FRANCO CAVALLO, LA POESIA di Alessandro Gaudio – Numero 4 – Aprile 2016

FRANCO CAVALLO, LA POESIA

 

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 La plaquette, edita per i tipi di SIC − che poi confluiranno nella bellissima esperienza delle edizioni Altri Termini, nate da una costola dei Quaderni internazionali omonimi che, inaugurati nel maggio del ’72, risulteranno fondamentali, tra l’altro, per il recupero in chiave ironica e neosperimentale del surrealismo e delle avanguardie storiche europee −, ha una circolazione quasi clandestina: eppure, la silloge, pubblicata in proprio, giunge sorprendentemente fin sulla scrivania di Pier Paolo Pasolini che, qualche mese dopo, in aprile, ne dirà sinteticamente sulle colonne del «Tempo»: «un libriccino delizioso, − assicurerà Pasolini, al termine di una delle sue Descrizioni di descrizioni − credo fuori commercio».1 Forse sarà stato il Piccolo arazzo musicale che Cavallo, all’interno di Rien ne va plus, dedica proprio a Pasolini ad attirare l’attenzione del più grande intellettuale italiano del secondo Novecento? O, piuttosto, sarà stato il tono stravagante della poesia di Cavallo (poi scomparso nel 2005) a sollecitarne la considerazione?
A quell’altezza, Cavallo poteva già vantare, tra le altre cose, la pubblicazione di due apprezzabili raccolte di versi per Rebellato e, in particolare, di altre due sillogi, all’interno dell’importante collezione di poesia della Piccola Fenice degli italiani (diretta da Roberto Sanesi) che l’editore Guanda di Parma inaugurò alla fine degli anni Sessanta proprio con Fétiche di Cavallo.2 Per i lettori di «Myrrha» non riproduco l’elogio della natura dedicato a Pasolini, preferendogli invece Bruchi perché mi sembra che in essa sia maggiormente manifesta l’ammissione di una debolezza, quasi la certificazione di uno scacco dell’intelligenza, frutto dell’unione dell’indolenza meridiana del poeta campano e dello scetticismo riguardo alle regole fisse della trigonometria borghese che tanto disturbavano anche il grande intellettuale bolognese.

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l(ex)iquida obniscienza in presenza glaucale
nell’altissimo pino vedean li dèi e l’amore,
pipsula in insula corallina anfitrioni − e

poi ritornati alle belle giornate d’autunno
sull’auto(bus) che li conduce all’accettazione
supina della res padronale, lambruschi lombri-
chi cauti alla pozzanghera e alla genuflessio-
ne, alle regole fisse della trigonometria bor-

ghese (ah, corona di spine della rivoluzione!)

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Nel gennaio del 1974 Franco Cavallo (nato nel ’29, a Marano, vicino a Napoli) pubblica un minuto volumetto contenente nove poesie e intitolato Rien ne va plus.

Rien ne va plus si era aperto prendendo in prestito da Edoardo Sanguineti l’ammissione franca dell’inutilità dei nostri destini («che non ci sono più storie / che si possono raccontare») e proseguirà, nella lirica successiva a quella qui riproposta, contestando il rapporto assiduo e geometrico tra la casa (la sua, come quella di Racine e quelle di tutti i poeti) e l’albero del Potere (scritto con l’iniziale maiuscola). Già nel 1974, al di sotto della franca accettazione dello scacco di un’intera generazione di intellettuali (sancita e resa definitiva, poi, dalla morte di Pasolini), Cavallo si calava, come un bruco, nel corpo vivo della lingua, cercando − come egli stesso aveva ammesso più volte − di realizzarsi in essa, provando a scavare in sé alla ricerca del posto sotterraneo in cui quella lingua si cela e correndo il rischio, alla fine dello scavo, di non trovare comunque niente.
A questo vuoto la poesia di Cavallo contrappone un eccesso di materialità3 che, poi, continuerà a caratterizzarla nei versi degli anni seguenti; essa è frutto di una scrittura che «[…] cigola / come il cardine / di una vecchia cassapanca» e che accoglie la mancanza, tematizzandola e, di fatto, prosciugandola o, se si preferisce, occupandola con la propria inquietudine formale e lessicale.4 Tuttavia, al di là di quel niente che si riempie di sé («Manca sempre qualcosa, − aveva detto qualche anno prima l’autore di Poesia in forma di rosa − c’è un vuoto / in ogni mio intuire […]»),5 ciò che nella poesia di Cavallo aveva incuriosito Pasolini era stata, con ogni evidenza, l’espressione della condizione greve di chi ha ormai compreso che tutto è stato fatto: di questo niente resta una confusa memoria che, in versi, è all’incirca un’ipotesi di distruzione; più propriamente, è una eco che si ripete di canto in canto, sino a includere, nella sua irrimediabile vacuità, l’intera condizione umana e la sua sorte. È su questo crinale che la poesia (anche quando, negli anni successivi, si verserà nel nonsenso) ricorrerà alla consistenza delle sue figure grammaticali e linguistiche e delle sue parole-cose per riempire quell’assenza che Cavallo sente così presente e finirà per ribadire l’indissolubilità del legame strutturale che la congiunge alla storia.

 1 P.P. Pasolini, Descrizioni di descrizioni, a cura di G. Chiarcossi, Milano, Garzanti, 2006, p. 390. 2 Si tratta di Paesaggio flegreo del 1957 e Reliquia marina e altri versi del 1959 per Rebellato e, per Guanda, di Fétiche (1969) e I nove sensi (1971). 3 Cfr. V.S. Gaudio, L’ascesi della passione del Re di Coppe, Milano, Celuc, 1979, p. 7. 4 Stefano Lanuzza ha già parlato della poesia di Franco Cavallo come di «parole squillanti nel vuoto»; l’espressione segnala con grande efficacia la concomitanza nei versi del poeta campano di nichilismo e artificio formale (cfr. S. Lanuzza, Lo sparviero sul pugno. Guida ai poeti italiani degli anni ottanta, Milano, Spirali, 1987, p. 117). 5 P.P. Pasolini, Poesia in forma di rosa [1964], Milano, Garzanti, 2012, p. 169.

 

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IL CINEMA A MATERA di Delio Colangelo – Numero 4 – Aprile 2016

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Matera, a partire dal secondo dopoguerra, è stata terra di cinema; più di trenta produzioni cinematografiche sono state realizzate nei Sassi. Una tendenza dominante, da Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini a Cristo si è fermato a Eboli di Francesco Rosi, ha messo in luce la condizione di miseria e arretratezza della Basilicata, influenzata da autori come Carlo Levi ed Ernesto De Martino. Negli ultimi anni, Matera è diventata teatro di opere filmiche – come The Passion di Mel Gibson – che hanno contribuito a formare l’immagine di una città quasi mistica e culturalmente attiva.

La designazione di Matera come città Capitale Europea della Cultura del 2019 sembra essere la definitiva redenzione di una cittadina che per lungo tempo ha suscitato la “vergogna nazionale”.

Tratto dal libro omonimo di Carlo Levi, racconta l’esperienza di confinato vissuta da Levi stesso durante l’epoca fascista. Durante i due anni trascorsi in esilio, Levi, medico progressista torinese, ha l’occasione di entrare in contatto con la civiltà contadina lucana che osserva con meticolosa attenzione e che lo colpisce profondamente. Pur avendo come centro il paese di Aliano, dove lo scrittore ha vissuto, vi sono descrizioni di Matera che, come abbiamo già detto, hanno prodotto grande attenzione mediatica sul destino dei Sassi.

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IL CINEMA A MATERA

 

Delio-Colangelo

Il primo film di finzione interamente girato nei Sassi è La Lupa (1953) di Alberto Lattuada, trasposizione cinematografica dell’omonima novella di Giovanni Verga.

Nonostante non manchino ritardi e sterili polemiche, la città sta attirando la creatività giovanile e rafforzando i propri eventi e manifestazioni culturali. La stagione turistica si allunga, con sempre più frequenti episodi di overbooking, ed è caratterizzata da una crescente dimensione internazionale. Tra le grida di gioia che hanno invaso la Piazza San Giovanni nell’ottobre del 2014, quando il ministro Franceschini ha comunicato la scelta di Matera come capitale europea della cultura, molti parlavano di un importante riscatto per la città. Una città che ha compiuto un lungo percorso per riabilitarsi e che, dopo il risultato dell’iscrizione dei Sassi nel patrimonio Unesco nel 1993, trova, come Capitale Europea della Cultura, il suo compimento. 
Qualcuno ha detto che Matera, prima di essere stata città dell’Unesco e città della cultura, è stata città del cinema e su questo vorrei soffermarmi un attimo. Su come il cinema è stato importante sia per la riflessione sulla condizione della città che per la sua promozione mediatica e turistica.
Dagli anni ’50 agli anni ’70, la produzione cinematografica a Matera, infatti, risente di una vasta riflessione che, da Levi a De Martino, ha posto l’attenzione sui problemi della Basilicata.

