JOE PETROSINO di Luigi Vignali e Gaia Bay Rossi numero 29 agosto 2023 Editore Maurizio Conte

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JOE PETROSINO

 

operai, agricoltori, sarti, meccanici, ma anche avvocati e medici, e artisti di ogni genere. Soprattutto, gente povera che cercava fortuna oltreoceano. 

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Fra loro, purtroppo anche criminali, che a New York e in altre grandi città americane fondarono un’organizzazione di stampo mafioso chiamata la Mano Nera. Praticava sistematicamente l’estorsione all’interno delle stesse comunità italiane, con ramificazioni anche in Sicilia. Sin dai primi del Novecento le sue lettere, contenenti anche minacce di morte, erano firmate con due spade incrociate sotto a una mano nera.

 

L’organizzazione aveva ovviamente legami con la mafia italiana, ma anche 

con la ‘ndrangheta calabrese e americana, con la camorra napoletana.

 

Ma al tempo stesso intratteneva legami stretti con la Tammany Hall, potente macchina politica dei democratici di New York, che aveva in mano tutte le leve del potere (dal municipio alla polizia) e era disposta a tutto pur di continuare ad ottenere voti ed esercitare un controllo politico sulla città.

In questo clima malavitoso si trovò a vivere e lavorare Joe Petrosino, 


originario di Padula (Salerno) che, nel 1873 s’imbarcò giovanissimo con il padre Prospero, di professione sarto, la madre e i suoi due fratelli, con destinazione New York. Andarono a vivere a Little Italy, dove ben presto Joe, per aiutare la famiglia, si diede da fare con vari lavoretti, in particolare “strillone” di strada e lustrascarpe. Nel 1877 ottenne la cittadinanza statunitense e, pur sognando di diventare un poliziotto, iniziò a lavorare come spazzino comunale (allora i netturbini erano alla dipendenza del Dipartimento di Polizia). Era talmente in gamba che dopo un anno era già diventato capo squadra. Strinse amicizia con molti i poliziotti e col tempo divenne un prezioso informatore. Nel 1883, avendo contribuito proprio lui a sventare un colpo della Mano Nera, fu finalmente ammesso nella polizia – con distintivo n. 285.

Di statura piccoletto (circa un metro e sessanta) in mezzo ai “giganti” irlandesi – maggioritari nella Polizia newyorkese – non gli difettavano temperamento e scrupolosità, così come intelligenza e grinta. Oltretutto parlava perfettamente sia l’inglese che l’italiano. Presto si seppe che “non faceva passare nulla sotto gamba”: quando era di servizio a Little Italy, per le strade girava il passaparola sul pattugliamento di Petrosino…

 

Il suo lavoro preciso e rigoroso fu notato da Theodore Roosevelt, allora assessore 

alla polizia, (nel 1901 diventerà poi presidente degli Stati Uniti), che appoggiò Petrosino e nel 1895 lo fece promuovere sergente, destinandolo alla conduzione 

delle indagini. I gangster di Little Italy si trovavano ora di fronte a un profondo conoscitore della loro stessa lingua e dei loro metodi.


Al di là della diligenza nel lavoro, Petrosino provava comunque un rancore molto forte per i criminali che distruggevano il capitale di apprezzamento e rispetto che gli italiani avevano costruito così faticosamente. In quegli anni effettuò centinaia di arresti, sventò attentati e sganciò i commercianti dalla morsa delle estorsioni. Petrosino era perspicace, deciso, veloce e irremovibile, a volte anche rude con i criminali. In poco tempo era diventato il simbolo della battaglia alla criminalità, un mito del suo tempo. Le sue tecniche di lavoro erano assolutamente innovative: travestimenti, imboscate, assalti, disinnesco di ordigni. Nel frattempo Joe si sposò con Adelina Saulino, dalla quale ebbe una bambina, chiamata Adelina come la mamma.

 

Nel 1905 divenne tenente e fu incaricato dell’organizzazione 

di una squadra di poliziotti italiani,

l’Italian Branch (poi chiamata Italian Squad), composta da 5 agenti tra cui il successore di Petrosino, Michael Fiaschetti (nativo di Morolo, Frosinone), uno sviluppo questo che diede forte impulso alla lotta alla Mano Nera. 

Le minacce a scopo di estorsione arrivarono addirittura al grande tenore Enrico Caruso, che non cedette al ricatto e si affidò proprio a Petrosino, il quale riuscì a far arrestare due dei tre delinquenti e, grazie alle indagini, qualche anno dopo anche due importanti capi della mafia newyorkese

 

La lotta di Petrosino contro la Mano Nera ebbe u ulteriore salto di qualità nel 1906, quando Theodore Alfred Bingham divenne il capo 

del dipartimento di polizia di New York.

 

Bingham potenziò l’Italian Squad e le affiancò un’altra squadra di Brooklyn. Petrosino e Bingham dichiararono guerra alla Tammany Hall con un’incisiva azione repressiva che prese ai fianchi le due basi di controllo: l’egemonia sulla polizia newyorkese e la complicità dei malviventi italiani, soprattutto della mafia siciliana. A questo punto, Petrosino e Bingham divennero obiettivi cruciali. 

L’attentato a Petrosino fu costruito “a ragnatela”, con infiltrazioni ovunque, mentre seguiva una pista che lo avrebbe portato in Italia, per infliggere un grave colpo alla Mano Nera. L’operazione doveva essere ovviamente segreta, ma i criminali contavano sulla complicità di persone influenti, capaci di ottenere informazioni certe sulla missione di Petrosino. Persone potenti strettamente collegate con la Tammany.

La mattina del 9 febbraio 1909 Petrosino si imbarcò – apparentemente 

in gran segreto – dal porto di New York a bordo del piroscafo Duca di Genova. 

Ma nello stesso momento il New York Herald già usciva col titolo: 

“Petrosino in viaggio per Napoli e poi per Palermo per andare 

a debellare la Mano Nera e la Mafia”.


Addirittura, arrivato a Napoli, trovò una sorta di comitato di accoglienza fatto da giornalisti e poliziotti. La notizia del suo arrivo era arrivata anche a Palermo, ma Petrosino, pur consapevole dei pericoli, confidava che la criminalità non avesse il coraggio di eliminare un poliziotto. 

La sera del venerdì 12 marzo 1909, proprio a Palermo due sconosciuti gli chiesero di parlare fuori dall’albergo. A piazza della Marina, alle 20.45 tre colpi di pistola lo colpirono in rapida successione e un quarto subito dopo alla testa.

 

Il console statunitense a Palermo telegrafò al suo governo: 

“Petrosino ucciso a revolverate nel centro della città questa sera. 

Gli assassini sconosciuti. Muore un martire”.

 

Si tennero due funerali, uno in Italia e uno a New York, dove parteciparono circa 250.000 persone, un numero mai raggiunto fino ad allora per delle esequie.

 

Il feretro fu accompagnato da Theodore Roosevelt,
ormai Presidente degli Stati Uniti.


