COSENZA CENTRO STORICO E TERRITORIO di Daniela Francini – Numero 15 – Ottobre 2019

cat-arte
cat-storia
cat-cultura

COSENZA  CENTRO  STORICO          E TERRITORIO

 

alcune idee per ridare al centro storico un ruolo territoriale. 

Come appare dalla carta dell’Angelica e del Pacichelli risultano evidenti due linee di attraversamento nel centro storico di Cosenza; per la prima, nella carta dell’Angelica, la via degli Orefici, il tracciato è chiaro; per la seconda, la scritta “via delli Padolisi” si trova ad un livello altimetrico superiore, nella via che oggi è denominata S. Francesco d’Assisi e poi via Giostra Vecchia.  

 

Il primo itinerario, partendo dai porticati, attraversa la Piazza dei mercanti (21) poi la Piazza Maestra al centro dell’itinerario, con il Duomo, (n.1) prosegue per la Piazza degli orefici (43) e si conclude a Porta Chiana (28);  

Il secondo itinerario storico è rappresentato sulla carta dal collegamento della fontana dello Mastro Andrea (n. 36), dalla chiesa di S. Francesco d’Assisi(n.2), dai Padolisi (26), da Capo Piazza (25) e si conclude anch’esso a Porta Chiana (28).  

 

L’inizio e la fine dei due itinerari sono rappresentati nella carta dai numeri in sequenza 29 e 28 che rappresentano rispettivamente l’ingresso, coincidente con i porticati (29) a piazza Valdesi e l’uscita a Porta Chiana(28).    

Oggi il secondo itinerario è riconoscibile salendo da Piazza Valdesi attraverso via Messer Andrea, arrivando a Piazza Berardi, proseguendo su via S. Francesco d’Assisi, percorrendo via della Giostra Vecchia, via Gaetano Argento passando sotto agli archi di Ciaccio, ed arrivando a Porta Piana. [Casella di testo] Al centro del primo itinerario è il Duomo, al centro del secondo itinerario è la Chiesa di S. Francesco d’Assisi.

La successione dei principali avvenimenti della chiesa di San Francesco d’Assisi mostra che in essa è rappresentata tutta la storia dei più importanti

avvenimenti della città 


e che nel suo intorno c’è la sovrapposizione storica di tanti secoli di ritrovamenti e di tante ricchezze ancora da scoprire.   

 

Il lavoro di restauro che abbiamo contribuito a realizzare è stato premiato da scoperte e ritrovamenti anche insperati: l’eliminazione dell’intonaco nella navata principale, nella zona del presbiterio e sugli archi della navata sinistra ha disvelato elementi in pietra locale pregiamente intagliati da maestranze roglianesi, riportati quindi in luce e accuratamente consolidati. Durante i lavori di restauro, si è rinvenuta un’incisione in una pietra della navata sinistra: ROGLIANO G.R.P.F.F.I.1613, datazione non riportata in alcun testo e che ha sottoposto la ricerca storica ad ulteriori approfondimenti.

La chiesa si riconferma testimonianza storica della scuola moglianese, 

maestri artigiani progettisti ed esecutori di opere di straordinaria fattura.


Ogni maestro si avvaleva di una squadra, fatta di manovali ed apprendisti attenti ad imparare, ad apprendere i sistemi di lavoro, le tecniche, il gusto estetico, la stessa cultura; da Napoli in giù ebbero una grande fama erano richiesti un po’ ovunque, specialmente dove le opere erano più impegnative e dovevano assumere i caratteri della solennità e della sontuosità. 

 

Ponti e portali le opere richieste agli scalpellini: gli scalpellini intagliano nella pietra i sogni degli uomini che quei palazzi e quelle chiese vedranno tutti i giorni e dovranno dire chi essi sono e come si pongono di fronte alla storia ed alla società.

Gli scalpellini prendono una pietra ne vedono all’interno una forma 

e con quella riescono a dare forma al confine stesso dell’architettura.


La tradizione assegna ad un gruppo di fratelli, pare fossero in sette, gli “sciardari”, così noti dal soprannome loro attribuito un ruolo d’avanguardia nell’arte calabrese del XVII sec. e un posto di primo piano nell’ambito della stessa dinastia di scalpellini ed intagliatori roglianesi; sciardari furono quei gruppi roglianesi le squadre al lavoro, le carovane fatte di architetti-capomastri, artigiani e manovali in partenza da Rogliano per prestare la loro opera in tutta la Calabria. Il termine deriva probabilmente dal togliere la Scarda, ossia ripulire la pietra dei suoi strati superficiali più deboli e predisporla alla lavorazione e così anche il legno.

Mastro Gerolamo, mastro Giliberto e gli sciardari rappresentano i riferimenti fondamentali che segnano in epoche diverse il fortunato percorso 

della scuola degli architetti e artigiani roglianesi


Oggi assistiamo alla decadenza dei mestieri tradizionali che da noi ormai da tempo non vengono più tramandati e sembra ormai persa ogni possibilità di perpetuare le tecniche, i modi e le regole artigianali di un tempo.   

 

Pochi sono infatti nella nostra regione gli scalpellini che lavorano ancora manualmente la pietra; dalla Chiesa di S. Francesco d’Assisi emerge quanto sia importante promuovere e rilanciare l’artigianato per un’adeguata preparazione sia teorica che tecnico pratica con il recupero dei mestieri tradizionali ed è importante anche per garantire un’attività di vero restauro e conservazione delle testimonianze artistiche del nostro passato.   

 

Il centro storico di Cosenza può contare sulla presenza di un nucleo architettonico di elevato interesse storico costituito dal complesso della Chiesa di San Francesco d’Assisi.  

 

Il Piano di recupero del centro storico può far riscoprire il significato dell’itinerario di storia e cultura della prima rigenerazione urbana a Cosenza e promuovere l’itinerario complementare di via S. Francesco d’Assisi.

Attraverso un riuso mirato di tale notevole struttura si potranno mettere in rete 

le diverse offerte culturali ed Il Centro Storico di Cosenza potrà costituirsi 

come un polo di eccellenza nel panorama calabrese.


Questo ed altro dal libro: “La storia interrotta” a cura di Daniela Francini, Carla Salamanca, Paola Luciano di recente ristampa. 

 

 

 

 

mappa
dal_restauro_della_chiesa
daniela_francini
fine-t-blu

 

TEATRO RENDANO TESORO DISTRUTTO E RINATO di Pietro Tarsia – Numero 15 – Ottobre 2019

cat-arte
cat-cultura
cat-storia

TEATRO  RENDANO  TESORO  DISTRUTTO E RINATO 

 

teatro_esterno
pietro_tarsia

Cosenza vanta uno dei teatri più importanti del Meridione la cui ultima “incarnazione”, il “Rendano”, è erede di una storia che inizia addirittura nel Rinascimento, con rappresentazioni di opere teatrali e musicali in città risalenti a quelle epoche.

tesoro_distrutto_rinato

Alla fine del primo decennio del 1800 Re Ferdinando di Borbone promosse la costruzione di un teatro che però vide la luce solo nel 1830 il “Real Ferdinando”; poi nel 1857 per iniziativa di cosentini amanti dell’arte, di fronte al palazzo della Prefettura venne eretto un teatro in legno, il “Baraccone”, utilizzando gli arredi provenienti dallo smantellamento del Real Ferdinando.  

 

Nel 1877 il Comune decise di realizzare un Teatro Comunale in luogo del “Baraccone”, su progetto dell’ing. Nicola Zumpano, dell’Ufficio tecnico comunale. Ma solo il 20 novembre 1909 con Aida di Verdi, il Teatro Comunale verrà inaugurato.

 

Il Teatro disponeva di una sala con 3 ordini di palchi rivestiti in velluto rosso cremisi, decorazioni pittoriche ed in stucco realizzate da Giovanni Diana di Napoli nella sala, da Enrico Salfi nel soffitto che presentava in gruppi di figure allegoriche le 3 arti sceniche: la Musica, la Danza e la Drammatica.

