LE REALI FERRIERE DI MONGIANA di Stefania Conti – Speciale aglie fravaglie – Maggio-Luglio 2020

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LE REALI  FERRIERE    DI MONGIANA

 

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è una paese di poco più di 700 abitanti. Piccolo, case basse, squadrate e immerse in un mare verde di faggi e abeti bianchi: le Serre regionali del Vibonese.

Questo piccolo centro ha un interessante museo, il Museo delle Reali Ferriere Borboniche. Installazioni digitali interattive che sviluppano come un racconto la “Vicenda Mongiana”. Restaurata nel 2013, l’antica fabbrica d’armi, mostra tutto il processo dall’ estrazione del ferro, alla forza motrice.  

 

E poi, carbone, viabilità, tecnologie e produzioni, condizione operaia.

 

A poca distanza sorgono i resti del complesso, una enclave 

di archeologia industriale in mezzo ai boschi.

 

Al momento non sono visitabili, ma si sta procedendo alla loro ristrutturazione. L’auspicio è che il sito si possa aprire al pubblico al più presto perché degno di essere visitato anche per l’originale forma architettonica e per la storia della zona in cui sorge visto che etruschi, greci, romani, bizantini e normanni, prima dei Borbone, vi estraevano i minerali per la costruzione di utensili e di armi. 

 

Tanto interesse per un paese così piccolo ha una spiegazione. Semplice e triste. Mongiana è stato un esempio di industrializzazione nel Sud, voluto dai Borbone, con una produzione di alta qualità, grande quantità, un avanzatissimo progetto sociale e – diremmo oggi – un buona politica ambientalistica (al Nord allora tutto questo non era nemmeno concepito e concepibile). Un progetto di eccellenza ucciso dall’Unità d’Italia. 

 

La confluenza di due fiumi – il Ninfo e l’Allaro – la presenza di legno pregiato, la ricchezza di minerali ferrosi disponibili, facevano della zona di

Mongiana il luogo ideale per un impianto di base per la produzione 

di materiali e semilavorati ferrosi (rifiniti sia in loco, 

che presso il polo siderurgico di Pietrarsa).


Fu così che tra il 1770 e 1771 nacquero le Reali Ferriere e Officine Borboniche, con miniere e fabbriche che rifornirono tutta l’Europa. Un luogo capace di attrarre forza lavoro con maestranze altamente specializzate. Mongiana arrivò ad impiegare 1.500 operai, con l’indotto oltre 2.000. In alcuni periodi addirittura 2.550-2.800. 

 

Mongiana sorse in soli due anni grazie all’opera infaticabile e alla mano esperta dell’l’architetto e urbanista Mario Goffredo. Insieme con gli stabilimenti, entrati subito in produzione, sorsero rapidamente anche abitazioni di maestranze e  un moderno villaggio al polo collegato.

Con lungimiranza sorprendente ed encomiabile Ferdinando IV dispose che il taglio degli alberi necessari alla costruzione degli insediamenti abitativi 

ed industriali avvenisse in modo razionale e controllato.

In pratica si attuò un sistema di taglio a rotazione che consenti la conservazione, la riproduzione e la tutela del vasto patrimonio boschivo della regione interessata dai lavori. Una lungimiranza che oggi chiameremmo ambientalista, ma che, soprattutto, viene rarissimamente osservata dalle aziende dei nostri tempi. Così come lungimirante era la politica verso gli operai: quelli in miniera lavoravano 8 ore, quelli in fonderia 10. Niente lavoro dei bambini o delle donne.

Nel resto d’Europa erano ben lontani dal consentire, in quei tempi, 

ritmi analoghi, che, per l’epoca, potremmo definire 

quasi a misura d’uomo.


Ce lo racconta Vincenzo Falcone nel suo libro “ Le Ferriere di Mongiana, un’occasione mancata”. 

 

Che cosa usciva dalle Ferriere? Di tutto: campane, ruote di ferro, chiavi, argani, armi di ogni genere, leggere e pesanti, rotaie.

Da Mongiana provenivano i binari della prima ferrovia italiana: la Napoli Portici.

E si collezionavano primati, nella realizzazione di forni e di macchine industriali ed agricole, all’avanguardia per gli standard dell’epoca, sia in Italia sia all’estero. 

 

Con l’arrivo dei francesi le cose andarono ancora meglio. Con Gioacchino Murat, nel 1814 furono incrementate le produzioni ferriere, tanto da far crescere ancor di più il villaggio. 

 

Ma tutto precipita con l’arrivo dei Savoia.

Alla caduta del Regno e con il suo inserimento nello Stato Italiano 

fu progressivamente diminuita la produzione


privilegiando le industrie del Nord Italia. Si puntò tutto su Terni, con la scusa che era più difendibile da eventuali attacchi nemici (Mongiana era abbastanza vicino al mare: le merci venivano portate a Pizzo calabro e da lì per nave a Napoli). Ai mongianesi non restò altro che emigrare. 

 

Chi restò si ribellò ai nuovi padroni. Subito dopo l’annessione al Piemonte, sommosse e rivolte popolari si moltiplicarono.

Le donne, mogli, madri, sorelle, scesero in piazza con gli operai delle Ferriere


inalberando la bandiera bianca con i gigli e destando lo stupore degli ufficiali al comando delle truppe sabaude chiamate a sedare le sommosse. Per loro, l’annessione, significò soprattutto la perdita di un lavoro o di un reddito sicuro. Nel 1875 la ferriera passò definitivamente di mano, acquistata dall’ex garibaldino Achille Fazzari, divenuto deputato del Regno Sabaudo. Fazzari la chiuse dopo soli sei anni, dopo aver sfruttato le residue risorse e venduto le giacenze. Finì in questa luce opaca il più grande polo siderurgico della penisola.

 

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 Foto gentilmente concesse dal Sindaco di Mongiana Arch. Francesco Angiletta

 

C’ERA UNA VOLTA IL SUD di Giorgio Salvatori – Speciale aglie fravaglie – Maggio-Lugio – 2020

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C’ERA UNA VOLTA IL SUD

 

Accendere il televisore e accorgersi che, dall’arcipelago delle banalità colorate, spunta fuori un florilegio di informazioni intriganti e inconsuete. Accade anche questo nella pigra stagione del covid-19, grazie ad un’azzeccata puntata di “Frontiere”, programma di inchieste di Rai1, brillantemente condotto da Franco Di Mare. Il telespettatore, colto a boccheggiare tra ansie di nuovi contagi e promesse di rimedi miracolosi, viene raggiunto da alcune rivelazioni sorprendenti:

“Napoli è diventata la città dove si legge di più in Italia e, dalla città di Eduardo, 

si irradia nuovamente un messaggio culturale vincente 

che raggiunge il mondo intero”. Lo sapevate?


Francamente io no. Vedremo tra qualche riga il perché. Attenzione, però, Napoli non è sola, nel nuovo quadro, affrescato senza pregiudizi, che dipinge il nostro Meridione senza farlo annegare nell’oceano profondo degli stereotipi criminali.   

 

A Napoli, nella nuova narrazione letteraria e televisiva, fa buona compagnia un nutrito drappello di città e di paesaggi, geografici ed umani. Una “Terronia” finalmente colta nella sua interezza e non esclusivamente negli aspetti sociali più deteriori e logori. In testa c’è, comprensibilmente, la luminescente e onirica Vigata, dipinta attraverso pagine e immagini che hanno come protagonista Salvo Montalbano, il famoso personaggio nato dalla penna di Camilleri, ma questa non è una novità.

Ci sono, in questo quadro, altri spicchi di Campania, di Sicilia, 

angoli e atmosfere attraenti e originali della Puglia, della Basilicata. 

Tutti raccontaticon uno sguardo prospettico, ampio e finalmente non strabico 

 

Un assembramento e una rappresentazione inimmaginabili fino a qualche anno fa. Da questi personaggi e paesaggi del nostro Mezzogiorno, dipinti con colori plurimi, viene fuori un affresco meridionale, un mosaico umano e culturale che cozza frontalmente con lo stereotipo del Sud imbarazzante zavorra d’Italia e palla al piede di un Nord avanzato e più progredito. Un paesaggio materiale e immateriale che “scalda i cuori” e affascina mezzo mondo.   

 

Esordisce con questa lettura Franco Di Mare, colto giornalista e volto noto della Rai. Le immagini iniziali sono un serrato succedersi di dialoghi tratti da “L’amica geniale”, la fiction tv ricavata dai best seller internazionali di Elena Ferrante, la scrittrice di cui non è stata ancora svelata la vera identità e in qualche misura “non c’è”, proprio come non c’è il paese immaginario di Vigata.

Invenzioni letterarie e televisive che non solo non nuocciono, ma attraggono 

ed esaltano l’immaginazione di lettori e telespettatori, con traduzioni televisive 

dei successi letterari che amplificano il richiamo delle opere originali e viceversa.

 

L’idea, anch’essa geniale, partorita dalla mente di Di Mare, uomo del Sud dalla vocazione cosmopolita, ma che non ha mai ripudiato le proprie radici napoletane, è stata quella di cucire insieme diverse fiction televisive di successo straripante, alcune anche al di fuori dei ristretti confini nazionali, e accorgersi che sono tutte Made in Sud, elaborate, dirette o interpretate, quasi sempre, da autori, protagonisti ed attori meridionali.   

 

Il “Montalbano” con il volto di Luca Zingaretti, venduto in 65 Paesi del mondo, “L’amica geniale”, trasposizione televisiva di una quadrilogia letteraria esaltata dal New York Times, “Un posto al Sole”, fiction ormai giunta al traguardo storico del suo venticinquesimo anno di vita, “I Bastardi di Pizzofalcone”, dal toponimo di una delle zone più popolari di Napoli che festeggia la partenza della sua terza serie, “Imma Tatangelo”, magistrato grintoso che si muove con disinvoltura tra le trame insolite e le suggestioni arcaiche dei Sassi di Matera, assurti ormai alla ribalta mondiale grazie alle celebrazioni per la capitale europea della cultura nel 2019.   

 

A noi, qui, non interessa molto descrivere gli espedienti narrativi che hanno decretato il successo di queste produzioni televisive. Più interessante, invece, è

seguire le motivazioni di questa sorprendente capacità di attrazione di una vasta regione geografica e di un modello umano, sociale e culturale, che, fino a ieri, 

si ritenevano arretrati e penalizzanti per il resto del Paese,

quello considerato più creativo, dinamico e saldamente agganciato al treno produttivo dell’Europa continentale e dell’Occidente industrializzato. Ricordando il Goethe di “Viaggio in Italia”, là dove l’autore descrive il Meridione e le sue genti con spirito quasi folgorato da un transfert che lo fa sentire meridionale tra i meridionali, alcuni personaggi intervistati nel corso della trasmissione danno una loro interpretazione originale e anticonformista dell’irresistibile fascino del Sud. A cominciare dall’idea che Napoli possa mantenere un forte potere di attrazione anche lontano dalla luce abbagliante del suo mare da cartolina, dall’immagine ricorrente del Vesuvio sormontata da un nebuloso pennacchio, dai suoi personaggi plebei più abusati. Come è possibile? Entrando e conoscendo meglio, ad esempio, le figure umane che animano, nel bene e nel male, quel “verminaio” dei suoi vicoli più stretti, come scrisse Dickens.  

 

Napoli capitale dell’immaginario. Napoli centro dell’attenzione. Lo afferma Alessandro Gassman, protagonista de “I Bastardi di Pizzofalcone”. ”Napoli tira fuori il meglio di se stessa proprio nei momenti di maggiore di difficoltà”, sostiene l’attore.

Città cinematografica per eccellenza afferma lo scrittore e sceneggiatore 

Maurizio de Giovanni, al di sopra degli stereotipi, tutti tragicamente veri 

e altrettanto realisticamente falsi se indagati nella realtà antropologica 

dei vicoli della Città. Napoli inclassificabile e sospesa 

tra condanna e assoluzione. 

