo in un secondo momento, rimane per altri di unica provenienza celeste. Comunque si devono al suo talento la creazione del carro del sole, i fulmini e lo scettro di Zeus, la corazza d’oro di Eracle, l’elmo di Ares, le armature di Achille e di Enea, il tridente di Poseidone.

Zeus, per l’infelicità del genere umano, diede incarico al dio del fuoco di modellare un’immagine umana servendosi di acqua e argilla; la figura non doveva avere nulla da invidiare alla bellezze delle dee. Efesto fu tanto bravo nel plasmarla che la donna che ne ebbe origine era superiore a ogni possibile immaginazione. Gli dei furono incaricati da Zeus di riporre in lei dei doni: Atena le donò delle vesti morbide e leggere a significare il candore, fiori per adornare il corpo e una corona d’oro, mentre Ermes pose nel suo cuore pensieri malvagi e sulle curve sinuose delle sue labbra frasi tanto seducenti quanto ingannevoli.
Narra Esiodo (Le opere e i giorni) 
“L’adornò del cinto 
E delle vesti, le donar le Grazie 
E Pito veneranda aurei monili, 
E de’ più vaghi fior di primavera 
L’Ore chiamate, le intrecciar corone. 
Ma l’uccisor d’Argo, Mercurio, a lei, 
Ché tal di Giove era il voler, l’ingegno 
Scaltri d’astuzie e blande pargolette 
E fallaci costumi …”

A questa complessa creatura fu dato nome Pandora (dal greco “pan doron” = “tutti i doni”) perché ogni divinità dell’Olimpo le aveva fatto un regalo. Mancava solo il regalo di Zeus che, ovviamente, fu superiore agli altri. Egli infatti, donò alla fanciulla un vaso con l’assoluto divieto di aprirlo. Il vaso raccoglieva tutti quei mali ancora sconosciuti all’umanità: la malattia, la pazzia, il vizio, la malattia e la fame…

Un sonno in grado di trascinarli all’inferno e ritorno. Il fuoco, elemento principe sia all’ingresso del mondo dei morti che all’uscita, sarebbe riuscito a salvarli soltanto se questi vivi eletti dai defunti, imboccando l’uscita del monte/grotta del demonio di turno, avessero camminato sollevando un piede, zoppicando e senza voltarsi indietro. 
Sinonimo del coraggio necessario ad andare avanti nonostante le difficoltà; continuare a vivere lasciandosi alle spalle un passato di assenze sofferte, comunque portatrici d’insegnamento. E quel fuoco: lume da seguire e di cui farsi scudo per uscire dalle tenebre dell’inconscio ed il viaggio necessario alla maturazione, alla crescita dell’Uomo in quanto Uomo; la fuga, vista come rinascita, dal pozzo profondo dell’Io.
Euripide, nel dramma satiresco “Ciclope“, attraverso l’invocazione di Odisseo così definisce il Dio del fuoco: “Efesto, signore dell’Etna, brucia la luminosa pupilla del tuo ignobile vicino, lìberati da lui una volta per sempre.” Ancora, si narra del gigante Tifeo, deciso a insidiare l’Olimpo. Giove, adirato per l’irrispettoso atto, dopo una lunga e turbolenta lotta decise di punire il gigante

obbligandolo a sorreggere la Sicilia tenendo i piedi sotto il Lilibeo (Trapani), il braccio destro sotto il Peloro (Messina) e quello sinistro sotto Pachino (Siracusa), la testa in prossimità dell’Etna.

Efesto, già all’età di nove anni dimostrò di possedere abili capacità nel forgiare i metalli: prese a creare gioielli d’ inestimabile bellezza, soprattutto per coloro che l’avevano accudito e amato. Quando Era venne a conoscenza dell’abilità del figlio si recò da lui per ordinargli di costruire un trono d’ineguagliabile bellezza e valore. Nel presentarsi al figlio, la Dea non rivelò la sua identità, ma Efesto comprese comunque e accettò il lavoro commissionatogli, mirando alla vendetta nei confronti di una madre che l’aveva ripudiato. Costruì per Era un trono interamente d’oro, tanto bello quanto maledetto: avrebbe imprigionato per sempre la Dea che, una volta seduta, non sarebbe più riuscita ad alzarsi. Si narra che, per potersi liberare dal maleficio, Era dovette promettere in sposa al figlio la bellissima Afrodite, e che, successivamente alla sua liberazione, permise al Dio del fuoco di poter tornare nell’Olimpo assieme alle altre divinità. Afrodite non riuscì mai ad accettare la decisione di Era e tradì frequentemente il marito – si racconta che decise di non congiungersi carnalmente con il Dio del fuoco e che, presa con la forza, si smaterializzò dal talamo.
Dunque Efesto abbandonò volontariamente l’Olimpo per rifugiarsi nelle profondità del Monte Etna, stufo delle continue derisioni da parte degli altri dei e per il suo aspetto fisico e per le infedeltà della moglie.

Teti e Eurionome, due ninfe del mare che si presero cura di lui decidendo di allevarlo in una caverna. 
Si narra che proprio la grotta che l’accolse proteggendolo, divenne la sua prima officina di fabbro.

Così come Lilith (ripudiata dall’Uomo ché ribelle) ed Eva (responsabile della cacciata dall’Eden) anche Pandora carica sulle spalle una travagliata eredità di disgrazie, destinate alla razza umana. Efesto: fuoco terrestre inteso in senso positivo, fuoco come elemento di civiltà. È possibile riscontrare un suo corrispondente in Loge o Loki della mitologia nordica – ricordiamo che, in onore di Efesto, venivano celebrate le Efestie, le Apaturia e le Calceia.

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Secondo la maggior parte degli studiosi, Efesto era figlio di Zeus e di Era, mentre per Esiodo sarebbe nato soltanto da Era, per punire Zeus dei numerosi tradimenti con dee e mortali. Accadde però che, alla nascita di Efesto, la madre rimase terrorizzata dal suo aspetto, e decise di scaraventare l’innocente giù dall’Olimpo. Efesto precipitò in prossimità dell’isola di Lemno, e la caduta lo rese zoppo. Per fortuna il piccolo Dio fu raccolto da

Si deve ad Efesto anche la nascita della prima donna.

Trovo di forte interesse, sul tema, la figura de L’Anticristo descritto da Nostradamus nella visione dell’Apocalisse.

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Il vero aspetto dell’Anticristo, infatti, verrà individuato esotericamente attraverso il riferimento specifico a Vulcan-Hermes (IV, 29) cioè Vulcano, il nostro Efesto dio del fuoco. Per il Veggente, L’Anticristo/Efesto sarà addentrato nell’Arte Ermetica della quale falserà i principi. Il notorio riferimento di Efesto a Hermes o Ermete si ricollegherebbe alla tradizione ermetica secondo la quale il corpus di ancestrali dottrine magico-ermetiche giunte fino ad oggi, fu rivelato agli uomini da angeli caduti, discesi sul monte Ermone. Secondo M. Del Gatto (“L’Apocalisse di Nostradamus”), questa affermazione trova fondamento nell’apocrifo di Enoch (cap. 15-69), come pure in altri testi religiosi quali il Vecchio Testamento (Gen. 3-6), il Nuovo Testamento (Apoc. Cap. 12) e il Corano (cap. 15, 30-42).