Gli indagati furono tutti prosciolti, anche perché la polizia statunitense, la cui collaborazione era stata più volte richiesta dalla procura di Palermo, rispose con un’indifferenza ai limiti del boicottaggio. È possibile che la Tammany Hall, con i suoi agganci importanti nella magistratura, volesse depistare le indagini; di certo essa aveva avuto la sua parte prima nel lasciar trapelare il viaggio di Petrosino, poi nell’evitare che notizie compromettenti giungessero agli inquirenti palermitani.   

 

Solo nel 2014, nell’ambito di una intercettazione al gangster Domenico Palazzolo, gli investigatori vennero a conoscenza del ruolo di suo zio paterno, Paolo Palazzolo – già prosciolto per l’omicidio di Petrosino: “Ha fatto lui l’omicidio del primo poliziotto ucciso a Palermo. Lo ha ammazzato lui Joe Petrosino, per conto di Cascio Ferro” (boss mafioso italiano legato alla Mano Nera). Chi e cosa ci fosse dietro a questi due personaggi non è mai stato definitivamente chiarito.

Di certo idealmente, circa vent’anni dopo, Joe Petrosino fu vendicato da Fiorello La Guardia, altro grande, straordinario italiano d’America,

 

sindaco di New York, sotto il cui impulso venne affibbiato un duro colpo alla malavita e alla Tammany Hall.

 

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 Photo: New York City Police Department, Public domain, via Wikimedia Commons

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UN INCONTRO DI GUSTO – PARTE SECONDA di Vincenzo Cardellicchio numero 27 gennaio febbraio 2023 Ed. Maurizio Conte

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UN INCONTRO di gusto

 

 Parte seconda – Parte prima

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Con la pubblicazione di questo suo ultimo e davvero prestigioso lavoro, 

dal titolo I Sanniti – Una storia negata”, il prof. De Benedittis ha finalmente aperto 

un vero varco alla ricerca ed al tentativo di ristabilire una verità storica 

sul valore di questo popolo fiero e combattivo.


Quanto all’attendibilità scientifica della ricerca, per quanti non sono pienamente addentro alla specifica materia,  gioverà qui ricordare che Il prof. De Benedittis, professore universitario presso la UNIMOL, è uno dei massimi conoscitori dell’antico Sannio, ha tenuto numerose conferenze in convegni presso molte Università italiane e straniere ed ha presenziato e diretto numerosissimi cantieri di scavo archeologico e campagne di ricerca in Campania, Molise e Puglia, organizzando una molteplicità di simposi e mostre di carattere archeologico. Ovviamente ricchissima è la sua pubblicazione di libri, di saggi ed articoli editi in riviste sia italiane che straniere ed è direttore della rivista Considerazioni di Storia ed Archeologia.   

 

Fatta questa doverosa precisazione torno alla nostra serata alla Molisana.   

 

“Il mio libro, ha continuato l’autore in questa godibilissima presentazione, intende presentare il Samnium secondo il punto di vista dei Sanniti, un popolo che, per essersi opposto al potere espansionistico di Roma, è stato relegato ai margini della storia, nel limbo di quei perdenti che hanno avuto la colpa di essere stati il primo grosso ostacolo nel percorso di Roma verso l’Impero”.

 

Una diversa interpretazione delle testimonianze storiche, 

epigrafiche, numismatiche e archeologiche,


infatti, permette di leggere secondo una nuova prospettiva una regione del Mediterraneo antico a cui la storiografia ha attribuito un’identità di primitività e rozzezza.   

 

La scoperta di una lingua propria, l’Osco, con un proprio alfabeto ed una diversa articolazione della scrittura e poi la sua definitiva decrittografia hanno già disvelato un nuovo contesto e posto seri interrogativi sulla qualità di quella antica popolazione descritta come poco più che animalesca specie se confrontata alla evoluta civiltà romana.     

 

La presenza diffusa sul territorio poi di ben quattro teatri di epoca precedente alla presenza romana, addirittura uno a Pietrabbondante realizzato in maniera del tutto originale con sedute  ergonomiche scavate nella pietra, le possenti mura megalitiche dei Pentri, le larghe strade che costituiscono un assetto viario complesso, i selciati a ciottoli del Biferno e persino le cunette di scolo per le acque piovane, gli intonaci colorati ed infine il rinvenimento di residui alimentari, per l’epoca particolarmente raffinati, come resti di conchiglie di mitili bivalve, danno del popolo Sannita una dimensione del tutto diversa.   

 

E poi c’è l’assetto sociale molto evoluto organizzato in assemblee decisionali ove ogni città inviava i propri rappresentanti nel Consiglio dove si assumevano le decisioni comuni attraverso l’esercizio del voto.

 

Eppure la storiografia ufficiale continua a definirli soltanto 

generosi combattenti e beceri pastori.


Già, pastori che senza un soldo, senza cultura e senza armi riusciranno a tener testa, sopraffare ed umiliare in battaglia in tre guerre durate centinaia di anni le potentissime armate di Roma. Davvero difficile da credere.   

 

Infine l’atto finale di una lunga guerra di aggressione, combattuta in spregio di precedenti accordi, con cui viene deliberatamente distrutta l’antica prosperità sannita che con il commercio della lana e dell’argilla intratteneva evidenti rapporti con molti paesi come testimoniano i rinvenimenti di anfore tunisine, monete provenienti dalla Dalmazia, dalla Spagna e dalla Francia e che avviene con la distruzione non solo di tutte le abitazioni ma anche di tutti gli elementi che consentivano ad essa di sopravvivere.   

 

Emblematico al riguardo il riempimento delle enormi cisterne di raccolta delle acque che vengono volutamente riempite con le macerie delle case e delle strade distrutte per giungere alla distruzione totale ed alla cancellazione rapida ed improvvisa di una intera civiltà.   

 

Certo la ferocia distruttrice del vincitore, la sopraffazione tombale del nemico e lo spietato oblio aggiunto alla vittoria non potranno essere incastonate come nuove perle alla corona imperiale romana, ma tutt’al più ricordate, come racconta l’autore, come l’ipotetica prova generale della distruzione annientatrice che subirà Cartagine qualche centinaio d’anni dopo. Ma tant’è.

 

Ne deriva quindi una lettura diversa della storia dei Sanniti, finora visti solo 

nel ruolo chiave che hanno giocato nei primi passi di Roma 

verso l’occupazione del Mediterraneo.

 

I rapporti dei Sanniti con Roma – ha aggiunto conclusivamente l’autore del libro – i loro successi e le loro sconfitte, principali argomenti delle ricerche romanocentriche, occupano in questo volume spazi assai limitati e marginali mentre è lo studio dei Sanniti del Molise, del loro mondo, della loro cultura e la raffinatezza di questa civiltà sconfitta ad essere l’obiettivo principale di questo impegno.

 

Approfondire la loro storia ed il loro modo di vivere dal VI sec. a.C., cioè prima dell’impatto che ha avuto sulla loro quotidianità lo scontro con lo strapotere di Roma e la sua ossessione espansionistica è l’oggetto principe di questo studio lungo tutta una vita.   

 

La ricerca di tracce dimenticate in innumerevoli luoghi o di oggetti malamente attribuiti, la rilettura di ambienti e testimonianze nei tanti siti di scavo ha così aperto una finestra risarcitoria di dignità all’antico popolo dei Sanniti smentendo quei luoghi comuni coniugati con la retorica del potere del vincitore che gli storici antichi ci avevano tramandato soltanto come popolo di montanari.