In particolare, si può citare una piccola opera di un giovane Antonioni dal titolo Superstizione e diversi lavori, tra cui Magia Lucana e La Madonna di Pierno del regista Luigi Di Gianni, uno dei più importanti rappresentanti del documentario antropologico. 
Un film di finzione, girato in parte a Matera, che raccoglie questa eredità e questo fermento, è Il Demonio (1964) di Brunello Rondi. Il film ha come obiettivo quello di offrire un ritratto autentico della Basilicata, soprattutto in riferimento a quel “mondo magico” che circondava la realtà lucana degli anni ’50 e ’60. A metà strada tra storia drammatica e documentario, il film racconta i riti contro il malocchio, gli esorcismi, le superstizioni. La protagonista, Purificata, non riuscendo a superare una delusione d’amore, cade nella “fascinazione”. La fascinazione, o la possessione, rappresenta il momento di stallo in cui si trova Purificata che non riesce ad accettare la fine di un amore; il percorso di liberazione da questo male, che però la condurrà a una fine tragica, è un susseguirsi di riti liberatori, pratiche magiche, esorcismi, lamenti funebri che il regista inserisce all’interno della narrazione con intento quasi documentale. In alcune suggestive sequenze girate nei Sassi, avviene il conflitto magico: da una parte, Purificata che cerca di minare, attraverso filtri amorosi, la solidità del matrimonio tra il suo amato e un’altra donna mentre, dall’altra, gli sposi che proteggono con alcuni rituali la loro unione dalle forze negative. 
Un “paesaggio” magico che mostra il netto divario esistente tra l’arretratezza della terra lucana e il progresso e il boom economico che veniva vissuto in altre zone d’Italia. 
Questa tendenza rappresentativa, che incomincia a tramontare a partire dagli anni ’70, ha un ultimo e forse più importante esempio nella trasposizione cinematografica del romanzo di Levi a opera di Francesco Rosi.

A metà degli anni ’60, Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini inaugura una tendenza ad ambientare nei Sassi di Matera vicende di argomento biblico. I Sassi diventano la Gerusalemme della predicazione cristiana e della via crucis

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L’operazione interessante compiuta da Lattuada consiste nell’usare i Sassi non come sfondo per rappresentare un paese siciliano (originaria ambientazione del racconto di Verga), ma come effettivo luogo in cui si svolgono le vicende raccontate. Il paesaggio mostrato, quindi, porta nel film il suo carico di drammaticità che integra l’opera verghiana. Prova ne è, ad esempio, lo spazio che nella prima parte del film è dedicato alla Festa della Bruna di Matera in cui si snoda la vicenda. L’inserimento nel film di riti e tradizioni tipicamente materani serve proprio a intessere la trama nel nuovo contesto territoriale.
Nel Dopoguerra è intensa anche la produzione documentaristica. Nel 1949 vi è l’esordio alla regia di Carlo Lizzani con il documentario dal titolo Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiato (1949). L’interesse verso la realtà materana e lucana coinvolge anche altri registi che, anche sulla scia delle spedizioni etnografiche organizzate da Ernesto De Martino, raccontano i riti e le superstizioni che regnano in Basilicata.

Una ricca produzione documentaristica investe la Basilicata con l’evidente compito di mostrarne le condizioni culturali e sociali.

Il Cristo si è fermato a Eboli (1979) di Rosi è sicuramente uno dei prodotti artistici più rappresentativi dell’identità lucana e racconta con realismo un pezzo di storia della Basilicata.

mentre la Murgia materana è il luogo della crocifissione e della resurrezione del Cristo. Tuttavia, Pasolini, non sceglie Matera in quanto somigliante a Gerusalemme, ma perché è rappresentativa del contesto socioeconomico del sud d’Italia. Così se, da una parte, c’è l’intenzione autentica di sottolineare la forza rivoluzionaria del messaggio cristiano e ricollegarla a un generale senso del sacro, dall’altra, emerge il desiderio di denunciare e mettere in luce i contesti di vita inaccettabili in cui vivevano gli abitanti di questa parte del Sud. La macchina da presa mostra i paesaggi, i volti scavati, con la stessa attenzione dimostrata da Pasolini nei suoi precedenti film sulle borgate romane

Matera, quindi, trasferisce all’interno del film non solo la sua conformazione fisica ma anche la sua specificità sociale, divenendo una metafora di tutta la questione meridionale.

Il tentativo compiuto dall’autore è quello di far emergere l’immagine autentica di un territorio raccontando una storia che non le appartiene.
Dagli anni ’70 in poi, Matera verrà utilizzata per rappresentare la Spagna (L’albero di Guernica), la Sicilia (L’uomo delle Stelle); diventa, quindi, esclusivamente una location cinematografica che avrà particolare fortuna con le storie di argomento biblico. Dopo un King David girato negli anni ’80 e di scarso successo (che però porta Richard Gere tra i Sassi), si apre per Matera l’epoca delle grandi produzioni hollywoodiane. Nel 2004 esce nelle sale The Passion of the Christ (2004), storia della passione di Cristo raccontata da Mel Gibson, i cui esterni sono stati girati quasi interamente nei Sassi. La pellicola, che racconta la passione di Cristo dall’invocazione nel giardino dei Getzemani sino alla resurrezione, ha dato una grande esposizione mediatica internazionale ai Sassi di Matera. Non vi è più riflessione sul contesto sociale né riferimento all’identità culturale; tuttavia, la distribuzione mondiale e il successo del film offrono a Matera un’importante vetrina promozionale. The Passion viene spesso citato come caso di cinema che ha dato un forte impulso al turismo cittadino ed effettivamente, dati alla mano, nei due anni successivi all’uscita del film il turismo straniero è raddoppiato. Probabilmente il film ha prodotto anche maggiore consapevolezza, nei cittadini e nelle autorità, sulla dimensione internazionale di Matera e sulle potenzialità turistiche dei Sassi che, pur essendo già patrimonio Unesco, risultavano ancora inespresse. 
Dopo il film di Mel Gibson, altre grandi produzioni, a tema religioso, si sono fermate a Matera come The Nativity Story (2005), The Young Messiah (2016) o remake di peplum famosi come Ben Hur (2016).

Oggi le strette stradine dei Sassi sono un set a cielo aperto, passaggio continuo di produzioni cinematografiche e televisive, dimostrando la stretta relazione tra il cinema e la città.

 

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GRIMALDI, LA SUA RICERCA DEL SUBLIME di Venera Coco – Numero 4 – Aprile 2016

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Nel corso del tempo ogni artista ha intravisto nelle proprie opere qualcosa di trascendentale, quasi un barlume di eternità. In quel chiarore ha riconosciuto una parte di sacro, un’espressione di sublime che ne ha segnato l’esistenza. Una ricerca, a volte introspettiva a volte estetica, che diventa immediata agli occhi di chi ne osserva le forme, i colori e l’armonia. 

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GRIMALDI, LA SUA RICERCA DEL SUBLIME

 

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Come un vero archistar di fama internazionale, Grimaldi va oltre la moda, immagina scenari differenti, come fece la sua maestra Fernanda Gattinoni.

Inconfondibile romantico, non poteva essere altrimenti. Grimaldi è originario di Salerno, una terra idilliaca e poetica, un luogo dalla mille sfumature che con le sue tonalità pastello, delicate e femminili, ispira gli abiti sognanti. Un uomo vero e sincero che non illude le donne proponendo modelli immettibili, ma riesce a illuminarle con linee semplicemente seducenti. 
Nessuna forma è esacerbata, anzi appare leggera, fluttuante come anche nel suo prêt-à-couture, che costruisce minuziosamente con sbiechi cuciti a mano, ultimati poi nei laboratori. Per questi capi lo stilista sembra giocare con atmosfere urbane, dove ogni pezzo è considerato al pari di una costruzione filiforme e sinuosa come i grattaceli ideati dalla commiata Zaha Hadid. È palpabile la transavanguardia, la sperimentazione, l’utilizzo di colori metallici.

Nonostante il suo eterno amore per l’haute couture, si reinventa ogni giorno, diversificando e trasferendo il proprio savoire-faire anche nel quotidiano. Ed ecco che il suo valore stilistico si palesa allo specchio quando le donne indossano quel ready-to-wear su misura che indovina e asseconda i desideri femminili, tanto quanto i suoi abiti d’alta moda. I modelli d’haute couture di Grimaldi ricordano l’effimero del vento che con braccia invisibili raccoglie una manciata di foglie per ricoprire, con leggiadria, le curve di chi ne trattiene le vesti. Altri sembrano toccare la goccia più debole di una nuvola che si scioglie sotto il peso di perle iridescenti.

Frange come petali di ninfee, come sottili tentacoli che accarezzano, quasi senza toccarne l’essere, per lasciarsi scorrere in una danza erotica.

Lunghe tuniche simili a infinite strisce di terra brulla si muovono sinuose come il fermento di un tubero che lotta. Bluse che si svincolano dalla sabbia come rettili, abbagliando i caldi del deserto con le loro squame cangianti. La magia sta tutta nelle sue mani, nel suo valore della tradizione, in sineddoche modaiole, dove la parte è importante tanto quanto il tutto e va considerata con estrema grazia.

Qualsiasi ispirazione riesca a trarre è certamente unico il risultato che propone alla donna del suo tempo.

Abile couturier riesce a raccontare per ogni abito un’avvincente storia il cui epilogo è sempre una dichiarazione d’amore alla sublime bellezza.