I testi descrivono come gli angeli ribelli, cacciati dal cielo, scesero sulla terra per ostacolare l’evoluzione degli uomini, li istruirono sulla ‘scienza del fuoco’ e altri artifici contro la Natura, a causa dei quali gli antidiluviani vennero distrutti.

Dunque un Efesto Conoscitore? Un angelo ribelle esperto in scienze pagane? Probabilmente alla stregua di quell’Adamo profanatore dell’Albero della Vita (simbolo di processo cosmico), colui che pose l’uomo nella condizione di essere redento. 
La mia Sardegna è terra di vulcani spenti, forze della natura in stasi da tempo. Il vulcano sardo Monte Santo è chiaro esempio di come l’Isola non sia mai stata asismica. Diverse le alture che presentano, secondo gli esperti, caratteristiche vulcaniche: Monte Ruju, Monte Arana, Monte Cuccureddu, Monte Annaru, Monte Traessu e, appunto, Monte Santo. Le cime sono localizzate a ovest dell’Isola, a breve distanza dalla città catalana di Alghero e dalle spiagge di Bosa e Stintino.

I vecchi narrano che uno di questi monti ospiterebbe un immenso tesoro destinato ad una giovane coppia di futuri sposi.

I due dovrebbero scalare il monte la notte precedente le nozze, a mezzanotte, ora in cui giungerebbe una strega su un carro. Ma solo vendendo l’anima al diavolo, i fidanzati otterranno dalla strega i suggerimenti necessari ad accedere al luogo del tesoro. Naturale citare, nel contesto in oggetto, il mito tutto sardo di un Sant’Antoni che, giocando di astuzia, sfidò i diavoli entrando nell’inferno e rubò il fuoco per donarlo agli uomini. In ricordo di questo episodio, la notte del 16 e del 17 gennaio in centinaia di paesi della Sardegna si accendono dei grandi falò; riti pagani ancora vivi e sempre volti ad ingraziarsi una natura ostile, nei momenti più delicati di passaggio tra i cicli della terra. Tramite la figura di Sant’Antonio – protettore degli agricoltori, secondo la tradizione morto ultracentenario proprio il 17 di gennaio – , la Chiesa ha cristianizzato un culto ben più arcaico, teso a risvegliare la e alla luce dopo il lungo, freddo buio invernale. La festa è indubbiamente pagana, legata ai riti di morte e rinascita del Dio, della natura, del ciclo vitale.

 

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L’ECLISSE DI UN REGNO di Cesare Imbriani – Numero 4 – Aprile 2016

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Nelle Memorie di Giuseppe Garibaldi si legge “La presenza di due legni da guerra inglesi influì alquanto sulla determinazione dei comandanti dei legni nemici, naturalmente impazienti di fulminarci, e ciò diede tempo a ordinare lo sbarco nostro. 

 

L’ECLISSE DI UN REGNO

 

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Fu però inesatta la notizia data dai nemici nostri che gli inglesi avessero favorito lo sbarco in massa direttamente e con i loro mezzi. I rispettati e imponenti colori della Gran Bretagna imposero titubanza ai mercenari del Borbone.”
Si compì, pertanto, a Marsala, un fato che consentì con alterne vicende a Garibaldi, con i suoi Mille e più, di sbarcare in Sicilia, di traversare lo Stretto, arrivando in Calabria; di entrare a Napoli per poi ricongiungersi con le truppe di Vittorio Emanuele II.

Purtroppo l’atto finale che si concretizzò in tale vicenda unitaria, che comportò il dissolvimento del più grande Stato italiano dell’epoca, sembrava annunciato da tempo.

Era opinione non diffusa, ma ben presente, nell’ambiente di Corte, che fosse necessario incamminarsi sulla via delle riforme istituzionali volute dalla Francia,

sia per i suoi vecchi rapporti con la Sicilia, sia per la strategica collocazione geografica del Regno al centro del Mediterraneo.
Ciò faceva ritenere importante un meccanismo di avvicinamento e alleanza della Gran Bretagna al Piemonte come contrappeso alla situazione determinatasi in genere con la crescita di influenza della Francia in Italia, nello specifico nei riguardi dello Stato borbonico.
Nel Regno delle due Sicilie, vi era coscienza del fatto che vi fosse una sorta di isolamento sia per ciò che riguardava i problemi della politica interna, specie per il problema di un costituzionalismo mai risolto, sia per quelli di politica estera, dove, a fronte di un preteso approccio neutrale dei Borbone, non corrispondeva da parte delle grandi potenze dell’epoca una adeguata considerazione.

come si direbbe oggi, in termini geo-politici, la preoccupazione inglese derivava dal timore di un allargamento della sfera di influenza del neo-bonapartismo francese su una realtà, quella del regno delle due Sicilie, che essa riteneva strategica

1si veda, tra gli altri, Eugenio di Rienzo: il Regno delle due Sicilie e le potenze europee, 1830-1861

Fatti e indizi, unitamente ad errori strategici, sono facilmente individuabili. Spesso, discorsi da “salotto” pretendono di individuare astratte ragioni che, però, restano avulse dalla triste logica storica che produsse il dissolvimento del Regno dei Borbone. Innanzitutto, come è stato nella letteratura sull’argomento evidenziato1, il vero problema per il Regno delle due Sicilie derivava dal deciso mutamento di strategia della Gran Bretagna sulla questione italiana;

tant’è che, dopo una defalcante trattativa con il potente alleato, era stato presentato un progetto di Costituzione di stampo moderato, che, come nella tradizione della dinastia, fu però rifiutato dal re. 
Ciò che avrebbe salvaguardato dal pericolo di un’aggressione rivoluzionaria (come poi di fatto avvenne) grazie alla copertura politica francese, divenne una ennesima occasione mancata per abbandonare l’assolutismo monarchico e collocarsi tra le nazioni a struttura istituzionale democratica.

In aggiunta a ciò, Francesco ll rifiutò di partecipare ad un evento fondamentale per l’epoca.