 

Montanari certamente sì, sconfitti pure, ma tutt’altro che rozzi.


Nel libro aneddoti, piacevoli chicche, inaspettate curiosità arricchiscono una lettura piacevole restituendo all’attività archeologica quel fascino di indagine “poliziesca” che ha fatto la fortuna di tanta cinematografia moderna e che qui volutamente si omettono per non togliere gusto al lettore di cui si spera di aver solleticato almeno la curiosità.   

 

Immancabile a fine serata la cortesia di un brindisi alla salute dello scrittore ed al suo successo editoriale, poi la firma dei volumi da parte dell’autore, che gli eredi di una storica libreria cittadina organizzano affettuosamente in distribuzione per l’occasione ed infine il gesto di cortese simpatia che usa la Proprietà lasciando in dono sulle sedie dei convenuti una elegantissima sacchetta di cotonaccio griffato contenente le ultime novità gastronomiche dell’azienda alimentare.

 

Un modo per portare a casa la memoria di un’occasione d’ incontro 

in un “salotto buono” con quella raffinata eleganza, sapiente e gustosa 

come il nostro migliore SUD sa offrire.

 

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LA CATTEDRALE DI SAN PIETRO APOSTOLO – Gemme del Sud – Numero 25 – Luglio agosto 2022 Ed. Maurizio Conte

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LA CATTEDRALE DI SAN PIETRO APOSTOLO

 

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                Isernia

 

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Vuò un luogo cristiano sorgere dalle ceneri di un tempio pagano? 

 

Sì. Lo dimostra la città di Isernia che, con una delle sue opere architettoniche più importanti, è riuscita a sintetizzare questi due elementi, facendoli divenire parte di un’unica realtà. 

 

In piazza Andrea d’Isernia, nel cuore del centro storico della città, fondata nel 264 a.C., si impone maestosa la Cattedrale di San Pietro Apostolo: di architettura neoclassica all’esterno e barocca all’interno, si erge su quel che resta del tempio dedicato dai Romani alla triade capitolina (Giove, Giunone e Minerva). 

 

Oggi, di tale tempio rimane il podio in travertino, che è il basamento della cattedrale, e la struttura della facciata, che si presenta con frontone, trabeazione e colonne in capitello ionico disposte a formare cinque campate.

Appena varcata la soglia dell’edificio, da subito si percepisce l’atmosfera del luogo, che sembra racchiudere tra le sue mura una moltitudine 

di avvenimenti susseguitisi nel tempo..

 

La triade capitolina ha conservato il suo spazio nonostante il susseguirsi degli eventi storici e naturali, e la cattedrale cristiana, edificata a seguito della dominazione bizantina dell’area, ha conservato la disposizione del precedente tempio, con abside a sud in corrispondenza delle naos dedicate ai tre dèi pagani. 

 

Il susseguirsi di fenomeni naturali, come gli smottamenti sismici, e umani, come i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, hanno conferito al luogo l’aspetto che ha oggi. 

 

Nel tardo Medioevo, infatti, la cattedrale è stata completamente ricostruita a causa di un crollo

L’opera fu modificata tanto che l’ingresso venne spostato nella piazza del mercato, concentrando così l’attività cittadina in un unico luogo. 

 

LNel 1769, poi, fu realizzata la cupola. Tuttavia, la forza distruttiva umana e quella naturale non hanno scalfito la sua essenza, tanto che scavi archeologici eseguiti nelle varie opere di restauro hanno consentito di «scovare un tesoro apparentemente segreto»: sono stati portati alla luce ulteriori resti dell’antico tempio pagano che, oggi, è possibile ammirare nella cattedrale attraverso la pavimentazione di vetro. A testimonianza del fatto che la sacralità riesce ad esprimere la sua essenza, e le sue molteplici forme, come parti di un’unica realtà

 

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DOMENICO STARNONE. IN VIA GEMITO FINISCE IL NOVECENTO di Giuditta Casale Speciale Napoli aprile maggio 2022 ed maurizio conte

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DOMENICO STARNONE. IN VIA GEMITO FINISCE IL NOVECENTO

 

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Un fiume in piena e vigoroso, che conserva sempre fresca, genuina e chiara la sorgente.

Nel suo corso ha portato a compimento un’idea novecentesca di Letteratura, culminata in Via Gemito, pubblicato per la prima volta nel 2000 da Feltrinelli, che gli valse

Premio Strega nel 2001,


e ristampato da Einaudi nel 2020, nella collana Supercoralli, riportando in copertina il quadro paterno dei Bevitori, perduto, invano cercato e finalmente ritrovato, di grande rilevanza, nel corso della narrazione, per la relazione complicata e conflittuale tra padre e figlio, che è il fulcro centrale del romanzo: Federico, il padre, considerava il quadro l’apoteosi del suo successo, millantato e inseguito spasmodicamente, in campo pittorico; il figlio, Mimì, voce narrante del romanzo, si era prestato per ore interminabili a fargli da modello, con l’illusione che la fama del padre si sarebbe riverberata su di lui e avrebbe mutato l’indifferenza paterna nei suoi confronti, come per il resto della famiglia.

Nella mia soggettiva percezione di lettrice, Via Gemito chiude 

il Novecento letterario italiano con un significativo sbatter di porta, 

come avveniva spesso nella casa napoletana di Via Gemito

in una delle tante furiose litigate con le quali 

il padre dava sfogo alla sua irruenza.


Domenico Starnone è un fiume a delta. Il suo sfociare nel mare del nuovo Millennio è un’apertura ampia e fluida in nuove prospettive letterarie, che investono non tanto il contenuto, quanto la forma. Continuando nella metafora del fiume, se le acque delle opere più recenti conservano la stessa composizione per quello che riguarda i temi rispetto a Via Gemito – le relazioni familiari, il peso della memoria, la forza metamorfica del tempo -, pur essendo mosse e agitate da declinazioni e sfumature diverse, è nel vigore e nella capacità dello scorrere, nel fluire delle parole sulla pagina, nello stile che lo scrittore,

nato a Napoli nel 1943, riapre la porta chiusa in faccia al Novecento 

con Via Gemito su un nuovo, intenso, esaltante paesaggio letterario 

che guarda diritto negli occhi il nuovo Millennio, e scopre 

una diversa, turbolenta, cangiante dinamica relazionale.


All’interno di un’ideale percorso della Letteratura italiana – perché la produzione di Domenico Starnone è pienamente Letteratura -, l’importanza dello scrittore napoletano, che tale resta per ritmo della prosa e orecchiabilità della voce, nella mia prospettiva personale, è quella di portare a valle e di lasciar sedimentare il Novecento letterario in un’opera composita, soprattutto a livello stilistico e linguistico, come Via Gemito, e di proseguire il suo percorso nel mare aperto del XXI secolo, con uno stile che si è fatto essenziale, aforistico, pregnante e a livello strutturale condensato e compatto.