 

L’autore di “Terronismo”, lo scrittore Marco de Marco, osserva acutamente che il pessimismo cupo di “Gomorra”, a volte, infastidisce perché viene interpretato come un vicolo cieco, una chiave unica e immutabile di lettura della realtà degradata delle periferie napoletane. Altre città occidentali si caratterizzano per aspetti di criminalità esasperata, maggiore di quella che si riscontra a Napoli, però vengono dipinte con un ventaglio di rappresentazioni che dal nero della violenza passano al rosso delle passioni sensuali al rosa tenue dei sentimenti più delicati. Modello esemplare New York, città violenta, ma che letteratura e cinema descrivono anche nei suoi aspetti più accattivanti, quelli brillanti di Woody Allen, quelli frizzanti di “Colazione da Tiffany”.

 

Un approccio poliedrico al Sud consente una maggiore aderenza alla realtà 

in fieri, non al cliché stanco di narrazioni in bilico 

tra lo strapaese e la lupara. 

 

Il successo de “I Bastardi di Pizzofalcone” dipende forse anche dal fatto che la serie tenta di raccontare una Napoli dove c’è tutto, anche una città normale, una borghesia civile, che sa e vuole reagire alla criminalità. “Raccontiamo Napoli nella sua interezza, aspetti meravigliosi e angoli spaventosi”, sostiene con convinzione Alessandro Gassman. Alla luce di questa nuova e condivisa chiave di lettura condivisa appare distante il Meridione de “La piovra” e sfocata la lettura, senza redenzione, della già citata “Gomorra”. Di tutti gli intervistati è la convinzione che la forza con cui il Sud sviluppa, alla lunga, la sua prorompente forza di attrazione nasca dalla consapevolezza che, la violenza, la mafia, le brutture del Meridione, pur non venendo minimamente assolte, vengono sempre, comunque, riassorbite dal respiro più vasto del suo paesaggio incantato, dalle tante bellezze artistiche che caratterizzano questa metà meno opulenta dello Stivale, ed anche dai sani valori di fondo della maggior parte della popolazione, dal manifesto calore umano mostrato ai visitatori che intraprendono, per ragioni varie, un viaggio nelle regioni del Sud.

 

Dal florilegio delle loro osservazioni emergono descrizioni icastiche 

di città, villaggi, paesaggi e personaggi letti con maggiore apertura mentale 

e volontà di affermare un diverso codice di comunicazione 

del messaggio visivo e concettuale.


Napoli è un’anguilla, non la spieghi e non l’afferri da nessuna parte, afferma un ospite. È vero, gli risponde qualcuno, può esser dolce e crudele pur restando se stessa. Napoli, infatti, non ha molti paragoni, a cominciare dal fatto che è una delle poche città in Europa, che ha visto crescere la sua periferia e il suo proletariato all’interno del suo ventre, non fuori della città, ma esattamente nel suo centro storico. Quei vicoli possono essere raccontati anche a prescindere dai suoi giovani e meno giovani residenti vocati alla piccola o grande criminalità.   

 

Il successo della quadrilogia di Elena Ferrante, ora favorita anche dall’affermazione della fiction, è plateale, dieci milioni le copie finora vendute nel mondo.

Per Time la Ferrante è tra le cento personalità più influenti al mondo, 

 

e “L’amica geniale” viene paragonata al romanzo ottocentesco “Piccole donne”, di Louisa May Alcott. Il sociologo Luigi Caramiello sostiene che la tessitura della trama, insieme con i suoi personaggi, recupera la memoria appannata del grande romanzo d’appendice, soprattutto nel raccontare il progetto di riscatto della povera gente, un riscatto che a volte può avere successo e altre no. Si può comunque affermare che si tratta del tentativo, riuscito, di dipingere un affresco composito dell’Identità italiana, almeno come la si intende nel mondo. E anche se questa identità enfatizzata mostra ancora il fianco allo scadimento nel folklore, un po’ come quando noi ci attendiamo di trovare tutti vestiti da cow boy con i cappelloni nel Texas e un traffico congestionato di dromedari in Tunisia, resta il fatto che

siamo di fronte ad una unicità del paesaggio del Sud, un modello 

di rappresentazione non facilmente replicabile 

in altre realtà, in Italia e nel mondo.  

 

Vittorio Feltri, anche lui ospite della trasmissione in qualità di rappresentante di un Nord ricco e fatalmente escluso da questa rappresentazione, si dichiara fan di Montalbano, dice che è giusto che il Sud sia protagonista di questa realtà sfaccettata e complessa perché offre diversi e interessanti spunti di analisi e di riflessione, poi però si imbufalisce quando accusa la Rai di ignorare ingiustamente il Nord nelle sue più recenti serie televisive. Pochi romanzi, poca tv parlano oggi di Milano, nonostante il fatto che a Milano continuino a recarsi molti giovani per trovare lavoro. L’attrazione del Nord però non è più così scontata e neppure sempre vincente è la sua immagine. Forse perché è cresciuta una vigorosa comunità di scrittori meridionali. Napoli è la città più raccontata perché cinquanta e più scrittori sono nati o lavorano in questa città e risultano regolarmente iscritti alla Siae, la società italiana di autori ed editori. “Chi non legge a 70 anni ha vissuto una sola vita’”, ci ricorda Di Mare citando Umberto Eco, “Chi legge ha vissuto con Abele e Caino, con Dante, con I promessi Sposi”.   

 

Vanessa Scalera, madre letteraria del personaggio di Imma Tatarani, ci conferma che la differenza fondamentale tra i vecchi e i nuovi personaggi delle storie del Sud risiede nel fatto che essi non sono più dipinti come macchiette, non sono tutti “sole e mandolino”, sono anche altro, però senza gettare alle ortiche il meglio delle proprie tradizioni.

 

La forza del Sud sospesa tra passato e presente. Un Sud proiettato in un futuro animato soprattutto dai giovani, imprenditori, professionisti, ricercatori, 

che anche quando sono costretti all’emigrazione si sforzano 

di mantenere vivi i tradizionali valori umani e familiari.  

 

Ecco perché le rappresentazioni letterarie e televisive di questa realtà accendono il desiderio di visitare i luoghi dimenticati del Meridione, a cominciare da Matera, divisa tra i suoi spazi luminosi ed i suoi angoli grigi, quelli dei Sassi, non sempre inondati a profusione dal sole mediterraneo, una realtà sconosciuta ai più fino a tempi recentissimi. Che dire dei consolidati flussi di turismo a Porto Empedocle originati dal successo ventennale dei libri di Camilleri e, soprattutto, della serie televisiva ad essi collegata? “Quel pessimismo velato di ironia di Camilleri – dice Luca Zingaretti – è il sigillo autentico e riconoscibile del personaggio, il segreto della sua longevità. Montalbano ti trasmette la sua particolare visione della vita e il suo legame per il territorio, perciò il suo personaggio riesce agevolmente a viaggiare in tutto il mondo”.  

 

Ora un’altra avventura televisiva sembra in corsa per consolidare un’idea di Meridione diversa e distante dai luoghi comuni: ”Vivi e lascia vivere”, con Elena Sofia Ricci, donna con unghie affilate, anch’essa immersa nella moderna realtà napoletana. Vedremo se ci regalerà un altro profilo ben tratteggiato di quel nuovo Sud che sembra emergere dal pentolone colmo di speranze che bolle sul fuoco del Terzo Millennio. C’era una volta il vecchio Sud, il nuovo lo stiamo tutti riscrivendo. 

 

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L’ANSIA DELLA RUSSIA VERSO IL MEDITERRANEO di Giusto Puri Purini – Speciale aglie fravaglie – Maggio-Luglio – 2020

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L’ANSIA DELLA RUSSIa VERSO IL MEDITERRANEO 

 

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“L’ansia della Russia verso il Mediterraneo e il ricco intreccio con la cultura italiana” potrebbe spregiudicatamente trasferire la nostra visione verso una polarizzazione di paesi lontani, verso l’area del Mediterraneo a noi tanto cara, operazione già portata avanti con l’articolo su Rossellini:

 

questa volta dalla Crimea verso il Sud d’Italia “dorato”, come dice Puškin, da Bisanzio a Lecce, con le sue pietre magiche dal tufo giallo.

 

Un viaggio in Russia di Carlo Azeglio Ciampi – allora, nel 2000, presidente della Repubblica – fu l’occasione per far nascere un protocollo Ciampi-Ivanov (all’epoca Ministro degli Esteri) che stabiliva nuovi e serrati rapporti culturali tra l’Italia e la Russia. L’accordo fece nascere l’idea di

 

una grande mostra da tenersi a Roma ed a Mosca che coinvolgesse 

ottocento anni di storia tra i due Paesi, a partire dalle prime evangelizzazioni di Cirillo e Metodio, da Bisanzio, nelle terre degli slavi.  

 

Nacquero i primi frammenti lignei dipinti su fondo oro, dove la Trinità era rappresentata dal Padre, dalla Madre e dal Figlio. Non era ancora il tempo in Russia per lo Spirito Santo, il confronto era con i nostri Giotto e Cimabue ed altre influenze bizantine, come il bruciaprofumi della fine del XII secolo, in argento dorato a sbalzo e traforo, proveniente dalla Basilica di San Marco a Venezia, che diventerà uno dei leit motiv della mostra. Poi il Rinascimento in pompa magna, con il raffronto tra il maestro russo Andrej Rublëv ed i nostri grandi, tra gli altri Michelangelo, Leonardo da Vinci, Botticelli, Tiziano Vecellio, Raffaello Sanzio, il Correggio, Antonello da Messina… una cornucopia sontuosa, proseguendo oltre, fino al secolo dei Lumi, all’Ottocento, per arrivare a Malevič:

 

Da Giotto a Malevič e la reciproca meraviglia

 

fu il titolo della mostra. Per me si era aperto un mondo, conosciuto fino ad allora solo attraverso ricerche storiche, culturali e politiche, ma era la prima esperienza diretta nella “Grande Madre” Russia.  

Quando mi fu affidato l’incarico di allestire la mostra e di partecipare in modo serrato a tutte le fasi di preparazione e di sviluppo di questa grande macchina progettuale, sentii subito un’attrazione profonda.  

 

Fu l’inizio dell’esplorazione di un “continente” come la Russia, setacciandone la storia, scoprendone i rapporti costanti e fruttuosi con le scuole italiane, il trionfo della “Terza Roma” creata da Pietro il Grande, per spostare ad ovest l’area d’influenza ed anche per bilanciare l’eccessiva potenza della nobiltà di allora, che sfruttava nella direzione di Perm’ e degli Urali le immense ricchezze minerarie del sottosuolo. 

San Pietroburgo fu ideata, progettata e decorata soprattutto da architetti italiani; sorse come una “città ideale” che intrecciava il suo percorso con le città luce sparse nel pianeta.   

 

Sotto la direzione di Mario Serio fu portato avanti lo schema finale del progetto. 

Nasceva qualcosa di nuovo e di magnetico in quegli anni tra il 2002 e il 2005: la Russia compiva il suo tormentato percorso dall’assolutismo sovietico alla perestrojka ed alla glasnost di Gorbaciov, all’assolutismo da libero mercato di Boris Eltsin!  

 

Il progetto si delineava e così nasceva una composizione formata da cinque capitoli fondamentali: In principio era Bisanzio (1200 a.C. – 1400 a.C.)Verso le identità moderne (1400-1600)L’età dei Lumi (1700 – 1800), Il secolo della borghesia dal Romanticismo al Simbolismo e Le sfide della modernità tra democrazia e pensiero unico. Scriveva il gruppo degli storici dell’arte: “Il progetto scientifico della mostra ha preso forma attraverso incontri ripetuti e costruttivi di specialisti dei due Paesi, che hanno coinvolto per la prima volta storici dell’arte e dell’architettura, responsabili di istituzioni culturali. L’iniziativa espositiva originata nel corso di intese bilaterali ha trovato fin da subito consenso ed interesse, poiché il fatto che si intendesse esaltare il ruolo delle arti come fattore di identità, terreno di confronto, strumento di scambio tra i popoli costituiva di per sé un riconoscimento di importanza e addirittura di centralità del patrimonio artistico nel quadro internazionale”.

 

Ci vollero tre anni di preparazione e più viaggi a Mosca ed a San Pietroburgo, alle ricerca delle tracce d’italianità per noi, e per loro alla ricerca in Italia delle tante orme lasciate e dai tanti acquisti eseguiti.  