La crisi italiana dopo la seconda guerra di indipendenza fu discussa nella conferenza di pace di Zurigo tra Austria, Francia, Piemonte e vide concretizzare ulteriori opzioni di adesione al Piemonte (prima i Ducati padani, poi il voto delle Assemblee di Firenze e delle legazioni pontificie).
Francesco ll, indotto in ciò anche da suoi non preveggenti ed incapaci collaboratori, sostenne che, ove vi fosse stata una partecipazione a detto convivio, ciò non avrebbe favorito il ruolo di neutralità e la indipendente natura del Regno delle due Sicilie.
Insomma anche il naturale alleato, la Francia, che unico avrebbe potuto controbilanciare la deriva all’isolamento del Regno delle due Sicilie – dovuto sia all’atteggiamento ottusamente anticostituzionale borbonico (che non metteva in campo le richieste riforme istituzionali), sia alla sua chiusura al dialogo esterno a cagione di una pretesa (ma non richiesta) neutralità che isolava nei fatti un regno con confini rappresentati dal mare e dallo Stato pontificio – era in difficoltà.
Ciò nonostante vari furono i tentativi francesi per perseguire e realizzare la sua strategia di influenza: ad esempio,

Napoleone III cercò di rilanciare il programma federativo dell’Italia basato su tre Stati sotto la influenza francese;

programma ovviamente osteggiato dalla Gran Bretagna che ormai vedeva lo stato piemontese come l’utile medium dei suoi disegni.
Ma le cose correvano ed arriviamo alle battute finali.
La corruzione operata ad opera dall’ammiraglio Persano sulla Marina napoletana facilitò lo sbarco sul continente delle truppe garibaldine: la Gran Bretagna, nella logica dei suoi interessi, rifiutò di unirsi alla Francia per impedire tale evento.
Un cupio dissolvi inarrestabile, per una dinastia sorda alle tendenze del vero corso della storia, si realizzava; iniziava la triste pagina nazionale di quella che è stata definita una unità debole e precaria, di cui ancora il Mezzogiorno sopporta le conseguenze.
Ma quella del Mezzogiorno post-unitario è un’altra storia, che merita ben più approfondite considerazioni, partendo da una unità nazionale in buona parte subita.

 

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SAN PIETRO AD ORATORIUM di Roberta Lucchini – Numero 4 – Aprile 2016

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Trovarsi in terra d’Abruzzo in una calda giornata di inverno beffardo. Inverno stranito, addolcito, vestito con insoliti abiti a fiori in rilievo di meli selvatici e violette odorose; abiti confezionati anzitempo dall’atelier creativo di una Natura imbizzarrita, che rifugge sempre più spesso dai canoni stagionali, cadenzati, da queste parti, in termometri sottozero, coltri nevose sulle alture e risvegli pacati.

In effetti, l’impressione è confermata. Spento il motore, lasciata l’auto nel parcheggio, la sensazione è di un mondo sospeso, dove la sola colonna sonora che accompagna l’andare curioso su brecciolino e foglie morte è il cinguettio tra le querce e i cipressi secolari insieme al garrulo scrosciare del fiume Tirino da presso.

La scritta sull’architrave dà l’ulteriore informazione di un rimaneggiamento nell’anno 1100 (anno milleno centeno renovata), avvenuto secondo gli schemi dell’architettura romanica tanto presente in Abruzzo e che, ad oggi, caratterizza impianto e decorazioni dell’edificio sacro. Ai lati degli stipiti due bassorilievi, uno di Vincenzo Diacono, l’altro con capo coronato, che alcuni hanno indicato essere proprio re Desiderio, altri hanno attribuito a Davide. Ma Angelo è ansioso di aprire il portone; e mentre lui armeggia con la serratura, la mente divaga, chiedendosi chi e come abbia scelto, mille anni fa, di aggiungere quegli inserti di greche e intrecci e fiori e animali, posti a caso fra i conci della facciata senza un disegno preordinato, ma con la lungimiranza di lasciare traccia degli ornamenti provenienti dal nucleo originario della Chiesa o da reperti di edifici risalenti ad epoche ancora precedenti.

La mano non sa resistere all’istinto, si protende, sfiora quelle lettere incise nella pietra, ripercorre una ad una le concavità che lo scalpellino ha immortalato sul blocco e il costruttore ha, forse sbadatamente, forse perché analfabeta o forse per qualche ragione inspiegabile, inserito fra i conci capovolgendo la scritta. Ma l’essenza non muta: SATOR AREPO TENET OPERA ROTAS, il Quadrato magico.

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SAN PIETRO AD ORATORIUM

 

Roberta-Lucchini

Trovarsi lontano dal clangore di voci e ingranaggi della tentacolare metropoli da cui conviene, talvolta, allontanarsi, per riconquistare spazi di silenzi e di solitudine che fanno bene all’anima.

Viaggiare alla scoperta di uno dei tanti, sconosciuti luoghi di pregio, forzieri di storia e di arte, che appartengono all’Abruzzo più interno, geloso dei suoi borghi, delle sue chiese, delle sue rocche

Con sorpresa, non è la facciata della Chiesa che si mostra arrivando, bensì le tre absidi circolari con monofore che corrispondono alle tre navate in cui è suddivisa la struttura basilicale. E cresce quindi l’attesa. Finalmente Angelo, il custode – ironia della sorte! – contattato telefonicamente qualche giorno prima, arriva a bordo della sua Ape verde, tipico veicolo per brevi percorsi nei piccoli centri, dove da molti decenni ha sostituito il mulo negli spostamenti fra abitazioni e poderi. Uomo solido, mani da lavoratore. 
Apre il cancello, evviva. Lenta discesa sul viale di gradini bassi e profondi in acciottolato che costeggia, a sinistra, il lato lungo fino alla facciata: lo sguardo voglioso ignora per il momento il primo tratto di parete, sapendo di tornarci a breve, per concentrarsi sul portale. I piedritti plastici, con decorazioni in rilievo non riprodotte simmetricamente, dai motivi naturalistici ad intreccio, accompagnano lo sviluppo verticale fino ai capitelli, le cui foglie sembrano staccarsi dal blocco di pietra. Un bellissimo archivolto con due corone concentriche di palmette, sullo stile di S. Liberatore a Majella, sovrasta l’architrave. A rege Desiderio fondata, vi si legge. Desiderio. A rifletterci, quasi uno stridore. Il fascino garbato di un nome tanto evocativo – etimologicamente riconducibile alla mancanza di stelle (de – sidus), di buoni auspici, di prospettive leggibili, da cui tensione verso l’appagamento – accostato alla figura di un re “barbaro”, l’ultimo dei Longobardi che, giunti in Italia alla guida di Alboino nella seconda metà del VI sec. d.C., imperversarono lungo la penisola nel corso di due secoli, fino alla definitiva sconfitta ad opera dei Franchi di Carlo Magno nel 774. Desiderio. Padre di Adelchi (col quale governò nell’ultimo periodo del suo regno allo sbando) e padre, forse, della sfortunata Ermengarda, data in sposa, forse, proprio a Carlo Magno e da questi, forse, ripudiata nel 771; eppure così reale per l’indimenticabile acconciatura e per lo straziante affanno in letto di morte cantati dal Manzoni. Desiderio, dunque, passò di qui, prendendo sotto la sua protezione, piuttosto che ordinarne l’edificazione (come si ritiene essere erroneamente indicato nell’iscrizione), il primo e più antico corpo della Chiesa, la quale è

menzionata come esistente nel 752 (mentre Desiderio salì al potere nel 756) dal Chronicon Volturnense, una delle testimonianze più valide e importanti per lo studio della civiltà alto­medievale, redatto fra il 1124 e il 1130 dal monaco Giovanni presso il monastero benedettino di S. Vincenzo al Volturno e conservato, nei suoi 341 fogli di pergamena, presso la Biblioteca Vaticana.

