LA CHIESA DI SAN NICOLA DI MYRA di Paola Ceretta – Numero 23 – Dicembre 2021 gennaio 2022 Ed. Maurizio Conte

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LA CHIESA DI SAN NICOLA DI MYRA

 

 

Quella dedicata a San Nicola di Myra è una piccola chiesa rupestre che si trova nella provincia di Mottola, in territorio tarantino, dove per secoli i devoti hanno pregato davanti alle immagini sacre che custodisce e al santo di origini orientali che ha ispirato la figura di Babbo Natale tanto diffusa nella civiltà occidentale. I miracoli operati in favore dei bambini e l’amore per essi sono alla base della tradizione pugliese di San Nicola che ogni anno torna sulla Terra per lasciare un dono ai bambini. 

 

Posta lungo l’antico cammino dei pellegrini che nel Medioevo si recavano nel Sud Italia percorrendo la via Appia per imbarcarsi nei porti di Taranto e Brindisi e raggiungere la Terra Santa e per gli abitanti del circondario, 

la chiesa di San Nicola, seppure segnata dal trascorrere del tempo, 

è ancora oggi piena di fascino e significati.


Le pitture che conserva – dipinte in un arco di tempo che va dalla fine del X alla prima metà del XIV secolo – rappresentano in territorio pugliese un’arte sacra popolare nata da una commistione di influssi teologici ed artistici dell’Oriente e dell’Occidente cristiano. 

 

Arrivati sul ciglio della gravina di Casalrotto e attraverso una scala tagliata nella pietra – cui la Sovrintendenza ha adattato una struttura in ferro – si giunge all’entrata dell’edificio, ricavata sul lato ovest, dove sono presenti resti di tombe medievali e due nicchie con tracce sbiadite di antichi affreschi.

Varcata la soglia, si entra nella roccia, in una pianta a croce greca inscritta, 

in un mondo lontano e simbolico


e si viene accolti da raffigurazioni come la “Deesis” o la “Vergine con Anapeson” e dalle figure di santi che ci guardano e ci raccontano la loro storia, fatta di scelte di fede, di eventi miracolosi, di martìri, di sangue innocente versato, di corpi frammentati e di reliquie. 

 

La zona di Mottola ricca di gravine – spaccature del terreno di origine carsica – ospita altre chiese rupestri che insieme a quella dedicata al santo di Myra sono conosciute  come “Le mirabili grotte di Dio”, ma questa di San Nicola spicca fra tutte per la bellezza e lo stato di conservazione dei suoi affreschi, sopravvissuti al trascorrere del tempo e agli atti vandalici ed offre al visitatore contemporaneo emozioni e suggestioni uniche, create anche dalla luce che penetra all’interno dell’edificio.

E’ l’unica, infatti, nella quale in alcuni giorni dell’anno si manifestano ierofanie 

sulle immagini di tre santi, è quella dove l’invisibile diviene visibile 

e nella quale antichi e sconosciuti architetti hanno voluto dare 

manifestazione al sacro: hiéros “sacro”, phanein “manifestare”.


Attraverso un foro gnomonico ricavato nella nicchia a destra dell’entrata, accanto a croci dipinte, al tramonto i raggi solari penetrano all’interno degli ambienti sacri e proiettano una piccola ellisse luminosa che appare sui corpi di tre santi che divengono “presenti” e sembrano voler trasmette la loro benedizione ai fedeli: sul cuore e la mano destra benedicente di San Nicola, il 14 marzo e il 30 settembre, date legate alla nascita del santo e alla collocazione delle sue spoglie nella basilica di Bari; sul petto di San Leonardo da Limoges il 6 novembre e sul corpo di San Giovanni Crisostomo il 14 settembre, giorni legati alla loro morte e ricorrenza fissata dal Calendario Romano dei Santi. 

 

La devozione a San Nicola di Myra in Italia ha origini antiche e, seppure la veridicità di alcuni episodi legati alla sua storia sia controversa, il racconto della sua vita è costellato da azioni caritatevoli e memorabili verso poveri e bisognosi e da numerosi miracoli. 

 

Vissuto tra il III e il IV secolo, è un santo legato all’acqua, al mare, protettore di naviganti, mercanti, viaggiatori, ma lo è anche dei bambini e delle fanciulle. E’ un santo miroblita, taumaturgo. Il suo corpo opera miracoli, guarisce. Fonti antiche raccontano che dalle sue spoglie emanava una fragranza e scaturiva un liquido chiamato oleum, unguentum, myro considerato salutare e prodigiosa medicina, quella “manna” che ancora oggi viene raccolta dalla sua sepoltura di Bari e distribuita ai fedeli.

 

Avvicinarsi al culto di San Nicola, così profondamente radicato in territorio pugliese, può diventare oggi l’occasione per riscoprire radici, riti e tradizioni popolari di cui è custode e ricco il Meridione ed addentrarsi in un territorio unico come quello delle Murge tarantine può farci conoscere antichi percorsi, mostrare inaspettati paesaggi e condurci a scoperte sorprendenti come le chiese rupestri di Mottola.