 

I nobili, la corte e gli artisti russi, ispirati ed affascinati dalle arti, dall’architettura, 

dai costumi, dalla musica, dalla natura stessa del nostro Paese, così profondamente affacciato nel Mediterraneo, mentre loro ne erano appena lambiti nel lontano Est 

dalle acque del Mar Nero, vivevano questo viaggio come una ricerca dell’Eden. E così, della Crimea, dopo averla conquistata, 

fecero un “paradisiaco Mezzogiorno d’Italia”. 

 

A Mosca trovammo i Sovraintendenti russi che ci fecero da guida nei maestosi musei moscoviti, con una ricchezza impressionante di tesori, opere d’arte, riproduzioni, studi, plastici, arredi, carrozze, il primo periodo sovietico con i tanti poeti della “rivoluzione” poi tradita, come Tatlin, Majakovskij, Nijinsky, il realismo sovietico dei tempi stalinisti, una sequenza dove la doratura delle icone di Rublëv sfumava nelle bianche parrucche del Secolo dei Lumi, fino alle percezioni stilistiche dei “ribelli”, ai muscoli ed all’enfasi della classe operaia e dell’Armata Rossa. Al di sopra di tutto questo, una “zarina”, Irina Antonova, che sedeva sul trono dell’Arte fin dai tempi di Brèžnev, ottantenne e piena di energia. Fu dunque Da Giotto a Malevič a chiudere il cerchio degli ottocento anni d’intrecci storico-artistici fra i due Paesi. 

Vedemmo, nel museo del Cremlino, le prime traduzioni in russo delle opere del Vasari e del Piranesi ed altre preziosissime opere, salvate da una schiera di appassionati storici dell’arte, in sotterranei segreti, esistenti nel sottosuolo fin dalla congiura dei Boiardi.

 

Per essere a Mosca, in questo luogo, si respirava un’aria di libertà, 

come in un vecchio teatro underground, 

che lasciava incantati e sorpresi.

 

Il Sovraintendente ci portò in una sala e si diresse verso dei grandi scaffali metallici che contenevano decine, centinaia di disegni dell’architettura, russa e non, del XIX secolo. 

Ne provammo ad aprire alcuni: apparvero gli esecutivi con prospetti delle cinque torri che Stalin fece costruire negli anni Trenta, sfidando l’America ed i suoi grattacieli, ma con uno stile da Gotham City, scuro e severo. Anche il Ministro degli Affari Esteri era lì a dimostrare il feeling del momento storico.

 

Ma poi fu luce quando trovammo i disegni originali 

del grande Sant’Elia, spettacolari, nel loro stile 

svettante ed avvolgente

 

per un concorso del ‘35-‘36 sulla nuova sede del Partito Comunista, che poi non vinse, purtroppo. Il progetto e la ricerca scientifica proseguivano senza sosta, favorite dalla comune passione di mostrare la vera “incandescenza”, nei secoli, tra l’Italia e la Russia.  

 

Patrizia Deotto dell’Università degli Studi di Trieste scrive nel testo Un viaggio per realizzare un sogno: l’Italia e il testo italiano nella cultura russa: “La lettura intertestuale di testi precedenti e contemporanei conduce i russi del primo Ottocento, anche coloro che, come il già citato Batjuškov oppure Baratynskij (cf. Civ’jan 1997), hanno vissuto nella penisola, ad aderire alla caratterizzazione del paesaggio meridionale tipica dei viaggiatori nordici

L’Italia rientra in una visione più generale del Sud, interpretato alla luce di criteri ambientali convenzionali: il paesaggio è mosso, la natura è rigogliosa, 

vi crescono il mirto, l’alloro e la vite color dell’ambra, abbondano 

ruscelli e fiumi, il mare è azzurro e il cielo luminoso.

 

Ne è una testimonianza la poesia di Puškin Chi ha visto il paese, dove magnificente è la natura (Kto videl kraj, gderoskoš’ju prirody, 1821), dedicata alla Crimea, in cui il poeta si serve di elementi descrittivi affini a quelli usati nelle poesie dedicate alla penisola. Tra gli altri l’aggettivo zlotoj, dorato – Paese dorato! (Zlotoj predel’) scrive Puškin della Crimea – dal quale conia il binomio zlataja Italia – Italia dorata “Notte dell’Italia dorata” (Puškin 1964: V: 30),

“Lingua dell’Italia dorata” (ibidem, 204), binomio che diventa uno stereotipo 

del testo italiano dei russi per indicare tutti i tratti peculiari del mediterraneo: 

la luce, il calore, la luminosità dell’aria e del cielo.

 

All’interno di questa descrizione convenzionale i russi introducono un elemento fondamentale nella loro percezione della penisola: la primavera come stagione caratterizzante l’Italia.”   

 

In un intreccio urbano tra fiume (la Neva), isole, penisole, terre non ferme… e costruzioni, fortificazioni, palazzi nobiliari, piazze, accademie… un inno al Secolo dei Lumi e delle Scienze. Raccogliere dunque il “pensiero” più avanzato del nuovo secolo in Europa – il Settecento – e concentrarvi lì, come in un grande laboratorio, architetti, artigiani, industriali, banchieri, artisti per generare la nuova capitale di un affluente impero, quello russo, fu la sfida colossale di Pietro il Grande.

Fu la “Terza Roma, ed è visibile nello stemma della città che riprende elementi di quello di Roma e del Vaticano: le ancore incrociate corrispondono alle chiavi papali, come quelle di una porta che accede al paradiso.  

 

La prospettiva Nevskij conduce fino al fiume e lentamente i colori dolci 

e pastello delle facciate sostituiscono gli austeri edifici precedenti; 

 

si superano canali su meravigliosi ponti in acciaio e ghisa che aprono a destra e sinistra nuove prospettive accattivanti e sinuose, canali con morbide curvature, effetti luminosi mutevoli, e Venezia, Amsterdam, Roma, tutto si intreccia, si confonde creando una realtà nuova ed affascinante. 

Il fiume ti accoglie come una prospettiva liberatoria, di fronte l’isola dell’Accademia, sulla destra l’importante fortezza di Pietro e Paolo e, sul lungofiume, lo splendido ed irreale palazzo dell’Hermitage. 

Il piano urbanistico della città fu realizzato nel 1717 dal francese Jean-Baptiste Alexandre Le Blond, quando già nel 1703 ingegneri olandesi, architetti italiani e tedeschi si erano susseguiti per far conoscere allo Zar i criteri dell’architettura occidentale dell’epoca.

Ma furono gli italiani Bartolomeo Rastrelli, Domenico Trezzini, Giacomo Quarenghi, Antonio Rinaldi, e soprattutto l’urbanizzazione affidata da Caterina all’architetto Carlo Rossi, ideatore dei grandi palazzi e colonnati, a dare alla città la fisionomia attuale.

 

Fu quindi “normale” trovare innumerevoli tracce e testimonianze 

della ricchissima presenza italiana. 

 

La preparazione “scientifica” dell’architetto Lolli Ghetti fu fondamentale nella codificazione della nostra ricerca e tra le innumerevoli opere d’arte che trovammo a San Pietroburgo da inserire nella mostra, nel settore architettura in particolare, ci fu un sontuoso plastico del 1750-56 di Bartolomeo Rastrelli del Monastero di Novodevičij (letteralmente “Monastero delle Nuove Vergini”, noto anche come Monastero di Bogorodice-Smolenskij) a San Pietroburgo ed una serie di plastici in sughero di Antonio Chichi, come il modellino dell’Arco di Tito al Foro Romano.  

 

Era l’immagine avuta all’arrivo a San Pietroburgo mentre ci avvicinavamo alla Neva, lungo la prospettiva Nevskij, che mi aveva colpito di più.
 

Quegli edifici con i colori pastello delle pietre di Noto e di Lecce, come simboli 

di una luce a schiarire quello che non sempre c’era nelle spesso 

nebbiose e fredde giornate di quelle latitudini, furono

 la mia ispirazione per la mostra di Roma. 

 

Pensai di rivestire tutte le pareti delle Scuderie del Quirinale, per i tre piani, con un cartongesso sbalzato come bugne e tinteggiato color pergamena, in modo che diventassero come quelle facciate, a simulare una grande passeggiata all’aperto tra le case ed i palazzi di quella magica città. Il soffitto e le pareti s’incontravano in un cielo pastello, solcato da tiepide nuvole, che determinava la bella luminosità dell’ambiente.

 

Le opere si stagliavano bene nella luce diffusa e quell’effetto pergamena ammaliava gli occhi. Era come sfogliare un antico testo, arricchito da disegni, incisioni e sculture. Ma si partiva dal “quasi buio”, perché sulle rampe delle prime scale delle Scuderie scorrevano le immagini ingrandite del bruciaprofumi del Palazzo Ducale a Venezia, come visto attraverso una lente di ingrandimento, a sottolineare lo straordinario lavoro di cesello ed intarsio nelle mani degli orafi, degli artigiani e degli scultori… Il percorso iniziava da Bisanzio e come da un buio storico, con i fari sagomatori, si accedeva all’epoca di Giotto e Cimabue ed ai trittici di legno dorato che venivano dalla Russia sciamanica, evangelizzata dai figli di Teodosia.   

 

 

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ROBERTO MUROLO IL FINE DICITORE di Fernando Popoli – Numero 16 – Febbraio 2020

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ROBERTO  MUROLO IL FINE DICITORE

 

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La guerra era terminata da poco e la gente aveva voglia di divertirsi, di riprendere vecchie abitudini, di trascorrere giornate liete e allegre. Il compleanno di mia madre cadeva il cinque gennaio e mio padre, che era innamoratissimo di lei, faceva di tutto per festeggiarla nel modo migliore.   

 

Egli era il cugino di Amilcare Imperatrice che suonava il contrabasso con Roberto Murolo,

il fine dicitore che incantava tutta Napoli con le sue dolci melodie,


sussurrate con la sua voce seducente e intonata come uno chansonnier del passato. Attraverso questo cugino, Murolo, Continisio e lo stesso Imperatrice venivano invitati a casa nostra per cantare e suonare in onore di mia madre che era una donna molto romantica. Ricordo che prendevano un cachet di centomila lire che, all’epoca, era una cifra considerevole per una serata in famiglia, ma l’atmosfera che si creava e le canzoni che venivano cantate e suonate erano meravigliose. “Munasterio ‘e Santa Chiara”, “Scalinatella”, “Reginella”, risuonavano nel nostro salotto con quei versi stupendi che ancora ricordo… T’aggio vuluto bene a te…Tu m’è vuluto bene a me! Mo’ nun ‘nce amammo cchiù, Ma ‘e vvote tu distrattamente pienze a me! Reginè quanno stive cu mmico… Intorno ai tre musicisti c’eravamo noi sette figli tutti piccolini e alcuni parenti, in rigoroso silenzio,

 

ammaliati dalle parole, dai suoni, dalle melodie che vibravano nell’aria

 

e ci affascinavano, ci coinvolgevano, ci incantavano, per portarci lontano e cullarci in un mondo di dolci sensazioni, come da lievi flutti marini.  

 

Murolo era figlio d’arte, il padre Ernesto era stato un grande poeta dialettale, a sua volta questi era figlio illegittimo di Eduardo Scarpetta, il padre dei tre fratelli De Filippo.

Egli si era formato nei salotti di Salvatore Di Giacomo, Libero Bovio, 

Ferdinando Russo e Raffaele Viviani, respirando arte e poesia.

Da giovane era stato un ottimo tuffatore, conquistando importanti riconoscimenti, ma poi, dopo aver studiato chitarra, formò il “Mida Quartet” con Enzo Diacova, Alberto Arcomone e Amilcare Imperatrice e girò per otto anni in Europa, dal 1938 al 1946, esibendosi tra teatri, teatrini e caffè musicali per campare alla meglio.

Tornato in Italia, affina il suo repertorio con le su citate canzoni e si esibisce con grande successo al Tragara di Capri e in altri posti alla moda conquistando il pubblico napoletano.Inizia anche ad incidere dischi, per la Telefunken Durium,

 

e la radio, allora regina incontrastata delle famiglie, diffonde la sua musica 

di continuo diventando ben presto un beniamino degli ascoltatori.

 

Anche il cinema si accorge di lui e interpreta alcuni ruoli in “Catene”, “Tormento”, “Menzogna”, “Saluti e baci”, dove alterna parti recitate a parti solamente cantate, insieme ad Amedeo Nazzari, Yvonne Sanson, Nilla Pizzi, Yves Montand.  