ancora distanti dalle corsie affollate del turismo di massa, salvo assurgere all’onore delle cronache quando un passo falso della Madre Terra ne scuote e sconquassa muri e certezze. 
Non si arriva qui per caso. Bisogna cercare attentamente quell’indicazione, sulla Strada Statale 153, che dall’uscita “Bussi sul Tirino” dell’Autostrada A25 raccorda, salendo, la via Tiburtina Valeria con la Strada Statale 17, all’altezza di Navelli. Finché, dopo circa 10 km di percorrenza, nei pressi del comune di Capestrano, trovi il cartello sulla sinistra: S. Pietro ad Oratorium. E la strada asfaltata si stringe man mano, permettendo il passaggio di un’auto alla volta, anche per l’invadenza non contenuta di ginestre e roverelle che si appoggiano ostinate sul manto stradale. Poi, l’asfalto lascia il posto al terreno battuto, e ti rendi conto che stai entrando in una dimensione diversa, troppo lontana dalla quotidianità convulsa lasciata ad un’ora e mezza da qui.

Il portone è aperto: sarà che fuori il sole è alto e caldo, sarà che le mura in pietra isolano dall’esterno, sarà la mancanza di arredi, ma una cortina di aria fredda si para davanti, come impedendo l’accesso.

Poi è subito chiaro. Angelo racconta, quasi sussurrando, del restauro dopo il terremoto, che ha ricostruito il soffitto, palesemente rinnovato nella copertura lignea, che ha rinforzato le colonne e che dovrebbe ripristinare il bel ciborio centrale, a base ottagonale, con tiburio decorato da insolite maioliche in ceramica colorata: ma i soldi sono finiti, per ora non c’è che da accontentarsi. Ecco il gelo, è evidente. Secoli di storia hanno patito lo scossone, e il cemento usato per rattoppare è ancora fresco, troppo fresco, non sufficiente a risanare la crepa, qui come negli altri posti feriti… Per fortuna l’abside centrale attira l’attenzione: l’arcone con gli affreschi di un color rosso quasi monocromo – una particolarità assoluta – in cui è ritratto il Cristo in trono, in stile bizantino, con il tetramorfo ai lati, al di sotto di cui si dispongono i 24 Vegliardi dell’Apocalisse; e la fascia inferiore affrescata con immagini di 6 monaci benedettini, stigmatizzati dalla tonsura del capo e dalla Regola fra le mani, disposti lateralmente alla finestra centrale dell’abside. Pensare che questi affreschi sono considerati una delle primissime testimonianze della pittura romanica abruzzese, ancora così vicina, nell’impostazione grafica, nella fissità degli sguardi, nella linearità dei panneggi, al prototipo dell’iconografia bizantina. Qualcosa, tuttavia, suggerisce di uscire, di tornare sui propri passi, lasciandosi alle spalle, lentamente, quelle colonne massicce, sei per lato, che creano la navata centrale lungo la quale, dal mese prossimo, e dopo la pausa invernale, incederanno fra emozioni e fiori freschi coppie di innamorati che qui decidono di sugellare il proprio patto per la vita. Non c’è esitazione, gli occhi sanno dove cercare. Eccolo, a destra del portale.

Più e più volte letto sui libri, adesso materializzato. Il bagaglio di notizie, in un attimo, fluisce in un’unica immagine onnicomprensiva. Il “latercolo (di forma quadrata), pentadico (con parole di cinque lettere), palindromo (leggibile nei vari sensi)”, secondo la sintesi di Rino Camilleri nel suo scritto del 2004 dedicato a questo argomento, ha affascinato, incuriosito e stimolato la riflessione di studiosi che in tutto il mondo si sono confrontati con questo enigma senza essere riusciti, ancora oggi, a trovarne una spiegazione univoca. Una sola certezza: rispetto ad altri palindromi diffusi nell’antichità, questo è l’unico, rinvenuto negli angoli più disparati del Mondo Antico (solo in Italia presente in almeno 30 siti), ad aver resistito per secoli, inciso su mattoni, vergato su papiri, graffiato sui muri, utilizzato a fini taumaturgici o esorcistici. Perché mai? Cosa vi si nasconde? Qual è la chiave del crittogramma? Il solo tentarne una traduzione è cosa ardua. Le varie interpretazioni proposte convergono sull’idea del Sator quale Creatore, Seminatore (in questo senso il termine è già presente in opere di scrittori latini quali Cicerone, Virgilio e altri), per cui l’idea sarebbe di una Entità che governa (tenet) con fatica (opera) le ruote (rotas), forse riferito alle Sfere celesti.

Ma la logica si incaglia nella parola arepo, dal significato oscuro (nome proprio di persona?, verbo?, radice celtica?),

da taluni considerato solo come un escamotage per garantire la simmetricità del termine opera. Possibile una tale superficialità? Possibile che una siffatta orditura di lettere, riconducibile a scienze esoteriche, legato a numerologia ed aritmomanzia, si perda in una simile leggerezza? Ma sciogliere il nodo non è facile. Ed ancora: il Quadrato è un simbolo pagano? Da escludersi, non conoscendosene di antecedenti a quelli rinvenuti nel 1936 a Pompei (sepolta, si ricorda, nel 79 d.C.) sul muro della Grande Palestra e sulla casa di Proquio Paculo (dove, fra l’altro, l’ordine delle parole è invertito, iniziandosi da Rotas, caratteristica comune ai Quadrati più antichi, superata in epoca medievale ma che si verificherebbe anche qui, a S. Pietro, se capovolgessimo il mattone). È quindi un simbolo cristiano? Probabile, come dimostrano centinaia di ricerche effettuate nel corso dei secoli, che hanno condotto alla sensazionale scoperta, negli anni Venti del Novecento, ad opera di tre studiosi (i quali non si conoscevano fra loro) che anagrammando le 25 lettere si ottiene la parola PATERNOSTER, ripetuta due volte, che si incrocia sulla lettera N (presente centralmente una sola volta e contenente una simbologia antichissima, collegabile fra l’altro alla lettera fenicia nun, segno di acqua o di pesce), lasciando escluse soltanto la A e la O: la cosiddetta tesi Grosser – Agrell dimostrerebbe che il Quadrato racchiude la preghiera cristiana per eccellenza (quindi già diffusa a pochi anni dalla morte di Gesù), con un riferimento esplicito all’alfa e all’omega dell’Apocalisse. Il che comporterebbe una diversa datazione dell’Apocalisse stessa, fino a quel momento ritenuta composta dopo il 100 d.C., dovendosi fare i conti con la ricordata distruzione di Pompei nel ricordato 79 d.C., presupporrebbe la presenza dei cristiani in questa località, suggerirebbe la lettura in chiave cristiana di tutta una serie di rimandi ai culti mitraici, pitagorici, celtici e alessandrini che, scavando, si rinvengono in questa piccola, esigua, griglia di lettere. Esigua?