 

Il sipario ideato da Domenico Morelli ed eseguito dal napoletano Paolo Vetri nel 1901, per fortuna visibile tutt’ora, mette in scena l’ingresso a Cosenza, nel 1433, di Luigi III d’Angiò, duca di Calabria e della giovane sposa Margherita di Savoia. Dopo il blocco delle rappresentazioni causato dalla Prima Guerra Mondiale, la ripresa avvenne nel 1920 e nel 1935 il Teatro venne intitolato al pianista e compositore Alfonso Rendano.

Nel 1943, una bomba destinata al vicino Castello Normanno-Svevo, 

sede della contraerea, colpì in pieno il teatro, distruggendone 

il soffitto e danneggiandolo gravemente. 

 

Il Comune incaricò l’architetto Ezio Gentile della progettazione in stile neoclassico, riproponendo quasi fedelmente lo schema originario con stucchi e decorazioni negli spazi interni (mentre venne realizzato all’ultimo piano un ampio foyer, poi intitolato al maestro e compositore cosentino Maurizio Quintieri)  ed io, venni investito della Direzione dei lavori, tuffandomi con passione in un’impresa, a buon diritto storica, in cui diedi “tutto me stesso”, non risparmiando certo tempo ed energie per la buona riuscita del progetto. Progetto improbo, reso tale dalle intuibili difficoltà di reperimento e selezione di materiali consoni, di controllo e guida delle maestranze neofite all’intento di ricostruzione e recupero di un edificio storico.

 

Grazie all’impegno di tutti quelli coinvolti, fra cui 

l’ing.Giovanni Travaglini, allora Provveditore alle Opere pubbliche 

per la Calabria, e non può certo obliarsi l’interesse primario e pressante 

dell’allora ministro dei Lavori Pubblici, il cosentino Giacomo Mancini, 

la ricostruzione ebbe termine con una alacrità e speditezza

 

oggi incredibili e purtroppo inusitati.   

 

Così già il 7 gennaio 1967 un moto di legittimo orgoglio ci ha consentito di partecipare all’inaugurazione del nuovo, vecchio, rinato “Rendano”, con le note della Traviata di Verdi che obliavano per sempre i rumori orridi di bombe e guerra ancora risonanti.

 

 

 

 

teatro_rendano
fine-t-blu

 

800 ANNI DUOMO DI COSENZA di Mons. Francesco Nolè e Don Luca Perri Parroco della Cattedrale – Numero 15 – Ottobre 2019

cat-arte
cat-cultura

800 ANNI DUOMO        DI COSENZA 

 

vivrà un momento altamente significativo per la sua storia, giacché in quell’anno celebrerà l’Ottavo Centenario della dedicazione della Cattedrale di Cosenza, dedicata alla Vergine Maria Assunta in Cielo. 

 

 

La Diocesi, a partire dall’anno in corso, si sta preparando a ricordare e celebrare tale felice ricorrenza richiamando e sottolineando il significato religioso e la presenza testimoniale che ancora suggella e conserva il valore e la funzione della Chiesa Cattedrale nel tessuto civile e religioso della città e della terra dei Bruzi.  

 

Fare memoria dell’anniversario della consacrazione della Chiesa, che ospita la Cattedra, sarà stimolo a recuperare i legami di comunione in Cristo intorno alla figura del Vescovo e al suo Presbiterio, dei quali ogni Chiesa locale ha bisogno

 

Inoltre la collocazione della Cattedrale nel cuore della città antica di Cosenza deve essere di stimolo ad una rinnovata attenzione 

verso un patrimonio storico artistico,

 

quale il Centro Storico, che non può essere rilegato a periferia o peggio a problema urbano. 

La costruzione dell’attuale Cattedrale è dovuta ad un terremoto che il 24 maggio del 1184 sconvolse Cosenza e la Valle del Crati, procurando vittime e danni ingenti, e provocando la distruzione dell’antica Cattedrale Brutia che precipitò al suolo durante una celebrazione, travolgendo e uccidendo l’arcivescovo Ruffo con il clero e i fedeli.  

 

L’antica città dei Brettii, nota per la sua vivacità culturale, rinacque con lentezza, nonostante il delicato momento politico durante il tumultuoso regno di Tancredi.

Il 30 gennaio del 1222, alla presenza di Federico II, che portò in dono al Capitolo 

della Cattedrale la preziosa Reliquia della Stauroteca, il Legato Pontificio, 

cardinale Nicola di Chiaromonte, vescovo di Tuscolo, 

consacrò la nuova Cattedrale,

 

la cui ricostruzione fu promossa e seguita, dall’arcivescovo Luca Campano, già segretario di Gioacchino da Fiore e abate della Sambucina, il quale impresse nella nuova costruzione forme legate alla regola dell’Ordine Cistercense a cui apparteneva.  

 

Nel corso della storia, i tanti terremoti che sconvolsero la nostra terra, unitamente alla mano dell’uomo, alterarono l’impianto originario duecentesco e, solo

nel XIX secolo, sotto la guida dell’arcivescovo Camillo Sorgente, una serie di importanti restauri,

 

tramite la rimozione della veste barocca con cui nel Settecento era stata rivestita l’intera struttura, hanno restituito all’edificio l’aspetto primitivo.   

 

L’interno si presenta a croce latina, suddivisa in tre navate di otto campate ciascuna con copertura a capriate. Lungo la navata di sinistra, si aprono due cappelle risalenti al XVII-XVIII secolo: la prima dedicata alla Madonna del Pilerio, con l’icona bizantina del XII secolo del tipo Galaktotrophousa (Madonna che allatta il Bambino) alla quale i cosentini sono molto devoti dal 1576, anno della pestilenza da cui la Città fu liberata per l’intervento prodigioso della Vergine Maria; la seconda, appartenente alla Confraternita di Orazione e Morte, dedita alla sepoltura e al culto dei defunti, oggi destinata alla custodia dell’Eucaristia. 

Nella navata di destra si conserva il sarcofago detto di Meleagro, di epoca tardo antica, contenente resti umani appartenenti ad Enrico VII, figlio di Federico II.

La profonda abside, in parte ricostruita nel XIX secolo, ospita l’altare maggiore marmoreo in stile neoromanico e un pregevole crocifisso ligneo del XV secolo, proveniente dalla cappella ius patronato della famiglia Telesio. 

 

Nel transetto, incastonato nella muratura, fa mostra di se il mausoleo di Isabella d’Aragona, moglie di Filippo III d’Angiò, morta nel 1271 nei pressi di Martirano.  Nel suo insieme nobile ed austero, la Cattedrale di Cosenza, seconda per storia in Calabria solo a quella di Gerace, si presenta come il monumento più significativo della Città bruzia di cui rimane ancora un punto vitale per la sua storia di ieri e di oggi. 

 

cat-storia
monsignore_nole

L’attuale Chiesa Cattedrale fu, infatti, solennemente inaugurata 

da un Legato Pontificio inviato da Papa Innocenzo III nel 1222 

alla presenza dell’imperatore Federico II di Svevia. 

 

francesco_nole

in collaborazione con 

Don Luca Perri Parroco 

della Cattedrale 

nel_2022_arcidiocesi
fine-t-storia

 

STRUMENTI CIVILISTICI E TESORI DISVELATI di Francesco Saverio Sesti – Numero 15 – Ottobre 2019

cat-arte
cat-economia
cat-ambiente

strumenti civilistici e tesori disvelati

 

del Peloritano il pittore contemporaneo “mediterraneo” per antonomasia, Salvatore Fiume, stupisce innanzi alle vestigia antiche di un borgo a strapiombo sulla costa, illuminato dalla luce dell’occaso sul mare e dal nome che gli evoca reminiscenze della aretusea natia: Fiumefreddo, Fiumefreddo Bruzio.

Vuol fermarvisi, vederlo, viverlo. E quivi un sindaco, il Sindaco, avvocato, umanista, anfitrione ineguagliato, lo accoglie e trattiene, facendogli profferta del paese intiero come di una tela a cielo aperto; pure sfidando i rigori normativi già rigidi, e di poi vieppiù pervasivi, di un malinteso tuziorismo, vincolistico e burocratico, della proprietà pubblica e della proprietà privata.

E l’artista, ispirato da quella luce dell’occaso, dalla bellezza 

delle sue muse, modelle somale, colte tra i vicoli, 

dalla balugine di Saraceni arrembanti dal mare, 

dipinge, scolpisce.