 

 

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UN’ACCADEMIA NEL NOME DI FILANGIERI di Amedeo Arena – Numero 23 – Dicembre 2021 gennaio 2022 – Ed. Maurizio Conte

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UN’ACCADEMIA NEL NOME DI FILANGIERI

 

quando delineò il dovere del Filosofo nel secondo libro de La Scienza della Legislazione, che “Se i lumi che egli sparge non sono utili pel suo secolo e per la sua patria, lo saranno sicuramente per un altro secolo e per un altro paese. Cittadino di tutti i luoghi, contemporaneo di tutte l’età, l’universo è la sua patria, la terra è la sua scuola, i suoi contemporanei e i suoi posteri sono i suoi discepoli”.

Non stupisce, pertanto, che nella Napoli del XXI secolo sia sorta 

un’Accademia dedicata al grande Illuminista, 


le cui idee erano avanzatissime per i suoi tempi e risultano, ancora oggi, di stringente attualità. 
La Scienza della Legislazione diviene quindi lo spunto per discutere di temi quali il diritto alla felicità, l’integrazione europea, le relazioni atlantiche, il cosmopolitismo, nonché – tema caro a Myrrha – la valorizzazione della bellezza di Napoli e del Mezzogiorno.

 

“La modernità del pensiero di Filangieri” è stato il tema dell’incontro inaugurale dell’Accademia, ospitato nella splendida cornice del Museo Civico Filangieri.


In tale occasione, si è discusso del progresso civile promosso dall’illuminismo italiano, del fascino dei luoghi frequentati da Filangieri e dei punti di contatto tra il suo pensiero e quello dei padri fondatori del processo d’integrazione europea.   

 

Al primo piano di tale Museo sono conservate alcune delle lettere scambiate, alla fine del ‘700, tra Gaetano Filangieri e lo statista americano Benjamin Franklin. Il secondo incontro promosso dall’Accademia presso 

il Museo Filangieri si è perciò concentrato sul diritto alla felicità, un tema centrale 

tanto nella Dichiarazione di indipendenza americana, 

quanto ne La Scienza della Legislazione. 


Tale opera fu molto apprezzata da Franklin, che con la sua ultima lettera a Filangieri inviò al filosofo campano una copia della Costituzione degli Stati Uniti d’America, approvata pochi giorni prima dalla Convenzione di Filadelfia (v. G. Sinisi, Da Filangieri alla Costituzione americana, in Myrrha n. 4/2016).

 

“Gaetano Filangieri e l’integrazione europea” è stato il titolo dell’incontro organizzato dall’Accademia, in collaborazione con l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e la sezione partenopea della Gioventù federalista europea, presso Palazzo Serra di Cassano. In tale occasione,

 

sono stati posti in evidenza i paralleli tra il secondo libro de La scienza della legislazione, in cui si auspica la liberalizzazione degli scambi commerciali 

per prevenire i conflitti tra le nazioni,


e la dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950, in cui si afferma la necessità di una solidarietà economico-produttiva come presupposto di un processo d’integrazione che ha trovato espressione nelle tre Comunità europee e, da ultimo, nell’Unione Europea.   

 

“Filangieri e la Bellezza” è stato, poi, il titolo dell’incontro promosso dall’Accademia presso il Castello Giusso di Vico Equense, ultima dimora di Filangieri. “Il senso interno del bello è nell’uomo”, si legge nel quarto libro de La Scienza della Legislazione

Facciamo che l’orecchio dello scultore, dell’architetto e del pittore si eserciti 

a vedere le più belle produzioni della natura e dell’arte.

“Facciamo che colui che alla musica si destina impieghi [le sue orecchie] nel sentire quelle semplici ma sublimi cantilene, le bellezze delle quali tutti possono sentire e gustare.” In linea con tali insegnamenti, sono stati eseguiti diversi brani di musica napoletana del Settecento e dell’Ottocento e si è parlato della valenza “etica” della bellezza per Teresa Filangieri Fieschi Ravaschieri, nipote del filosofo, filantropa e fondatrice di un ospedale per malattie infantili.

La musica è stata protagonista anche dell’incontro organizzato dall’Accademia 

presso il Museo Principe Diego Aragona Pignatelli Cortés:


“Da Gaetano Filangieri a John Lennon: il sogno cosmopolita nel 50° anniversario di Imagine”. In tale occasione, è stata ricordata l’inaugurazione del mosaico “Imagine”, dedicato al sogno cosmopolita di John Lennon, nell’ambito dello Strawberry Fields Memorial a Central Park. Tale mosaico, che riproduce un esemplare pompeiano custodito presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, fu donato alla città di New York dal Comune di Napoli per volontà della Giunta Valenzi, su iniziativa dell’allora Presidente dell’Azienda autonoma soggiorno e turismo Giuseppe Castaldo.