Come può considerarsi tale se alla base vi è il quadrato, la figura geometrica che da sempre ha incarnato il collegamento fra Cielo e Terra, fra l’uomo e Dio, così nelle Piramidi egizie, come nelle Ziggurat, come nelle Piramidi dei Maja (per i quali la Terra stessa era quadrata), come nel Sancta Sanctorum del Tempio di Salomone, per giungere fino alla prefigurata Gerusalemme Celeste.

Maria Grazia Lopardi, studiosa aquilana dedita soprattutto alla storia medievale, all’architettura dei principali edifici sacri della sua città ed alla simbologia che vi si nasconde, si spinge oltre: nel Quadrato, fra l’altro comune, seppur con differenti segni grafici, a rappresentazioni rinvenute ai poli opposti del globo, come ad esempio nella civiltà Inca, si celerebbe non un semplice – eppur complesso ­ passatempo, ma la “Matrice”, l’Arché, il principio ispiratore dell’architettura sacra che ha permesso per secoli di innalzare templi facendo a meno di progetti scritti e disegnati, affidandosi piuttosto ai rapporti che scaturirebbero dal sistema di griglie che lega le varie lettere dello schema. C’è di più: nel Quadrato magico sarebbe contenuto il mistero costruttivo del Tempio di Gerusalemme, recuperato successivamente dai Cavalieri Templari ed arrivato fino alla Massoneria, i cui simboli si potrebbero ricondurre al Quadrato stesso. Salvo il volerlo considerare privo di significato (come pure qualcuno ha fatto), questo arcano non potrebbe essere un mero esercizio enigmistico, un banale bisticcio di parole, troppe le coincidenze, impossibile la casualità.

Sia che lo si voglia considerare di origine non cristiana, legato cioè a miti pagani, all’esoterismo o più semplicemente all’occultismo, o che si accolga l’idea di una realtà rivelata in esso secretato, forse la trasposizione di quel Verbo, di quella Parola alla radice del Creato, rimane un dato di fondo,

vale a dire l’intrigante gioco di parole che si inseguono, si amalgamano, si uniscono e poi separano in un intreccio senza fine di cui a noi, uomini del XXI secolo, sfugge il senso profondo. “Il mondo è stato creato con delle frasi, composte da parole, formate da lettere. Dietro queste ultime sono nascosti dei numeri, rappresentazione di una struttura, di una costruzione ove appaiono senza dubbio degli altri mondi ed io voglio analizzarli e capirli perché l’importante non è questo o quel fenomeno, ma il nucleo, la vera essenza dell’universo.” Così scriveva Einstein. Forse prima di lui qualcun altro lo aveva intuito. Molto accattivante. 
Le informazioni scoloriscono, però, e si fa strada un lieve senso di invidia per l’Iniziato, per colui che ha avuto la fortuna di sapere e di custodire, insieme a pochi altri, un segreto le cui fondamenta si sono perse nella nebbia dei tempi… Colui che forse non ha dovuto interrogarsi, perché aveva già tutte le risposte. 
D’un tratto le notizie si disperdono, come se il bagaglio si aprisse lasciando cadere indumenti in ordine sparso; o come se un groviglio di fili lanosi e intrecciati si dipanasse creando spazio nella testa, mentre, dopo un veloce saluto ad Angelo, i passi assecondano il richiamo, abbandonano il cortile, risalgono il vialetto, conducono inconsapevolmente verso quel corso d’acqua, così peculiare nelle sue caratteristiche biologiche da essere oggetto di studi e monitoraggi, come indicato nella bacheca di legno che precede l’accesso al bacino: il fiume Tirino inserito in un progetto dell’Unione europea (Aqualife) per la valutazione dello stato di conservazione di ecosistemi dipendenti dal sistema di acque sotterranee, la cui biodiversità è minacciata dalle attività antropiche, per giunta troppo incisive solo pochi chilometri più a valle, ove insiste il polo chimico di Bussi. Il dato scientifico, ancorché interessante, è al momento secondario: un invito troppo forte va accolto, troppo forte l’impulso di immergere la mano nello scorrere limpido e festante, avvertendo quel brivido che scuote i sensi, brivido vitale che per un attimo ti fonde con la natura intorno, cancellando ombre e perplessità. Ed in quell’attimo sembra di avvertire “il nucleo”, quella unità nella diversità spesso millantata, mai veramente assaporata. 
Ma è un momento. Poi tutto torna al proprio posto, nella realtà frammentata e diffratta di una vita di rincorse affannose. E, ripartendo, rimane alle spalle un mondo sfiorato, una Storia millenaria che porta con sé molte domande, spesso non soddisfatte, per lo meno non abbastanza. Qui si chiude il cerchio. Dubito, ergo sum.

 

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FRANCO CAVALLO, LA POESIA di Alessandro Gaudio – Numero 4 – Aprile 2016

FRANCO CAVALLO, LA POESIA

 

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 La plaquette, edita per i tipi di SIC − che poi confluiranno nella bellissima esperienza delle edizioni Altri Termini, nate da una costola dei Quaderni internazionali omonimi che, inaugurati nel maggio del ’72, risulteranno fondamentali, tra l’altro, per il recupero in chiave ironica e neosperimentale del surrealismo e delle avanguardie storiche europee −, ha una circolazione quasi clandestina: eppure, la silloge, pubblicata in proprio, giunge sorprendentemente fin sulla scrivania di Pier Paolo Pasolini che, qualche mese dopo, in aprile, ne dirà sinteticamente sulle colonne del «Tempo»: «un libriccino delizioso, − assicurerà Pasolini, al termine di una delle sue Descrizioni di descrizioni − credo fuori commercio».1 Forse sarà stato il Piccolo arazzo musicale che Cavallo, all’interno di Rien ne va plus, dedica proprio a Pasolini ad attirare l’attenzione del più grande intellettuale italiano del secondo Novecento? O, piuttosto, sarà stato il tono stravagante della poesia di Cavallo (poi scomparso nel 2005) a sollecitarne la considerazione?
A quell’altezza, Cavallo poteva già vantare, tra le altre cose, la pubblicazione di due apprezzabili raccolte di versi per Rebellato e, in particolare, di altre due sillogi, all’interno dell’importante collezione di poesia della Piccola Fenice degli italiani (diretta da Roberto Sanesi) che l’editore Guanda di Parma inaugurò alla fine degli anni Sessanta proprio con Fétiche di Cavallo.2 Per i lettori di «Myrrha» non riproduco l’elogio della natura dedicato a Pasolini, preferendogli invece Bruchi perché mi sembra che in essa sia maggiormente manifesta l’ammissione di una debolezza, quasi la certificazione di uno scacco dell’intelligenza, frutto dell’unione dell’indolenza meridiana del poeta campano e dello scetticismo riguardo alle regole fisse della trigonometria borghese che tanto disturbavano anche il grande intellettuale bolognese.