“dona”, fa “donazione” di affreschi conturbanti, di statue dinamiche che rivitalizzano ruderi di un antico maniero, volte di chiese, slarghi anonimi, e le genti, le genti del paese.  

Ed il Sindaco e l’Artista, e l’atmosfera fervida ed autentica di calabresità ospitale che inducono, attraggono intellettuali, professionisti, imprenditori, romani, milanesi, la borghesia professionale e delle magistrature del vicino capoluogo, che edificano alla Marina belle ville di stile moresco; e progetti imprenditoriali, e di sviluppo turistico, financo americani (di poi taluni cennati, di poi taluni impediti dal vincolismo montante ed ottuso, e fors’anco dalla improvvisa scomparsa del Sindaco).

 

Ed è così che principia a reviviscenza Fiumefreddo, Fiumefreddo Bruzio, 

uno dei “Borghi più belli d’Italia”. 


1960. Sila. Lago Arvo. Un sindaco comunista, un sindaco democristiano, un sindaco donna, comunista, l’uno di seguito all’altro, l’una congiunta all’altro, danno attuazione ad un vetusto, ambizioso piano di lottizzazione del 1951, auspicato per la nascita su quelle rive di un villaggio turistico, anzi pure di una stazione sciistica. E dei lotti fanno profferta – rectius, legittimisticamente, “assegnazione” – non a quisque de populo bensì ad esponenti della borghesia possidente, avvocati, notai, medici, magistrati, politici, del cosentino e del crotonese

E “vendono”“cedono” pur a prezzo “politico” i lotti, sotto condizione 

che vi edifichino rifugi consoni all’estetica rurale di montagna, 

utilizzando materiali e maestranze locali, e con l’obbligo 

di conservare gli alberi d’alto fusto.


Ed i borghesi vi costruiscono belle villette-chalet, di estetica alpina a latitudini africane. Ed un imprenditore-anfitrione ha l’ardimento, in un luogo ancora desueto, di voler ubicare un Grand Hotel, ove di poi scendono, ospiti dei contigui possidenti ed esponenti politici, epigoni molti della intellighentia politica e culturale, della élite imprenditoriale e professionale, meridionale ed italiana. Nasce così – e forse per troppo rimane immota – sulle rive di un sin lì anonimo invaso artificiale al servizio di una chiusa per la produzione di energia elettrica e pur dalla bellezza paesaggistica e naturalistica prepotenti, Lorica, la perla della Sila, ove si respira l’aria migliore d’Europa, candidata permanente, assieme all’Altopiano tutto, ad essere patrimonio dell’UNESCO per simbiosi paesaggistiche, naturalistiche ed ambientali.  

 

2002, o giù di lì. Cosenza. Centro cittadino, centro della Città “nuova”. Un imprenditore-mecenate newyorchese, di origini cosentine, collezionista sapiente d’arte moderna e contemporanea vuol lasciar traccia di sé – e della propria famiglia – ai posteri, vieppiù nel luogo natio.

E vuol far “donazione”, donazione “modale” di tante, molte opere, famose, 

soprattutto scultoree, alla Città, sol che si intitoli a sé, ed alla figlia 

prematuramente scomparsa, via o piazza del centro cittadino; 


e vi si dia adeguata collocazione, sì come già fatto dall’Urbe per altre donate, che vi destina ospitalità, all’Aranciera di Villa Borghese, intitolandola museo.  

 

Un Sindaco donna, giovane, di aneliti e sensibilità intellettuali formate e coltivate oltralpe, a Parigi, e memore della traccia ispiratrice del suo mentore politico, un grande, vecchio Leone socialista, subito coglie i desiderata e non esita a fronteggiare lo scandalo polemico dello stravolgimento della toponomastica del centro “nuovo” cittadino.

Anzi, si concepisce di accogliere quell’arte piuttosto che al chiuso museale, 

all’aperto, di “democratizzarla” lungo il corso principale, 

bensì ancora amorfo, cittadino.


Nasce così il MAB, il Museo all’aperto Bilotti, “germe” inoculato, embrione fervido di una “rigenerazione urbana” che un Sindaco, architetto, d’ispirazione politica affatto diversa, continua ed impronta, e rende diffusiva, con apporti inusitati d’arte e di architettura che indubitabilmente segnano un ambito urbano, quello della città nuova, altrimenti anonimo, e che assieme al fascinoso, vetusto centro storico ambisce, pur senza tradizione, ad attrarre flussi turistici.

Storie. Suggestioni, forse. Di uomini. Di luoghi. Di anelito a bellezza e sviluppo, 

magari incompiuti, magari imperfetti, magari opinabili, magari interrotti. Ma vividi!  


E che alla prospettiva, fors’anco un po’ “ristretta”, del civilista colpiscono e si stigmatizzano per la forma giuridico-economica in cui si è sostanziata la scaturigine di reviviscenza, addirittura di sorgiva, di paesi intieri, di paesaggi urbani e naturali, antropici e non, a me sì cari: Contratti.  

 

Contratti privatistici, civilistici comuni, donazioni, vendite condizionate, donazioni modali.  

 

Negotia, simulacri tipici di formalizzazione e composizione nei rapporti giuridici “privatistici” e tra privati di interessi distonici, che vi trovano contemperamento. Vieppiù quivi, ove gli interessi giustapposti erano, sono, spesso, pur in potenza, confliggenti.  

 

L’interesse privato, interesse egotistico per definizione, anche quando si estrinsechi in liberalità.  

 

E l’interesse pubblico, collettivo delle comunità rappresentate. Epperò “incarnato” nelle mozioni, sensibilità, intuiti di amministratori “ispirati” che, onde promuoverlo, non hanno esitato ad usare, funditus, lo spazio, vieppiù sempre più compulsato, di discrezionalità concessa alla funzione. E perseguito con metodo e nell’alveo “privatistici”.

Gli esiti? Parziali, imperfetti, magari opinabili; ma almeno dinamici, 

a fronte dell’immobilismo asfittico in cui spesso gli eccessi legittimistici 

e tuzioristici di procedimentalizzazione e vincolo, costringono 

(ed hanno costretto) l’azione amministrativa.


Esiti a mio giudizio efficaci, proficui, per l’induzione allo sviluppo, alla reviviscenza di luoghi e comunità.  

 

Esiti che interrogano il civilista, forse inconsapevole, forse ingenuo viandante dei sentieri stretti e labirintiaci del diritto pubblico, se non si sia forse troppo relegata a residualità, tra i tradizionali stigmi dell’azione amministrativa – buon andamento, imparzialità, legalità e financo nelle procedure di scelta del contraente – la favilla dinamica che sola può muovere quell’azione a risolutezza, efficacia e fors’anco ad economicità: la discrezionalità.

Discrezionalità,


nell’accezione tecnico-amministrativistica del termine.  

 

E che forse, se rettamente ispirata da un’idea politica, programmatoria, precisa e nitida, vieppiù se permeata da sensibilità culturale, e che metabolizzi ab imis la necessità di disporre le ovvie convenienze per auspicarsi l’apporto privato, sia strumento foriero di migliore efficacia e congruità e fors’anco garanzia, per l’induzione allo sviluppo di luoghi, di comunità.  

 

Discrezionalità: sol che si correli a Responsabilità; responsabilità soggettiva, responsabilità politica anzitutto, ergo giuridica, aquiliana, civile e penale.

Discrezionalità, Responsabilità del Pubblico, dal Pubblico. 


E che “incarnato” da chi ne curi, pro tempore od incidentalmente, funzione, tutela e promozione, nei rapporti giuridici di foro interno e, di più, nei rapporti giuridici di foro esterno, con i privati, sia “privato” innanzi ad altro “privato”. “Privato” magari poziore, dacché dotato di potestà extra ordinem, ma “buon padre di famiglia”, e “responsabile” per gli atti, per le mozioni. Sì che si persegua, nel metodo e nelle forme, l’interesse metaindividuale della collettività, della comunità che si rappresenti o per cui si agisca, come fosse interesse “proprio”, interesse “privato” del “Pubblico”.

Orbene, è vero: accanto agli esempi mentovati come per me proficui, 

positivi, quanti se ne potrebbero contrapporre di deteriori. 