 

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CITTÀ SICURE: NORD E SUD A CONFRONTO di Giorgio Salvatori – Numero 4 – Aprile 2016

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Poi, però, si deve mettere in conto il crescente problema della sicurezza: scippi, rapine, furti, omicidi, danneggiamenti. Roba che in Paese o in campagna avviene di rado, salvo alcune aree del Nord a recente, alto tasso di aggressioni a persone e di furti in abitazioni. Ma dove avvengono, con maggiore incidenza i crimini metropolitani? Quale è la città più sicura e, all’opposto, quella più insicura? Gli ultimi dati ISTAT disponibili risalgono ad oltre un anno fa, ma il Corriere della Sera, recentemente, è tornato a commentarli in relazione alla situazione, critica, di Milano.

CITTÀ SICURE: 
NORD E SUD A CONFRONTO

 

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Li ricordiamo anche noi, perché le classifiche dei reati, riferite al numero delle denunce rilevate, ci regalano alcune conferme ma anche qualche sorpresa. 
Partiamo dalle prime. Sud e Isole, purtroppo, continuano a far registrare il maggior numero di omicidi rispetto alle altre Regioni italiane, ma il Nord vanta, in base ai dati ISTAT, altri primati negativi. Milano è la capitale dei furti, con quasi 8000 denunce ogni centomila abitanti, seguita da Bologna, con 7600, e, poi, Roma, Torino, Firenze, Venezia, Rimini. A Milano, poi, è preoccupante la curva ascendente del numero dei furti se messa a raffronto con l’andamento, sostanzialmente stabile, dello stesso tipo di reati a Napoli, una città dove quasi ogni scippo denunciato balza agli onori della cronaca nazionale e serve a rinforzare, nell’opinione di molti, la convinzione che passeggiare senza scorta nella ex capitale del regno borbonico sia rischioso quasi come avventurarsi, da soli e disarmati, nei territori controllati dall’ISIS.
Per i furti, invece, dati alla mano, il Nord, e, in particolare, il Nordovest, batte il Sud (con la sola eccezione di Catania) con percentuali decisamente superiori rispetto al vituperato Meridione. Ed anche sul fronte rapine Milano e Torino non brillano certo per maggiore sicurezza, risultando ai primi posti, in Italia, insieme con Napoli e Bari. Napoli, però, resta indietro rispetto a Bologna, Firenze, Milano e Roma per numero di reati connessi con lo spaccio di droga. 
Anche atti di vandalismo e danneggiamenti, sorprendentemente, vedono in testa Torino, Milano e Genova. 
Qualcuno osserverà che, su tutto, comunque, dominano incontrastati i feroci delitti imputabili alla criminalità organizzata, fenomeno storicamente e geograficamente legato al meridione. Andiamo a esaminare, allora, i dati forniti, in questo campo, dal Ministero dell’Interno. Prendendo come termine di paragone il 2007, il rapporto del Viminale sulla sicurezza, nel 2015, ci mostra un andamento discendente degli omicidi di mafia, ’ndrangheta, camorra e altre simili consorterie criminali. Queste morti, che erano 147 nel 2007, sono scese a 49 nel 2014. Una diminuzione di oltre il 70 per cento rispetto a sette anni prima. Tutto bene allora? Assolutamente no. 
Il percorso è sempre in salita. Non soltanto perché i dati globali non sono rassicuranti per nessuna città italiana (ad eccezione di Matera, guarda caso al Sud, dove, in termini relativi, la vita scorre decisamente più tranquilla che altrove) ma anche perché è ancora lunga la strada da percorrere per sconfiggere il radicamento al Sud della criminalità organizzata, la sua espansione al Nord, la quiescenza di troppi cittadini meridionali ed anche, spesso, settentrionali, di fronte a questo cancro spaventoso. 
Modificare il generico pregiudizio antimeridionale, però, è il secondo dovere che ci impone l’analisi meno emotiva e più razionale della realtà in cui siamo immersi, giorno dopo giorno, dal Nord al Sud della Penisola. La coesione sociale, economica e culturale della Nazione va perseguita come un bene comune fondamentale e non come una iattura da scongiurare. Vagheggiare il ritorno a piccole e chiuse patrie regionali, nell’età del pianeta globale, non può essere altro che mera e vana utopia.

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MATTEO DE AUGUSTINIS, DIVULGATORE E MAESTRO di Umberto de Augustinis – Numero 4 – Aprile 2016

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Matteo de Augustinis è stato un figlio del profondo Cilento, nel quale è nato 207 anni fa, a Felitto, un anno dopo lo scoppio della rivoluzione francese, da una famiglia che fu fatta oggetto della più bieca reazione da parte delle marmaglie del Cardinale Ruffo. 
La sua casa natale fu data alle fiamme, ed i suoi parenti costretti ad una terribile diaspora. Morì troppo presto, e nel luogo sbagliato (nel 1845 in quella Napoli, la cui classe colta era stata più che decimata con la restaurazione e chi che era sopravvissuto viveva nel sospetto e nel terrore), per essere incluso fin dall’inizio tra i padri della Patria.

MATTEO DE AUGUSTINIS, DIVULGATORE E MAESTRO

 

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Incarcerato ben due volte perché di idee sovversive, Matteo de Augustinis era un giurista (avvocato), professore ed economista, incarnando un’idea consolidatasi nella tradizione partenopea: prima che economisti, bisognava essere giuristi, perché

L’abolizione del feudalesimo fu una grande svolta “epocale”, dovuta anche all’impegno di molti economisti, come Giuseppe Palmieri, che aveva scritto, tra l’altro, “Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli e altri scritti” (1788), in cui, per “pubblica felicità” si intendeva l’uscita del popolo dall’ignoranza e dall’oscurità verso la luce, secondo il più ortodosso illuminismo. 
L’idea delle pubblica felicità è fondamentale nell’insegnamento di de Augustinis. Dal post-feudalesimo era derivato un complicato contenzioso che contrapponeva anche i proprietari latifondisti (baroni) alle città (università), in cui si riconoscevano le classi sociali borghesi ed operaie in formazione. Il tutto si svolgeva in uno Stato rigorosamente chiuso all’esterno, che faceva della politica dei dazi il suo centro propulsore economico. Vaghi accenni riformatori duravano poco e creavano delusioni (anche a de Augustinis).

il grande evento di quegli anni era stato l’adozione, per il Regno delle due Sicilie, della legge n. 130 del 2 agosto 1806, il cui primo articolo recitava: «La feudalità con tutte le sue attribuzioni resta abolita. Tutte le giurisdizioni sinora baronali, ed i proventi qualunque che vi siano stati annessi, sono reintegrati alla sovranità, dalla quale saranno inseparabili».

Il primo da ricordare è Antonio Genovesi (che era morto a Napoli nel 1796), il quale, nel teorizzare la necessità di far uscire l’uomo dallo stato di “oscurità”, è colui che, per primo, aveva compreso la decadenza culturale, materiale e spirituale del Regno di Napoli e, quindi, si era reso conto della necessità di intervenire, invitando le nuove generazioni ad approfondire lo studio dell’economia. All’Università di Napoli aveva insegnato economia politica, con un insegnamento istituito appositamente per lui, denominato “Cattedra di commercio e di meccanica”. Genovesi teneva sempre le sue lezioni in lingua italiana e questo costituì il modo per diffondere ad ampio spettro lo studio dell’economia e delle scienze tra sempre maggiori segmenti di popolazione. Matteo de Augustinis si innamorò subito dell’idea di raggiungere il maggior numero di persone con l’insegnamento.
Tra i suoi “economisti defunti” sono anche citati: Antonio SERRA (calabrese di nascita, ma morto a Napoli intorno al 1625), un’originale figura di genio meridionalista, che ha scritto, mentre era detenuto al carcere della Vicaria, l’introvabile “Breve trattato delle cause che possono far abbondare li regni d’oro e d’argento dove non sono miniere”, con applicazione al Regno di Napoli, esaltando l’importanza del mercato interno per un’economia troppo ripiegata su se stessa; Giovan Donato TURBOLO, (prima metà del 1600) un precursore del mercantilismo, esperto della politica monetaria del Regno di Napoli, da Ischitella; Francesco MENGOTTI, collaboratore di Cesare Beccaria, e ministro della Repubblica Cisalpina, che aveva analizzato l’economia di mercato, osteggiata dal protezionismo borbonico, alla luce del mercantilismo; Pietro VERRI (morto nel 1797), in qualche modo precursore di Adam Smith, perché, nelle Meditazioni sull’Economia Politica (1771), aveva enunciato (per primo in forma matematica) le leggi di domanda e offerta, aveva spiegato il ruolo della moneta quale “merce universale”, aveva appoggiato il libero scambio e sostenuto che l’equilibrio nella bilancia dei pagamenti è assicurato da aggiustamenti del prodotto interno lordo (quantità) e non del tasso di cambio (prezzo). Matteo de Augustinis rimase affascinato dall’idea che la libera concorrenza potesse servire a distribuire correttamente la proprietà privata. In questo si spiega la sua ammirazione, testimoniata nell’opera “Lettere” per Ferdinando GALIANI (educato a Napoli), che, nel 1751, aveva teorizzato nel trattato Della Moneta il valore economico dei beni, passando attraverso una relazione nientemeno che tra quantità e qualità del lavoro, tempi di produzione, utilità e rarità del prodotto. Dalla lettura di Sallustio BANDINI (morto nel 1760), senese e gesuita, esperto in diritto bancario (la cui statua è a Siena, davanti alla sede del Monte dei Paschi), de Augustinis apprezzò l’idea di porre il sistema bancario a servizio di tutte le classi sociali, avvalorata dal libro di Lodovico Ricci, storico ed economista, che aveva pubblicato il libro “Riforma de’ pii Istituti della Città di Modena”.