Prova di questo nuovo modo di narrare sono le opere recenti:


Lacci, Scherzetto
e Confidenza, tutti pubblicati da Einaudi a partire dal 2014, legati in una trilogia libera per indagare con acume e introspettiva perspicacia le relazioni sentimentali e familiari, non più sulla base della testimonianza, incerta e traballante, del figlio di Via Gemito, ma dall’interno della relazione stessa come marito e compagno in prevalenza, senza però acquisire una maggiore stabilità, ma conservando quel tratto malfermo e incerto che è una delle caratteristiche più pregnanti della voce del narratore, scelta consapevole e feconda dello scrittore; per poi confluire e trovare una sintesi, che diventa una pietra miliare a segnare non tanto il percorso fatto, quanto quello che può essere ancora percorso, in Vita mortale e immortale della bambina di Milano, edito nel 2021 da Einaudi sempre nella collana Supercoralli, ma nel divertito formato ridotto.

Quello che lega e differenzia i libri più recenti da Via Gemito 

è la domanda “sbagliata” che il lettore si ritrova a porsi nel primo

 e che gli si ripropone nei nuovi:


l’intreccio e la confusione tra narratore o protagonista con lo scrittore, tra vicende narrate e personale biografia. Questo mi appare il patto, o forse il tranello, che Domenico Starnone ha messo in campo, con sorriso sornione e accattivante, da Via Gemito e che ha ribadito con conseguenze importanti e fondative per il nuovo Millennio nella trilogia, per poi esplicare in termini pienamente poetici, nel senso di farsi del suo modo di scrivere e di strutturare il racconto, in Vita mortale e immortale della bambina di Milano, già dal titolo nell’endiadi fortemente ossimorica e nell’errore, perseverante e persistente e così incisivamente letterario, del dato anagrafico.

È questo il filo, o meglio la catena, con la quale Domenico Starnone 

ha imprigionato i suoi lettori, trascinandoli in un percorso letterario 

affabulante e innovativo,


che viene svelato senza più giochi di infingimenti, che pure sono il sale della Letturatura, in Vita mortale e immortale della bambina di Milano, dove la forza delle parole e il vigore dell’immaginazione, la dimensione sfuggente della memoria e la capacità dei ricordi di creare mondi paralleli, la dicotomia, quasi sanata dalla Letteratura quando è vera e mitopoietica, tra vita e morte, tra mortalità e immortalità diventano lampanti, visibili e vissuti, fulcro stesso della narrazione. Tema e struttura, immanenza e trascendenza dell’opera.

Domenico Starnone lo affermava già per Via Gemito in un’intervista: 

 “Non è importante che ciò che raccontiamo sia tutto realmente accaduto. 

L’essenziale è che, di ciò che è accaduto, sia riportata la vita vera, 

la vita intensa delle persone conosciute, che ci hanno amato, 

ma anche ferito, aiutato a crescere, ma anche tormentato 

e che questo miscuglio di odio, amore, 

conflitti alla fine, dalla pagina scritta, 

venga fuori.”


Leggete alla luce di questa riflessione Vita mortale e immortale della bambina di Milano e vi sarà chiaro su quale “fossa dei morti” lo scrittore vi ha condotto come ingresso nel più autentico antro della Letteratura: 

 

“La cosa migliore, mi aveva suggerito, era che restassi vivo sempre, senza distrarmi e finire per sbaglio sottoterra. Fu allora che, allo scopo di farmi capire che sottoterra non si stava bene, mi parlò per la prima volta della fossa dei morti.”

 

 

 

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TARANTO NON E’ SOLO VELENI. IL MArTA di Roberta Lucchini – Numero 10 – Marzo 2018

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TARANTO NON È SOLO VELENI.        il MA TA

 

Ma il faro mediatico, sistematicamente puntato sui mostri che negli anni hanno corrotto le aspettative, inquinando acque e vite umane, dovrebbe talvolta accendersi sul buono che c’è, sulle iniziative lodevoli, sulle persone che si impegnano per il cambiamento. A Taranto si può ricominciare; anzi si deve. Ma da dove? Il MArTA ci sembra un ottimo punto di partenza.

La visita al Museo Archeologico, invero, è la tappa iniziale e imprescindibile
sia per chi desideri avvicinarsi alla città e alle sue origini sia per i tarentini
che vogliano ritemprarsi con una boccata di orgoglio campanilistico.


Il Museo nacque nel 1887 per ospitare le innumerevoli testimonianze raccolte nel corso dei ritrovamenti massicci, conseguenti alla revisione urbanistica che accompagnò ripensamento e sviluppo del quartiere Borgo Nuovo. Taranto, infatti, era anticamente sorta sul piccolo promontorio che, unito alla terraferma da un modesto lembo di terra, separava la grande baia del Mar Grande, all’esterno, dalle acque – dolci e salmastre ad un tempo, preziose per nutrire i celebri mitili – del bilobato Mar Piccolo; mari che, fino alla seconda metà dell’Ottocento, erano in comunicazione solo attraverso il canale naturale a nord-ovest, sul quale sorge, forse dall’anno Mille, il Ponte di Porta Napoli. Sul finire del XIX secolo, l’espansione della città verso est come conseguenza della nascita dell’Arsenale militare sul Mar Piccolo, iniziato nel 1883 e ultimato nel 1889, sfociò, per un verso, nella realizzazione del Canale navigabile, ottenuto recidendo quel breve cordone ombelicale che ancorava la città vecchia peninsulare al resto del territorio, e richiese la contestuale costruzione, sul canale medesimo, del Ponte girevole (entrambe, opere ingegneristiche di assoluto rilievo, inaugurate proprio nel 1887); per altro verso, comportò il rimaneggiamento dell’assetto urbano sulla sponda est della neonata via d’acqua, anche nell’ottica di accogliere molte famiglie dal sovraffollato centro storico. In seguito a sbancamenti e livellamenti per creare un impianto viario di reticolato regolare, moltissimi reperti vennero alla luce, mentre alcuni siti furono irrimediabilmente interrati. Cosicché 

 

il nostro Museo, la cui sede fu individuata nell’ex convento dei frati Alcantarini, 

avviò le proprie attività inizialmente a mo’ di “deposito” 

dei rinvenimenti archeologici locali.

 

A questi, si aggiunsero nel tempo oggetti provenienti da svariati siti del territorio apulo, spesso necropoli o sepolture, da Canosa a Crispiano, da Ginosa ai dintorni di Bari e al Salento, solo per citarne alcuni. Dai primi anni del Novecento, e a più riprese nel corso del secolo fino ai giorni nostri, il Museo fu ampliato, modificato e organizzato secondo i criteri scientifici che più si confacevano al momento storico. Il percorso che viene oggi offerto al visitatore è la risultante di un ultimo intervento che, dopo una chiusura totale nel 2000, riaperture progressive nel 2007, 2013 e, da ultimo, nel 2016, ci consegna un edificio rimodernato, arricchito di ausili multimediali e articolato in due piani espositivi con mezzanino (ove è ospitato un lascito del 1909 da parte di Monsignor Giuseppe Ricciardi che affidò diciotto tele risalenti ai secoli XVII e XVIII alle cure dell’allora Regio Museo);

vi si ripercorre la storia di Taranto e dintorni in progressione cronologica, 

partendo da preistoria e protostoria, quando la parte meridionale 

della penisola era abitata da popolazioni autoctone – gli Iapigi. 