Ma, di grazia, è forse men vero che brutture, abusi, abusivismi, dissimulati dal velo ipocrita della formale legittimità e della inidentificabilità ed irresponsbilità soggettive, abbiano proliferato parallelamente all’incedere progressivo nella normazione, ed in sua costanza, verso eccessi di procedimentalizzazione e vincolismo, vieppiù pervasivi siccome disposti per cautele ambientali, piuttosto che in funzione anticriminale (epperò, e magari, deprivati di efficace possibilità di controllo)? 

Arduo giudizio.

1975_tirreno
sesti_foto_top
fine-t-blu
francesco_saverio_sesti

 

CARAVAGGIO A NAPOLI di Stefania Conti – Numero 14 – Maggio 2019

cat-arte
cat-storia
cat-sud

CARAVAGGIO A            NAPOLI 

 

stefania_conti

provenienti da istituzioni nazionali e internazionali, e di ventidue quadri di artisti napoletani influenzati o, forse è meglio dire, travolti dalla sua forza innovativa.

Come si sa, Caravaggio visse per qualche tempo a Napoli. La sua fama lo aveva preceduto ed ebbe importanti commissioni. Non solo,

è proprio nel capoluogo partenopeo che inaugurò 

un suo nuovo modo di dipingere, 

più tormentato.


Fu una grandissima affermazione, un successo che non solo lo fece conoscere nei circoli culturali più innovativi e ricettivi, ma gli fece guadagnare un bel po’ di soldini. La tela delle Sette opere di Misericordia (che faceva parte del percorso della mostra), eseguita per il Pio Monte, dove ancora si trova, gli verrà pagata ben 400 ducati. Una cifra stratosferica per l’epoca.

Nell’archivio storico del Banco di Napoli – uno scrigno fondamentale per gli storici: contiene 450 anni di storia della città e del regno borbonico – sono conservati 

i documenti che ci fanno vivere istante per istante, quasi fosse un film, 

il momento in cui il giovane Merisi riceverà la somma. 


In un foglietto di carta, Tiberio del Pezzo, economo del pio Monte, dà le disposizioni e le spiegazioni del perché si deve pagare l’onorario. 

“Banco di Pietà, 9 gennaio 1607. A Tiberio del Pezzo ducati 370. et per lui a Michelangelo da Caravaggio – si legge negli antichi bancali -, dissero a compimento di ducati 400, dissero per un pezzo di un quadro che ha depinto per il Monte della Misericordia, in nome del quale esso Tiberio li paga. Et per noi il Banco del Popolo”. Senonché quella mattina il Banco della Pietà non ha in cassa i fondi per liquidare Caravaggio. Quando la storia da grande diventa minuta, quotidiana! 

 

Il pittore era noto per non avere esattamente un buon carattere (ma intanto aveva già ricevuto l’acconto di 30 ducati). Non ci è dato sapere come l’abbia presa, ma non è difficile immaginarlo. Fatto sta che – dopo le proteste dell’artista – per ricevere i soldi, il Banco di Pietà lo manda al Banco del Popolo. Anche di questo evento abbiamo memoria nell’archivio storico del Banco di Napoli.

“Banco di Santa Maria del Popolo. Pagate per noi – annotano i ligi scrivani – 

a Michelangelo da Caravaggio ducati 370 al quale si pagano 

per polizza de Tiberio del Pezzo”.


Siamo sicuri che questa volta l’inquieto pittore se ne andrà soddisfatto. 

 

Ma vogliamo parlarvi anche di un altro quadro. In realtà un mistero, uno dei tanti enigmi che hanno costellato la vita del grande Merisi.

Sempre nell’archivio storico si trova una disposizione di pagamento 

di una cifra altrettanto favolosa per una grandiosa pala d’altare,


questa volta commissionata da un privato, un mercante d’origine balcanica, tal Nicolò Radolavich. L’opera è descritta con molta precisione dai “ragionieri” del Banco.

“6 ottobre 1606. A nicolò radovich ducati 200. E per lui a Michel Angelo Caravaggio dite per il prezzo de una cona de pittura che l’ha da fare et consignare per tutto dicembre prossimo venturo d’altezza palmi 13 e mezzo 

et larghezza di palmi 8 e mezzo”.


Deve raffigurare la Madonna col Bambino, insieme ad un coro di angeli e a una serie di santi, tra cui San Domenico e San Francesco. Ebbene, di questa pala non c’è più traccia. Forse non è mai stata finita, forse è stata distrutta in un tumulto popolare, o tagliata e venduta in più pezzi. O chissà cos’altro.

A oggi l’unico indizio di uno dei primi capolavori partenopei di Caravaggio è contenuto solo nel prezioso archivio storico del Banco di Napoli.

 

Conclusa_mostraCaravaggio
fine-t-blu
caravaggio_a_napoli

 Photo credit giuseppemasci  © 123RF.com

 

ANTONIO PETITO IL RE DEI PULCINELLA di Fernando Popoli – Numero 14 – Maggio 2019

cat-storia
cat-arte
cat-cultura

ANTONIO PETITO IL RE DEI PULCINELLA

 

ma quello che viene ricordato come il più grande interprete in assoluto è Antonio Petito, un attore e commediografo che fu attivo nell’ottocento e conseguì un successo strepitoso per la sua recitazione.

Antonio, detto Totonno o’ pazzo per la sua esuberanza, era figlio d’arte, il padre Salvatore e la madre Donna Peppa, al secolo Maria Giuseppa Errico, avevano aperto un teatro in una baracca dove rappresentavano i Reali di Francia per il divertimento del popolo napoletano che accorreva numeroso per il gran divertimento. 
 

Il giovane Antonio debuttò all’età di nove anni e gli fu ceduta la maschera di Pulcinella dal padre in giovane età nel teatro San Carlino dove recitava in quegli anni. Modificò le caratteristiche del personaggio che, da popolano, diventò borghese, quasi aristocratico, indossando sulla veste bianca una redingote e un cappello a cilindro, come i veri signori, mettendo da parte il coppolone, quel lungo e morbido copricapo tipico di tutti i suoi predecessori.

 

Totonno o’ pazzo non parla solo in dialetto ma inserisce nelle sue battute 

frasi italiane e francesi ostentando una possibile aristocrazia, 

modifica il personaggio elevandolo di rango 

per dargli una dimensione accettabile 

da tutte le classi sociali.


È umano e non solo buffone, a volte triste e non sempre allegro, sentimentale e anche cialtrone, ha un repertorio vastissimo di battute che incantano il pubblico, pronto a ridere e a commuoversi alle sue performance. La grande tradizione della Maschera viene trasformata e rielaborata. Le sue origini, come si sa, sono antichissime, c’è chi le fa risalire addirittura alle atellane e al personaggio di Maccus, altri lo datano nel Seicento ad opera dell’attore Silvio Fiorillo ma quella che è rimasta maggiormente nella storia del teatro napoletano è di Petito. Totonno o’pazzo non fu solo attore ma anche brillante commediografo,

i suoi copioni sono pieni di errori, sono scritti male sotto l’aspetto grammaticale 
ma sono efficienti, hanno il senso del teatro, della recitazione, della battuta 
e riscuotono successo, applausi a scena aperta, ovazioni.

Un consenso unanime del pubblico che li considera divertentissimi. Tra le sue opere vanno ricordate soprattutto quelle di sfondo sociale:
La lotteria alfabetica, Tre banche a ‘o treciento pe mille, Nu studio ‘e spiritismo pe fa turnà li muorte ‘a l’atu munno. Petito è senz’altro una delle figure più importanti del teatro napoletano dell’Ottocento. Le sue commedie, considerate da molti dopo la sua morte solo dei canovacci, furono in seguito rivalutate e capite da Raffaele Viviani, un altro grande della commedia napoletana, che le riscoprì mettendo in scena So’ muorto e m’hanno fatto turna’ a nascere con il titolo di Siamo Tutti fratelli.
 

Anche Eduardo Scarpetta come Eduardo De Filippo presero spunti e suggerimenti dal Pulcinella di Petito proponendo il personaggio di Felice Sciosciammocca.

Dopo l’interpretazione magistrale di un Pulcinella diverso, ad un certo punto della sua carriera di attore, Petito acquisì un’altra veste: si tolse la maschera per affrontare un nuovo personaggio, tutto suo, quello di
Pascariello col quale continuò a recitare sino alla fine dei suoi giorni alternando i due personaggi. Morì in teatro recitando, la sera del 24 marzo 1876, si sentì male dietro le quinte durante lo spettacolo e fu portato agonizzante sul palcoscenico dove esalò l’ultimo respiro tra gli applausi lunghissimi del suo pubblico che intese così tributargli un ultimo saluto.