In questo contesto, bisognava creare, da una parte, una coscienza tra la gente per sradicare l’idea stessa di vassallaggio e, nello stesso tempo, creare e utilizzare sia le nuove risorse che si erano liberate sia nuove frontiere di occupazione e produzione per ideare e favorire le riforme sociali, politiche ed economiche:

era, cioè, necessario coniugare la scienza giuridica e quella economica, nell’ambito della quale era fondamentale anche il ruolo della neonata statistica, che affascinò molto de Augustinis. Leggendo la prefazione, curata dall’autore stesso, del volume “Elementi di economia sociale” pubblicato a Napoli nel 1842, si nota che la dedica è fatta “ai grandi economisti defunti”, citati con rispetto e devozione, nel preambolo del libro. A costoro fa dire: “Noi non morimmo, ma viviamo, tuttavia, colaggiù, siam vivi nelle nostre opere e nella memoria di coloro che tanto amammo”. De Augustinis collega, dunque, la propria opera agli economisti defunti che vivono “colaggiù” e, cioè, nell’impegno dei suoi contemporanei. 
L’elenco che ne fa è lungo, ma ragionandoci sopra, è molto importante per capire da che parte stava.

La lettura della lista ha una sua logica e chiave interpretativa, che, senza mezzi termini, fa capire che Matteo de Augustinis si reputa una delle voci che intende saldare il nuovo al vecchio, assimilando e sviluppando la summa del pensiero della tradizione “colta napoletana”.

Da queste letture deriva a Matteo de Augustinis l’idea di ipotizzare un obbligo di investire nelle casse di risparmio, enunciata nel suo discorso sulla povertà degli Stati. In questo riecheggiano anche le idee di Cesare Beccaria.

 Nell’ambito dei grandi defunti non poteva mancare Gaetano FILANGIERI, brillante esponente dei “nobili liberali” napoletani, quelli dai quali derivò la rivoluzione del ‘99. Altri grandi economisti cari al Nostro furono Melchiorre GIOIA, che, dopo la caduta di Napoleone, aveva prodotto le sue opere maggiori, come il “Nuovo prospetto delle scienze economiche” e, ancor più, “Sulle manifatture nazionali” (1819), la cui eco si sente nell’ultima fatica di Matteo de Augustinis “della Valle del Liri e delle sue industrie”, che sarà, poi, anche la relazione tenuta a Napoli nei giorni della sua morte (1845) in un convegno di economisti italiani. Il libro sulle manifatture di Gioia, peraltro, non era stato gradito al Governo borbonico: il volume fu messo all’indice e Gioia fu arrestato, nel 1820. 
La stessa sorte, non foss’altro che per aver condiviso le tesi di Gioia, fu riservata a Matteo de Augustinis.
Da Carlo Antonio BROGGIA, autore di un Trattato de’ tributi, delle Monete, e del Governo politico della Sanità, de Augustinis trasse la logica del metodo nel gestire le risorse pubbliche in vista del loro uso sociale. Da Gian Domenico Romagnosi, de Augustinis derivò la convinzione che l’intera esperienza politico-sociale del XVIII secolo sia stata compresa, riassunta e condensata attraverso la fiducia nello sviluppo capitalistico e nella libera concorrenza economica, teorizzando che i poteri pubblici devono far rispettare le corrette regole della libertà di concorrenza. Di qui l’assoluta presunta centralità del pensiero di Romagnosi, secondo de Augustinis, nell’ambito del pensiero dell’800.

De Augustinis fu, in effetti, un acuto osservatore della realtà contadina ed industriale (come emerge nel discorso sulla Valle del Liri, di cui si è detto); non gradiva gli eccessi, ma si commuoveva davanti allo sfascio della sanità e della scuola della Napoli dell’epoca (pronunciò un accorato “discorso sulla povertà”). 
Si lanciava in ardite proposte “globali”, pur conoscendo l’Europa solo attraverso i libri: e così commise anche errori, come il considerare l’Inghilterra bersaglio di molti strali, pur apprezzando Adam Smith, o come arrivare a negare l’aumento della miseria nel Regno; ma,

la sua logica, in genere, è sempre quella di trovare forme di mediazione fra tendenze diverse, esaltando le specificità della vita del Sud, del Tavoliere pugliese, del Cilento, del casertano, della Calabria etc., e ritenendo, comunque, che ogni teoria economica possa essere, almeno in parte, buona per la causa di consolidare l’uscita del popolo di Napoli e del Sud da una situazione di abiezione, e di rassegnazione,

vera origine della sua povertà, stimolandone l’azione, il lavoro, il commercio e, dunque, la via della “felicità” nei termini elaborati da Genovesi. De Augustinis manifesta la fiducia che la strada intrapresa dagli economisti “amici” sia indefettibilmente esatta.

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Napoli, in realtà, a quell’epoca, era un centro di prima grandezza in Europa per tradizioni di influenza nei confronti delle istituzioni e del potere politico locale, consolidate e robuste nella cultura del diritto meridionale; ma era anche, diremmo oggi, in qualche modo terribilmente isolata ed autoreferenziale a seguito delle purghe post-1799.

Matteo de Augustinis resta vittima di questa situazione: il destino non gli concesse il tempo di collocarsi nell’Italia unificata.

La sua speculazione scientifica si concentrò sullo studio e l’analisi della realtà del Regno e della sua gente. E, in questo, fu davvero grande: lo stesso famoso VII Congresso degli scienziati italiani, tenutosi a Napoli nel 1845, puntò a dimostrare quanto i giuristi-economisti napoletani fossero assolutamente attenti ad incrementare la “felicità” essenzialmente del proprio popolo, con questo attirandosi ovvie ed autorevoli critiche (in particolare dalla Germania, che vedeva la miseria della gente). 
Il tempo in qualche modo, fu, però, galantuomo, perché alcuni di quelli che si allontanarono da Napoli, come Pasquale Stanislao Mancini, allievo, al pari di Antonio Scialoja, di Matteo de Augustinis, contribuirono con la loro idea di mercato libero ed allargato alla formazione dell’ideologia risorgimentale ed ai fondamenti economici della nuova realtà, mentre, nella seconda metà dell’800, chi era rimasto, senza colpa, nella logica e nella storia della Napoli preunitaria ne fu soffocato dalla decadenza. 
Forse questa conclusione potrebbe portare a capire come un’intelligenza eccezionale, interamente cresciuta e misurata sulla cultura e sulla gente del meridione, ha pagato il suo amore verso il Sud con l’emarginazione, dovuta alla diffidenza della grande tradizione economica continentale, pur potendo dire di aver contribuito seriamente al meglio della tradizione socio-economica italiana post-unitaria.

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LA VIA DELLE MEMORIE di Vincenzo Donzelli – Numero 4 – Aprile 2016

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Le cose accadono e spesso non per caso. Ricordo ancora quell’umido pomeriggio di novembre del 2013 in cui ho ricevuto la telefonata del mio amico geologo Gianluca Minin, Presidente dell’associazione culturale Borbonica Sotterranea. Aveva un’importante proposta da farmi e mi aspettava, la domenica successiva alle nove in punto, alla Galleria Borbonica in prossimità del parcheggio Morelli.

Arrivati in cima all’impalcatura, mi ritrovai in un ambiente un po’ polveroso, dove un gruppo di almeno 30 volontari stava scavando … Restai sbalordita davanti a questi ragazzi molto giovani che lavoravano affiatati, con passione e anche divertendosi. A quel punto, Gianluca mi chiese se ero pronta a conoscere la principale ragione del suo invito; mi sorrise e mi chiese di girarmi: dietro di me vidi una lunga scala con decine di gradini che erano stati appena finiti di pulire dai volontari che erano di fianco a me.

Dal 30 gennaio di quest’anno, il nuovo percorso della Galleria Borbonica è attivo e aperto al pubblico con il suggestivo nome di La Via delle Memorie.

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LA VIA DELLE MEMORIE

 

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Gianluca mi guardava divertito e, di colpo, sorridendo, mi disse: “Sei pronta a scavare?”. Ero attonita, quasi sbalordita. Lui non si scompose e sempre sorridendo mi condusse a fare un giro all’interno della Galleria per presentarmi “alcune persone speciali che avevano una sorpresa per me”.