 

Occorre, infine, ricordare il Premio per giovani giuristi “Gaetano Filangieri”, istituito dall’Accademia a favore dei laureati in giurisprudenza, di età inferiore a 30 anni, che con le loro tesi abbiano saputo “trasporre nella contemporaneità il pensiero cosmopolita di Filangieri”. L’auspicio è che tale Premio esso possa indurre i laureandi ad avvicinarsi all’opera di Filangieri, affinché i suoi ideali possano continuare a vivere nelle menti e nei cuori dei giuristi di domani.      

 

 

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MUSICA STRUMENTALE DI VERDI A NAPOLI di Antonio Lopes – Numero 23 – Dicembre 2021 gennaio 2022 – Ed. Maurizio Conte

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MUSICA STRUMENTALE DI VERDI A NAPOLI

 

Verdi compositore di musica strumentale a Napoli. 

 

Si può certamente affermare senza ombra di dubbio che i tre maggiori operisti italiani che hanno operato nella prima metà dell’800, Rossini, Bellini e Donizetti, hanno avuto con la città di Napoli e con il San Carlo un rapporto speciale in forza del quale hanno raggiunto grandi successi internazionali e confermato ancora in pieno secolo XIX il ruolo di Napoli come capitale europea della Musica e del Melodramma.Diverso è il caso di Giuseppe Verdi.

 

Si annoverano solo due opere del catalogo verdiano che furono tenute a battesimo 

al San Carlo di Napoli: Alzira (1845) e Luisa Miller (1849),

 

va poi ricordato che Un Ballo in Maschera, commissionato dal San Carlo nel 1856 non poté essere rappresentato a causa delle richieste della direzione del Teatro, la quale, temendo i rigori della censura borbonica, impose al compositore tali e tante modifiche al libretto da indurlo a ritirarsi. Il desiderio di mettere in scena la sua opera spinse comunque il Maestro a prendere contatto con l’impresario del teatro Apollo di Roma, Vincenzo Jacovacci, il quale fu ben lieto della notizia, ma preannunciò che l’opera avrebbe dovuto subire qualche cambiamento per la censura pontificia. Il librettista Antonio Somma esortò Verdi a lasciar perdere e a dare il libretto a Milano dove sarebbe passato indenne in teatro, ma per il Maestro bisognava dare uno «schiaffo» al teatro napoletano, mettendo in scena l’opera «quasi sulle porte di Napoli e far vedere che anche la censura di Roma ha permesso questo libretto». 

 

Occorre ricordare che successivamente i rapporti tra il San Carlo e Verdi migliorarono: infatti il Maestro vi mise in scena la ripresa del Simon Boccanegra nel 1858 e vi rappresentò la prima italiana del Don Carlo nel 1872 andato in scena per la prima volta a Parigi nel 1867. In ogni caso a Napoli furono riproposte subito dopo le prime rappresentazioni, quasi tutte le opere del compositore di Busseto e sempre con grande successo, al punto che tuttora questo repertorio è probabilmente quello più amato e apprezzato dal pubblico napoletano. 

 

Fatta questa premessa, può essere interessante rievocare un altro episodio, non molto noto, della biografia del grande musicista che vede coinvolta Napoli e il suo teatro.

Nel 1873 Verdi è di nuovo a Napoli per la messa in scena dell’Aida andata in scena 

al Teatro dell’Opera del Cairo, il 24 dicembre 1871 e poi a Milano 

al Teatro alla Scala l’8 febbraio del 1872.


È l’opera che più ha amareggiato Verdi nel corso della sua intera carriera: «Mi ha procurato noje infinite e disillusioni artistiche grandissime». In effetti, il pubblico non aveva apprezzato granché, pur nel rispetto per quello che già allora era già considerato un “Padre della Patria”, ma soprattutto la critica aveva sollevato obiezioni di “imitazione wagneriana”. Per Verdi questo era troppo: «Finire imitatore alla mia età, dopo 35 anni di carriera!». 

 

Durante le prove dell’opera al San Carlo, il soprano Teresa Stolz (già moglie del direttore d’orchestra Angelo Mariani e poi legata da “affettuosa amicizia” con il compositore), ingaggiata per la parte principale, si era ammalata. La prima era stata posticipata, e così 

Verdi «nei momenti di ozio all’albergo Crocella» aveva scritto il suo unico 

Quartetto per archi, in mi minore, eseguito privatamente in albergo, 

presenti non più di sette-otto ascoltatori.


Fra i presenti c’era il corrispondente della Gazzetta Musicale di Milano, sulla quale, pochi giorni dopo, era uscito un grande articolo intitolato 

“Un quartetto di Verdi!”.


L’esordio fu affidato ad un ensemble formato dalle prime parti dell’Orchestra del San Carlo: dai fratelli Finto ai violini, Salvadore alla viola e Giarritiello al violoncello. 