È ricordato nella storia del teatro come il più grande interprete di Pulecenella, 
mai eguagliato nel tempo.

Nel 1982 la RAI gli dedicò uno sceneggiato televisivo in sette puntate:
Petito story scritto e sceneggiato da Gennaro Magliulo ed Ettore Massarese.
 
fernando_popoli_storia
nel_tetro_napoletano
fine-t-storia

 

MARE NOSTRUM. RIFLESSI DI ARCHITETTURE di Giusto Puri Purini – Numero 14 – Maggio 2019

cat-arte
cat-storia
Giusto-Puro-Purini-storia

MARE  NOSTRUM. RIFLESSI DI ARCHITETTURE

 

All’inizio degli anni Settanta, girando gli States in Greyhound, mi capitò in una libreria dell’Università di Berkeley, in California, il libro intitolato The Whole Earth Catalogue.

Leggendolo, mi resi conto di aver compiuto, attraverso l’architettura “spontanea”, capanne, palafitte, geodesiche, trulli, nuraghi, yurte ed un’infinità di habitat simboli della diversità del vivere, un viaggio nel tempo, in una società così complessa ed avanzata come quella americana, e che non avrei più dimenticato quelle sensazioni. 

 

Ricordavo trucchi, specchi, false prospettive, architetture di un giorno, impermanenza continua lungo il filo di un racconto.

Queste costruzioni effimere, montate la mattina e smontate la sera, 

che Leonardo da Vinci, nel passato, aveva chiamato 

“Architettura da Festa”,


svilupparono in me quel desiderio di trasparenza tra la prima, “il costruito”, e la seconda pelle, “il traforato”, come l’essere ed il non essere di una rappresentazione architettonica, cercandone la matrice, immerso in qualche viaggio. 

 

Fu così che negli anni Settanta, con Maurizio Mariani, entrambi divenuti Architetti, iniziammo un lavoro di ricerca, progettando giardini per i Vivai del Sud,

nel bel mezzo del “Cratere Mediterraneo”, ed entrammo nelle case, 

portandovi dentro l’esterno.


Passando dalla luce, dalle ombre dei patii agli interni, sentivamo di procedere all’incontrario, ma ci sembrò più “giusto” e fu l’inizio di tante scoperte. Con i Vivai del Sud, divenuta una multinazionale del verde, si operava con un occhio alla tradizione locale:

le sedie pieghevoli dei cammellieri del deserto, le ombre delle serre siciliane, 

lo stile “Mckintosh”, i cestari romani. Si corteggiava e si ribagnava 

nel Mediterraneo la tradizione americana dell'”House and Garden”, 

i mobili Mc Guire, i “Winter Gardens”…


E mentre la “canna d’India” in Italia diventava design, scoprivamo che la “matrice” era unica: la cultura europea emigrata in Colonia aveva scoperto le palme e…reinventato l’eccelso, rischiando nei territori lontani sperimentazioni ardite e seducenti… Pensavo al French Quarter ed a St. Charles Avenue a New Orleans, regina negli U.S.A. della musica, luogo d’ incontro di tante culture, città entertainment per eccellenza. 

 

La “città della festa” mi fu evidente, quel mardi gras 1972. Mi trovavo a New Orleans per caso e di passaggio. Mi immersi in una realtà vorticosa, trascendentale. Tutto fluiva, tutto pareva vi fosse permesso, la musica ed il contorno architettonico risuonavano nelle strade. Mi trovai come per caso in una libreria, vi cercai testimonianze di ciò che andavo vedendo. Un città traforata, piena di merletti, un’impermanenza sfacciata, edifici, natura, verande, patii, tutti gli elementi della seduzione, esposti ai sensi, mutevoli come le ombre, con lo scorrere delle ore. 

Pensai nuovamente ad “Architettura di un giorno”! 

 

Poi tra le mani mi trovai un libro, disegni e fotografie di una strada famosa di New Orleans, Esplanade, che avrebbe dovuto essere inaugurata da Napoleone Bonaparte, in un viaggio da lui sognato e mai realizzato, all’inizio del 1800. Sotto l’80% delle immagini che andavo scorrendo vi era scritto:

“This is an example of an Italianate Architecture”.


L’italianata, l’“Italianate”, mi rimbalzava nella mente e, nella convinzione di avere in mano una chiave di lettura che mi riguardasse da vicino, pensavo alla nostra cultura formativa: Blue Jeans, Chewing gum, Frank Lloyd Wright, J Dean, Il giovane Holden, Easy Ryder e tutte le “Americanate” che noi europei ci siamo portati appresso nei roaring Fifties and Sixties, e – perché no? – pensavo ai Western spaghetti, i famosi western italiani girati tra i cartoni di Cinecittà e le praterie di Ostia Antica. Clint Eastwood, Sergio Leone: Giù la testa!

Vi era, laggiù, a New Orleans, il sapore di un altro Mediterraneo 

come origine degli eventi…


Palladio, il grande architetto veneto, ed i suoi pronipoti, emigrati in Colonia, mi apparvero come gli unici artefici di questa “italianata” eversiva, dal neoclassicismo appena sfiorato, quasi irriverente. Sul restante 20% delle illustrazioni, la didascalia riportava

“This is an example of a Greek Architecture”!


Ebbi la sensazione che, attraverso queste trasparenze, queste ombre, attraverso un filo di Arianna luminoso, sarei stato trasportato nella storia, come in un ascensore, verso il passato e viceversa, in luoghi dove tutto si ritrova e si riscopre.

Storia che ci racconta le mutazioni nel “Nostro Mare”, dall’austerità al vezzo


(penso alle colombaie delle torri di Mikonos, merletti a definire i contorni delle architetture, o a quello che noi italiani abbiamo fatto nelle isole del Dodecaneso, vestendo le architetture che nascevano ispirate alla Bauhaus, e alla neo-razionalista Sabaudia, con i veli delle Mille e una notte). 

Architettura italiana (da festa!) in Colonia! 

Rodi, Simi, Patmos, Koos… 

E perché no, i vetri colorati delle finestre di Tangeri, il tufo giallo di Noto in Sicilia, dove una città è scolpita come una statua, i pergolati a vigna di Sorrento, le cupole dei damusi a Pantelleria, le bianche colonne delle case, nelle Isole Eolie.

Tutto ciò ci ha fatto pensare ad una raccolta di queste sensazioni, 

di queste “architetture da festa”… sparse un po’ ovunque.


Un Whole Earth Catalogue, quindi, trent’anni dopo, più patinato, sotto forma di un “viaggio”, nell’habitat, integrato dai vezzi, quali moda, costume, design, stili… 

 

Nasce così l’idea di “Oltre il 7”, il percorso ideale della nostra avventura tra architetture e culture, ed il suo peregrinare attento, curioso, ironico e ricettivo, tra mode, usi, costumi, etnie, abitudini che si esportano, si reinventano e si ritrovano, da un lato all’altro dell’emisfero.

Ci rendemmo conto, in sintesi, che il primitivo approccio alla “cultura europea 

che emigrava in Colonia” altro non era, se non il seme 

di un lungo viaggio del conoscere.


Viaggio condotto a ritroso, verso le probabili origini delle “cose”, dove anche le “case” degli uomini apparissero come frutto di spontaneità e di progettazione.

 

 

 

CASE_ALTRO_MONDO2
fine-t-blu
FOTO_TOP
cat-stile

 

IL SOLIMENA DA NAPOLI A PARIGI di Sergio Attanasio – Numero 13 – Gennaio 2019

cat-arte
cat-storia
cat-sud

IL SOLIMENA DA NAPOLI  A PARIGI

 

Sergio-Attanasio

In origine il palazzo San Nicandro apparteneva a Marzio Carafa duca di Maddaloni, che nel 1585 lo aveva acquistato da Fabrizio Cardito.

Era un palazzo grande con loggia, cortile coperto e giardino nel Borgo dei Vergini di fronte alla chiesa di Santa Maria della Stella, pagato la somma di 3700 ducati e nel quale il duca avviò ingenti lavori di ristrutturazione ed ampliamento per rendere la sua dimora degna di cotanto padrone.