Quella mattina, restai senza parole di fronte a tanta bellezza; ero impressionata dalle opere realizzate dai Borbone e orgogliosa dei ragazzi che avevano ripulito tutto senza alcun aiuto economico. Gianluca mi guardò e mi disse che mi avrebbe portata dove i lavori di rimozione dei detriti e dei rifiuti erano ancora in atto. Dopo l’apertura della parte iniziale della Galleria, infatti, nell’agosto del 2013, lui e il suo socio avevano iniziato a scavare all’interno di una cisterna del Seicento, alla ricerca del passaggio verso il ricovero bellico di Palazzo Serra di Cassano. Quando arrivammo alla cisterna, Gianluca si fermò di colpo e mi disse che ci trovavamo esattamente al di sotto del Palazzo, in un punto limitrofo allo spazio di mia pertinenza. Lo ascoltavo in silenzio, mentre lui mi spiegava tutto il sistema di cunicoli e attraversamenti. Alla fine della spiegazione mi indica il passaggio che cercavano da tempo e che era emerso dai detriti. Quel passaggio consentiva di entrare in una serie di ambienti di epoche diverse, su più livelli, collegati da bellissime scale. Salimmo queste scale e mentre guardavo l’altissima volta che era sopra di me, Gianluca mi rivelò che tutto ciò che vedevo risultava, in gran parte, dal riempimento di detriti derivanti dai resti degli edifici bombardati nella parte alta di Monte di Dio e versati subito dopo la guerra nei pozzi. Era incredibile e il mio stupore cresceva con i suoi racconti. A un certo punto, mi fece salire su un’impalcatura che conduceva ancora più in alto da dove arrivavano i rumori di persone che parlottavano divertite. Ero impressionata dalla quantità di materiale che era stata spostata.

Non solo la Galleria fu restituita al patrimonio culturale di Napoli, ma la scoperta di diverse cavità non censite ubicate in aree limitrofe alla Galleria, ha permesso di migliorare la conoscenza del sottosuolo dell’area di Monte Echia e di studiarne i movimenti, utili a prevenire possibili smottamenti e altre calamità.

Non avevo idea di cosa volesse propormi, il solo pensiero che mi venne è che potesse chiedermi una collaborazione tra la sua associazione e l’associazione artistico culturale Interno A 14, che, da lì a poche settimane, avrei aperto, in un locale di proprietà della mia famiglia a Palazzo Serra di Cassano. Ero davvero curiosa e quella domenica mattina mi recai all’appuntamento con un pizzico di ansia. Conoscevo quella parte di sottosuolo che partiva dal parcheggio Morelli perché ne avevo sentito molto parlare, ma non l’avevo mai visitata. Quando arrivai al cancello della Galleria Borbonica, Gianluca era lì ad accogliermi. Già all’entrata, rimasi colpita dalla maestosità delle cavità che si ramificavano da quel punto in varie direzioni e poi, entrando, dal susseguirsi di giochi di volte, scavate nel tufo, e dagli archi di grandezze diverse.

“Questo – mi disse Gianluca senza scomporsi – è il nostro piccolo miracolo napoletano”! Era la storia di decine di volontari che ogni domenica mattina andavano a lavorare alla Galleria per rimuovere a mano tutti i materiali che ingombravano gli ambienti.

Durante il tragitto mi raccontò la storia della Galleria e di come lui, e il suo socio – e collega – Enzo de Luzio, avessero trovato tutto quello che, con grande sorpresa, stavo ammirando. Mi parlò dei rilievi statici che faceva nelle cavità del sottosuolo di Napoli che, dopo alcuni mesi, lo avevano condotto all’interno della Galleria Borbonica – che era in uno stato di totale degrado e abbandono, invasa da rifiuti e detriti sversati abusivamente negli ultimi 30 anni. Gianluca, tuttavia, non si scoraggiò. Cominciò subito i rilievi e i lavori di pulizia, coinvolgendo decine di volontari. Dopo cinque anni di interventi pazienti e impegnativi, tutta la città ha potuto ammirare la bellezza di un’opera civile totalmente dimenticata. Si trattava di un piccolo miracolo napoletano, dovuto alla capacità e alla tenacia di geologici, tecnici, studiosi e al lavoro di tanti ragazzi e ragazze della città.

Mi disse che le scale terminavano proprio sotto il pavimento del mio spazio. Rimasi di sasso.

Nel periodo bellico, per consentire il ricovero degli abitanti durante i bombardamenti, qualcuno aveva ampliato la scala già esistente nel Rinascimento che collegava il Palazzo con i suoi ambienti sotterranei. Restai in silenzio, osservando tutto ciò che mi circondava. Guardavo i volti dei ragazzi e lo sguardo di Gianluca e degli altri volontari dell’associazione Borbonica Sotterranea che quella mattina erano lì e che con tanto amore e passione avevano per anni scavato per riportare alla luce una simile bellezza. Gli dissi che ero onorata di poter collaborare con loro e di ripristinare il passaggio chiuso dopo la II guerra mondiale, che univa due realtà importanti come il Palazzo Serra di Cassano e la Galleria Borbonica. Da quel giorno sono passati due anni di intensi lavori di scavo e di prolungate attese per i permessi. Finalmente, il 14 novembre 2015 abbiamo potuto eliminare l’ultimo diaframma che impediva il congiungimento tra il Palazzo e il sottosuolo, restituendo così alla città di Napoli un percorso che, senza alcuna retorica, rappresenta l’orgoglio dell’iniziativa privata e del volontariato.

Da quel giorno, chi proviene dal sottosuolo può seguire il percorso di Palazzo Serra e sbucare con sua grande sorpresa all’interno del mio spazio polivalente dedicato alle arti e alla cultura – chiamato Interno A 14. In questi spazi abbiamo allestito un’area con una mostra permanente fotografica in onore dei volontari della campagna di scavo dell’associazione Borbonica Sotterranea dove si possono ammirare anche delle teche con alcuni degli oggetti ritrovati nel sottosuolo.

 

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CRISI O METAMORFOSI? di Luciano Cimmino – Numero 4 – Aprile 2016

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è stato caratterizzato per gli imprenditori italiani da una invadente, ed a volte molesta, presenza di un mondo finanziario sempre più interessato ad acquisire marchi e attività produttive con partecipazioni di maggioranza o di minoranza.

CRISI O METAMORFOSI?

 

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Fino alla fine degli anni novanta, pur avendo già esteso la mia attività in gran parte del mondo, la mia principale base operativa era a Napoli.

Avevo la sensazione che fossimo rimasti in pochi a credere nella forza del lavoro vero; quello che ti impegna quotidianamente nel tenere un’azienda sui binari corretti di una sana gestione, proiettandola nel futuro con idee e progetti solidi, legati ad idee innovative oltre che ad un solido know-how.

Oggi mi rendo conto come, da un osservatorio sia pure importante come quello di una ex Capitale, l’incrocio tra mondo finanziario ed impresa fosse vissuto in maniera completamente diversa da quanto, poi, avrei potuto verificare avviando nel varesotto il marchio Yamamay. Marchio immediatamente oggetto di attenzione di banche d’affari e di Fondi che, a decine, presidiavano la piazza finanziaria di Milano. 
Con meraviglia constatavo quanto tempo bisognava inventarsi per seguire un’agenda di appuntamenti che niente avevano a che fare con l’attività principale dell’azienda. Per la maggior parte si trattava di incontri finalizzati ad ascoltare progetti e condizioni legati all’ingresso nel capitale di un’attività ancorché giovane e dall’avvenire ancora da definire. 
Educato ad un modo di operare che mi imponeva di concedere un appuntamento a chiunque me lo chiedesse, mi trovai in breve a dover rivedere questa mia convinzione.

In effetti, la brusca frenata non creò da sola tutti i dati negativi che fummo costretti a registrare, ma tolse i veli ad una generale situazione dell’economia italiana, che si sarebbe già dovuta affrontare da tempo,

In quel momento i nostri marchi correvano come puledri in dirittura d’arrivo di un derby, ma questa frase mi colpì come una scudisciata in pieno viso. Cosa stava accadendo e cosa ci riservava in generale il futuro e per i nostri marchi in particolare? La risposta arrivò nei mesi seguenti quando fummo costretti a ridimensionare le nostre vertiginose crescite a due cifre in miglioramenti che comunque si evidenziavano come le migliori performance nei settori in cui operavamo, mentre si registrava la diminuzione sostenuta ed inarrestabile dei consumi in tutti i settori. 
L’Italia stava entrando in un ciclo di recessione che avrebbe minato alla radice convinzioni che ormai sembravano inamovibili: PIL sempre con un segno + davanti, occupazione stabile, voglia di consumare anche nei canali innovativi che si erano presentati più di recente.

Ed ancora: è il caso di parlare di crisi o dobbiamo prendere atto che la nostra società civile è rimasta coinvolta in un processo di metamorfosi che ha trasformato completamente modi di vivere, aspettative, speranze per il futuro? Non sono considerazioni di poco conto, perché in ballo ci sono tutte le nuove generazioni che hanno visto disintegrarsi, in pochi anni, le convinzioni che avevano supportato le generazioni precedenti: il posto fisso, la sicurezza di una pensione alla giusta età, un ragionevole potere di acquisto. 
A tutto questo dobbiamo aggiungere il fatto che, come sempre, quando le crisi economiche sembrano irrisolvibili, si sono accesi conflitti locali di grande importanza e sempre più diffusi, fino a far dire a Papa Francesco: “Ė in atto una terza guerra mondiale a pezzi”. Un’affermazione drammatica, ma poco lontana dalla realtà e che sembra possa coinvolgerci ulteriormente ed in maniera più diretta, in tempi molto brevi. 
Ci stiamo abituando anche a questo. Per fortuna ci sono convinzioni che non sono ancora venute meno:

Ora però bisogna chiedersi: come siamo usciti da questo percorso negativo durato più di un lustro? In quanti anni possiamo recuperare tutto il PIL che abbiamo lasciato per strada?

c’è ancora la voglia di confrontarsi con la concorrenza mondiale sul piano produttivo e per la penetrazione in mercati che potrebbero rappresentare una nuova frontiera per lo sviluppo.