Si prosegue poi con l’arrivo degli Spartani, che fondarono qui la loro unica colonia fuori dall’Egeo,
Taras per l’appunto, nel 706 a. C., dopo che i Parteni, cioè i figli illegittimi delle spartane nati nel corso della guerra messenica, guidati dal giovane Falanto, furono costretti ad abbandonare la madrepatria e a riparare sulle coste italiche, come propiziamente suggerito dall’oracolo di Delfi. Interessante cogliere la dialettica dei rapporti fra colonizzatori e popolazioni indigene, come pure la differenziazione interna di queste ultime che nel corso dei secoli, anche per ulteriori influssi esogeni, si suddivideranno, sull’intero territorio apulo, in Messapi, Peucetii e Dauni.

Viene quindi proposta una sezione dedicata all’epoca romana,
il che dà l’opportunità di ripercorrere i tormentati rapporti
fra l’ambita Taranto e Roma,

 

dall’accordo del IV secolo a. C., secondo il quale navi romane da guerra non potevano superare il Capo Lacinio, entrando nella baia, in tal modo sancendo il principio della inviolabilità della acque interne, fino alla rottura di questo accordo da parte romana; dall’arrivo di Pirro a sostegno di Taranto alla sconfitta e conseguente capitolazione (275 a.C.); dalla ribellione a Roma all’arrivo del cartaginese Annibale; dalla resistenza all’assedio romano alla definitiva disfatta ad opera di Fabio Massimo nel 209 a. C., con conseguente spoliazione della ricca e ammirata città sul golfo. Il percorso espositivo si estende al periodo tardoantico e poi altomedievale, con particolare attenzione ai cambiamenti introdotti dalla dominazione romana nelle abitudini scultoree e decorative, fino alle testimonianze della convivenza sul territorio di comunità ebraiche e musulmane, per giungere al ritorno dei bizantini nel X secolo d. C.. 

 

Il criterio temporale, nelle venticinque Sale del MArTA, affianca quello tematico 

che, attraverso oggetti di arredo, suppellettili ed elementi architettonici decorativi, 

per lo più appartenuti a corredi funerari o comunque a necropoli, permette 

di comprendere le abilità produttive, le abitudini quotidiane, 

la cultura religiosa e i contatti con altri popoli:

 

in altri termini, l’oggetto che esprime un territorio, nell’accezione più ampia del termine. Sarebbe arduo, e certamente riduttivo, tentare di dar conto della ricchezza dei reperti custoditi in questo raccolto e bellissimo Museo, diretto dal 2015 – e con successo, come si riscontra nel numero degli ospiti e nel giudizio dei tarantini – dalla dottoressa Eva Degl’Innocenti. Ma non si può tacere di alcuni oggetti emblematici i quali, più di altri, colpiscono il visitatore che volentieri li incamera e se ne appropria nella memoria. E’ il caso, ad esempio, dell’elegante Zeus-Zis, statua in bronzo alta circa 80 cm, rinvenuta presso Ugento e risalente al VI sec. a.C., rappresentato dai Messapi nei modi iconografici greci, con leggera torsione del busto nell’atto di scagliare fieramente un fulmine; oppure del magnifico cratere raffigurante la nascita di Dioniso, risalente al IV sec. a.C., appartenente alla sconfinata collezione coroplastica, la quale racconta non solo dei contatti delle popolazioni locali con la civiltà micenea ben prima della vera e propria colonizzazione greca, ma anche del successivo legame degli artigiani locali con metodi e forme importati dalla madrepatria, fino allo sviluppo di tecniche decorative originali, come quelle della ceramica sovradipinta.

 

Colpisce la magnifica produzione orafa, con l’esposizione di gioielli raffinatissimi, rinvenuti nelle sepolture e realizzati con tecniche di laminatura, a sbalzo 

e in filigrana, prova tangibile dell’elevato standard produttivo raggiunto 

delle maestranze locali in epoca ellenistica;


carpisce l’attenzione un sorprendente nucifrangibulum, schiaccianoci in bronzo le cui leve sono due mani in fattezze sorprendentemente morbide, atte a contenere il guscio, che si prolungano fino ai polsi ornati di splendidi bracciali serpentiformi in oro. Ancora, una ricca collezione di antefisse, cioè elementi di chiusura delle tegole decorate da volti di gorgoni con funzione apotropaica, oppure elementi in carparo, pietra calcarenite locale, provenienti da frontoni o da monumenti sepolcrali. Ad ogni buon conto, il miglior reportage non potrà mai eguagliare il fascino di una visita. La Storia che qui è raccontata, tuttavia, non è fine a se stessa: il MArTA ospita giovani studenti delle scuole secondarie di secondo grado impegnati nei progetti di alternanza scuola-lavoro che, come spiega il dott. Lorenzo Mancini, giovane archeologo estremamente competente che ci ha accompagnati in questo viaggio, prevede per i prossimi mesi la realizzazione di un percorso guidato nella storia della città attraverso la mappatura del territorio che tenga conto della percezione che gli abitanti hanno dello stesso, al fine di fornire loro un solido ancoraggio identitario.

 

Nel corso della visita, incontriamo due scolaresche di bimbetti non più grandi 

di 4 anni che, ordinatamente, attraversano le Sale del Museo e i secoli passati. Questa è la speranza con cui si lascia la città: 

la cultura affidata alle nuove generazioni.


Il lavoro richiede anni, lustri, decenni. Ma in fondo è poca cosa rispetto ai millenni di gloriosa Storia che da qui ha transitato, consegnando ai posteri un senso e un patrimonio. Si può fare, bisogna crederci.

 

 

 

 

 

 

 

Non si tratta di nascondere la testa sotto la sabbia, evitando di confrontarsi con i tanti e radicati problemi che attanagliano la città e che sembra si attorciglino su se stessi generando frutti letali.

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 Immagini concesse dal Museo Nazionale Archeologico di Taranto

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MASSIMO TROISI, IL CUORE E LA MENTE di Fernando Popoli – Numero 10 – Marzo 2018

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MASSIMO TROISI, ILCUORE E LA MENTE

potremmo dire che è quasi una periferia non essendoci soluzione di continuità tra le due città. Massimo Troisi nacque lì, in un contesto popolare, autentico, tradizionale, fatto di gente semplice che crede nel grande spirito della napoletanità e parla quella lingua universale che è il dialetto napoletano, comprensibile a tutti specialmente quando è “interpretata” da un attore partenopeo. Basti pensare che il grande Eduardo, al quale Troisi fu spesso paragonato, recitò a Mosca in una sua commedia nella sua lingua d’origine. Anche Troisi reputava la lingua napoletana consone alla sua recitazione e, in occasione di un’intervista televisiva fatta da Isabella Rossellini che gli chiedeva il motivo per cui recitasse in dialetto, dichiarò: “Io mi sforzo di capire l’italiano, perché gli altri non si sforzano di capire il napoletano”. 

 

Le sue prime apparizioni sul palcoscenico avvennero nella sua città natale, in una sala parrocchiale, con gli amici d’arte e di vita Lello Arena ed Enzo De Caro.

Era allora timidissimo e non sapeva se avesse potuto affrontare 

il pubblico, ma poi dichiarò che nell’oscurità della sala non vedeva 

la platea e quindi poteva recitare poiché aveva 

la sensazione di stare da solo e al buio.