 

L’atteggiamento di Verdi nei confronti di questa composizione strumentale fu molto ambivalente: da un lato il Maestro tendeva a disconoscere valore alla sua composizione, negando che essa fosse degna di essere conosciuta dal grande pubblico, dall’altro poteva comunque essere la dimostrazione che il grande operista era in grado di dare dei contributi originali anche nell’ambito della musica strumentale che proprio in quegli anni iniziava a diffondersi in Italia, intaccando il monopolio del Melodramma nei gusti del pubblico.

Basti pensare che nel 1878 gli era arrivata una richiesta da Parma, 

in fondo la sua “patria” in cui si chiedeva il permesso di concedere 

il Quartetto per l’esecuzione, alla quale egli risponde in modo piccato:


«Sono veramente dolente di non poter aderire a quanto ella domanda. Io non mi sono più curato del Quartetto che scrissi per semplice passatempo alcuni anni or sono a Napoli e che fu eseguito in casa mia alla presenza di poche persone che erano solite venire da me tutte le sere. Questo per dirle che non ho voluto dare nissuna importanza a quel pezzo e che non desidero almeno per il momento renderlo noto in nissuna maniera». Eppure era già stato eseguito a Vienna e a Parigi con successo enorme; stava per essere suonato a Londra, addirittura in una versione adattata per un’orchestra di 80 archi. E l’autore, al quale era stato chiesto l’assenso, lo aveva dato osservando che alcuni temi del primo e del secondo violino sarebbero risultati meglio in versione orchestrale.

Questo atteggiamento così contraddittorio nei confronti dell’unica composizione 

da camera del grande operista si inserisce nel dibattito sulla musica strumentale tedesca, molto vivace in Italia fra gli anni Sessanta e Settanta del XIX secolo.


Nel 1873, mentre componeva il suo unico Quartetto per archi, Verdi si sentiva coinvolto in una sorta di “conflitto musicale” che aveva un fronte interno e uno esterno. Quest’ultimo riguardava ovviamente quanto accadeva fuori dell’Italia nel mondo dell’opera, sotto le insegne del dramma musicale di Wagner e più in generale della cosiddetta “opera d’arte dell’avvenire”, che iniziava a fare breccia anche in Italia. Più singolare, nella prospettiva attuale, il fronte interno. Infatti, dopo il controverso debutto scaligero di Aida, il musicista mostrava spesso di sentirsi “nel mirino”. Non solo e non tanto nell’ambito operistico, nel quale in fondo continuava a non avere rivali, ma in quello della discussione sulla musica strumentale, che stava fiorendo vivacemente in Italia. Carattere forte e ruvido, imperioso e stizzoso, spesso impaziente, Verdi al giro dei suoi 60 anni si sentiva coinvolto al punto da voler condurre una “guerra” in un ambito che non era quello teatrale. E per questo – con intento a suo modo provocatorio e sicuramente polemico – aveva deciso di scrivere un Quartetto.

All’editore Ricordi aveva scritto: «È convenuto che noi italiani non dobbiamo ammirare questo genere di composizione se non porta un nome tedesco. 

Siamo sempre gli istessi, noi italiani».


E aveva aggiunto un’annotazione particolare della quale in realtà non era convinto fino in fondo, visto che attenua in maniera senz’altro insolita il suo parere: «Credevo allora e credo ancora, forse a torto, che il Quartetto in Italia sia pianta fuori di clima». Nella stessa lettera spuntava la polemica “ideologica”: «Io vorrei che le nostre società, licei e conservatori, unitamente ai quartetti a corde, istruissero quartetti a voce per eseguire Palestrina, i suoi contemporanei e Marcello». E così anche la famosa frase verdiana, “Torniamo al passato e sarà un progresso”, riletta sotto questa luce assume una particolare evidenza. Il vero punto di riferimento di Verdi per replicare ai “modernisti” era la grande tradizione polifonica italiana del Cinquecento e i suoi sviluppi nella musica del Settecento. 

 

Subito dopo la prima di Aida a Napoli, Verdi aveva scritto alla fedele amica la contessa Maffei, alla quale aveva raccontato che Aida aveva avuto un grande successo, probabilmente più che altrove in Italia, perché «Qui a Napoli non vi sono i critici che la fanno da “apostoli”». Ovvero, apostoli di una nuova religione musicale, della quale il compositore non aveva certo una grande considerazione. E aveva rincarato la dose: «Non c’è la turba dei maestri che sanno di musica soltanto quello che studiano sulla falsariga di Mendelssohn, Schumann, Vagner (sic!). Non il dilettantismo aristocratico che per moda si trasporta a quello che non capisce».

Molto lucidamente il Quartetto esprime chiaramente l’intenzione verdiana di definire una diversa pratica musicale, che sintetizzi nella forma classica un gusto 

e uno stile tipicamente italiani, alieni da qualsiasi pedissequa “falsariga” 

e imitazione di stilemi ad essi estranei.


Particolarmente significativa, da questo punto di vista, la scelta di concludere la composizione con una Fuga. Che non a caso era la parte cui il compositore teneva di più. 