In definitiva contrasti forti, molto forti, che bisogna saper gestire e pilotare con mano ferma. Abbiamo il dovere di mettere le nuove generazioni in condizioni tali da poter affrontare i prossimi decenni con la preparazione e la carica indispensabili per non far arretrare il nostro Paese nella grigia zona delle Nazioni che poco possono incidere sui futuri destini del mondo.

Fino al 2007 sembrava impossibile sottrarsi ad un gioco che mi ricordava quello dello scambio di figurine che praticavo da bambino: io ti do qualcosa e tu mi dai qualcos’altro in cambio; oppure compro il tuo mazzetto di figurine al prezzo che, in apparenza, decideremo insieme. 
In sintesi, i discorsi sul mondo finanziario sembravano prevalere in larga misura su quelli legati all’economia reale che per me è sempre quella della produzione e distribuzione dei beni. 
Purtroppo, l’Italia era solo un’appendice di quanto si stava verificando, in misura molto maggiore, nelle principali piazze finanziarie del mondo. Inevitabilmente, dopo alcuni anni, la bolla è scoppiata e dal 2008 ci siamo trovati in una situazione che ha visto, in misura minore o maggiore, e con esiti assolutamente diversi per ogni caso, coinvolte tutte le aziende italiane. 
Ho un ricordo preciso del momento in cui fui costretto ad aprire gli occhi su quanto stava accadendo.

Un pomeriggio, doveva essere maggio del 2008, ero davanti al distributore automatico di caffè in azienda ed arrivò una persona per la ricarica. Mi sembrò naturale domandargli come andavano le cose nel suo settore. “Lasci correre, mi rispose, in sei mesi ho perso il 75% del mio fatturato!”

con sostanziali riforme a cui però nessun Governo aveva inteso mettere mano. 
Scivolando sulla pericolosissima china di un debito pubblico inarrestabile nella sua corsa verso record negativi, ci trovammo così alla vigilia di catastrofici eventi che in poche settimane (attenzione poche settimane, non pochi mesi) avrebbero portato l’Italia al default
Di fronte ad una realtà, che non esito a definire drammatica, per fortuna ci fu un momento in cui le forze politiche si compattarono intorno al nome del professor Monti per evitare il naufragio. Agli italiani furono chiesti grandi sacrifici, soprattutto sul fronte delle pensioni, il cui nodo ancora oggi appare irrisolto, ma fu così evitato il peggio. 
A distanza di pochi anni, oggi sembra che la caduta si sia arrestata, mentre appare avviato un nuovo processo di crescita sia pure segnato da risibili decimali.

 

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“DON’T SELL MARIO D’URSO SHORT” di Francesco Serra di Cassano – Numero 5 – Luglio 2016

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ha omaggiato con una grande mostra Mario d’Urso, il napoletano più conosciuto in America, il finanziere che ha stabilito il record di tre capodanni in tre continenti diversi e che per decenni ha orientato fondi d’investimento, portando milioni di dollari in Italia.

Uscito da Lehman con un cospicuo patrimonio, dopo pochi mesi (inizio 1984), entra a far parte della Kissinger Associates, diretta personalmente dall’ex segretario di Stato Usa. Quando lascia Lehman, Mario d’Urso è all’apice della sua carriera nel mondo della finanza e delle relazioni internazionali. In un profilo tracciato un anno prima dal giornalista Marco Mese si dice: “Quando giovanissimo se ne andò in America non aveva in mente Hollywood. Aspirava ad un mondo più esclusivo e arduo da conquistare: voleva arrivare a Wall Street, la leggendaria via newyorchese delle banche e degli affari. E oggi, al suo ufficio al 44° piano di un grattacielo, domina questa strada che, ormai dovunque, significa cuore della finanza. Mario d’Urso, 42 anni, proveniente da una famiglia di avvocati napoletani, è uno degli italiani di maggior successo all’estero. Come socio della Lehman Brothers Kuhn Loeb si è collocato ai vertici di una delle banche d’affari più importanti d’America. Il compito precipuo di d’Urso è ampliare e consolidare le ramificazioni della banca verso i paesi stranieri. Vola perciò da un capo all’altro del mondo per intrecciare relazioni d’affari. “In questo momento – spiega – devo occuparmi dell’America Latina e del Sud est asiatico, aree curate in precedenza da due partner che sono recentemente usciti dalla banca”. Mario d’Urso non è un banchiere di tipo italiano, tutto casa e ufficio: vive tra le sue residenze di New York, Londra e Roma, ama i night alla moda e cura il suo fisico d’atleta con molto sport: attrezzi, tennis, sci… ma le radici sono sempre le radici.

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“DON’T SELL MARIO D’URSO SHORT”

 

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Dolce vita e buoni affari. Un mix che per Mario, da subito, funziona perfettamente. Cerimonie e incontri serviranno, poi, al banchiere d’Urso per unire aziende, capitali, persone attorno a grandi progetti e alle grandi cessioni internazionali.

Mario d’Urso nasce a Napoli l’8 aprile 1940, da Alessandro d’Urso e Clotilde Serra di Cassano. È l’upper class partenopea, ricca, colta e cosmopolita, con diffuse parentele anglosassoni. Tra gli antenati due martiri della rivoluzione napoletana del 1799 e un firmatario della Dichiarazione d’indipendenza d’America.
Arrivato a Roma negli anni della guerra, Mario, primo di tre fratelli, si ambienta perfettamente nella città. Il padre, internazionalista di chiara fama, gira il mondo e frequenta, per lavoro e per amicizia, Giorgio Cini, Vittorio Valletta, gli armatori d’Amico, la potentissima ambasciatrice Usa Clare Boothe Luce.
Mario studia al Collegio San Gabriele, frequenta le ragazze Caracciolo, destinate a sposare gli Agnelli, ma anche donne borghesi e divertenti come Marina Punturieri, oggi Ripa di Meana, ragazzi brillanti come i Pratesi. Alla fine dei Cinquanta, i giovani-bene si divertivano a fare le comparse. E così, un occhio attento può ritrovare Mario d’Urso in varie pellicole di quegli anni. In quel periodo diceva di essere innamorato di Lorella De Luca, che andava a prendere a casa con una scala per farla uscire di nascosto, ma la sua principale compagna di uscite era la “vivacissima Marina”.

All’estero i rapporti con lo scià di Persia e il presidente delle Filippine Marcos mi permisero di combinare affari straordinari. Passavo, inoltre, le mie vacanze sia d’estate che d’inverno con l’avvocato Agnelli, Kissinger, Rockfeller, il presidente Kennedy e Onassis”.

La sua squadra alla Shearson Lehman, per molti anni, ha rappresentato il più ragguardevole gruppo di esperti in relazioni Italia – Usa: da Antonio Carosi a Ruggero Magnoni, da Andrea Farace a Lorenzo Ward, dai fratelli Gilardin a Roberto Magnifico ed Enrico Bombieri. Come direttore esecutivo dell’équipe, Mario d’Urso, conosciuto tra i finanzieri come Mario di Wall Street, ha assistito all’accumularsi tra il 1970 e il 1984 di più di cinque miliardi di dollari in valuta per le corporazioni appartenenti al governo italiano.
Mario lascerà la sua partnership in Lehman nel 1983, pur restando per alcuni anni consulente della società come advisor director.

Alla festa d’addio, che si tiene a Manhattan nel settembre 1983, viene proiettata una scritta luminosa intermittente che dice: “Don’t sell Mario d’Urso short”, ovvero “Non vendete Mario d’Urso al ribasso”.

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Dopo la maturità classica, studia giurisprudenza e si laurea a Palermo. In verità, si iscrisse contemporaneamente a due Università, una in Italia e una negli Usa. In quella di Georgetown a Washington, prende un master in Comparative Law nel 1965. Appena laureato entra nello studio di un prestigioso avvocato, Oscar Cox, legale del governo italiano in America. “Mi devo considerare molto fortunato – ha dichiarato in una delle tante interviste degli anni ’80 – perché non ho avuto molti ostacoli. Sono stato tra i primi italiani, negli anni Sessanta, ad entrare in contatto con un’importante investment bank come la Kuhn Loeb che nel 1977 si è fusa con la Lehman Brother.