 

Un brutto episodio lo segnò a tal punto che decise di ritirarsi dalle scene e vivere nell’ombra. Poi, lentamente, la passione per il canto e la musica presero il sopravvento e riprese la sua carriera mietendo grandi successi con il pubblico che riconobbe in lui il fine dicitore di un tempo.

 

Si dedica quindi alla registrazione di album monografici ispirati ai grandi poeti napoletani che erano stati suoi maestri: Salvatore Di Giacomo, 

Ernesto Murolo, Raffaele Viviani e Libero Bovio.

 

Vince come autore il festival di Napoli nel 1959 con la canzone: “Sarrà chi sa”, interpretata da Teddy Reno e scrive altri testi di successo.  

 

Studia con il chitarrista Edoardo Caliendo il grande repertorio della musica napoletana a partire dal milleduecento sino ai suoi giorni e pubblica una Antologia cronologica della canzone napoletana che resta un testo basilare per la comprensione e la conoscenza di quest’ arte.  

 

Nell’ultimo periodo della sua attività canta,

si esibisce e incide insieme a Mia Martini, Enzo Gragnaniello, Fabrizio de André 

e alla Nuova Compagnia del Canto Popolare, Lina Sastri, Edoardo Bennato, Daniele Sepe, Amalia Rodrigues venendo riconosciuto come

il più grande interprete della canzone napoletana.

 

Nel 1995 viene nominato Grande Ufficiale della Repubblica dal presidente Scalfaro e nel 2002 Cavaliere di Gran Croce da Ciampi. In quest’anno, al festival di Sanremo, gli viene consegnato il prestigioso premio alla carriera. Per il suo novantesimo compleanno, Renzo Arbore realizza lo special: “Roberto Murolo Day, ho sognato di cantare”, prodotto da Raisat.  

 

Nel 2003 lascia la vita terrena e assurge definitivamente alla gloria dei grandi interpreti di Napoli e va a riposare per sempre al cimitero di Poggioreale. La sua casa in Via Cimarosa, al Vomero, è sede della Fondazione Murolo. 

 

 

anni di rinascita dell’Italia, di speranze e di sogni. 

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NAPOLI MON AMOUR di Giuditta Casale – Numero 16 – Febbraio 2020

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NAPOLI  MON AMOUR

 

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“È con sincera convinzione che diamo ad Alessio Forgione il benvenuto nella categoria dei veri scrittori”, 

lo afferma Ernesto Ferrero, come si legge sul retro della bellissima copertina del secondo romanzo, Giovanissimi, per la collana La Stagione della casa editrice milanese NN Editore, la stessa con cui lo scrittore napoletano ha esordito nel 2018 con Napoli mon amour, che nel frattempo è diventato anche un progetto teatrale per il Teatro Mercadante di Napoli con la regia di Rosario Sparno, oltre ad aver vinto il Premio Berto 2019.

 

C’è una stretta, e nello stesso tempo originale, continuità e contiguità tra i due romanzi, soprattutto attraverso i rispettivi protagonisti: il trentenne, precario e asfittico, Amoresano, e l’adolescente e acerbo Marocco.  

 

Già in Napoli mon amour Marocco gioca un ruolo da comparsa come ricorda Forgione:  

 

c’è un rapporto evidente tra Amoresano e Marocco, descritto in “Napoli mon amour” stesso, di cui Marocco è un personaggio, nella prima parte, che entra in un bar e dice delle cose riguardo la situazione del Napoli e Amoresano è insofferente, perché le reputa delle sciocchezze. Poi Marocco scompare, Amoresano va avanti e scompare anche lui e torna Marocco, che diventa il protagonista di “Giovanissimi”.

 

Ma ancora più interessante è il dettaglio che Forgione aggiunge:   

 

in “Napoli mon amour” Amoresano parla di un racconto che ha scritto e in cui ci sono due ragazzini che spacciano. E se quel racconto fosse diventato un romanzo? L’autore di “Giovanissimi” è Amoresano?

 

E se provassimo davvero a considerare il protagonista di Napoli mon amour 

come l’autore di Giovanissimi, al posto di Alessio Forgione?    

 

Non solo si potrebbe crederlo, ma è affascinante l’idea di leggere Giovanissimi come il romanzo, finalmente pubblicato, di Amoresano, sollecitato a scrivere in Napoli mon amour dal suo idolo letterario: La Capria, che fortunosamente incontra in uno dei passi più memorabili del romanzo.   

 

«Mi disse che i miei racconti gli erano piaciuti moltissimo.» 

«Lei ha stile, Amoresano» continuò «e, cosa ancora più rara, lei possiede una voce. Un buon narratore, cos’altro è se non una voce che ti sussurra all’orecchio? E lei quella cosa ce l’ha».  

 

Il limite che La Capria riscontra nella scrittura di Amoresano è la mancanza di contemplazione, perché rimprovera al giovane di essere troppo immerso nella storia. Amoresano tenta una giustificazione: come scrittore di “persone povere” (e in Giovanissimi ritorna l’attenzione alle fasce più disagiate, non solo in termini economici ma anche sentimentali e sociali) l’immersione potrebbe essere una cifra stilistica per rendere la scrittura più credibile. Sulla questione, però, La Capria è irremovibile: «Non penso, Amoresano. Vede, la buona narrazione è fatta tutta alla stessa maniera».  

 

In Giovanissimi, Alessio Forgione (forse proprio perché nella voce di Amoresano?) riesce a trovare un equilibrio perfetto e suggestivo tra l’immersione nella storia, già presente in Napoli mon amour, e “la visione aerea” suggerita da La Capria ad Amoresano, la capacità sorprendente di «innalzarsi sulla storia. Come se ci volasse sopra», nonostante la narrazione in prima persona del protagonista.

 

Un altro forte elemento di unione tra i due romanzi è il quartiere napoletano 

in cui entrambi sono ambientati: Soccavo. 

 

Un elemento di continuità non solo voluto, ma studiato anche nelle differenze stilistiche con cui è trattato.  

 

In Napoli mon amour il quartiere appare poco, – evidenzia Forgione – in Giovanissimi è a tutti gli effetti un personaggio; uno dei più importanti a dire il vero. Ricordo una mail che scambiai con Eugenia Dubini, ch’è l’editore e anche la persona che mi accende la luce e mi consente di guardare alle cose che faccio con più chiarezza. Lavoravamo alla revisione di Napoli mon amour ed Eugenia mi disse che c’era poco del quartiere, che appariva sfocato e che non si capiva bene che funzione avesse e perché nominarlo se poi non ne parli davvero. Le risposi che nel prossimo libro, ovvero Giovanissimi, avrei chiarito la faccenda del quartiere, che non potevo toglierlo e doveva fidarsi.

Che la presenza così viva del quartiere sia dovuta allo sguardo “aereo” 

di Amoresano, che scrive del giovane Marocco? 

 

È ad Amoresano, che vive a Soccavo come Marocco, che Alessio Forgione ha affidato la descrizione del quartiere, che invece in Napoli mon amour era rimasto volutamente sottotraccia, perché Amoresano ne era il protagonista e non l’autore?  

 

Nella rappresentazione della città di Napoli attraverso Soccavo, Alessio Forgione dimostra la raggiunta maturità di sguardo, consapevolezza letteraria e voce stilistica. Un passaggio necessario e voluto, un rimando e un superamento che unisce strettamente l’esordio alla seconda prova.

Ad unire, ancora, i due romanzi, c’è l’amore e la donna: Nina per Amoresano, 

Serena per Marocco. La forza salvifica e l’emozione di sentirsi vivi e trasformarsi 

in esseri desideranti, mentre la vita con le sue angustie 

vuole soffocare ciò che si vorrebbe essere. 

 

Nell’amore entrambi i personaggi provano a trovare sé stessi, a dare un senso a ciò che vivono, a lasciare una traccia. Napoli mon amour e Giovanissimi potrebbero dunque essere due capitoli, di certo indipendenti ma che letti in successione si illuminano e riverberano l’uno nell’altro, riuscendo a spiegare con forte immediatezza e senza edulcorazioni ciò che siamo a trent’anni oggi e ciò che siamo stati “per la prima volta” a quattordici.  

 

Un romanzo di formazione il primo, dalla parte dei trentenni che si scontrano con la realtà liquida e flessibile dei nostri tempi; e un romanzo di formazione il secondo, che ci riporta al passato, per rintracciare dei fili, introspettivi ed emotivi questa volta, che si tendono verso il futuro.

Ancora più affascinante pensare che Alessio Forgione nel dipanare questi fili da Napoli mon amour a Giovanissimi abbia voluto sperimentare la sua voce 

nel raccontare di Amoresano, e quella di Amoresano nel raccontare di Marocco.

 

In questo gioco raffinato di specchi letterari, potremmo persino credere che Amoresano sia l’alter ego di Forgione, come Marocco di Amoresano, e che tutti e tre in questo preciso momento se ne stiano in un bar con una birra ghiacciata in mano a discutere del Napoli e della tattica di gioco.  

 

«Dicono che i napoletani parlino al passato remoto, ma è un’idea sbagliata» le dissi […] «secondo me è più che vedono il futuro, il presente e il passato come un’unica striscia dritta, come se esistessero tutti nello stesso istante e quindi sapessero che niente potrà mai davvero cambiare». 

 

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MEDITERRANEI. ROSSELLINI TRA GRECIA E SPAGNA di Giusto Puri Purini – Numero 16 – Febbraio 2020

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MEDITERRANEI. ROSSELLINI  TRA GRECIA      E SPAGNA 

 

Nei suoi ultimi anni, di cui poco si è parlato, Rossellini era e si sentiva al centro di un vasto movimento storico umanista, costruito negli anni con una grande mole di lavoro e il cui unico comune denominatore erano il sapere e la conoscenza.

Su questo tasto aveva sempre battuto ed era convinto che una più ampia diffusione della conoscenza avrebbe lenito le ferite di un mondo lacerato dalla guerra e dalla diversità. 

 

La conoscenza, dunque, come ricerca di metodo, di nuova umanità. Essa, applicata al cinema ed alle sue arti collaterali, quali l’architettura, la scrittura, la fotografia, la pittura, la scienza, ecc., creava un insieme esplosivo,

un laboratorio vivente di arti intrecciate, dove anche la politica come gesto 

e comportamento veniva assorbita.


Questa specularità tra gesto ed opera ha in qualche modo fatto di Rossellini un trasgressivo – e quindi anche la sua grande lezione è stata in parte disattesa – almeno nell’attimo in cui entrava nelle case di tutti attraverso la Televisione,  creando onde d’urto, vedi India negli anni Cinquanta per la RAI, La presa del potere di Luigi XIV, l’esperienza di Houston, l’intervista ad Allende, nonché le lettere ai vari capi di Stato, coloro ai quali sentiva che più vicina fosse la sua intuizione sulla conoscenza, sulla sua evoluzione.

 

Ricordo una notte, in cui mi chiamò molto tardi,

 

io pensavo si trattasse di lavoro, di trucchi, stavo lavorando per lui ad un film che era iniziato con una telefonata: «Caro Giusto, non vorresti domani partire per la Spagna e realizzarmi Atene? Dobbiamo girare il Socrate…»”. E quindi mi aspettavo di tutto, e così fu.

Mi lesse la lettera che aveva scritto a Mao Zedong

 

e voleva la mia impressione. Era una lettera intensa, da un capo “cultura” ad un capo di Stato, piena di attenzione ai movimenti della rivoluzione culturale cinese ed a quelli giovanili europei… fuggire dalla violenza attraverso la chiave del sapere, del conoscere, da mettere al servizio dell’uomo. L’anelito era sincero e la fiducia nel mezzo, il cinema, era totale. Grande mago dei mass-media, fu il primo ad intuire e sperimentare con la propria opera che dietro il ruolo dalla regia ben altre corde di valori universali potessero essere toccate, diffuse e trasmesse.  

 

Questa scintilla, testimone d’una avvenuta e ormai sperimentata fusione tra ambiente e spazio, dove l’uomo, capite e create le regole, dedica il suo tempo all’evoluzione della società che lo circonda, era l’obiettivo non nascosto di Roberto Rossellini.