 

Il successo del trio fu immediato e in breve fu consacrato anche da uno spettacolo televisivo che ebbe una grande risonanza. Furono ribattezzati La smorfia quando, alla domanda di Pina Cipriani, direttrice del San Carluccio, teatro napoletano nel quale avevano lavorato, che chiedeva come si chiamassero, Massimo rispose con una smorfia del volto e la Cipriani affibbiò al trio questo nome. Dopo la prima apparizione televisiva, la Smorfia si pose all’attenzione di un vasto pubblico che vedeva sopratutto nel personaggio di Troisi, nella sua poetica recitativa, nella sua evidente timidezza, nel suo parlare la propria lingua, un’espressione del disagio giovanile e delle problematiche sentimentali che coinvolgono i giovani. 

 

Ben presto il cinema mise gli occhi su questa giovane rivelazione del teatro napoletano e il produttore Mauro Berardi offrì a Troisi il ruolo di Franceschiello in un film che doveva essere diretto da Luigi Magni. Il film non si fece ma 

 

Berardi disse a Massimo di pensare a un film tutto suo 

dove egli potesse essere autore e attore.

 

Nel giro di pochi mesi, con l’aiuto di Anna Pavigliano, Ottavio Jemma e il futuro premio Oscar Vincenzo Cerami, nacque la sceneggiatura di: Ricomincio da tre, primo film del grande attore, al quale ne fu affidata anche la regia. Il direttore della fotografia, Sergio D’Offizi, mi ha raccontato che il primo giorno di lavorazione chiese a Massimo dove posizionare la macchina da presa; questi, con la comicità spontanea che lo distingueva, rispose: “Lanciamola in alto e vediamo dove cade”. La sua scarsa conoscenza del linguaggio cinematografico fu superata da un’interpretazione eccezionale, dove l’attore, al centro dell’inquadratura,

 

esprimeva tutto se stesso, rivelando la sua natura spontanea. 

Era una recitazione fatta di pause, parole dialettali, 

espressioni di timidezza, sensibilità certamente nuova, 

atipica e originale.

 

Il film metteva in luce il disagio della retorica sui napoletani e ne faceva superare i luoghi comuni attraverso un’incredibile comicità. Il successo fu enorme, Ricomincio da tre divenne un caso nazionale che dette una svolta al cinema italiano in crisi in quegli anni e Massimo Troisi fu consacrato una grande stella, unica e originale per il modo di porsi, ben presto contesa da tutti. Vinse due David di Donatello, tre Nastri d’argento e due Globi d’oro. Il secondo film completamente di Troisi fu: Scusate il ritardo, dove, in una storia d’amore, Troisi interpreta il suo personaggio con la timidezza e l’indecisione di sempre, consacrando così la sua recitazione. Anche questo film fu un grande successo di pubblico e di critica.

 

L’attore fu paragonato a Totò e a Eduardo De Filippo 

per la sua originalissima interpretazione, ma rifiutò l’accostamento, 

dichiarando di non essere assolutamente alla loro altezza.

 

Nell’arte e nella vita era un uomo timido e riservato, spontaneo e naturale, che rivelava la profondità del suo animo sensibile con un linguaggio semplice e universale. La sua attività cinematografica proseguì con il grande Roberto Benigni nel film Non ci resta che piangere, dove i due attori espressero il meglio di loro stessi in un’indimenticabile interpretazione. Un’accoppiata vincente, il napoletano e il toscanaccio, qualcosa di unico e raro. Poi venne il periodo della collaborazione con Ettore Scola e il sodalizio artistico con Marcello Mastroianni in Splendor e in Che ora è.

 

Scola diceva di aver adottato Troisi e di trattarlo come un figlio, 

spesso la mattina andava a trovarlo nella sua abitazione per parlare 

di arte e di cinema. Due meridionali di grande prestigio, 

l’uno regista, l’altro attore,

 

l’uno napoletano di S. Giorgio a Cremano, l’altro campano di Trevico. L’ultima interpretazione, quella che lo portò a cinque nomination per il premio Oscar fu Il postino, toccante storia di un’amicizia tra un poeta e un portalettere, tratto da un romanzo di Antonio Skármeta, diretto da Michael Radford, ambientato nella splendida cornice delle isole di Salina e di Procida. Questa interpretazione gli costò la vita. L’attore era affetto sin da bambino da febbre reumatica, che sviluppava una grave degenerazione della valvola mitrale, complicata dallo scompenso cardiaco. 

 

Operato a Houston già una volta, doveva sottoporsi a una seconda operazione per il cambio delle valvole deteriorate. Scelse prima di girare il film, quantunque gravemente compromesso dalla malattia, dichiarando “lo voglio fare con il mio cuore” e riuscì a terminarlo qualche giorno prima della fine. Per lui l’arte era più importante della vita.

 

La morte lo colse nel sonno a quarantuno anni, dodici giorni dopo la fine delle riprese, per un fatale attacco cardiaco. Le sue spoglie riposano per sempre affianco a quelle dei genitori nel cimitero di S. Giorgio a Cremano, dove aveva iniziato la sua carriera artistica; in quel mondo che fu sempre suo e lo portò a raggiungere le più alte vette della recitazione, spinto dal bisogno di esprimere la sua grande vena poetica di attore e autore. Nell’isola di Procida, una piazza della marina Corricella è intitolata all’attore napoletano. Nel porto di Salina, un tratto della banchina è stato chiamato: “Passeggiata Massimo Troisi” e vi è conservata la bicicletta adoperata nel film.

 

Sean Connery, dopo aver visto Il postino, dichiarò: 

“E’ il più bel film che abbia mai visto”.

 

Non dimenticheremo mai quel portalettere sprovveduto e confuso nel Postino che va a lezione dal grande poeta Neruda, interpretato da Philip Noiret, per farsi scrivere le poesie per la ragazza di cui è innamorato, per capire, sapere, conoscere e arricchirsi di cose per lui assolutamente nuove; e quando afferma sulla spiaggia in riva al mare in una conversazione filosofica con il poeta: “Il mondo intero è la metafora di qualcosa.”

 

 

 

 

 

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SAN LEUCIO. GENIUS LOCI (FR) par Helene Blignaut – Numero 7 – Aprile 2017

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SAN LEUCIO. GENIUs         LOCI

 

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La beauté conquiert et rend amoureux car, outre le charme de surface que perçoit le regard humain, elle cache et révèle une profondeur, une substance rayonnante, qui demande à ne pas être retenue, mais au contraire diffusée à ceux qui savent l’apprécier.

La beauté génère la beauté et, dans les endroits où elle parvient à se manifester dans la splendeur qui lui vient de sa propre histoire, chaque chose et chaque événement qui s’y insèrera en deviendra beau et brillera de la même lumière, suivant naturellement le plan prospectif généré par l’admirable contenant.