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l(ex)iquida obniscienza in presenza glaucale
nell’altissimo pino vedean li dèi e l’amore,
pipsula in insula corallina anfitrioni − e

poi ritornati alle belle giornate d’autunno
sull’auto(bus) che li conduce all’accettazione
supina della res padronale, lambruschi lombri-
chi cauti alla pozzanghera e alla genuflessio-
ne, alle regole fisse della trigonometria bor-

ghese (ah, corona di spine della rivoluzione!)

Franco-Cavallo

Nel gennaio del 1974 Franco Cavallo (nato nel ’29, a Marano, vicino a Napoli) pubblica un minuto volumetto contenente nove poesie e intitolato Rien ne va plus.

Rien ne va plus si era aperto prendendo in prestito da Edoardo Sanguineti l’ammissione franca dell’inutilità dei nostri destini («che non ci sono più storie / che si possono raccontare») e proseguirà, nella lirica successiva a quella qui riproposta, contestando il rapporto assiduo e geometrico tra la casa (la sua, come quella di Racine e quelle di tutti i poeti) e l’albero del Potere (scritto con l’iniziale maiuscola). Già nel 1974, al di sotto della franca accettazione dello scacco di un’intera generazione di intellettuali (sancita e resa definitiva, poi, dalla morte di Pasolini), Cavallo si calava, come un bruco, nel corpo vivo della lingua, cercando − come egli stesso aveva ammesso più volte − di realizzarsi in essa, provando a scavare in sé alla ricerca del posto sotterraneo in cui quella lingua si cela e correndo il rischio, alla fine dello scavo, di non trovare comunque niente.
A questo vuoto la poesia di Cavallo contrappone un eccesso di materialità3 che, poi, continuerà a caratterizzarla nei versi degli anni seguenti; essa è frutto di una scrittura che «[…] cigola / come il cardine / di una vecchia cassapanca» e che accoglie la mancanza, tematizzandola e, di fatto, prosciugandola o, se si preferisce, occupandola con la propria inquietudine formale e lessicale.4 Tuttavia, al di là di quel niente che si riempie di sé («Manca sempre qualcosa, − aveva detto qualche anno prima l’autore di Poesia in forma di rosa − c’è un vuoto / in ogni mio intuire […]»),5 ciò che nella poesia di Cavallo aveva incuriosito Pasolini era stata, con ogni evidenza, l’espressione della condizione greve di chi ha ormai compreso che tutto è stato fatto: di questo niente resta una confusa memoria che, in versi, è all’incirca un’ipotesi di distruzione; più propriamente, è una eco che si ripete di canto in canto, sino a includere, nella sua irrimediabile vacuità, l’intera condizione umana e la sua sorte. È su questo crinale che la poesia (anche quando, negli anni successivi, si verserà nel nonsenso) ricorrerà alla consistenza delle sue figure grammaticali e linguistiche e delle sue parole-cose per riempire quell’assenza che Cavallo sente così presente e finirà per ribadire l’indissolubilità del legame strutturale che la congiunge alla storia.

 1 P.P. Pasolini, Descrizioni di descrizioni, a cura di G. Chiarcossi, Milano, Garzanti, 2006, p. 390. 2 Si tratta di Paesaggio flegreo del 1957 e Reliquia marina e altri versi del 1959 per Rebellato e, per Guanda, di Fétiche (1969) e I nove sensi (1971). 3 Cfr. V.S. Gaudio, L’ascesi della passione del Re di Coppe, Milano, Celuc, 1979, p. 7. 4 Stefano Lanuzza ha già parlato della poesia di Franco Cavallo come di «parole squillanti nel vuoto»; l’espressione segnala con grande efficacia la concomitanza nei versi del poeta campano di nichilismo e artificio formale (cfr. S. Lanuzza, Lo sparviero sul pugno. Guida ai poeti italiani degli anni ottanta, Milano, Spirali, 1987, p. 117). 5 P.P. Pasolini, Poesia in forma di rosa [1964], Milano, Garzanti, 2012, p. 169.

 

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IL CINEMA A MATERA di Delio Colangelo – Numero 4 – Aprile 2016

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Matera, a partire dal secondo dopoguerra, è stata terra di cinema; più di trenta produzioni cinematografiche sono state realizzate nei Sassi. Una tendenza dominante, da Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini a Cristo si è fermato a Eboli di Francesco Rosi, ha messo in luce la condizione di miseria e arretratezza della Basilicata, influenzata da autori come Carlo Levi ed Ernesto De Martino. Negli ultimi anni, Matera è diventata teatro di opere filmiche – come The Passion di Mel Gibson – che hanno contribuito a formare l’immagine di una città quasi mistica e culturalmente attiva.

La designazione di Matera come città Capitale Europea della Cultura del 2019 sembra essere la definitiva redenzione di una cittadina che per lungo tempo ha suscitato la “vergogna nazionale”.

Tratto dal libro omonimo di Carlo Levi, racconta l’esperienza di confinato vissuta da Levi stesso durante l’epoca fascista. Durante i due anni trascorsi in esilio, Levi, medico progressista torinese, ha l’occasione di entrare in contatto con la civiltà contadina lucana che osserva con meticolosa attenzione e che lo colpisce profondamente. Pur avendo come centro il paese di Aliano, dove lo scrittore ha vissuto, vi sono descrizioni di Matera che, come abbiamo già detto, hanno prodotto grande attenzione mediatica sul destino dei Sassi.

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IL CINEMA A MATERA

 

Delio-Colangelo

Il primo film di finzione interamente girato nei Sassi è La Lupa (1953) di Alberto Lattuada, trasposizione cinematografica dell’omonima novella di Giovanni Verga.

Nonostante non manchino ritardi e sterili polemiche, la città sta attirando la creatività giovanile e rafforzando i propri eventi e manifestazioni culturali. La stagione turistica si allunga, con sempre più frequenti episodi di overbooking, ed è caratterizzata da una crescente dimensione internazionale. Tra le grida di gioia che hanno invaso la Piazza San Giovanni nell’ottobre del 2014, quando il ministro Franceschini ha comunicato la scelta di Matera come capitale europea della cultura, molti parlavano di un importante riscatto per la città. Una città che ha compiuto un lungo percorso per riabilitarsi e che, dopo il risultato dell’iscrizione dei Sassi nel patrimonio Unesco nel 1993, trova, come Capitale Europea della Cultura, il suo compimento. 
Qualcuno ha detto che Matera, prima di essere stata città dell’Unesco e città della cultura, è stata città del cinema e su questo vorrei soffermarmi un attimo. Su come il cinema è stato importante sia per la riflessione sulla condizione della città che per la sua promozione mediatica e turistica.
Dagli anni ’50 agli anni ’70, la produzione cinematografica a Matera, infatti, risente di una vasta riflessione che, da Levi a De Martino, ha posto l’attenzione sui problemi della Basilicata.