 

Dice Jean Louis Comolli, ex redattore dei Cahiers du Cinema e autore
del film L’ultima utopia, la televisione secondo Rossellini: 

 

“Il progetto (monumentale, più di 60 ore in previsione, realizzato in buona parte tra il 1963 ed il 1974) si rifà esplicitamente all’ambizione enciclopedica del Secolo dei Lumi.

Rossellini punta alla creazione di un nuovo umanesimo.

 

Dare agli uomini del proprio tempo, almeno a tutti coloro che vanno al cinema e/o guardano la televisione, gli strumenti necessari per impossessarsi della propria storia e, tramite la storia, del senso della propria vita; per ricominciare a pensare al mondo e alla propria condizione, per ritrovare la capacità di immaginare e il desiderio di conoscere; per prendere le distanze (questa, fra le righe, la dimensione politica del progetto) dall’alienazione, prodotta dal divertimento e dallo spettacolo dominato dal consumo e dalla pubblicità”. Non a caso, la sua ricerca storico-umanistica – iniziata con

 

La presa di potere di Luigi XIV (1964), film che sarà determinante

 

nella sua scelta futura – metterà in luce i momenti di trasformazione della storia, rileggendoli non solo come frutto di scontri e battaglie, ma evidenziando le condizioni economiche, sociali, religiose ed ambientali nelle quali gli esseri umani si sono evoluti. Un grande termometro, quindi, per rilevare ad ogni passo la temperatura della storia!  

 

Prosegue (o inizia) questa ricerca con La lotta dell’uomo per la sua sopravvivenza (più di 10 puntate) nel 1966/68, poi gli Atti degli Apostoli, quindi Socrate, Blaise Pascal, L’età di Cosimo de’ Medici, ecc.

Noi, con Gepy e Maurizio Mariani (Gepy era figlio di Marcella Mariani, sorella 

di Roberto), dovevamo quindi disegnare la “Storia” attraverso i famosi trucchi. 

Che progetto affascinante! 

 

Iniziai con gli Atti nel 1968: fui scaraventato da Gepy sul set tra i monti della Tolfa, dietro Civitavecchia. Bisognava girare l’entrata a Gerusalemme di un gruppo di cavalieri romani, attraverso la porta Ovest della città… Ma non vi era città, solo un grande modello di Gerusalemme in scala 1:500 dietro la macchina da presa. Davanti ad essa un grande cristallo inserito in una cornice di 6 metri per 2, sollevato da terra da due colonne laterali in legno, camuffate da “dorico”. Una parte del cristallo era specchiata e vi si rifletteva il plastico retrostante, cosicché la macchina da presa, inquadrandolo, permetteva alla città di incollarsi con il paesaggio frontale. Una delle Porte di Gerusalemme, non avevo lo specchio, e corrispondeva a trecento metri di distanza nel fondo valle, ad un portale ricostruito, che i cavalieri romani attraversavano al galoppo.

 

Avvicinai l’occhio alla macchina da presa, l’insieme era perfetto! 

Ero entrato nel mondo dei trucchi! E Roberto Rossellini era un Mago!

 

Oggi, con il digitale, i  rendering, l’elettronica, il sistema dei trucchi di Roberto Rossellini sembra anacronistico, ma allora questo artigianato tecnologico dava un contributo determinante, tecnico ed (altamente) economico, per sviluppare un cinema della “conoscenza” e del sapere, che oggi purtroppo non esiste più.  

 

Fu con questo Maestro che applicai all’architettura il metodo di rilettura della storia; non mi bastava più il Bauhaus, il movimento moderno, ma volevo risvegliare lo spirito critico che nasceva da questa ricerca, capire quali erano i fili che tenevano o sostenevano l’uomo, dai tempi del mito fino all’oggi, indagare su ciò che andava perduto, sradicare le false certezze,

cercare una via “italiana”, mediterranea del sapere, lontana 

dalle “colonizzazioni” culturali dei tanti movimenti moderni e contemporanei, 

non per disdegnarli, ma per recepire anche gli urli di dolore che provenivano 

dalla gabbia psichica, e costruttiva, che il mondo occidentale si era in parte creato.

Qualche mese dopo, per la Lotta, dovendo girare il funerale del Faraone e tutta la cerimonia, che si svolgeva tra il tempio a valle e la piramide (con il corteo che ne valicava la soglia), proposi, per risparmiare sul budget, le cave di sabbia della Magliana, più vicine a Roma delle dune dei deserti tunisini.

Rossellini ne fu entusiasta e realizzammo forse uno dei trucchi 

più belli e più “metafisici”. 

 

A duecento metri dalla macchina da presa venne creato un piano inclinato, appoggiato ad una montagna di sabbia, che serviva a far entrare nella piramide il corteo del faraone. In basso venne disposto il tempio a valle (in grandezza naturale), poi il cristallo, la macchina da presa e, dietro, il plastico della grande Piramide di Cheope, con i tre colori del rivestimento, in marmi e pietre: porfido rosso la base, calcare la parte intermedia e marmo nero per la cuspide! 

Oltre ai disegni, alle misurazioni, alle varie costruzioni da realizzare, bisognava, sul cristallo, traguardando attraverso l’obiettivo, scontornare con un pastello la proiezione del modello retrostante, perché è quello che andava specchiato… 

Imparai, grazie a Gianni Bonicelli, giovane collaboratore di Roberto ed ex studente dell’Accademia del Cinema, a miscelare le taniche di nitro con altri prodotti, per ottenere gli specchi.

Nessuna imperfezione era permessa, nessuna sbavatura.

 

Spesso si lavorava di notte ed eravamo in ansia, perché gli specchi dovevano essere pronti il giorno dopo, con centinaia di comparse in arrivo e la grande scena da girare… da brivido!  

 

Quando, nel mese di marzo del 2005, Gianni Bonicelli mi ha chiamato per parlarmi del lavoro di Jean Louis Comolli, e per chiedermi di riprendere il mio ruolo di architetto-scenografo e “uomo” di trucchi in un’intervista, ho risposto con entusiasmo. 

Mi sono soffermato con loro soprattutto sul Socrate.

Eravamo nel 1970 e tutto incominciò con una telefonata notturna 

di Roberto Rossellini, in cui mi chiese se ero disposto 

ad andare in Spagna per cercargli Atene.

 

Follie delle coproduzioni, ma affascinato dal senso metafisico, accettai con un entusiasmo, e ci mettemmo alla caccia di un luogo che evocasse con realismo quell’Idealità.

Lo trovammo dopo due settimane, a 70 km a nord di Madrid,

 

in mezzo alle montagne: Patones de Arriba! 

Il grande borgo di pietra era abbandonato: ulivi, rocce, colline, cieli blu, sembrava la Grecia… ed era dall’altro lato del Mediterraneo, culla della nostra storia e area di forti similitudini morfologiche.  

Cercai il punto “X”, quello del totale, con l’Agorà, la piazza da costruire in primo piano, sullo sfondo il Borgo di pietra e sopra, sulla sinistra, l’Acropoli, il “trucco”. 

Dovetti con dolore sradicare degli ulivi, scavare e pareggiare 2 gradoni della montagna.

Per allargare maggiormente lo spazio ne aggiunsi un terzo di almeno 300 mq, 

questa volta sospeso nel vuoto, ancorato a tubi innocenti. 

Avevo così finalmente realizzato la piazza, 

era l’Agorà di Atene

 

(Rossellini mi disse poi, confidenzialmente, che si era trovato a girare in un campo che gli stava stretto! Ma, di realtà virtù). 

La collaborazione con la TVE (Televisión Española) fu ottima, lo scenografo Bernardo Ballester, divertito e spavaldo, non arretrava di fronte a nessuna delle spericolatezze che l’allestimento del set richiedeva.  

 

Quel mondo aveva dei rituali stimolanti. Si formava, soprattutto nel cinema d’équipe di Rossellini, un gruppo di persone molto affiatate tra di loro. I più erano in squadra da tanto tempo ed era ammirevole vedere il loro coordinamento, coadiuvare le intuizioni del regista, i suoi desideri di “inventare” ed improvvisare le scene sul momento, come un work in progress.

 

La sceneggiatura definitiva veniva scritta con La Rochefoucauld solo la notte prima.


C’era il figlio Renzo, regista e produttore, metronomo di Roberto, c’era la mamma di Renzo, la costumista Marcellina De Marchis, l’operatore Mario Fioretti, il Direttore di Produzione Francesco Orefici, il musicista e compositore Mario Nascimbene e tanti altri, attori, macchinisti, una vera corte dei miracoli, votata ad evitare sprechi, coltivare risparmi, ma “eseguire” in grande. Questo rapporto dinamico dell’équipe è stato uno degli insegnamenti essenziali avuti dal Cinema. 

Un DNA che si rivelerà per me fondamentale nel successivo passaggio verso l’Architettura “costruita”, nascosto nei meandri segreti delle mie future realizzazioni.

 

Il cinema presta all’Architettura la sua velocità di esecuzione, affronta lo spazio 

in modo creativo e spavaldo, calibra i vuoti ed i pieni, i campi ed i controcampi

 

e l’Architetto, conoscendo le dinamiche che sovraintendono il realizzarsi dell’opera, deve avvolgere di contenuti la macchina da presa. 

Mentre nel set di Patones de Arriba la natura circostante, le costruzioni, la storia, i templi con i loro colonnati, il Thòlos,

gli edifici in pietra esistenti, resi multicolori, dai toni pastello, i fregi sgargianti 

dei timpani si fondevano tra di loro, misi l’occhio nell’obiettivo: 

in alto nell’inquadratura il modello dell’Acropoli, tutto di nuovo 

si ricompose, come per incanto,

 

ed il giorno dopo Socrate con i suoi allievi fluttuava, nel centro dell’Agorà, in un luogo X del Mediterraneo. E la sfida di Roberto Rossellini continuava.  

 

 

 

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Photo credit direttore della fotografia Mario Moretti

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RENZO ARBORE E IL SUO SUD PREDILETTO di Gaia Bay Rossi – Numero 15 – Dicembre 2019

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 RENZO ARBORE e il suo sud prediletto 

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nella sua bella casa romana, immersa nel verde, con la vista sulla città e naturalmente piena di oggetti dallo svariato grado di utilità, e poi libri, vinili, fotografie, il tutto condito da un mix di pop e colore. 

Renzo Arbore è un vero, completo, poliedrico artista, termine che, oggi così abusato, appare come una deminutio capitis per un personaggio come lui. E nello stesso tempo è un gran signore, un gentiluomo del Sud, colto, sensibile, aggraziato ed elegante anche nel pensiero e nelle parole, che riporto integralmente così come da lui espresse.

Myrrha, come ha letto, si dedica a dare rilievo a tutto ciò che di bello, 

importante e meritevole di divulgazione viene prodotto nel Mezzogiorno d’Italia. 

In primo luogo lo chiedo a lei, perché è lei stesso un’eccellenza del Sud: 

c’è qualcosa che vorrebbe sottolineare del nostro Sud 

per iniziare questa intervista?  


Beh, se vai sfruculiando un artista, non può non dirti che il Sud – lo dico senza nessun campanilismo – dal punto di vista artistico è forse più produttivo del Nord, ma non solo in Italia. Nel Sud del mondo, aiutati dal sole, c’è una vitalità artistica forse più ampia, più abbondante, non voglio dire migliore, di tutta la restante parte. Pensiamo alla cultura napoletana, alla cultura siciliana, e poi da tutti i punti di vista, anche musicale, umanistico, giuridico, il Sud è veramente un’eccellenza italiana che va fatta conoscere. Tutto questo riconoscendo che il Nord è sicuramente più produttivo dal punto di vista economico e che è molto ospitale nei nostri confronti, perché noi del Sud dobbiamo andare al Nord e far sposare la nostra creatività con l’operosità del Nord. Tutto questo naturalmente ricordando che la Capitale d’Italia è al centro e che ci sono due isole bellissime che sono la Sicilia e la Sardegna.

Con l’Orchestra Italiana ha girato sud e nord non solo dell’Italia ma del mondo.  

 

Devo dire che io ho veramente girato il mondo con la mia Orchestra Italiana, che da 28 anni è diventata l’orchestra stabile più longeva nella storia della musica, e sottolineo “orchestra stabile”. Più lunga, nel jazz, di quella di Duke Ellington che è durata quindici anni. E io con ‘sti napoletani duriamo da 28 anni e siamo andati per il mondo con le canzoni napoletane arrangiate da me.