 

Il y a un lieu dans le sud de l’Italie, dont la beauté, comme dans un conte de fées, doit tout aux événements séculaires qui s’y sont déroulés et aux œuvres qui y furent créées. Des œuvres qui, aujourd’hui encore, sortent des mains des artisans savants pour être offertes à l’intelligence des amateurs dans toute leur profonde beauté atemporelle et qui perpétuent l’ambition d’une synthèse vertueuse entre le beau et le juste comme le revendiqua leur initiateur par excellence, le roi Ferdinand IV de Bourbon. Il s’agit de San Leucio, une banlieue de la ville de Caserte qui, sur l’ordre du roi, devint brusquement un unicum imprévisible unissant noblesse monumentale donnant sur des paysages verts pensifs et une communauté humaine qui reçut le privilège d’apprendre l’art du tissage de la soie et de la production d’objets extraordinaires.

 

Alors même que la colonie royale de San Leucio voyait le jour et commençait, à réaliser le rêve royal illimité, calme et laborieuse, 

jour après jour, dans son territoire exigu, le beau-frère 

et la belle-sœur de Ferdinand IV perdaient la tête 

sous la lame d’une révolution sanglante.

 

Notre roi avait épousé Marie-Caroline de Habsbourg-Lorraine, sœur de l’Autri-Chienne, comme le peuple français en révolte surnommait Marie-Antoinette d’Autriche, épouse de roi Louis XVI. Les échos du sang et de la terreur ne parvinrent cependant pas à arrêter la volonté de ce visionnaire qui, peut-être submergé par la pompe excessive du Palais Royal de Caserte, avait décidé de transformer le village en une splendide enclave dont l’existence et la merveille n’étaient toutefois pas une fin en soi. A cet endroit existait déjà une belle petite église ancienne. Il fit construire dans le quartier du Belvédère un pavillon de chasse et il envoya y vivre quelques familles afin qu’elles s’y consacrent. Le roi avait une mentalité moderne et il décida ainsi de donner vie à un modèle social absolument nouveau, imposant une structure urbaine harmonieuse avec une place circulaire et un système de rues radiales, promouvant l’autonomie économique avec la création d’une usine pour la production de soie de haute qualité, de quelque chose qui n’avait jamais été vraiment vu auparavant.

 

Non seulement visionnaire, mais aussi précurseur de cette égalité qui se fondait sur la dignité de pouvoir vivre de son travail, mais aussi sur la prévoyance sociale et la prise en compte (avant l’heure) des droits 

de l’homme avec des heures de travail quotidien réduites 

à onze heures au lieu des quatorze en vigueur dans le reste 

de l’Europe, avec un salaire égal pour les hommes et les femmes, l’éducation obligatoire et gratuite et une formation professionnelle 

qui tenait compte des capacités des jeunes.

 

Même le logement était gratuit et construit avec tout le confort possible à l’époque. La vaccination contre la variole était obligatoire. La gestion de cette entreprise, qui généra entre autre une sous-traitance notable, eut des conséquences importantes. Elle anticipait en effet l’affirmation des droits dont la revendication marquerait plus tard l’histoire politique et sociale du continent. Elle était une sorte de Ferdinandópolis avec un Code, dont les principes fondamentaux étaient: l’éducation, l’intégrité et le mérite, et où il n’y avait pas de place pour les distinctions hiérarchiques et de condition. Du patrimoine vivant des vers à soie qui étaient élevés dans le bâtiment des chenilles jusqu’à la préparation des écheveaux, aux machines de filature, aux métiers à tisser, à la soierie mécanique, la création de tissus luxueux pour vêtements et meubles prestigieux sut évoluer vers une extraordinaire gamme de brocarts de soie d’or et d’argent, de gros de Naples particuliers, et même un tissu innovant original qui fut appelé Leucide.

 

Avec l’introduction dans la première moitié du dix-neuvième siècle du jacquard, la technique de tissage qui fit la fierté de la France, furent créées des œuvres qui en ennoblirent les productions et qui se  

rapprochaient plus de l’art que de la réalisation 

d’objets d’usage courant.

 

Les couleurs étaient naturelles et l’inspiration culturelle des nuances inhabituelles imposait des définitions qui, déjà en en elles-mêmes, évoquaient des émotions et des désirs: vert saule, vert de Prusse, Séville, Eau du Nil … Des noms suggestifs de tissus pour tapisseries, rideaux, housses de canapés et oreillers, mais aussi des châles, corsets, mouchoirs et autres vêtements délicieux. Les tissus pour l’ameublement fascinèrent rois, reines et papes et ornent encore aujourd’hui les pièces du Quirinal, du Vatican, le palais de Buckingham, la Maison Blanche et d’autres endroits prestigieux. Des célèbres designers de la mode internationale se laissent encore séduire pour leurs créations les plus haut de gamme. L’histoire suit son court, l’évolution du progrès produit des décadences et des nouveaux départs; ainsi, avec l’avènement de l’unité de l’Italie, le rêve de Fernandópolis fut englobé dans le territoire du nouvel état. Mais la mythologie d’une matière née de la volonté inébranlable d’un roi ne pouvait pas succomber.

 

Aujourd’hui, les tissus de San Leucio demeurent un patrimoine exceptionnel et dans leur trame demeure intacte une vitalité de faire qui n’a jamais cessé de se nourrir elle-même. Avec l’utilisation appropriée des nouvelles technologies, et sans dénaturer son caractère artisanal, se créent des œuvres qui nous apportent encore la profondeur 

multiple de leur beauté, leur histoire, leur patrimoine utopique, 

 

mais aussi la sensibilité tactile ou l’épaisseur crémeuse de certaines textures, la consistance – qui semble parfumée – des grands motifs floraux, les tonalités sonores de la soie craquante. Des sensations qui stimulent une attention passionnée et heuristique pour découvrir d’autres sens. Les appartements royaux et la maison des tisserands sont visibles, transformés en musée. Toutefois, le consortium des entreprises qui descendent de ces anciennes familles est plus que jamais actif et disponible. Les événements culturels attirent des visiteurs du monde entier: en Juillet, le Festival Leuciana est une évocation en costumes historiques. En Octobre, le Festival du Vin, des Vignobles et de la Soie perpétue, de manière agréablement matérielle, le rêve qui inspira un ancien roi. Les usines et les ateliers abritent une foule de trésors à découvrir.

 

 

 

 

 

Crédits photos Complesso Monumentale di San Leucio

 

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Helene Blignaut

 ITA | ENG | FR

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L’ARCHITECTURE DU SALENTO – LES TOURS DE DEFENSE par Giusto Puri Purini – Numero 7 – Aprile 2017

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L’ARCHITECTURE DU SALENTO     LES TOURS         DE DEFENSE

 

Sainte Sophie devient la « Grande Mosquée » et une nouvelle et superbe grande puissance, cultivée et agressive, naît en Méditerranée orientale. Elle entrera rapidement en conflit avec la République de Venise, qui, jusque-là, avait librement navigué sur les mers de l’Adriatique à la mer Egée, avec ses flux de marchandises et ses innombrables implantations et domaines, disséminés de Dalmatie à l’Asie mineure et au-delà.   