I duchi di Maddaloni e il loro figlio primogenito Diomede dal 1606 vivranno 

nel grandioso palazzo alla Stella nel lusso e nello sfarzo, imponendo 

angherie ai loro sudditi, come testimoniano le cronache 

della “Sollevazione dell’anno 1647”,


e quando “Masaniello con gran seguito di popolaccio andò al palazzo, che non fu più difeso come la prima volta: tutto ciò che vi era di prezioso, fu portato fuori……..stoffe di seta ricamate di oro e di argento, arazzi fiamminghi, quadri rari, vasi di argento e di oro, carrozze e cavalli e gran quantità di danaro furono portati innanzi a Masaniello che mandò tutto al Mercato……….insieme ad una famosa carrozza, coperta di lamine d’argento ed ornamenti d’oro, valutata quindicimila scudi, fatta fare dal duca in occasione delle sue nozze”

 

Le originarie caratteristiche e le decorazioni del palazzo sono descritte in un apprezzo (relazione di un perito per una stima del valore) del 1656 per la vendita del palazzo al marchese del Vasto, seguita allo scambio con il marchese che cede il palazzo in via Toledo, ottenendo dal duca di Maddaloni, oltre al palazzo alla Stella, una villa a Posillipo detta l’Auletta.

Siamo in presenza di una casa grande palaziata, con portale in piperno 

che dà accesso all’ampio cortile con rimesse per le carrozze, che ha sul fronte 

una loggia scoperta che conduce al giardino di piante di agrumi e di frutta.


La dimora era dotata di due stalle per trenta cavalli con accesso dalla strada. 

 

La scala principale con pettorate e palagusti di piperno, con volte decorate a grottesche dal pittore Giovanni Balducci, ci porta all’appartamento nobile con più anticamere, una cappella e altre camere le cui volte presentano scene di battaglie in ricordo delle doti di valoroso guerriero del duca Marzio, nominato Capitano generale della cavalleria dal Viceré duca di Osuna. 

 

Nel secondo appartamento, con galleria e soffitti in legno dorato, vi sono camere, camerini e una loggia che collega due parti del palazzo e che prospetta sulle colline. 

 

 L’impianto distributivo ancora esistente del palazzo è sintetizzabile in due distinte parti che lasciano intendere quale fosse lo sviluppo nel tempo della dimora dei Carafa di Maddaloni: 

 

– edificio cinquecentesco: portone con primo androne con volta a botte 

 

– primo cortile piccolo con scala sulla destra; 

 

– edifico seicentesco: secondo androne – grande cortile coperto e grande scala sulla sinistra. 

 

Di particolare interesse risulta la soluzione del secondo cortile porticato e coperto con volte a vela innestate su otto grandi pilastri, non riscontrabile in altre dimore napoletane. Tale soluzione suggerisce l’ipotesi che i Maddaloni, allevatori di razze scelte di cavalli, avendo una nutrita scuderia necessitavano di ampi spazi coperti per la movimentazione degli stessi e per le carrozze utilizzate per recarsi nei loro feudi. Ma ciò che maggiormente dimostrava il lusso e lo sfarzo dell’edificio erano le decorazioni e l’arredo degli interni.

Nel palazzo, successivamente acquistato da Domenico Cattaneo dei principi 

di San Nicandro, aio di Ferdinando IV, che sposerà nel 1717 Giulia de Capua, principessa di Roccaromana e duchessa di Termoli, tra il 1724 e il 1730 

furono realizzati notevoli lavori di restauro relativi al rinnovo della decorazioni, 

lavori eseguiti sotto la regia e il disegno del maestro Francesco Solimena, 

come testimoniato dai documenti e dalle descrizioni del De Dominici.


Famosa fu la Galleria che il Solimena stesso dipinse per il Principe di San Nicandro, realizzata dopo lo studio di molti bozzetti, che rimase nel palazzo fino agli inizi del ‘900 e poi scomparve. 

Era stata eseguita dal pittore tra il 1730 e il 1731: “fece il bozzetto che riuscì compitissimo, ed indi dipinse il quadro ad olio in casa del medesimo Principe, che per essere di palmi 44 lungo, e 22 largo, non capiva in casa propria, e nella stanza ov’egli lavorava. In esso rappresentò i varj modi per i quali si ascende alla Gloria, e le Virtù, che cercano sottrarre da’ Vizj la Gioventù, la quale è guidata da Pallade, e da Mercurio ala suddetta gloria, accompagnata da varie scienze acquistate con lungo studio, e nel basso Pericle che sbrana il leone; nel mentre alcuni sacerdoti porgono incensi a un simulacro di un falso Dio; con altri bellissimi accompagnamenti, e figure allusive; ma perché per la troppa lunghezza della Galleria, e bassezza della soffitta, non si può tutta interamente godere questa bellissima pittura, che pur non empie tutta la volta di essa, per supplire alla restante lunghezza, e renderla anche adorna con sue pitture, vi fece due ovati con favole allusive al quadro di mezzo, collocandone uno sopra, l’altro al di sotto di esso, e con ciò ha arricchito quella nobile Galleria; della quale si dichiarò quel Principe contentissimo a tal segno, che oltre all’accordato onorario volle regalarlo di altri 500 ducati”.

Fortunatamente però, anche se lontana da Napoli, la tela del Solimena 

era finita nella dimora di Ferdinand Bischoffsheim, a Parigi, 

nella Place des Etats-Unis, al numero 11.


Agli ambienti di questa residenza francese, che erano decorati con grande sfarzo, la sala da pranzo rivestita da marmi policromi nello stile di Versailles, alle pareti una favolosa collezione di dipinti di antichi maestri, mancava però qualcosa per meravigliare i suoi ospiti. Pertanto, il Bischoffsheim non esitò a importare dal palazzo napoletano dei San Nicandro una delle tele più belle ed interessanti del maestro Francesco Solimena, dal titolo Les différents moyens pour un Prince d’accéder à la gloire, la grande composizione con soggetti allegorici sopra descritta, per adornare la sala da ballo della sua residenza. Al ricco banchiere, che aveva acquistato in giro per il mondo le più belle opere di arte antica e moderna, si aggiunse la favola, il pezzo unico, esagerato e raro.

 

Successivamente, i discendenti vendettero il palazzo ad un finanziere saudita e questi, recentemente, alla famosa fabbrica di cristalli Baccarat, che vi installò il suo museo, affidandone la ristrutturazione all’architetto Philippe Starck.

Questo edificio, oggi fortunatamente visitabile, con la Galleria decorata dalla tela del Solimena, offre un assaggio dello splendore e di quanto Napoli 

sia presente con la sua magnifica arte nel mondo.


Invece, il palazzo alla Stella, che apparterrà ai Principi di San Nicandro fino agli anni Venti del XX secolo, quando verrà frazionato e venduto a più proprietari, è oggi un condominio che purtroppo ha perso l’antico splendore. 

 

 

 

 

 

il_palazzo_dei_principi
top_foto
fine-t-blu

 

I PARCHI LETTERARI DELLA BASILICATA di Giuditta Casale – Numero 13 – Gennaio 2019

cat-storia
cat-arte
cat-cultura

I PARCHI LETTERARI DELLA BASILICATA 

 

giuditta casale storia

furono promulgate le nuove leggi, dette Constitutiones Melfitane, perché la cerimonia dell’emanazione si tenne nel Castello lucano di Melfi, una delle dimore più amate dall’imperatore, in cui aveva convocato la Grande Assise di Baroni e Vescovi del Regno.

Il corpus di duecento leggi davano un assetto legislativo completo ed organico per ogni aspetto della vita amministrativa, sociale ed economica del Regno. Considerato l’atto di nascita dello stato amministrativo moderno, la raccolta pone Federico II sulla linea di Cesare, Teodosio e Giustiniano, riaffermando l’universalità del diritto romano.