 

Come Caravaggio, che non era di Napoli ma ha lavorato a lungo a Napoli 

ed è stato determinante per la formazione della pittura napoletana, 

così lei con l’Orchestra Italiana ha in qualche modo consolidato, 

accresciuto e creato una nuova memoria della canzone napoletana 

in Italia e nel mondo.  

 

Ti ringrazio che me lo riconosci, perché c’era un grande equivoco in cui erano caduti persino gli artisti napoletani. Gli artisti napoletani che avevano solo due maître à penser, vendevano la Napoli antichissima popolare e snobbavano la canzone napoletana borghese. C’era un’antipatia da parte di questi due personaggi che non nomino per le canzoni napoletane borghesi, perché queste canzoni bellissime, tranne in pochissimi casi, uno o due, sono state scritte tutte da borghesi, intellettuali finissimi, professori, dirigenti, avvocati e cantavano la Napoli popolare ma erano borghesi, e questo per loro era l’handicap. Così gli artisti napoletani, suggestionati da questi maître à penser così autorevoli, hanno creduto che queste canzoni fossero canzoni del passato. È come credere che la Traviata o la Toccata e fuga di Bach siano pezzi del passato. Non si accorgevano che queste canzoni hanno delle melodie, nelle quali noi italiani, e in particolar modo i napoletani, eccelliamo, che sono le più belle del mondo e le poesie, perché non le chiamiamo soltanto parole, le poesie più belle del mondo. Perché se uno prende Salvatore Di Giacomo, e quindi i grandissimi, come anche Ernesto Murolo, hanno scritto delle liriche meravigliose, sposate a una musica meravigliosa. Io non esito a dire, da colui che ha conosciuto e pratica tutta la musica del mondo, che le canzoni eterne più belle del mondo sono le canzoni napoletane. Poi ci sono le canzoni americane degli anni Trenta, ma sono canzoni molto più commerciali, molto meno profonde, sempre bellissime, Gershwin, Cole Porter; poi ci sono le canzoni brasiliane degli anni Cinquanta, ma quelle popolari forse più importanti dopo le canzoni napoletane sono le canzoni messicane, che tutti ritengono siano cubane o argentine, e invece no, sono messicane. Lì c’è un patrimonio bellissimo, ignorato dalla cultura mondiale, non si sa perché. Come lirica e come melodia le canzoni messicane sono fortissime, però quelle napoletane sono molte, ma molte, ma molte di più.

Le canzoni napoletane parlano spesso di amori tormentati o sofferti. 

 

Sì, è lo stesso soggetto delle canzoni messicane, anche quelle napoletane parlano di amori tormentati, gelosie, morti.

 

Quindi è vero quello che Einstein ha scritto alla figlia e cioè che l’amore
è “la più invisibile e potente delle forze, […] la quintessenza della vita”. 

 

Certo. Queste canzoni parlano d’amore, perché l’amore perbacco è quello lì, meraviglioso, che poi ha mille e mille sentieri. Perché io stesso mi meraviglio, ascoltando le canzoni napoletane antiche, ma non solo le più famose, di come sono andati a scovare certi tic di innamorati, certi momenti, certi vizi. Io ho fatto un film che si chiama Che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene, anche questa è un’intuizione bellissima. Lei lo sta lasciando e lui si lamenta e dice: “Perché mi hai portato in questo posto magico, meraviglioso, degli innamorati, se non mi vuoi più bene”. Ecco, nelle canzoni napoletane ci sono mille di queste idee, anzi di più. Questa è la bellezza di queste canzoni del Sud che adesso sto tentando di far apprezzare dall’Unesco, sperando di farle riconoscere come Patrimonio dell’Umanità. È stata riconosciuta la pizza, che è una cosa straordinaria, spero anche nel valore aggiunto delle canzoni napoletane che sono cantate anche in Cina o in Corea dai loro tenori e soprani, peraltro con accenti meravigliosi. Dovunque sono andato in Cina, ho sempre trovato delle persone a cui ho fatto cantare ‘O sole mio e non puoi immaginare con quanta dedizione ed entusiasmo. Ma poi non solo in Estremo Oriente, anche arabi, tunisini, li ho visti cantare ‘O sole mio. Questa è, non la canzone napoletana più famosa del mondo, ma proprio la canzone più famosa al mondo. Dopo viene Summer Time, e dopo Let it be.

Il suo grande amico Luciano De Crescenzo, da me intervistato qualche anno fa 

per Myrrha, mi raccontò che ‘O sole mio non è stata scritta a Napoli, 

come tutti pensano, ma a Odessa. E questo spiega il perché 

di questa ode al sole, mentre se fosse stata scritta a Napoli, 

dove il sole c’è sempre, non si spiegherebbe. 

 

Sì, ma te lo dico da foggiano, che ha vissuto sette anni a Napoli e ci va spesso: a Napoli loro non capiscono che sono baciati dal sole in quella maniera straordinaria. Napoli è esposta completamente a sud, quindi dal porto, da Castellammare fino al monte di Procida è esposta a sud, così come anche Amalfi e Positano. Quindi il sole quando c’è, quasi sempre, bacia quella città in maniera totale e straordinaria.

A Napoli anche lei è rimasto incantato dal Cristo velato? 

 

È bellissimo. Io ci andavo quando ancora non lo conosceva nessuno. Pensa che mi portò uno studente di medicina. Mi disse: “Devo andare a vedere i due scheletri” (le macchine anatomiche esposte nella cavea sotterranea ndr). Perché in quelli il principe di Sansevero aveva fermato tutto l’impianto circolatorio, non si sa come. Aveva iniettato qualcosa che avrebbe dovuto fermare il sangue e invece era rimasto tutto, c’erano persino i capillari.  Comunque, a Napoli ci sono dei capolavori. Come dice Sgarbi, Napoli è una città che è già cultura. È la verità, Napoli con tutte le dominazioni, con quello che ha avuto, la Napoli sotterranea, è una città che trasuda cultura da tutte le parti e la trasmette. Poi ci sono altre cose meravigliose che i napoletani non sanno e che io individuo da pugliese. A Napoli, siccome non hanno molto il senso pratico come noi pugliesi, o come i romani, i milanesi ecc., fanno anche delle meravigliose cose superflue, inutili. E questo è il segreto della creatività! Perché uno dice: “Io sono appassionato di piante e voglio fare un innesto, voglio fare una cosa particolare”, e da quella semplice azione magari salta fuori una scoperta eccezionale. Non hanno quella cosa tipicamente italiana del “a che serve? Come ci guadagniamo? A chi lo vendiamo?”, loro non partono da questo criterio, ma dalla passione. Ho la passione di dipingere Napoli capovolta? Non venderò mai un quadro, ma lo faccio perché mi piace. Questo è molto singolare e bellissimo.  Ma finiamo di parlare di Napoli se no poi si incavolano i miei amici pugliesi. Anzi, a questo proposito ti racconto una cosa che abbiamo rilevato con il mio amico Lino Banfi, pugliese come me. Noi naturalmente, essendo pugliesi ma innamorati della cultura napoletana come tutti i pugliesi, abbiamo notato una cosa. Banfi, che è curioso, ha detto: “Sai perché i napoletani ridono più di noi? Perché noi pugliesi un po’ invidiamo quelli che stanno meglio di noi”. Noi diciamo: “Oh, guarda che bella moglie che ha il mio amico”, e la guardiamo con invidia, o anche quello che ha la macchina più grande, quello che ha successo ecc. Mentre i napoletani indulgono di più al sorriso perché guardano quelli che stanno peggio di loro. Il napoletano dice: “Meno male che non dormo nell’automobile come questo poveretto”. Hanno questo atteggiamento di essere contenti del loro stato e sono abbastanza soddisfatti rispetto a quelli che stanno peggio di loro. Hanno sempre avuto a che fare con la miseria, con le disgrazie, con le dominazioni, quindi hanno un atteggiamento che la rende una città sorridente, come dico io.

 

Prima di Napoli c’è stata Foggia. 

 

Sì, ho parlato bene di Napoli ma voglio parlare bene anche della mia fucina, Foggia, “reale e preferita dimora di Federico II”. Noi avevamo una proprietà che abbiamo venduto nel dopoguerra, che era proprio la tenuta di caccia di Federico II, in località Cervaro. È una città che non ha grandi vestigia dell’antichità, ma la provincia rispetto alla grande città ti permette di stare per strada e di conoscere tutti: il figlio del ricco, quello che scappa di casa, il delinquente, il poliziotto, il venditore di nocelle, il corteggiatore, la ragazza generosa, tutta una fauna umana. Io poi ho ancora la mia casa in centro, scendo e incontro dei passanti che sono già miei amici, che sono quelli del tennis o quelli con cui ho studiato, mi accodo e si fa la famosa passeggiata per il corso parlando di cose inutili. Che però ti educano, perché incontri quello che ti racconta come si smista la corrispondenza nei vagoni postali delle ferrovie e quell’altro che invece faceva il pilota degli aeroporti militari ad Amendola, il più grande aeroporto militare d’Italia. Insomma, tutte conversazioni interessanti e anche a volte totalmente inutili come quelle del bar notturno, che poi io ho messo anche in Quelli della Notte: “È meglio il mare o la montagna?” Quelle conversazionacce inutili… Così in quegli anni ho conosciuto un campionario umano molto, molto vasto. Dovevo, per sconfiggere la noia, organizzare delle cose culturali, ma anche degli scherzi notturni, quindi una maniera goliardica di passare la sera, perché senza le ragazze che andavano a casa alle otto noi ci ritrovavamo che non sapevamo che fare. Quindi la provincia è diventata una palestra e poi c’era il carattere di noi pugliesi, che abbiamo la grande voglia di sprovincializzarci. Sai, quello che si dice a Bari, “se Parigi avesse lu mare sarebbe una piccola Bari”, è in realtà una spia popolare della nostra voglia di sprovincializzarci. Abbiamo un po’ il complesso di appartenere al profondo Sud, anche se non è poi così profondo come la Sicilia.

Come diceva saggiamente Luciano De Crescenzo, 

“si è sempre meridionali di qualcuno”. 

 

Già. Il pregiudizio che si ha sul Sud in generale è inutile e dannoso. Tu di una persona puoi vederne i difetti e non calcolarne i pregi. Persino di Leonardo da Vinci puoi dire male, puoi dire che non portava a termine le cose, che era vanitoso perché si è autoritratto ecc.

Come vi siete conosciuti e riconosciuti (tra persone fuori del comune ndr

con Luciano De Crescenzo? 

 

Noi ci siamo conosciuti perché avevamo la stessa fidanzatina. Io stavo a Sorrento e avevo ‘sta fidanzatina, Luciano stava a Napoli e aveva ‘sta fidanzatina. La mia fidanzatina diceva: “Vado a Napoli perché sono amica di Luciano De Crescenzo, ingegnere”. Io le chiedevo: “Ma siete fidanzati?” “No”. E la stessa cosa diceva a Luciano su di me. Poi in seguito ci siamo conosciuti, ci siamo confrontati e da lì siamo diventati amici. Naturalmente, siccome era una fidanzatina occasionale estiva, è diventata la prima risata con Luciano, e sul piano della risata ci siamo intesi subito. Noi avevamo una matrice goliardica tutti e due. La goliardia che era ed è considerata una cosa deteriore, perché naturalmente c’è anche una goliardia deteriore, però era una fucina di risate da parte di intellettuali o di futuri intellettuali, che appartenevano tutti all’Unione Goliardica Italiana, pensa a Eugenio Scalfari, Luciano De Crescenzo, Bettino Craxi, Pannella, erano tutti UGI, e tanti altri intellettuali. Erano i ragazzi svegli di quella generazione, prima della mia, che stando all’università aderivano a questo movimento goliardico, per cui mescolavano il basso con l’alto, le leggi della chimica con le parolacce o la religione ecc., ma la matrice era quella ridanciana della goliardia. Questa era la matrice anche per me e Luciano. Poi coincidevano le passioni per la cultura napoletana e per la canzone napoletana che avevo praticato e bazzicato nei sette anni della mia permanenza napoletana. Perché io mi sono laureato in giurisprudenza, ma invece di metterci quattro anni ce ne ho messi sette, perché suonavo anche, frequentavo gli americani, dirigevo il circolo napoletano del jazz, frequentavo Roberto Murolo, Sergio Bruni, tutti i cantanti napoletani, e in più gli studi. Questa cultura con Luciano l’abbiamo condivisa, lui era di una generazione precedente, generazione straordinaria, perché era quella di Raffaele La Capria, di Antonio Ghirelli, di Giorgio Napolitano, di Franco Rosi, grande regista, di Domenico Rea, di Giovanni Ansaldo direttore del “Mattino”. C’era una cultura napoletana meravigliosa, tradizionale, c’era un grande rispetto tra il popolo e la cultura borghese napoletana, che poi è stata cancellata ed equivocata col laurismo. Con Luciano siamo stati amici fino alla fine. È stato sottovalutato dalla critica snob dei “non venditori di libri”, perché Luciano li vendeva. Ha venduto più di venti milioni di libri in tutto il mondo, è lo scrittore che ha venduto più libri al mondo, più di Umberto Eco. E comunque le vendite sono una cosa e il valore un’altra, e Luciano è sicuramente da approfondire. Ora sto rileggendo i suoi libri e ci sono tantissime idee e pensieri profondissimi.