 

Nel Quartetto, la scrittura della Fuga è stringente, profonda eppure singolarmente lieve. In un primo momento, Verdi aveva pensato di farla precedere da una sorta di recitativo introduttivo. Poi, forse pensando che il tutto sarebbe suonato “sulla falsariga” di Beethoven, vi aveva rinunciato. E l’ultimo movimento era diventato, semplicemente, uno Scherzo-Fuga in tempo “Allegro assai mosso”, con il soggetto affidato al secondo violino chiamato a suonare pianissimo, staccato e leggero. Sorge a questo punto invitabile il paragone con il grandioso Fugato che conclude la sua ultima opera Falstaff (rappresentato nel 1893), quello in cui si dice che “Tutto nel mondo è burla”, lungo un contrappunto di voci e strumenti in 14 parti. 

In modo sorprendente e modernissimo la polifonia si fonde con il gesto ironico dell’estrema maturità verdiana in una sintesi che ancora oggi, 

a distanza di oltre un secolo, ancora ci sorprende.

 

 

UN EPISODIO POCO NOTO DELLA VITA DEL GRANDE MUSICISTA

 

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I COSTUMI TRADIZIONALI DEL MOLISE – Gemme del Sud – Numero 23 – Dicembre 2021 gennaio 2022 – Ed. Maurizio Conte

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I costumi tradizionali del molise

 

 

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                  Molise

 

Nei costumi tradizionali popolari molisani sono racchiuse le radici profonde di un popolo dedito principalmente all’agricoltura e alla pastorizia, dalla storia articolata che ha subìto, nel corso dei secoli, influenze culturali diverse da parte di genti straniere che si sono stanziate nel territorio, tra le quali gli Spagnoli, i Borboni, gli Slavi. 

 

Attraverso numerose fonti come gli acquerelli del XVIII secolo conservati nella Biblioteca Provinciale Pasquale Albino di Campobasso, le fotografie dello Studio Trombetta di Campobasso, scattate tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi del Novecento, le fotografie di fine Ottocento dello Studio fotografico Montabone di Napoli e 

grazie soprattutto alla ricca collezione di abiti ed accessori di Antonio Scasserra, esposta fino a poco tempo fa al MUSEC di Isernia, è possibile seguire 

l’evoluzione dell’abbigliamento maschile e femminile 

dei secoli più recenti,


utilizzato nelle diverse occasioni e fasi della vita nei vari comuni molisani. 

 

Le donne indossavano gonne lunghe, ampie ed arricciate in vita, un grembiule, una camicia bianca in lino o cotone, a volte decorata da merletti, copri braccia in stoffa, uno stretto corpetto rifinito da fettucce colorate che poteva essere impreziosito da ricami e un fazzoletto da spalla. Un copricapo di lana o lino bianco, chiamato mappa, aveva la particolarità di essere ripiegato più volte e in fogge diverse a seconda del paese di appartenenza ed era trattenuto da spilloni – per le maritate uno per ogni anno di matrimonio. 

 

L’abbigliamento maschile era più sobrio rispetto a quello femminile e presentava meno varianti nelle diverse province: pantaloni corti al ginocchio, calze in cotone o lana, una camicia bianca, un gilet, una giacca corta o lunga, un mantello a ruota per coprirsi durante i freddi mesi invernali ed un cappello per lo più a falda larga. 

 

Anche i monili valorizzavano l’abbigliamento ed indicavano l’agiatezza economica di chi li indossava; 

essi erano espressione di una produzione artigianale 

ancora oggi presente nella Regione,


che si esprime anche nelle lavorazioni del tombolo, del rame, della coltelleria e che rappresenta una ricchezza da tramandare alle generazioni future per non dimenticare le proprie radici e tenere vive le proprie tradizioni

 

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A sinistra: Costumi tradizionali del Molise, XIX secolo, Fotografia dello Studio Montabone Fonte: Catalogo generale dei Beni Culturali https://catalogo.beniculturali.it/detail/PhotographicHeritage/1500860766)

 

A destra: Costume femminile regionale molisano di Frosolone (IS), dalla Esposizione Internazionale di Roma del 1911 oggi esposto al MuCiv, Museo delle Civiltà, Roma Fonte: Foto di Ceretta Paola

 

 

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IL SARCOFAGO DEGLI APOSTOLI – Gemme del Sud – Numero 23 – Dicembre 2021 gennaio 2022 – Ed. Mautrizio Conte

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IL SARCOFAGO DEGLI APOSTOLI

 

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           Barletta (BT)

 

 

A Barletta, in provincia di Bari, si trova un’opera di grande rilievo artistico, importante testimonianza della presenza bizantina in Italia: il sarcofago raffigurante “Cristo tra gli apostoli”, risalente alla fine del IV, inizio del V secolo d.C., oggetto di un viaggio e un ritrovamento incredibile. 