In particolare, si può citare una piccola opera di un giovane Antonioni dal titolo Superstizione e diversi lavori, tra cui Magia Lucana e La Madonna di Pierno del regista Luigi Di Gianni, uno dei più importanti rappresentanti del documentario antropologico. 
Un film di finzione, girato in parte a Matera, che raccoglie questa eredità e questo fermento, è Il Demonio (1964) di Brunello Rondi. Il film ha come obiettivo quello di offrire un ritratto autentico della Basilicata, soprattutto in riferimento a quel “mondo magico” che circondava la realtà lucana degli anni ’50 e ’60. A metà strada tra storia drammatica e documentario, il film racconta i riti contro il malocchio, gli esorcismi, le superstizioni. La protagonista, Purificata, non riuscendo a superare una delusione d’amore, cade nella “fascinazione”. La fascinazione, o la possessione, rappresenta il momento di stallo in cui si trova Purificata che non riesce ad accettare la fine di un amore; il percorso di liberazione da questo male, che però la condurrà a una fine tragica, è un susseguirsi di riti liberatori, pratiche magiche, esorcismi, lamenti funebri che il regista inserisce all’interno della narrazione con intento quasi documentale. In alcune suggestive sequenze girate nei Sassi, avviene il conflitto magico: da una parte, Purificata che cerca di minare, attraverso filtri amorosi, la solidità del matrimonio tra il suo amato e un’altra donna mentre, dall’altra, gli sposi che proteggono con alcuni rituali la loro unione dalle forze negative. 
Un “paesaggio” magico che mostra il netto divario esistente tra l’arretratezza della terra lucana e il progresso e il boom economico che veniva vissuto in altre zone d’Italia. 
Questa tendenza rappresentativa, che incomincia a tramontare a partire dagli anni ’70, ha un ultimo e forse più importante esempio nella trasposizione cinematografica del romanzo di Levi a opera di Francesco Rosi.

A metà degli anni ’60, Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini inaugura una tendenza ad ambientare nei Sassi di Matera vicende di argomento biblico. I Sassi diventano la Gerusalemme della predicazione cristiana e della via crucis

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L’operazione interessante compiuta da Lattuada consiste nell’usare i Sassi non come sfondo per rappresentare un paese siciliano (originaria ambientazione del racconto di Verga), ma come effettivo luogo in cui si svolgono le vicende raccontate. Il paesaggio mostrato, quindi, porta nel film il suo carico di drammaticità che integra l’opera verghiana. Prova ne è, ad esempio, lo spazio che nella prima parte del film è dedicato alla Festa della Bruna di Matera in cui si snoda la vicenda. L’inserimento nel film di riti e tradizioni tipicamente materani serve proprio a intessere la trama nel nuovo contesto territoriale.
Nel Dopoguerra è intensa anche la produzione documentaristica. Nel 1949 vi è l’esordio alla regia di Carlo Lizzani con il documentario dal titolo Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiato (1949). L’interesse verso la realtà materana e lucana coinvolge anche altri registi che, anche sulla scia delle spedizioni etnografiche organizzate da Ernesto De Martino, raccontano i riti e le superstizioni che regnano in Basilicata.

Una ricca produzione documentaristica investe la Basilicata con l’evidente compito di mostrarne le condizioni culturali e sociali.

Il Cristo si è fermato a Eboli (1979) di Rosi è sicuramente uno dei prodotti artistici più rappresentativi dell’identità lucana e racconta con realismo un pezzo di storia della Basilicata.

mentre la Murgia materana è il luogo della crocifissione e della resurrezione del Cristo. Tuttavia, Pasolini, non sceglie Matera in quanto somigliante a Gerusalemme, ma perché è rappresentativa del contesto socioeconomico del sud d’Italia. Così se, da una parte, c’è l’intenzione autentica di sottolineare la forza rivoluzionaria del messaggio cristiano e ricollegarla a un generale senso del sacro, dall’altra, emerge il desiderio di denunciare e mettere in luce i contesti di vita inaccettabili in cui vivevano gli abitanti di questa parte del Sud. La macchina da presa mostra i paesaggi, i volti scavati, con la stessa attenzione dimostrata da Pasolini nei suoi precedenti film sulle borgate romane

Matera, quindi, trasferisce all’interno del film non solo la sua conformazione fisica ma anche la sua specificità sociale, divenendo una metafora di tutta la questione meridionale.

Il tentativo compiuto dall’autore è quello di far emergere l’immagine autentica di un territorio raccontando una storia che non le appartiene.
Dagli anni ’70 in poi, Matera verrà utilizzata per rappresentare la Spagna (L’albero di Guernica), la Sicilia (L’uomo delle Stelle); diventa, quindi, esclusivamente una location cinematografica che avrà particolare fortuna con le storie di argomento biblico. Dopo un King David girato negli anni ’80 e di scarso successo (che però porta Richard Gere tra i Sassi), si apre per Matera l’epoca delle grandi produzioni hollywoodiane. Nel 2004 esce nelle sale The Passion of the Christ (2004), storia della passione di Cristo raccontata da Mel Gibson, i cui esterni sono stati girati quasi interamente nei Sassi. La pellicola, che racconta la passione di Cristo dall’invocazione nel giardino dei Getzemani sino alla resurrezione, ha dato una grande esposizione mediatica internazionale ai Sassi di Matera. Non vi è più riflessione sul contesto sociale né riferimento all’identità culturale; tuttavia, la distribuzione mondiale e il successo del film offrono a Matera un’importante vetrina promozionale. The Passion viene spesso citato come caso di cinema che ha dato un forte impulso al turismo cittadino ed effettivamente, dati alla mano, nei due anni successivi all’uscita del film il turismo straniero è raddoppiato. Probabilmente il film ha prodotto anche maggiore consapevolezza, nei cittadini e nelle autorità, sulla dimensione internazionale di Matera e sulle potenzialità turistiche dei Sassi che, pur essendo già patrimonio Unesco, risultavano ancora inespresse. 
Dopo il film di Mel Gibson, altre grandi produzioni, a tema religioso, si sono fermate a Matera come The Nativity Story (2005), The Young Messiah (2016) o remake di peplum famosi come Ben Hur (2016).

Oggi le strette stradine dei Sassi sono un set a cielo aperto, passaggio continuo di produzioni cinematografiche e televisive, dimostrando la stretta relazione tra il cinema e la città.

 

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GRIMALDI, LA SUA RICERCA DEL SUBLIME di Venera Coco – Numero 4 – Aprile 2016

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Nel corso del tempo ogni artista ha intravisto nelle proprie opere qualcosa di trascendentale, quasi un barlume di eternità. In quel chiarore ha riconosciuto una parte di sacro, un’espressione di sublime che ne ha segnato l’esistenza. Una ricerca, a volte introspettiva a volte estetica, che diventa immediata agli occhi di chi ne osserva le forme, i colori e l’armonia. 