Cosa sta preparando adesso?  

 

Adesso sto preparando due revival, uno con Banfi e Mirabella, un programma pugliese, e poi un programma napoletano ricordando i cento anni dalla nascita di Renato Carosone che ricorrono quest’anno. Speriamo di farlo con Stefano Bollani che è un grandissimo pianista, un’eccellenza italiana anche lui.  Poi mi sto dedicando molto al mio canale: renzoarborechannel.tv dove h24 vengono passate sia cose mie, sia programmi che mi piacciono, che condivido o che sono nelle mie corde: Edith Piaf, Yves Montand, Aretha Franklin, io praticamente faccio il video jockey, mi diverto a mettere dei video che poi servono sia per i millennials, che non li conoscono, ma anche per i nostalgici, Aldo Fabrizi, Lulù, Sandra e Raimondo. Questa è la cosa che più mi affascina, fare il video jockey.

 

Prima mi raccontava una cosa interessantissima sulle origini del jazz. 

 

Sì, ho fatto con Riccardo Di Blasi un programma di un’ora e mezzo per Rai 2 sulle origini siciliane del jazz che vengono sottaciute dagli americani. In realtà, il primo disco nella storia del jazz è stato scritto e composto da un siciliano, Nick La Rocca, trombettista di genitori siciliani, padre di Salaparuta e madre di Poggioreale (entrambe in provincia di Trapani ndr) che, con alcuni altri siciliani trapiantati a New Orleans, fondarono l’Original Dixieland Jass Band (poi trasformato in Jazz) che servì di ispirazione perfino ad Armstrong che lo dice nella sua biografia. Nick La Rocca ha fatto il primo disco nella storia del jazz che si chiama Livery Stable Blues e ha fatto un celeberrimo brano che si chiama Tiger Rag, uno standard che ha fatto il giro del mondo. Ma la verità è che il contributo dei siciliani, così come quello dei neri, dei francesi e dei canadesi che stavano a New Orleans in quel periodo è stato determinante per l’invenzione della musica jazz. A New Orleans c’è un museo italo-americano e c’è anche la più antica gastronomia italiana dove si va a mangiare gli anelletti e le cose siciliane. A New Orleans nel 1835 cominciarono ad arrivare gli italiani perché il governo americano, che aveva comprato la Louisiana dalla Francia, offriva dei terreni gratis a chi era disposto a coltivarli e quindi da Palermo, ma soprattutto dalla zona di Salaparuta, si trasferirono in tanti. Quindi lì c’è una cultura antichissima, perché non erano neanche emigranti, erano coloni. Grazie a questa trasmissione sulle origini siciliane del jazz sono diventato palermitano ad honorem!

Una chicca meridionale per chiudere? 

 

Voglio ricordare che l’America ha avuto i primi italiani amati dagli americani, come Rodolfo Valentino, un attore meraviglioso, che era pugliese di Castellaneta, e un altro pugliese di Foggia, anzi di Cerignola, che è amatissimo dagli americani, che lo fecero sindaco di New York e gli intestarono anche un aeroporto, ora il secondo a New York, che era Fiorello La Guardia. Spero sempre che qualcuno possa decidere di fare una fiction, perché è una storia bellissima, su questo personaggio che fu tanto amato dagli americani.

 

Bene caro Renzo Arbore, ci aspettiamo tante altre belle sorprese da parte sua! 

 

 

Azzurra Primavera
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IL MAESTRO DEI MAESTRI EDOARDO SCARPETTA di Fernando Popoli – Numero 15 – Dicembre 2019

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IL MAESTRO DEI MAESTRI EDOARDO SCARPETTA

 

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Da piccolo, preso da un infrenabile desiderio infantile prodomo del suo destino,

costruì un teatrino di legno dove si divertiva a far recitare dei pupi di stoffa 

con la sorellina Gilda, unica spettatrice.


All’età di nove anni il padre, funzionario statale, lo portò al celebre teatro San Carlino dove il grande Antonio Petito, famoso Pulcinella, recitava. La visione di quella maschera brutta, con rughe sulla fronte e sguardo inquietante gli rimase impressa e segnò la sua scelta, ammaliandolo completamente.  

 

All’età di quattordici anni fu scritturato dall’impresario Salvatore Mormone e debuttò al San Carlino nella commedia dialettale Cuntiente e guaje dove recitava in una piccola parte con poche battute. Quello fu l’inizio di una grande ascesa, il pubblico cominciò a notarlo, a seguirlo, ad apprezzare il suo talento dirompente e comunicativo, a punto tale che il grande

 

Antonio Petito, che pure in precedenza non l’aveva preso in considerazione, 

gli affidò la parte di Felice Sciosciammocca

 

(alla lettera: soffia in bocca), che faceva da spalla a Pulcinella, un personaggio divertente, ingenuo e svampito che è rimasto nel teatro napoletano per decenni.  

Petito scrisse alcune commedie su misura per lui Feliciello mariuolo de’ na pizza e Felice Sciosciammocca creduto guaglione ‘e n’anno” ottenendo un grande successo di pubblico che prese in simpatia definitivamente questo giovane attore. 

Scarpetta passò da una compagnia all’altra mietendo sempre unanimi consensi, quando c’era lui i teatri erano pieni.   


Intanto Petito era morto e il San Carlino versava in condizioni critiche, quasi disperate, fu allora che l’attore decise di rilevarlo; lo mise completamente a nuovo e iniziò lì una nuova stagione teatrale aggiornando il repertorio e modificando la sua recitazione ispirandosi ai vaudevilles francesi, rielaborandoli e reinventandoli sempre con il principio che il pubblico voleva ridere, ridere, ridere. 

In breve calcò i palcoscenici di tutti i teatri d’Italia consolidando la sua fama 

e arricchendosi; scrisse altre commedie, tra queste quella più famosa, 

tramandata ai suoi discendenti e a tanti altri attori napoletani: 

Miseria e Nobiltà.


La storia di un giovane nobile innamorato di una ragazza figlia di un cuoco arricchito, amore ostacolato per motivi di classe sociale dai genitori, dove Sosciammocca e un altro spiantato si fingono parenti nobili della ragazza per far superare l’ostacolo, con tutta una serie di situazioni comiche poiché ad un certo punto entrano in scena i veri nobili di quella casata.  

 

Miseria e Nobiltà ebbe un grande successo di pubblico e di critica insieme 

ad altre due commedie di Scarpetta: Nu turco napolitano e O miedeco d’e pazze.


Queste tre commedie furono in seguito portate sullo schermo dal grande Totòche fece di Sciosciammocca una memorabile interpretazione ancora oggi godibilissima da spettatori di tutte le età. Attore e commediografo consacrato, Scarpetta ebbe una vita sentimentale travagliata e

si unì a più donne dalle quali ebbe figli legittimi e figli illegittimi come i tre fratelli 

De Filippo che raccolsero da lui il talento e il fuoco sacro dell’arte teatrale

 

segnando in seguito una pietra miliare nella recitazione del teatro di tutti i tempi.
Nel 1889 ottenne un memorabile successo con 
Na santarella al TeatroSannazzaro di via Chiaia. Tutta Napoli, elegante e mondana, accorse al piccolo teatro, e con gli incassi della commedia l’attore si fece costruire una villa sulla collina del Vomero chiamata Villa la Santarella, dove sulla facciata principale fece scrivere la celebre frase «Qui rido io!», ancora oggi viva nella memoria dei napoletani.  

Ebbe anche una lite giudiziaria per i diritti di una commedia, La figlia di Iorio,con il Vate, Gabriele D’Annunzio, dalla quale però uscì vincitore ma anche amareggiato per l’insuccesso che ebbe la rappresentazione.

Nel 1909 si ritirò dalle scene, stanco e deluso, lasciò in eredità al figlio Vincenzo il personaggio di felice Sciosciammocca e scrisse un saggio sul commediografo Raffaele Viviani. 


Morì nel 1925 all’età di 72 anni e il suo funerale a Napoli fu imponente. Oggi riposa in pace nelle cappelle delle famiglie De Filippo, Scarpetta e Viviani al cimitero di Santa Maria del Pianto a Napoli.  

La sua arte è rimasta ed è spesso ripresa da altri attori napoletani, la sua dinastia si è estinta, dei suoi discendenti non è rimasto più nessuno ma il ricordo di lui è vivo nella memoria di tutti gli amanti del teatro. 

 

il maestro dei maestri del teatro popolare napoletano, il capostipite di una grande famiglia di attori ormai del tutto estinta, padre di Eduardo, Titina e Peppino De Filippo, di Vincenzo Scarpetta, di Eduardo Scarpetta in arte Passarelli, di Pasquale De filippo, e nonno di Luca De Filippo e Mario Scarpetta. 

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EDUARDO, TITINA E PEPPINO

 

CODEX… PATRIMONIO DELL’UMANITA’ di Cecilia Perri – Numero 15 – Dicembre 2019

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CODEX…  PATRIMONIO DELL’UMANITA’ 

 

è un evangeliario greco miniato, uno dei più preziosi esistenti al mondo, che contiene l’intero vangelo di Matteo, quasi tutto quello di Marco, del quale mancano solo i versetti 15-20, e una parte della lettera di Eusebio a Carpiano sulla concordanza dei vangeli stessi.

È costituito da 188 fogli, pari a 376 pagine, di finissima pergamena purpurea e in origine doveva certamente comprendere tutti e quattro i vangeli, in uno o due volumi. La scrittura utilizzata è la maiuscola biblica, il testo è distribuito su due colonne di venti righe ciascuna, di cui le prima tre che costituiscono l’incipit dei vangeli sono scritte con caratteri aurei, mentre le altre in argento.
Il Codex è inoltre

 

arricchito da quindici miniature considerate un assoluto capolavoro dell’arte bizantina

 

Probabilmente le miniature oggi conservate non sono tutte quelle che ornavano e illustravano l’evangelario, ma rappresentano certamente un folto nucleo che comprende rievocazione dei fatti neotestamentari, concepiti allo scopo di servire la liturgia della chiesa greca. Il ciclo miniato di Rossano è considerato più di una narrazione illustrata della vita di Cristo; gli studiosi hanno infatti evidenziato il rapporto con le letture della settimana santa nella chiesa bizantina, tradizione ancora in uso in molte comunità della Calabria, sottolineando come le composizioni attingano spesso da più vangeli contemporaneamente.   

 

Le scene raffigurate in sequenza sono: la resurrezione di Lazzaro; l’ingresso di Gesù in Gerusalemme; la cacciata dei mercanti dal Tempio; la parabola delle dieci Vergini; l’ultima cena e la lavanda dei piedi; la comunione degli apostoli; Cristo nel Getsemani; il frontespizio delle tavole delle concordanze; la lettera di Eusebio a Carpiano; la guarigione del cieco nato; la parabola del buon samaritano; Cristo davanti a Pilato; il pentimento e la morte di Giuda; la scelta tra Cristo e Barabba; il ritratto san Marco con la Sophia.