 

Pur trovandosi al Castello Svevo di Barletta, 

fu sicuramente prodotto a Costantinopoli, da una committenza di alto lignaggio: 

era destinato probabilmente ad alte cariche ecclesiastiche 

ed a funzionari della corte Teodosiana.

 

Un raro esemplare come questo difficilmente sarebbe stato esportato in epoca tardo-antica e ciò lascia pensare che giunse probabilmente in Puglia già in età medievale, quando gran parte del sud Italia era parte dell’impero bizantino. Prima dell’attuale collocazione, il sarcofago era altrettanto probabilmente conservato nella chiesa medievale dei SS. Simone e Giuda, distrutta nel 1520. 

 

L’opera 

è giunta a noi divisa in tre parti. I suoi frammenti furono infatti rinvenuti nel 1887 durante i lavori di smantellamento di un pozzo, del quale era divenuta 

niente di meno che un rivestimento. Uno dei tre blocchi di marmo 

venne infatti forato al centro, per fungere da imboccatura 

di estrazione dell’acqua.


A noi arriva una lastra in marmo “proconnesio”, una varietà di marmo bianco proveniente da Prokonnesos, un’isola nel Mar di Marmara (da qui la parola “marmo”) vicino al Mar Egeo, che costituiva la parte frontale del sarcofago. Le parti mancanti raffiguravano probabilmente i ritratti di due defunti, secondo l’uso dell’epoca, mentre le figure attualmente visibili presentano analogie con altre opere provenienti da Costantinopoli, come l’obelisco di Teodosio ed altri sarcofagi con lo stesso tema. Da qui l’origine della fabbrica che l’ha realizzato. 

 

Benché lo stato di conservazione, per le vicissitudini vissute e gli evidenti segni del tempo, non sia dei migliori, la pregevolezza dell’opera non è venuta meno e grazie anche ad alcune iscrizioni più tarde si può determinare la scena di Cristo tra gli apostoli. Al centro si trova Gesù con la croce ed il suo monogramma, la mano destra che tende nel gesto della parola ad indicare che sta parlando, mentre ai lati sono raffigurati gli apostoli, sei a destra ed altrettanti a sinistra, tutti con tunica e pallio.

 

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VENAFRO E IL SUO PARCO DEGLI OLIVI Gemme del Sud – Numero 23 – Dicembre 2021 gennaio 2022 – Ed. Maurizio Conte

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VENAFRO E….. IL SUO PARCO  DEGLI OLIVI

 

Gemme del Sud

           Venafro (IS)

 

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Venafro (in provincia di Isernia), nota come la Porta del Molise, è senza dubbio una delle più belle e caratteristiche cittadine della regione, ricca di storia, arte e cultura. Ma c’è una cosa che rende questo posto davvero unico: i suoi ulivi, tra i più antichi piantati in Italia. 

Venafro è uno dei tre luoghi simbolo dell’olivicoltura storica mediterranea, 

insieme alla biblica Efraim ed al Monte degli Ulivi di Gerusalemme.

 

Venafro (in provincia di Isernia), nota come la Porta del Molise, è senza dubbio una delle più belle e caratteristiche cittadine della regione, ricca di storia, arte e cultura. Ma c’è una cosa che rende questo posto davvero unico: i suoi ulivi, tra i più antichi piantati in Italia. 

Le sue origini antiche sono tramandate da numerose fonti letterarie – da Orazio 

a Plinio il Vecchio, a Marziale – molte delle quali testimoniano che i Romani 

ritenevano l’olio di oliva prodotto in questo luogo 

il più pregiato del mondo antico.

 

Venafro (in provincia di Isernia), nota come la Porta del Molise, è senza dubbio una delle più belle e caratteristiche cittadine della regione, ricca di storia, arte e cultura. Ma c’è una cosa che rende questo posto davvero unico: i suoi ulivi, tra i più antichi piantati in Italia. 

 

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RUDISTE GIOIELLI DELL’AMBIENTE di Santa Picazio – Numero 23 – Dicembre 2021 gennaio 2022 – Ed. Maurizio Conte

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i confini fra le regioni restano inesistenti. Sono linee immaginarie tracciate dall’uomo per comodità di studio, o per convenzioni politiche. 

RUDISTE GIOIELLI DELL’AMBIENTE

 

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È quanto bisogna considerare quando si passa dalla Puglia al

Molise, una regione minuscola, posata di traverso sulla Puglia come un cappellino, 

ma ricca di motivi per una visita, e non una visita veloce, ma una di quelle lente, consapevoli delle tante cose che ci sono da vedere. 