A secoli di distanza, da un altro castello una giovane donna disperata, 

Isabella Morra, confida le sue pene al fiume Sinni,


che in prossimità del castello devia il corso con un’ansa per asciugare le lacrime da cui scaturisce una delle voci più interessanti della poesia del XVI secolo, isolata da corti e salotti letterari. Nella breve vita, Isabella Morra non riuscì mai ad allontanarsi da Favale, l’odierna Valsinni in provincia di Matera, dove era nata intorno al 1520, e dove fu uccisa probabilmente dai fratelli per vendetta e gelosia tra il 1545 e il 1548. Invano dall’alto del castello normanno, divenuto una prigione, avrebbe guardato il mare in attesa dell’arrivo salvifico del padre, nella speranza di essere portata via dal “denigrato sito”, che ancor oggi risuona dei suoi poetici lamenti. 

 

Morte precoce e violenta anche per

Mario Francesco Pagano, immortalato da Giacomo Di Chirico, 

pittore lucano della metà dell’Ottocento,


mentre accetta senza cedimenti la condanna a morte, all’indomani della caduta della Repubblica di Napoli, per la quale aveva scritto insieme ad altri quattro giuristi la Costituzione, pubblicata il 1 giugno del 1799. Era partito giovinetto dal piccolo borgo lucano di Brienza, dove era nato nel 1748, per proseguire gli studi a Napoli, e diventare il brillante giurista, letterato, filosofo e saggista, uno dei più importanti nomi dell’illuminismo italiano. 

 

Il 15 luglio 1935 una condanna altrettanto ingiusta cadeva su 

Carlo Levi, ritenuto pericoloso dal Fascismo per attività politica 

nociva agli interessi nazionali.

 

I tre anni di confino avrebbero dovuto essere scontati a Grassano, ritenuta poco sicura per la vicinanza della stazione ferroviaria, e sostituita con un paese inaccessibile: Aliano. Indimenticabile per lui e per i numerosi lettori di “Cristo si è fermato ad Eboli”, sparsi dovunque nel mondo, l’arrivo in paese. Il paesaggio lunare rimase impigliato nelle mani di scrittore e pittore, indelebile, tanto da divenire sua patria d’adozione e ultimo ricovero, perché è lì che riposa come da lui voluto all’indomani della morte nel 1975. 

 

Come la casa abitata da Levi ad Aliano gli lascia posare lo sguardo sull’immensità del paesaggio, così “’U Paazze”, la casa natale di Albino Pierro nella piazza del centro storico di Tursi, dove era nato nel 1916, domina su una vista incantevole, motivo di ispirazione lirica costante: il torrente Pescogrosso, il convento di San Francesco e i dirupi del rione Rabatana, a cui sono dedicati i suoi versi più celebri.

Federico II, Isabella Morra, Mario Francesco Pagano, Carlo Levi, Albino Pierro: personalità divise da distanze temporali consistenti, differenti i contesti storici 

e umani, esistenze di spessore segnate da vicende difficilmente assimilabili. 

Cosa le lega tra loro?


Quale percorso congiunge Melfi, Valsinni, Brienza, Aliano e Tursi, oltre a essere territori lucani? 

 

C’è una connessione per un viaggiatore attento alla letteratura e spinto a credere che i luoghi e i paesaggi natii o abituali influenzino lo sguardo e l’indole del soggetto che li vive? Quante volte guardando un paesaggio abbiamo sentito scorrere un brivido e risalire prepotentemente alla memoria parole, versi, frasi letti? Non potrebbe essere diversamente visto che il paesaggio è fonte d’ispirazione costante per scrittori e poeti, artisti e intellettuali. Binomio insolubile, radicato nella coscienza, nonostante la sorte possa spingere lontano, come avviene per Pagano o Pierro, o al contrario rendere intimi e propri luoghi “distanti” da quelli considerati originari, come per Levi.

Il nesso che volevo evidenziare tra le biografie e i luoghi da cui scaturiscono 

è racchiuso nella seguente affermazione:


I Parchi Letterari® assumono il ruolo di tutela letteraria di luoghi resi immortali da versi e descrizioni celebri che rischiano di essere cancellati e che si traducono nella scelta di itinerari, tracciati attraverso territori segnati dalla presenza fisica o interpretativa di scrittori. Un singolare percorso che fa rivivere al visitatore le suggestioni e le emozioni che lo scrittore ha vissuto e che vi ha impresso nelle sue opere 
(Stanislao Nievo) È l’idea di partenza da cui si mosse nel 1992 il pronipote di Ippolito Nievo, a sua volte scrittore, per dare corpo e motivazione all’ambizioso ed entusiasmante progetto dei Parchi Letterari. Tale è Melfi grazie alla personalità “stupenda” di Federico II; Valsinni per essere immortalata da Isabella Morra nei versi che l’hanno resa celebre; Brienza per i natali illustri a Mario Francesco Pagano; Aliano che da prigione diventa patria elettiva per Carlo Levi; Tursi conosciuta in più di trentasei lingue grazie ai versi sublimi e malinconici di Albino Pierro.

 

Un paesaggio che senza dimenticare la sua valenza turistica, anche in senso economico, la valorizza sul piano storico-testimoniale attingendo alla forza immortale della letteratura, anche in termini di tutela, custodia e salvaguardia.

“Per questi motivi I Parchi Letterari® sono fatti di accoglienza, di visite guidate, 

di eventi spettacolarizzati, e prevedono la possibilità di coinvolgere anche 

le realtà imprenditoriali identificative dall’enogastronomia all’artigianato”, 

come si legge sul sito www.parchiletterari.com, curato ed esaustivo,


in cui i tanti parchi letterari che costellano il territorio italiano trovano il luogo deputato per attrarre il lettore e comunicare le attività che autonomamente gestiscono.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Castello di Isabela Morra

 Il Castello di Isabela Morra

fine-t-storia
dopo_un_anno_di-_inchieste_mod

 

UN RICORDO DI GIOSE RIMANELLI di Pierluigi Giorgio – Numero 13 – Gennaio 2019

cat-arte
cat-cultura
cat-sud

UN RICORDO  di GIOSE      RIMANELLI

 

1997. Fratello Giose, occhi di gatto, lo acchiappai per la coda e quasi per caso in America al mio scalo aereo South Dakota-Roma, reduce – io – dell’ospitalità di un gruppo d’indiani della prateria; lui, in fase di trasferimento – eterno gitano mai domo – dal Minnesota al Massachusetts con la moglie Sheryl da lui chiamata “Ciliegia”.

Micio micione, camaleontico nello sguardo, che si tramuta in serpentello beffardo: sempre che azzannarti ne valga la pena! Ma poi, d’un tratto, il sorriso ironico, sornione si liquefa in amichevole dolcezza, come quello di un bambino tenero a cui non puoi che voler bene. Tutto, su un corpo ancora massiccio: “Paisà!” gli urlo, scuotendo gli assonnati passeggeri in transito che vagano alla ricerca di parenti o del prossimo volo come zombi inebetiti dall’ora e dal viaggio: “Il solito emigrante italiano!” avranno pensato. “Mi hai sconvolto i piani con l’insistenza di conoscermi proprio in questo frangente” – Giose esordisce, esplorandomi tutto – “ma sono felice!” L’abbraccio è energico, franco e lo sguardo, ancora un po’ incredulo, si fa all’improvviso raggiante. Il tempo di accompagnarmi in albergo e di ritrovarci al mattino dopo, solo poche ore più tardi, in lavanderia dove Ciliegia e lui si son trascinati dietro due sacchi di panni accumulati nell’eterno viaggio d’avvicinamento e ricerca di una nuova dimora.

Un incontro breve quanto un respiro, solo due ore alla partenza del sottoscritto: 

a cosa dare la precedenza?


Con l’alito addosso di un tempo tiranno, Giose ascolta e ti assale con una cascata di parole; ed io con una vita da raccontargli. Li aiuto a piegare lenzuola, asciugamani, camicie, pigiami, mutande e calzini; parliamo di lui e parliamo di me e parliamo di patria e Molise, spesso ingrato ed amato.

“Ho portato il Molise sempre con me, col cuore e negli scritti, in tutto il mondo girato: come faccio a rinnegare quella mia terra?