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GRIMALDI, LA SUA RICERCA DEL SUBLIME

 

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Come un vero archistar di fama internazionale, Grimaldi va oltre la moda, immagina scenari differenti, come fece la sua maestra Fernanda Gattinoni.

Inconfondibile romantico, non poteva essere altrimenti. Grimaldi è originario di Salerno, una terra idilliaca e poetica, un luogo dalla mille sfumature che con le sue tonalità pastello, delicate e femminili, ispira gli abiti sognanti. Un uomo vero e sincero che non illude le donne proponendo modelli immettibili, ma riesce a illuminarle con linee semplicemente seducenti. 
Nessuna forma è esacerbata, anzi appare leggera, fluttuante come anche nel suo prêt-à-couture, che costruisce minuziosamente con sbiechi cuciti a mano, ultimati poi nei laboratori. Per questi capi lo stilista sembra giocare con atmosfere urbane, dove ogni pezzo è considerato al pari di una costruzione filiforme e sinuosa come i grattaceli ideati dalla commiata Zaha Hadid. È palpabile la transavanguardia, la sperimentazione, l’utilizzo di colori metallici.

Nonostante il suo eterno amore per l’haute couture, si reinventa ogni giorno, diversificando e trasferendo il proprio savoire-faire anche nel quotidiano. Ed ecco che il suo valore stilistico si palesa allo specchio quando le donne indossano quel ready-to-wear su misura che indovina e asseconda i desideri femminili, tanto quanto i suoi abiti d’alta moda. I modelli d’haute couture di Grimaldi ricordano l’effimero del vento che con braccia invisibili raccoglie una manciata di foglie per ricoprire, con leggiadria, le curve di chi ne trattiene le vesti. Altri sembrano toccare la goccia più debole di una nuvola che si scioglie sotto il peso di perle iridescenti.

Frange come petali di ninfee, come sottili tentacoli che accarezzano, quasi senza toccarne l’essere, per lasciarsi scorrere in una danza erotica.

Lunghe tuniche simili a infinite strisce di terra brulla si muovono sinuose come il fermento di un tubero che lotta. Bluse che si svincolano dalla sabbia come rettili, abbagliando i caldi del deserto con le loro squame cangianti. La magia sta tutta nelle sue mani, nel suo valore della tradizione, in sineddoche modaiole, dove la parte è importante tanto quanto il tutto e va considerata con estrema grazia.

Qualsiasi ispirazione riesca a trarre è certamente unico il risultato che propone alla donna del suo tempo.

Abile couturier riesce a raccontare per ogni abito un’avvincente storia il cui epilogo è sempre una dichiarazione d’amore alla sublime bellezza.

 

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CITTÀ SICURE: NORD E SUD A CONFRONTO di Giorgio Salvatori – Numero 4 – Aprile 2016

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Poi, però, si deve mettere in conto il crescente problema della sicurezza: scippi, rapine, furti, omicidi, danneggiamenti. Roba che in Paese o in campagna avviene di rado, salvo alcune aree del Nord a recente, alto tasso di aggressioni a persone e di furti in abitazioni. Ma dove avvengono, con maggiore incidenza i crimini metropolitani? Quale è la città più sicura e, all’opposto, quella più insicura? Gli ultimi dati ISTAT disponibili risalgono ad oltre un anno fa, ma il Corriere della Sera, recentemente, è tornato a commentarli in relazione alla situazione, critica, di Milano.

CITTÀ SICURE: 
NORD E SUD A CONFRONTO

 

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Li ricordiamo anche noi, perché le classifiche dei reati, riferite al numero delle denunce rilevate, ci regalano alcune conferme ma anche qualche sorpresa. 
Partiamo dalle prime. Sud e Isole, purtroppo, continuano a far registrare il maggior numero di omicidi rispetto alle altre Regioni italiane, ma il Nord vanta, in base ai dati ISTAT, altri primati negativi. Milano è la capitale dei furti, con quasi 8000 denunce ogni centomila abitanti, seguita da Bologna, con 7600, e, poi, Roma, Torino, Firenze, Venezia, Rimini. A Milano, poi, è preoccupante la curva ascendente del numero dei furti se messa a raffronto con l’andamento, sostanzialmente stabile, dello stesso tipo di reati a Napoli, una città dove quasi ogni scippo denunciato balza agli onori della cronaca nazionale e serve a rinforzare, nell’opinione di molti, la convinzione che passeggiare senza scorta nella ex capitale del regno borbonico sia rischioso quasi come avventurarsi, da soli e disarmati, nei territori controllati dall’ISIS.
Per i furti, invece, dati alla mano, il Nord, e, in particolare, il Nordovest, batte il Sud (con la sola eccezione di Catania) con percentuali decisamente superiori rispetto al vituperato Meridione. Ed anche sul fronte rapine Milano e Torino non brillano certo per maggiore sicurezza, risultando ai primi posti, in Italia, insieme con Napoli e Bari. Napoli, però, resta indietro rispetto a Bologna, Firenze, Milano e Roma per numero di reati connessi con lo spaccio di droga. 
Anche atti di vandalismo e danneggiamenti, sorprendentemente, vedono in testa Torino, Milano e Genova. 
Qualcuno osserverà che, su tutto, comunque, dominano incontrastati i feroci delitti imputabili alla criminalità organizzata, fenomeno storicamente e geograficamente legato al meridione. Andiamo a esaminare, allora, i dati forniti, in questo campo, dal Ministero dell’Interno. Prendendo come termine di paragone il 2007, il rapporto del Viminale sulla sicurezza, nel 2015, ci mostra un andamento discendente degli omicidi di mafia, ’ndrangheta, camorra e altre simili consorterie criminali. Queste morti, che erano 147 nel 2007, sono scese a 49 nel 2014. Una diminuzione di oltre il 70 per cento rispetto a sette anni prima. Tutto bene allora? Assolutamente no. 
Il percorso è sempre in salita. Non soltanto perché i dati globali non sono rassicuranti per nessuna città italiana (ad eccezione di Matera, guarda caso al Sud, dove, in termini relativi, la vita scorre decisamente più tranquilla che altrove) ma anche perché è ancora lunga la strada da percorrere per sconfiggere il radicamento al Sud della criminalità organizzata, la sua espansione al Nord, la quiescenza di troppi cittadini meridionali ed anche, spesso, settentrionali, di fronte a questo cancro spaventoso. 
Modificare il generico pregiudizio antimeridionale, però, è il secondo dovere che ci impone l’analisi meno emotiva e più razionale della realtà in cui siamo immersi, giorno dopo giorno, dal Nord al Sud della Penisola. La coesione sociale, economica e culturale della Nazione va perseguita come un bene comune fondamentale e non come una iattura da scongiurare. Vagheggiare il ritorno a piccole e chiuse patrie regionali, nell’età del pianeta globale, non può essere altro che mera e vana utopia.

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