Si potrebbe cominciare da Pietrabbondante, con il suo Teatro italico, in località Calcatello. Affacciato sulla valle del Trigno, toglie il fiato per la sua imponenza, un’antica e ricercata imponenza. Risale infatti ad un paio di secoli prima della nascita di Cristo. Ed ancora, una visita ad Agnone, con le sue famose campane, dove si resta affascinati dal bronzo fuso, calato ad occupare il vuoto della forma, e dove rimarresti ancora per scoprire un altro segreto, quello del loro suono. E che dire di Sepino? La Pompei molisana, cui si arriva attraversando una porta romana. Un luogo ancora ben conservato, dove hai la sensazione di poter salutare antichi romani, e dove tutto si confonde, fino a meravigliarti di incontrare turisti invece che veder passare delle matrone.

C’è, però, una tappa che non ti aspetti, quella che porta in direzione del Matese, 

verso San Polo Matese, un piccolo comune di meno di cinquecento anime.


In questa località sopravvive una torre di origine forse longobarda, restaurata di recente, in prossimità della quale si notano delle strane rocce che racchiudono dei fossili: sono le Rudiste. Ed è a questo punto che la curiosità del turista, di un attento ed interessato turista, deve molto indietreggiare nel tempo, fino al periodo Mesozoico, circa 200 milioni di anni fa. A quell’epoca tutta la regione, e non solo, era ricoperta dal mare, un mare con un bel nome, “Tetide”, limpido, non molto profondo, a temperatura quasi costante, che si estendeva dalle Alpi al Borneo, dall’America centrale all’Himalaya. In questo mare, le Rudiste, questi molluschi bivalvi, prosperavano, riproducendosi senza problemi. Poi, accade che una lenta, ma inesorabile trasformazione di questo favorevole ambiente portò alla fine delle Rudiste. Ma non scomparvero, divennero pietra, che non si perderà mai nel tempo, ma rimarrà a far parte dei nostri paesaggi più interessanti.

L’importanza delle Rudiste risiede, appunto, nel fatto che hanno contribuito, con l’accumulo dei loro resti, e la successiva fossilizzazione, alla formazione 

di rocce particolarmente utili per l’uomo.


Le loro particolari caratteristiche, definite “calcari a Rudiste”, riscontrabili in molte zone dell’Italia centro-meridionale, si sono rivelate un elemento di grande importanza. La sedimentazione di questi preziosi gusci ha formato nel tempo strati fossili alti migliaia di metri. Una lunga storia durata per milioni di anni. Poi, il fondale marino decise di emergere, non per guardarsi attorno, ma per le forti spinte tettoniche dei continenti che desideravano dividersi per poi rincontrarsi. Ed ecco gli Appennini, e non solo: tante sono le terre emerse, l’Italia tutta, per esempio, dove le rocce calcaree, sensibili al lavoro costante dell’acqua si sono trasformate in bellissime grotte con ricami di pietra. Ma queste rocce hanno anche una funzione meno decorativa e di grande utilità per l’uomo costruttore: offrono la possibilità di ricavare calce viva per il suo impegnativo lavoro.                              

 

 

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VILLA LYSIS, LA REGGIA DEGLI ECCESSI NEL CUORE DI CAPRI di Aurora Adorno – Numero 23 – Dicembre 2021 gennaio 2022 – Ed. Maurizio Conte

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Villa Lysis, la reggia degli eccessi nel cuore di Capri

 

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quando l’ardente sole ti asciuga sulla spiaggia, ah, lasciami sognare, e fare un bel viaggio… il tuo corpo è uno scrigno misterioso e chiaro…» 

Jacques Fersen

Un triangolo amoroso quello tra il barone-poeta francese Fersen, le tentazioni e la natura incontaminata dell’isola di Capri. 

Proprio come il suo contemporaneo Oscar Wilde, Jacques Fersen credeva che l’unico modo per liberarsi dalle tentazioni fosse cedervi, e così fece per tutta la sua vita fin quando, nel 1903, subì un lungo processo che portò alla luce feste compromettenti, lettere d’amore indirizzate ad un giovane ed altri scandali.

 

Il dandy decadentista e scrittore trovò allora rifugio tra le bellezze dell’isola 

che aveva visitato già a diciassette anni e dalla cui bellezza 

era stato come folgorato,

 

colpito nella sua sensibilità estetica, ammaliato dalla potenza del vento che cantava sugli scogli e dalle onde di acqua cristallina che si increspavano lente verso l’orizzonte. 

Per porre le fondamenta della sua villa scelse un luogo selvaggio, scolpito dal tempo, posto davanti ad un panorama mozzafiato: la rupe di Tiberio.

In dodicimila metri quadri di terra l’architetto e scenografo Chimot 

progettò una villa in stile Luigi XVI,

 

in cui l’eleganza e l’esagerazione trasudavano da ogni poro come in un teatro dell’epoca. All’interno, stucchi, colonne, legni e materiali pregiati impreziosivano le stanze bagnate dalla luce del sole di Capri, riflessa nei mosaici dei vetri colorati. 