Altro non ci resta, caro amico della macchia, di tenerci ancor più vicini con il pensiero e la parola, continuando tuttavia ad amarla, quei luoghi, quelle memorie e lasciando scorrere sotto il ponte, come acqua che va a perdersi, quei malintesi, le sgarberie, le forzature e sforzature politiche…” Ho provato simpatia e affetto immediato per quest’uomo – “Crescerà!” predisse – per questo fratello più grande di una ventina d’anni, trovato (ri-trovato) fra i risvolti o le righe di un racconto che mi riportò ad amare la mia terra da cui ero “fuggito”. Soprattutto il libro “Molise Molise”…! Mi accompagnano all’aeroporto: un altro abbraccio. Scambio reciproco -quasi in un rito arcano – di gilet (il mio) e di un cappellone old-west (il suo) così agghindati: “Fratello Giose, ho scavalcato oceani e ci siamo rincorsi per gli States sfidando tempo e ragione pur d’incontrarci e conoscerci, ma non siamo riusciti a fermare il tempo”… “Pierluigi carissimo, sei passato come un fulmine e te ne ringrazio, perché insieme abbiamo addomesticato il difficile!”… “Arrivederci in Molise, Giose! A presto, spero: faremo uno spettacolo un giorno insieme!” gli preannuncio con veggenza spiritata… In Molise, mi giunge un sonetto che benevolmente mi dedica. Come in uno specchio, ci vedo riflesso lui stesso e la sua delusione:

“Molise, Amore di terra lontana: prima che l’inverno ci sorprenda, questo smarrito amante senza mondo ripasserà l’Atlantico profondo per distendersi sotto 

la tua tenda. Su quest’amore han malignato a fondo i senza cuore, 

scarsi di leggenda, imbavagliati dentro una tregenda d’ignoranza sapiente, 

a tutto tondo. Questo smarrito amante ha ben pagato la sua fede: 

desiderio e pienezza, un manoscritto sempre ben arato sia nel tormento 

della fanciullezza che nella quieta questua d’un alato riavere il perso, 

l’amata carezza…”.


Come atto d’amore nei riguardi della stessa patria, gli mandai imbustata terra, semi e petali della regione, insospettendo – come lui suppose – i controllori americani… L’impulsività costa, ma come tentare la via della saggezza con lui e lui con me? Come si poteva imbrigliare l’impulso e la voglia – quasi settimanale – di un confronto seppur epistolare? Mi vien da ridere!!! 

 

Un anno passa e gli comunico che l’abborracciato zibaldone di testi (i suoi) è pronto: mi sono basato su un collage di scritti, libri e racconti di vita. L’idea gli piace e poi… poi “un’enormefolleinfinitaquasincalcolabile” sfilza di cifre sulla bolletta telefonica. “Oggi abbiamo consumato le linee internazionali!” mi fa. Costa meno vederci…! A una settimana dalla prima teatrale, arriva ed è sufficiente un solo abbraccio per intenderci. Ci ritroviamo a stagliuzzare, incollare, riscrivere, riordinare le tessere letterarie di un puzzle esaltante: il mondo, tutto il mondo è tra le quattro pareti di casa mia… “Buona notte!” “Buona notte!” e dopo mezz’ora siamo di nuovo in piedi a trascinar pantofole, perché il sonno non viene e quindi è meglio lavorare… Gli sparo lì la proposta: “Anche tu sarai di scena! Tu racconti la tua vita ed io sarò il tuo alter-ego, quello della creatività letteraria, dei tuoi testi, che dà voce alle tue poesie! “Ok?” “Ok!” Nasce: “L’Arcangelo e il ragazzo: Giose e io”.

L’intuizione è giusta: Giose per la prima volta in assoluto che interpreta se stesso! 

Lui è un simpaticissimo, ottimo, spontaneo animale da palcoscenico! 

Sarà teatro nel teatro.


Attorno a noi, un gruppo di musicisti bravissimi (a cui affido le musiche scritte da Giose) ed una danzatrice: è un lavoro frizzante, culturalmente valido, eccitante, non localizzato, ma tutto ciò per sole tre insufficienti repliche: Campobasso, Isernia, Casacalenda. L’esperienza teatrale, le notti insonni, le risate attorno ad un tavolo ci accomunano, ci affratellano ancor di più, ma arriva il momento del ritorno e “gli anni scivolano come passi su bucce di banane” scriverà un giorno. 

 

2018. “L’emozione non ha voce…” recita una canzone di successo di Mogol interpretata da Celentano.

Dall’America il 6 gennaio arriva purtroppo la notizia: Giose, l’eterno itinerante, 

è andato a raccontar storie tra le nuvole…


Undici mesi dopo, su un’idea che suggerii al Rettore dell’Università di Campobasso Gian Maria Palmieri, siamo ad onorarlo in una due giorni di Convegno dedicato interamente a lui e la sua fervente, strabordante creatività letteraria (con lo spettacolo “Giose&Giose” compreso, organizzato il 5 e 6 del dicembre scorso dall’Università di Campobasso (UNIMOL) su Giose Rimanelli (Casacalenda – CB/1925 – New York 2018). Dal 1960 si era trasferito negli Stati Uniti ed è stato Professore Emerito d’Italiano e Letteratura Comparata all’Università di Stato di New York ad Albany. Personaggio eclettico e simpaticamente fuori dagli schemi, scrittore transculturale, ha pubblicato romanzi, narrative di viaggi e racconti sia in italiano che in inglese. All’attività narrativa ha unito quella della poesia, del teatro, del giornalismo e della critica letteraria in italiano ed inglese. 

 

Fra gli eccelsi relatori -perlopiù docenti universitari newyorkesi – Gino Tellini, Antonio Vitti, Anna Maria Milone, Luigi Montella, Giorgio Patrizi, Luigi Bonaffini, Romana Capek-Habekovic, Sebastiano Martelli… La maggior parte giunta dalle Università degli States. Prima fra tutti, la moglie di Giose, Sheryl Lynn Postman – docente della University of Massachusetts di Lowell – la più attenta a proteggere la “verità” di pensiero ed umana di Rimanelli:

un eclettico scrittore – per mole autoriale – da non confinare soltanto 

nella memoria dei primi libri,


“Tiro al Piccione” (tradotto in film da un giovane Giuliano Montaldo) o “Il mestiere del furbo” (condanna dei “salotti letterari” del tempo) ma neppure nella definizione “molisano”, né tantomeno italo-americano, bensì, più appropriatamente, quale autore italiano transculturale! L’idea è quella di istituire un Premio letterario internazionale, atto a preservare la memoria di uno scrittore che, pur avendo rivolto sovente la sua attenzione letteraria alla terra natia (portata ovunque come il guscio di una chiocciola), è indubbiamente di gran spessore e calibro internazionale! 

 

A conclusione, la riproposizione vent’anni dopo – prodotto dalla Incas Cinematografica – del Recital-Spettacolo “Giose&Giose” (un tempo il già citato “L’Arcangelo e il ragazzo”) nell’Aula Magna dell’Unimol, ed io questa volta ad interpretare, necessariamente, proprio l’amico Giose Rimanelli!

Si, l’emozione non ha voce… 

Mi piace ricordarlo nelle ultime battute dello spettacolo in proscenio, 

l’uno accanto all’altro, con in mano una valigia vuota:


GIOSE: “Stanco della vita, Giose?” PIERLUIGI (alter ego di Giose): “Terribilmente”. GIOSE: “Fai due passi? Ti seguo da molto, sai?” PIERLUIGI: “Sei Giose…?” GIOSE: “Viaggio, vedi la valigia?” PIERLUIGI: “E cosa contiene?” GIOSE: “Guarda!” PIERLUIGI: “Ma è vuota?” GIOSE: “Si, ma una volta era piena zeppa. Infine ho dovuto buttar via tutto.” PIERLUIGI: “Ma se è vuota, a che serve?” GIOSE: “Si riempirà di nuovo… La vita continua”…

dallincontre_in_america
 

Mai incontrato prima, lo riconosco all’istante – come non potrei? – 

 mentre mi accoglie all’aeroporto americano all’una di notte, con bermuda 

alle ginocchia ed un cappellone bianco a tesa larga quanto un ombrello 

da spiaggia calcato su un viso netto, tagliato da un’accetta; due baffoni 

da zingaro e, al di là di larghe lenti chiare su un promontorio 

da pugile, due tagli netti, marcati marcati, che ti scrutano l’anima 

e ti scherniscono dentro.

 

Pierluigi-Giorgio_arte
giose_rimanelli
fine-t-blu