Sin dal mio primo affare di prestigio, l’acquisto della Maserati da parte della Citroën, ho fatto carriera nella stessa banca. Nel 1967, a 27 anni, ero già partner e uno dei vari amministratori delegati della Kuhn Loeb

e questo fu molto importante per aumentare, a mano a mano, la partecipazione nell’utile della banca. L’Italia è stato il nostro cliente più importante. Dal 1968/69, periodo in cui è incominciato l’indebitamento italiano con l’estero, alla fine degli anni Settanta, abbiamo concluso, con il settore pubblico italiano, oltre tre miliardi di dollari di prestiti”.
Mario d’Urso, sin dall’inizio della sua carriera a Wall Street, imposta un modello nuovo di contatto con i clienti: “I banchieri di solito stanno in ufficio dalle 8 alle 18; io, invece, ho sempre voluto mescolare il lavoro con il privato e, così, sono diventato amico di capitani d’industria, capi di stato e così via. Per fare qualche nome…in Italia Guido Carli e Tom Carini.

Ma non è stata solo la finanza a caratterizzare la vita sociale e l’attività di relazioni di Mario d’Urso. Sin da giovane ebbe il pallino della politica.

“Mi porta fortuna”, assicura. Da tipico self-made man, a 16 anni già concludeva affari. “Ero andato in vacanza a Londra – racconta – e mi iscrissi a un corso presso una compagnia di assicurazioni marittime della City. Finì che i titolari della società mi affidarono la loro rappresentanza in Italia”.
E’ Capital a certificare il suo successo. Gli dedica la copertina del 7 luglio 1981 con un’intervista che riassume le grandi operazioni della sua attività in Lehman. “Quali operazioni considera le più importanti e qualificanti della sua carriera? R. Dal punto di vista della soddisfazione e dell’impegno, l’affare Citroën-Maserati è stato forse il più interessante. Mentre, in termini di dimensioni, i più importanti sono stati, nel 1973, il prestito da un miliardo di dollari al Crediop e quello di cui si scrisse molto di 500 milioni di dollari per Venezia. Per quest’ultimo prestito eravamo in tre a concorrere: la Lehman Brothers, la Banca Commerciale e la Khun Loeb. Alla fine Mattioli ci mise d’accordo, e le tre istituzioni gestirono insieme il prestito. L’idea di Mattioli fu profetica. Cinque anni dopo noi di Khun Loeb ci siamo fusi con la Lehman Brothers, e l’unico nostro azionista istituzionale, al di fuori di noi partner, è la banca Commerciale. Un altro bell’affare della mia banca concluso in Italia è la partecipazione della St.Gobain nella Olivetti. Qui abbiamo lavorato in parallelo con Guido Vitale, che da tempo seguiva le vicenda della società d’Ivrea e che nel 1973 mi aveva presentato Carlo De Benedetti. L’idea del matrimonio con la St.Gobain venne al mio collega Istel, lo stesso con cui avevo concluso l’affare Maserati quindici anni prima”.

Nell’animo di d’Urso cova un residuo di sana scaramanzia napoletana. Così, quando deve firmare un contratto molto importante tira fuori dall’armadio un vecchio abito del nonno e lo indossa.

Nel 1957, appena diciassettenne, fu uno dei leader del movimento federalista e tra i promotori, nel 1961, delle prime elezioni a suffragio universale per gli Stati Uniti d’Europa. Il capo del movimento, all’epoca, era il grande europeista Altiero Spinelli. Racconta lui stesso: “Tentai di forzare le frontiere di Francia e Germania con pullman di giovani, per protesta contro le formalità doganali. Spinelli si spaventò, ero troppo rivoluzionario”. 
Sarà però solo nel 1983 che Mario d’Urso, finita l’esperienza di amministratore in Lehman, proverà la grande scalata al Parlamento italiano. Decide di candidarsi alla Camera con la DC, con questo slogan: “Dopo molti anni di vita all’estero che mi ha permesso di acquisire un’importante professionalità nel campo della finanza internazionale, ho deciso di mettere questa mia esperienza al servizio dell’Italia. Sono convinto che se ce la mettiamo tutta, l’Italia può essere campione del mondo in tutto”. 
Il tentativo non riesce, ma ci sono brogli e Mario d’Urso risulta tra i primi dei non eletti con un grande numero di voti di preferenza personali (quasi 40 mila). Ci riproverà con la Dc ancora due volte nel 1989 (a Roma) e nel 1992 (nel collegio senatoriale di Milano 1), prima di essere eletto senatore con l’Ulivo nel 1996, nel collegio di Castellammare di Stabia/Sorrento. 
Nel 1995, intanto, Dini aveva ottenuto l’incarico di formare il governo tecnico per sostituire l’esecutivo a guida Berlusconi, travolto dall’avviso di garanzia durante il Summit internazionale a Napoli. Dini chiama Mario d’Urso a ricoprire l’incarico di Sottosegretario al Commercio con l’Estero a fianco del Ministro Alberto Clò. Il governo resterà in carica un anno e, poi, le urne sanciranno la vittoria di Romano Prodi che darà vita al primo esecutivo dell’Ulivo. 
Nella carriera di Mario d’Urso la politica ricopre una parentesi significativa ma di breve durata. Al termine della Legislatura, nel 2001, non viene ricandidato. È lui stesso a raccontare che Dini gli ha preferito un altro candidato e soprattutto che logiche interne alla coalizione lo hanno di fatto emarginato. Le elezioni le vincerà Berlusconi e il 15 luglio Carlo Rossella sul Foglio chioserà in questo modo: “Mario d’Urso consiglia champagne Philipponnat grand cru a chi in queste ore vuole bere per dimenticare”.

 

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SEGNALI POSITIVI di Giorgio Salvatori – Numero 5 – Luglio 2016

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Questa volta Myrrha mette in vetrina tre notizie. Le prime due di immediato impatto positivo, la terza di segno opposto, ma con un corollario costruttivo. Cominciamo dalle prime due. A “Matera fioriscono gli orti e i giardini condominiali” hanno titolato, nei giorni scorsi, alcuni giornali locali. Di che cosa si tratta? 

 

IL SUD CHE VALE

 

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Per iniziativa di un gruppo di paesaggisti, ma anche di comuni cittadini, nella città lucana si sta procedendo alla mappatura degli spazi verdi “vuoti” e dei giardini degradati, pubblici e privati. Tutti possono partecipare e ognuno è invitato ad entrare nel circuito virtuoso, collaborando, in prima persona, al risanamento ambientale.

A giudicare dai primi segnali la risposta appare corale e prende vigore giorno dopo giorno. L’obiettivo è quello di dotare la città, che, come molti sanno, sarà Capitale europea della cultura nel 2019, di un fiorente patrimonio di orti biologici e di giardini cogestiti dall’amministrazione pubblica e da tutti i cittadini interessati al progetto. Un obbiettivo socialmente rilevante ed un valido esempio per altre città italiane, Capitale compresa, che si dibattono ogni giorno con problemi di degrado, di sporcizia, di rifiuti pericolosi (si pensi soltanto alle micidiali siringhe usate dai tossicodipendenti e poi abbandonate nei prati e nella aiuole). Del progetto “giardini condominiali a Matera” si è occupata anche la stampa nazionale e il tg2, in particolare, ha realizzato sull’argomento un servizio finalmente edificante per la piccola Basilicata e per l’intero Meridione, spesso condannato a fare solo da sfondo privilegiato per le desolanti imprese delle varie mafie. 
Saliamo più a nord. Praiano, sulla costiera amalfitana. È un paese aggrappato sui fianchi della montagna a picco sul mare che “molti dovrebbero imitare” ha scritto sul Corriere della Sera, qualche giorno fa, Gian Antonio Stella. Antica caratteristica di Praiano: una serie di minuscole cappelle votive, in ceramica, dislocate lungo le strade del paese. Alcuni cittadini, però, lamentavano da tempo lo stato di incuria e di abbandono in cui versavano, da anni, le piccole cappelle. Schiacciata dalla vicina presenza di perle come Amalfi, Positano, Ravello – osserva ancora Stella – la comunità locale, poco più di duemila abitanti, ha deciso di passare dalle lamentazioni ai fatti. Come realizzare qualcosa di distintivo, di bello, di unico, ma nel segno della continuità e delle tradizioni locali? Detto e fatto. In poche settimane sono stati raccolti 20mila euro, è stata creata una onlus ad hoc, chiesto ed ottenuto un contributo di 250mila euro di fondi europei e messe in rete tutte le risorse, in modo trasparente e certificate da un notaio.