La palazzina era contornata da terrazze a strapiombo sul mare, da grandi finestre da cui penetravano i profumi e le fragranze del giardino esotico composto da orchidee, azalee, rose e camelie; copie di statue romane animavano la natura del boschetto d’alloro e del mirto dedicato al mito della bella Venere, mentre la villa era dedicata a Liside, discepolo ed amico di Socrate. Ma le bellezze della natura ed il sole del Mezzogiorno non dettero pace al giovane Fersen, neanche quando, ispirato dai suoi versi, si specchiava nel mare cristallino cercando la propria anima sul fondale in mezzo ai pesci ed alla flora marina;

 

egli, mosso dal suo spirito inquieto, animò la villa di feste e di balli, di scandali 

e di eccessi. Villa Lysis divenne così il ritrovo per artisti e letterati dell’epoca. 


Nell’atrio vi era un’immacolata scalinata di marmo dalla balaustra in ferro battuto, di fronte alla quale faceva capolino la grande biblioteca; al centro, una copia del David di Varrocchio sorrideva, forse schermendo i suoi ospiti. Oltre il salone, una veranda composta da piastrelle azzurre si mostrava al Golfo di Napoli attraverso le finestre, occhi affacciati sul Vesuvio che faceva da sfondo, incerto se eruttare il fuoco della terra, mentre il soffitto a cupola era contornato da colonne corinzie intarsiate d’oro. 

Al piano superiore si trovava la camera di Fersen, esagerata, sfarzosa, imprudentemente affacciata sul mare e sul Monte Tiberio, accanto quella di Nino, suo compagno ed amico, oltre ad una camera per gli ospiti ed una grande sala da pranzo. 

Superati gli archi della veranda si scendeva in basso e, attraversati gli inferi dell’animo umano, si trovava la fumeria d’oppio chiamata “La camera cinese”.

“Amori et dolori sacrum”, ovvero “luogo sacro all’amore ed al dolore” 

era la frase tratta da un’opera di Maurice Barrès, l’iscrizione latina 

che il barone volle apporre all’entrata della piccola sala da fumo.

 

Nell’alcova pietre dure, vassoi d’argento e pipe intarsiate comprate durante un viaggio ad Hong Kong adornavano la stanza in cui si rifugiava per sprofondare nei sogni ovattati dall’oppio, per cercare pace e riparo dalla sua stessa vita ed in cui morirà suicida, chiudendo il cerchio di un’anima inquieta divisa tra gli eccessi ed un’ideale di purezza che lo spinse sempre a narrare il bello. 

Una morte vissuta come ultimo atto sul grande palcoscenico della vita, la fine cercata durante un temporale, illuminata soltanto dalla luce di una manciata di candele rosa e che ci lascia perplessi a contemplare i suoi versi: 

«Stasera canto l’oppio, l’oppio illimitato, il sommo oppio. Danza il suo fumo nel cervello e l’uomo me lo involve nell’oblio. Guardo il fantasma inebriato; divento i suoi veli imponderabili, ascolto la sua voce che promette estasi ed entro in pagode profumate di gelsomini ove ardono resine per gli avi».

 

Dei suoi romanzi e poesie è reperibile in italiano la traduzione dell’autobiografia 

E il fuoco si spense sul mare, edito nel 2005, e Amori et dolori sacrum. 

Capri, un’infinita varietà:1905-1923: l’isola di Jacques Fersen, del 2009.

Villa Lysis ha ospitato tanti personaggi: Hans Paule, Gilbert Clevel, Otto Sohon-Rethel, la marchesa Luisa Casati e la famosa poetessa Ada Negri, che in un articolo sull’Ambrosiano del 1923 scrisse: 

«(…) tutto era troppo bello, compreso Nino, il segretario dal profilo di medaglia, con lo sguardo di chi ha occhi troppo lunghi, troppo neri e sormontati da sopracciglia troppo basse; ed il suo padrone, gentiluomo di gran razza, cortese, dall’altera eleganza, che parlava il più perfetto francese e leggeva versi come nessun’altro» riferendosi a Nino Cesarini, amante ed amico del Fersen che da lui eredita la proprietà.

La villa passò poi alla nipote di Fersen, ma nel 1985 il Ministero per i Beni Culturali 

e Ambientali vincolò la proprietà, che venne restaurata negli anni ’90 con i fondi dell’Associazione Lysis e del Comune di Capri per essere riaperta al pubblico.

 

Per chi oggi visita l’isola vale la pena salire sul promontorio settentrionale da via Sopramonte continuando per via Tiberio, per giungere infine tra le quattro colonne ioniche della villa tra i fantasmi del Fersen, dei suoi amanti e dei letterati dell’epoca, per poi riprendere fiato nel bel giardino, davanti ad un panorama mozzafiato. 

Che non si cada però nella tentazione di giudicare la vita di Jacques Fersen, nipote di un facoltoso industriale, discendente diretto del conte Fersen, maresciallo di Svezia ed amante della regina Maria Antonietta, quel giovane poeta che di quella sua vita aveva fatto lo specchio di eccessi e di misteri, perché, come sosteneva Wilde, è meglio essere protagonisti della propria tragedia che spettatori della propria vita.

 

 

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