In dieci delle quindici pagine miniate, al di sotto della scena figurata vi sono le figure 

di quattro profeti che reggono con la mano sinistra un rotolo sul quale 

è una loro profezia, mentre con la destra indicano la scena 

che si svolge in alto, per stabilire la stretta connessione 

tra vecchio e nuovo testamento.

 

Protagonista indiscusso delle miniature è la figura di Cristo, raffigurato secondo l’iconografia bizantina. L’espressività dei personaggi, la resa armonica e moderna del movimento, l’uso dei preziosi colori, sono alcuni degli elementi che rendono davvero unico il ciclo miniato. Ciò che rende ancor più affascinante il Codex è la sua storia, ancora oggi avvolta dal mistero. Il Codex è ricordato per la prima volta a Rossano nel 1831 da Scipione Camporota, canonico della Cattedrale, ed è segnalato poi, fugacemente, nel 1846, dallo scrittore Cesare Malpica in un libro-reportage dal titolo La Toscana, l’Umbria e la Magna Grecia, ma viene presentato per la prima volta all’attenzione della cultura europea ed internazionale nel 1879 dai due studiosi tedeschi, Oskar von Gebhardt e Adolf von Harnach, che pubblicano un testo dal titolo Evangeliorum Codex Graecus Purpureus Rossanensis, battezzando ufficialmente il prezioso manoscritto di Rossano.

Molteplici sono ancora oggi gli aspetti problematici dibattuti dalla critica 

e riguardano la precisa datazione del Codex, 

 

il luogo in cui fu realizzato, i tempi e le modalità del suo arrivo nella città di Rossano. La datazione è circoscritta alla metà del VI secolo, mentre più complessa resta la questione relativa al luogo di realizzazione dell’evangelario: esso fu realizzato in uno scriptorium bizantino dell’Impero Romano d’Oriente, ma le diverse tesi oscillano tra la Siria, l’Egitto, la Palestina o la città Costantinopoli, anche se oggi gli studiosi tendono a riconoscere Antiochia di Siria il luogo più probabile di esecuzione.

Circa la committenza è plausibile pensare che sia stato commissionato 

da una figura proveniente dall’ambiente della corte di Bisanzio,

 

dalla famiglia imperiale o dall’alta aristocrazia di corte, per la preziosità dei materiali di cui si compone – pergamena purpurea, inchiostro d’oro e d’argento – il colore porpora era a quel tempo riservato all’imperatore e ai suoi stretti congiunti. Probabilmente fu portato a Rossano dai monaci iconoduli, intorno alla metà del VII secolo, al tempo delle persecuzioni iconoclaste, ma non è da escludere l’arrivo a Rossano coincidente con la sua elevazione a diocesi nel X secolo, che, tra l’altro, coincide con il periodo di maggior splendore della città. Una tesi più recente afferma come il Codex possa considerarsi un dono della principessa bizantina Teofano, sposa di Ottone II e imperatrice del Sacro Romano Impero, la quale nell’estate del 982 tenne corte in Calabria, proprio nella città che da millenni lo custodisce.   

 

Dal 1952 il Codex è conservato nel Museo Diocesano e del Codex a Rossano, piccolo borgo intriso di cultura bizantina, il primo museo diocesano ad essere istituito in Calabria.

Il prezioso manoscritto, riconosciuto il 9 ottobre del 2015 

quale Bene Patrimonio dell’Umanità

 

da parte dell’Unesco ed inserito nella categoria “Memory of the World”, dopo un attento restauro compiuto dall’ICRCPAL, è dal 3 luglio 2016 conservato e tutelato all’interno di un nuovo percorso museale suddiviso in due sezioni, una interamente dedicata al Codex e l’altra alla collezione museale, studiata al fine di valorizzare al meglio l’intero patrimonio artistico della Diocesi.

Un Museo nuovo, in grado di comunicare l’arte anche in relazione alle esigenze 

del visitatore moderno attraverso soluzioni multimediali, quali totem 

che permettono di sfogliare virtualmente il manoscritto, 

video e monitor touch-screen che consentono 

di compiere un vero e proprio viaggio nella storia 

e nell’arte del territorio diocesano. 

 

Il Museo è gestito dall’associazione “Insieme per Camminare”, nata per volere dell’Arcivescovo Mons. Satriano e composta da giovani con varie professionalità, accomunati da un profondo amore verso il territorio. 

 

 

 

 

 

 

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DICI SIBARI E SEI NELLA MAGNA GRECIA di Michele Minisci – Numero 15 – Ottobre 2019

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DICI SIBARI        E SEI NELLA MAGNA GRECIA 

 

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Sibari-toro cozzante in bronzo originale

oggi frazione del comune di Cassano allo Jonio, in provincia di Cosenza, ieri tra i centri più importanti e floridi della Magna Grecia, fu fondata tra il 720 e il 708 a.C. da un gruppo di Achei provenienti dal Peloponneso.  

In breve tempo, divenne la meta di migranti provenienti 

anche da altre aree dell’Ellade, 

a cominciare dalla città di Trezene, antico centro dell’Argolide orientale. Sull’origine e la fondazione della polis scrissero Aristotele e lo storico Strabone, che ancora costituiscono le fonti principali per gli studi in materia. 

 

Ci si è chiesti, spesso, quali potessero essere state le motivazioni che spinsero quegli uomini e quelle donne a lasciare i propri luoghi natii per approdare in terre sconosciute. Molto probabilmente, alla base della decisione, anche allora, c’erano ragioni di natura economica e sociale.

 

Migrazione economica ante litteram, insomma, che coinvolse, 

nell’arco di più decenni, molte migliaia di persone.

 

Le spedizioni erano precedute, solitamente, da una chiamata pubblica, rivolta a tutti coloro che desiderassero imbarcarsi. Attraverso una serie di proclami, gli abitanti di una città venivano informati delle prossime partenze e chi voleva far parte della spedizione andava a registrarsi, lasciando il proprio nominativo ai magistrati.   

 

Scrive lo storico Strabone:

 

«La città raggiunse anticamente tanta fortuna che esercitò il suo potere 

su quattro popoli vicini; ebbe assoggettate 25 città; inoltre con le sue abitazioni, riempiva tutt’intorno lungo il fiume Crati un cerchio di 50 stadi 

(ogni stadio corrisponde a 178 m)».

 

Un contributo notevole alla crescita ed allo splendore di Sibari lo diede senz’altro il territorio. La vasta pianura, vocata per la coltivazione dei cereali, e le colline circostanti, ambienti ideali per i vigneti; i monti, da cui attingere materie prime, come legno e argento, ma anche prodotti come miele e lana.  

 

La città della dolce vita (Triphè), passata alla storia per gli interminabili banchetti, per il sofisticato e ricco abbigliamento, per i giochi in onore degli Dei, per il “culto della tranquillità”. A proposito di quest’ultima, si narra che a Sibari le case erano coperte da teli per impedire ai raggi del sole di disturbare il dolce sonno degli abitanti e che dentro le mura della città erano vietati lavori rumorosi!  

 

Nondimeno, stando alle cronache dello storico Diodoro Siculo, Sibari fu anche protagonista di un’intelligente politica di integrazione a favore dei migranti, prevalentemente italici. A proposito di integrazione, oggi tanto problematica!  

 

Grazie all’accoglienza ed all’inclusione di un numero molto alto di persone, accrebbe, infatti, la sua forza e la sua capacità di espansione, potendo contare su un esercito molto potente e motivato.

Nel massimo del suo splendore, Sibari arrivò a controllare un territorio 

che si estendeva a sud fino alla foce del fiume Traente, 

al confine con Crotone, e a nord fino alla piana del fiume Sinni

 

Sul versante tirrenico la sua influenza arrivò fino a Temesa e Terina, tra le attuali Amantea e Lamezia Terme. Fu proprio per la sua politica espansionistica, evidentemente, che intorno al 520 a.C. entrò in conflitto con Crotone, città guidata da un forte spirito moralista, sotto l’egida della scuola di Pitagora.

All’origine degli attriti tra i due centri, secondo la tesi prevalente, ci sarebbe 

la cosiddetta “questione tirannica”, ovvero l’evoluzione democratica 

del regime sibarita, ad opera di Telys, l’ultimo tiranno di Sibari, 

e del suo impero. 

 

Telys è stato definito «un tiranno di stampo o estrazione democratica», giunto al potere con una rivolta popolare, dunque in maniera diversa dai dittatori tradizionali, che generalmente conquistavano il potere con un colpo di Stato, appoggiandosi all’esercito.

 

La sua politica fu di scontro totale con il potere oligarchico, tant’è che scacciò 

dalla città 500 ricchi aristocratici, confiscandone i beni,

 

ed avviò una vera e propria rivoluzione sociale su basi anti-plutocratiche. Gli esuli, com’è noto, trovarono rifugio a Crotone e questo costituì il casus belli che fece esplodere il conflitto tra le due città. 

 

La battaglia finale sarebbe avvenuta nel 510 a.C., in un’area compresa tra la città di Lacinia e l’attuale Piana di Sibari, nei pressi del fiume Traente.

Crotone si impose con le sue armate guidate da Milone, 

l’atleta olimpionico plurivittorioso divenuto stratega dell’esercito.

 

La città viene distrutta e cancellata definitivamente con la deviazione del letto del fiume Crati sull’abitato. 

La sconfitta di Sibari fu dovuta senza dubbio ad interventi esterni. In occasione della battaglia, fu chiamato infatti Dorieo, figlio della prima moglie di Anassandrida, re di Sparta, che giunse con le sue truppe su esplicita richiesta d’aiuto di Crotone.

Il sito archeologico di Sibari 

 

Il sito archeologico di Sibari è ubicato sulla costa Ionica della Calabria a breve distanza dalla foce del Fiume Crati.

Questa parte del territorio calabro, nota topograficamente come Sibaritide vide 

il sorgere, lo sviluppo, l’espansione e poi il declino della grande polis di Sibari; 

qui furono impiantati, in epoche successive alla distruzione della città greca, sovrapponendosi in parte alle sue rovine, prima il centro ellenistico di Thurii 

e poi quello romano di Copia.

 

Questa eccezionale stratificazione fa di Sibari uno dei siti più estesi ed importanti del Mediterraneo di età arcaica e classica.   

 

L’area del parco archeologico è divisa in settori, ognuno dei quali è identificato con il nome del cantiere di scavo: Parco del Cavallo, Prolungamento Strada, Casabianca, Stombi. Tutti i settori, tranne quello di Stombi, sono visitabili.

La visita al Parco Archeologico della Sibaritide rappresenta un percorso a ritroso 

nel tempo che dalla tarda antichità e dall’età romana scende 

ai livelli della Sibari arcaica dell’VIII secolo a.C.; 

 

bisogna però tener presente che, tranne poche eccezioni, i livelli più profondi e quindi più antichi non sono visibili e che quanto è in luce rappresenta la fase più recente, cioè quella della città romana di Copia. 

Il Museo 

 

Inaugurato nel 1996, il Museo della Sibaritide ospita interessanti reperti di epoca greca e romana (vasellame, lamine d’oro, sculture e decorazioni in terracotta), ma anche materiali recuperati in tombe indigene dell’età del Ferro e manufatti di provenienza greca, fenicia ed egiziana a testimonianza degli intensi traffici marittimi dell’epoca. Nel 2013 un’alluvione ha coperto di fango larga parte degli scavi, oggi fortunatamente recuperati.

La città di Sibari lascia una traccia importantissima nella Storia 

come una delle più importanti e sfarzose città del mondo occidentale,

il cui periodo storico di oltre duecento anni trascorsi proprio qui, nella nostra Calabria, onorano così questa regione bellissima e sventurata allo stesso tempo.  

 

Recentemente il sito Casa Bianca ha ricevuto dalla Unione Europea un contributo di 500.000 € per ampliare l’accessibilità del sito e i percorsi pedonali – come mi dice la dottoressa Adele Bonofiglio, direttore del Museo Archeologico della Sibaritide, e un altro milione di euro per la predisposizione di nuove vetrine per accogliere altri importanti ritrovamenti oltre all’ormai noto reperto bronzeo del 5° secolo a.C. il Toro cozzante.  

 

 

 

 

 

 

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Credit foto: gentile concessione Direzione Museo e Parco Archeologico di Sibari