Il progetto si chiama Naturarte. Dopo aver provveduto al restauro delle antiche cappelle, grazie all’opera dei migliori artisti della zona, i vecchi percorsi del paese sono stati arricchiti di altra “arte diffusa”:

Meno eroi, maggiore richiesta di trasparenza, di legalità, di partecipazione. Segnali di risveglio, in un’unica direzione: la rinascita. Questo, per Myrrha, è il Sud che vale, che reclama il cambiamento e che può farcela.

nuove edicole votive e pareti affrescate che accompagnano i turisti lungo otto itinerari che si snodano tra stradine, viottoli, scale che salgono, scendono, risalgono e avvolgono in un abbraccio reticolare Praiano. Insomma, conclude Stella, “un museo a cielo aperto della ceramica”. Un bel segnale in controtendenza, aggiungiamo noi, per un Sud per nulla rassegnato e che non vuole restare prigioniero di stereotipi e pregiudizi. 
Ed eccoci alla terza notizia. I telegiornali di qualche settimana fa hanno tutti aperto con la cronaca dell’agguato teso al presidente del Parco dei Nebrodi, in Sicilia. Agguato conclusosi, per fortuna, senza danni per la vittima designata, Giuseppe Antoci, “colpevole” di aver finalmente ridotto all’impotenza la cosiddetta mafia dei pascoli. Un’organizzazione criminale che, confidando nella paura e nel silenzio di chi avrebbe dovuto vigilare, aveva, fino a ieri, illegalmente lucrato sui generosi contributi europei per l’allevamento e la pastorizia. Fin qui nulla di nuovo, dirà qualcuno. Invece, oltre l’amara cronaca dell’attentato, c’è di più e questo di più ci appare come un’appendice dal sapore meno agro. Non soltanto perché l’agguato è andato a vuoto, ma anche per la reazione provocata dall’attentato mafioso. Intervistato a caldo, per nulla intimorito, Antoci ha dichiarato: “L’agguato dimostra che sono nel giusto, non mi fermeranno”. Poi ha aggiunto che andrà avanti nell’opera di bonifica, perché le assegnazioni legali dei pascoli e dei contributi pubblici hanno stroncato, di colpo, decenni di soprusi e di frodi. “Non si torna indietro”, gli hanno fatto eco i sindaci dei comuni del Parco. Stesso proposito gridato, a gran voce, da cinquemila persone che, il giorno dopo l’attentato, hanno manifestato solidarietà al presidente del parco. Rivolgendosi a loro, Antoci ha affermato: “Grazie per il vostro caloroso sostegno, questa terra non ha bisogno di eroi, ma di tanta gente per bene, come voi”.
Si dirà che, comunque, vivere e lavorare al Sud, per la frequenza dei reati, resta un’impresa più ardua che nelle regioni del Nord. Torniamo allora a ricordare che nel 2014, secondo gli ultimi dati diffusi dal Ministero dell’Interno, le città e le province di Bari, Palermo, Napoli si sono collocate in coda, dopo Milano, Bologna, Torino, Roma, Firenze, Genova e Venezia nella triste classifica di intensità di crimini denunciati all’autorità giudiziaria e, ancora, che tra il numero di reati ogni centomila abitanti registrati a Milano nel 2014 (8.088) e quelli registrati a Palermo nello stesso anno e per lo stesso numero di residenti (4.365 ) c’è una distanza, a dir poco, sorprendente.

 

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SALENTO LE PIETREFITTE di Giusto Puri Purini – Numero 5 – Luglio 2016

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Mediterraneo

“La vita è dono degli immortali, dono della filosofia, è vivere bene. Fu la filosofia ad erigere tutti quei torreggianti casamenti, tanto rischiosi per chi vi dimora? Credimi, felice età fu quella, prima dei giorni degli architetti, prima dei giorni dei costruttori”.

Negli ultimi anni, queste strutture sono diventate prelibate ed accattivanti per tanti compratori venuti da fuori che, nei limiti delle regole restrittive che le governano, le hanno trasformate ed adattate, creando comunque un nuovo mercato edilizio, ad uso soprattutto dei mesi estivi.
Nella nostra operazione, abbiamo, con l’architetto Nicolardi, cercato di bypassare questo passaggio del “dolore”, rendendo la masseria sostenibile e fruibile oggi, con l’uso di materiali biocompatibili, con tecniche innovative per l’approvvigionamento energetico, come l’uso di infissi a taglio termico in legno, di serpentine riscaldanti sotto il coccio pesto alimentate da una pompa di calore, mantenendo gli interni con la loro configurazione, fatta di volte a botte, nicchie, sporgenze, camini inseriti nello spessore delle pareti.
Il tentativo, insomma, è stato quello di mostrare anche alla popolazione locale, alle autorità che legiferano, alle Belle Arti che pontificano, come arrivare, attraverso un restauro conservativo, a migliorare la già vasta (intellighenzia) di queste strutture, in un passaggio ambizioso che dal “dolore” portasse al “piacere”, in questa miriade di Genius Loci presenti nel territorio”, affondati tra gli Ulivi sgargianti e maestosi…i terreni coltivati e gli orti..grondanti di prodotti…e di bontà.

OndeFineP

SALENTO. 
LE PIETREFITTE

 

Giusto-Puro-Purini

Così scriveva Seneca in una lettera all’amico Lucilio (frase tratta da “Le Meraviglia dell’Architettura Spontanea” di Bernard Rudofsky). Evidentemente, con acuto senso del paradosso, Seneca scriveva riferendosi a quella fase pre-storica in cui le esigenze primarie e l’uso di materiali locali (pietra) spingevano l’uomo, dopo una lunga fase nomadica, a stabilizzare la propria esistenza, diventando “costruttori” casuali, espandendo le loro già acquisite capacità artigianali e manifatturiere. Era una casualità relativa, perché, invece di costruire siti legati ad una logica economica espansionista, seguivano le antiche leggi della natura, legate ai cicli delle stagioni, dalla semina ai raccolti, all’accumulo di riserve alimentari per le stagioni difficili ed improduttive.

L’uso della pietra, quasi sempre locale, trovava una simbiosi con il fluire di un arcaico rapporto “religioso-emozionale” rappresentato dai simboli astrali, appartenenti al mito, e le raffigurazioni geometriche in terra,

quali Menhir, Dolmen, cripte votive con gigantesche coperture in lastroni di pietra e Tombe dei Giganti, con preziose geometrie ricurve e piccoli archi aperti, ritagliati dove le pietre toccavano terra (pietrefitte), ad evidenziare il rapporto con il cielo dell’anima del defunto (il KA-BA ). L’Area del Mediterraneo era un gigantesco crogiolo di civiltà diverse che interagivano tra di loro come i semi delle piante trasportate dai venti. E così in Sardegna, nella Tomba dei Giganti, appare evidente l’influenza dell’antico Egitto (KA-BA), così nelle antiche mura megalitiche dei Messapi di Puglia – antichi abitanti del Salento – con i tagli delle pietre puliti e precisi, ritroviamo influenze forse pre-celtiche (Stonehenge), che dalle aree del Maelstroem, il grande gorgo nel Nord…..giù, giù…attraverso Corsica e Sardegna, scivolavano nel Mediterraneo. Cosicché, da un lontano miscuglio Mito-Storia, il racconto delle pietre, come interfaccia nel dialogo cielo-terra, si compiva.
Qui, in Salento, i prodi Messapi dall’area di Manduria, nel nord del Salento, fin giù a Leuca, occuparono stabilmente e civilizzarono quasi tutte quelle terre, così in Sardegna e Corsica le culture nuragiche progredivano, fino alla costruzione di grandi insediamenti urbani, come sa Barumini, di inni architettonici dedicati alle preziose acque, le Fonti Sacre. Un’unica visione cosmica si affacciava nel Mediterraneo. In quella Valle Messapica, a ridosso di Leuca, il detto di Seneca, con cui inizia questo articolo, diventava “Fatto”.

I Contadini-Guerrieri, su quel letto di pietra che è il Salento, realizzarono quell’architettura “pre–storica” caduta quasi nel dimenticatoio, con somma creatività, immaginazione, capacità geometriche e riferimenti geografici, assi e rapporti cosmici, in uno splendido Feng-Shui messapico.
Furono architetti eccellenti e le loro capacità progettuali ed artistiche non furono disattese dai loro eredi, fino a quasi la soglia dei giorni nostri.

Un Miracolo? Usando ancora i materiali dei loro terreni, stratificazioni di pietre che da morbide tufacee diventano dure – il capraio – realizzarono, con tecniche antiche, fascinose costruzioni (Pagliare), masserie contadine, depositi per i raccolti, complessi ed articolati muri di cinta con massi giganteschi, tagliati e levigati, in un continuo variare di tipologie, forni, muri a secco dovunque, ed osservando le architetture dei proprietari terrieri si lanciarono nelle volte a stella, a botte, architravi sagomate, archi in pietra e colonne.
In una di queste masserie contadine del basso Salento ora vi abito io con mia moglie Tamara, da circa un anno, liberatici parzialmente di quell’ingombrante peso tra la “La Grande Bellezza”… e “La Totale Inefficienza”… che oggi rappresenta Roma…(vi sono nato…è da sempre nella mia mobile vita di architetto, la base di lancio per tante avventure in molteplici direzioni).
Con l’aiuto di Vito de Giovanni (che ci ha trovato la Masseria), dell’Impresa di Stefano Russo, erede delle “conoscenze” strutturali, e soprattutto dell’architetto Luigi Nicolardi, per almeno 10 anni sindaco di Alessano, abbiamo realizzato un restauro conservativo di una di queste architetture contadine, dove le pietre stesse raccontano, una ad una, la difficoltà degli scavi, della posa in opera, della costruzione delle volte, del coccio pesto a terra e così via, testimoniando in modo didascalico e “rosselliniano”, se posso dire, il progredire del loro tempo, dei loro usi e costumi.

Erano tempi duri ed i figli dei primi costruttori e gli attuali nipoti e pronipoti le hanno chiamate le case del “dolore”.
La vita ed i raccolti erano duri e faticosi.

Correlato:

Luigi Nicolardi

I “LUOGHI DELL’IDENTITÀ SALENTINA”

 

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