 

Les Pouilles devinrent une plaque tournante stratégique pour les incursions ottomanes et, en dépit de l’occupation de la péninsule en 1484 par les Vénitiens (débarqués à Taviano), ces derniers ne réussirent plus à freiner l’élan des ottomans. L’algérien Khaized-Din (dit Barberousse) détruisit Castro et Marittima en 1537 et, sur la côte ionique, l’antique Ugento. Le système de défense des Pouilles, en particulier dans le Salento, était déficient et précaire. Composé d’ouvrages remontant à la Rome antique ou aux Byzantins (pour se défendre contre les Lombards et les Aragonais) construits au cours des siècles précédents sous forme de tours côtières et de fermes fortifiées, il n’était plus à la hauteur des besoins. C’est alors que sur la scène européenne, le conflit impitoyable entre le roi de France François Ier et Charles Quint, roi d’Espagne, se résolut en faveur de ce dernier le conduisant à gouverner une grande partie de l’Europe.

L’histoire du Salento est parsemée d’une multitude d’invasions au début, par des peuples qui s’y installèrent, comme les Messapes et les Japiges, puis, par les Grecs; des incursions des pirates sarrasins, des attaques et des pillages, jusqu’au grand péril ottoman, qui nourrissait notamment l’idée de réunifier l’Empire romain d’Orient avec Rome. Ce fut donc, au nom de l’empire de Charles V que le vice-roi du royaume de Naples, Pierre de Tolède, promut en 1532 une première ligne de défense massive et stratégique le long des côtes adriatique et ionienne des Pouilles, ce vaste promontoire qui s’avance au cœur de la Méditerranée. Tel un urbaniste des systèmes de défense, il fit réaliser un projet où chaque tour pouvait détecter et signaler à la suivante les dangers qui se profilaient à l’horizon. Cornes  de brume et cloches donnaient l’alarme, ou des signaux visuels, comme la fumée (de jour) et le feu (de nuit). Une deuxième ligne de défense était formée par les fermes fortifiées puis, plus à l’intérieur, des châteaux imposants parmi lesquels figure, aujourd’hui encore, celui de Achaïe. Les mesures du vice-roi furent renforcées en 1563 par l’ordonnance de Don Pedro Afan de Ribera

Cette Italie, dressée et baignée par les eaux en presque tous les points de son territoire, « s’offrait », point d’attraction et aimant pour d’autres populations.

The biblical exodus that millions of people carry out daily in recent years, puts in motion old grudges, fears and imbalances, and there is the need for a new conscience that will bring the great States (colonisers) to develop jobs and margins for a potential growth in the original places, in order to bring our Mediterranean back to being, as it was, a place for merchants, economic-financial exchanges, culture, religion, thought and work.

En 1529, après de multiples conflits et, finalement,  un accord avec le pape Clément VII, Charles V obtint la reconnaissance des possessions qu’il convoitait en Italie, y compris le royaume 

de Naples, qui comprenait ses Pouilles bien-aimées 

(où ne se rendit d’ailleurs jamais).

Le coût économique d’une telle entreprise était devenu si élevé que, par le biais d’appels d’offre, des titres furent conférés à ceux qui

prirent en charge la construction de tours, les « Capitaine des Tours», lesquels outre l’alerte contre les raids et la préparation des défenses avec canons et mousquets, pouvaient également percevoir 

des droits. Aux insolvables était « durement » 

refuser le droit d’être défendus.

Les tours, plus tard, serviront aussi à lutter contre la contrebande, en partie tolérée, pour empêcher le commerce illégal de sel en vogue à ce moment-là, compte tenu de la pauvreté des populations rurales et pour faire obstacle à la traite des esclaves. Les tours édifiées par Charles V, construites avec des morceaux de tuf réguliers, sont généralement carrées ou circulaires et leur base est en pente avec à l’intérieur habituellement deux étages et une terrasse crénelée. Des meurtrières et collecteurs d’eau complètent la façade. Les tours sont équipées d’une citerne souterraine pour recueillir l’eau de pluie. Dans certains cas elles sont devenues aujourd’hui des Capitaineries de Ports encore opérationnelles. Beaucoup sont (malheureusement) en ruines et d’autres ont été restaurées. Pour reprendre les mots de Mario Muscari Tomajoli « La construction d’observatoires fortifiés se retrouve dès Plutarque (125-50 avant JC) et fut également entreprise par les Romains, dont le commerce connut une crise due aux pirates jusqu’à 67 ans avant JC, lorsque la loi Gabinia permit à Pompée d’armer une flotte contre les pillards et de pacifier le Mare Nostrum . »

Ce système de défense n’existe pas uniquement dans les Pouilles et dans le Salento, et sur nos côtes et sur bien d’autres côtes de la Méditerranée il indique, comme une immense ponctuation 

sur les cartes, le rapport d’amour et de peur que 

la grande mer portait avec elle.

 

Sa première place dans la civilisation, l’histoire, la fertilité de la nature et les coutumes lui imposait aussi d’avoir un système 

de défense et c’est ainsi qu’aujourd’hui ces constructions admirables inscrites dans le rythme fluide des paysages 

sont devenues des signes indélébiles de l’histoire. 

 

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SAN LEUCIO. GENIUS LOCI by Helene Blignaut – Numero 7 – Aprile 2017

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SAN LEUCIO. GENIUs         LOCI

 

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Beauty conquers and makes people fall in love because in addition to the superficial fascination perceived by the human eye, it hides and shows a depth, a ‘substance’ that radiates value and asks not to be retained, but diffused to those who know how to enjoy it.

Beauty infects beauty and, in a place that can appear in the splendor that comes from its own history, everything and every event that enter it will be consequently beautiful and will shine in the same light, naturally following the prospective show created by the admirable container.

 

There is a place in the South of Italy that, just like in a fairy tail,  owes all its beauty to the secular events that occurred in its frame and the great works that were created there.   Works that still today come from the wise hands of artisans to  be  offered  to  the  appraiser’s  intelligence  in  all  their atemporal aesthetic depths that perpetuate the ambition of a  virtuous  synthesis  between  the  handsome  and  the  righteous,  just as the absolute initiator, King Ferdinand IV of Bourbon, intended it to be.  This is why San Leucio, a hamlet of the city of Caserta, by the will of this king, immediately became  an  unpredictable  unicum  of  monumental  nobility  overlooking  green  pensive  landscapes  and  a  human community that found itself privileged in learning the art of weaving silk and the production of extraordinary artifacts.

 

While the Real Colony of San Leucio saw the light and set off quietly and steadily to create, day after day, even in its narrow territorial boundary, the unlimited royal dream, Ferdinand IV’s brothers-in-law 

left their heads under the blade of a bloody revolution.

 

Our king had married Maria Carolina of Habsburg, and Lorena, the sister of the Autri-chienne (Chienne in French means bitch), as she was reffered to by the French people in revolt, Maria Antonietta of Austria, wife ofmarried King Louis XVI. Blood and terror whose echo, however, failed to stop the will of this visionary who, perhaps overwhelmed by the excessive pump of the palace of Caserta, had decided to transform the town into a beautiful niche whose existence and wonder were not to end in itself. A delightful ancient little church already existed, and the King had a hunting lodge built in the Belvedere area, subsequently sending some families to live there so that they would take care of it. The king was endowed with a modern mindset and thus thought of creating a social model of absolute novelty, imposing a harmonious urban layout with a circular square and radial system of roads; Promoting economic autonomy with the creation of a factory for the production of excellent silks, something that had never really been seen before.

   

Not just a visionary but a precursor of that type of equality 

that founded the dignity of living on work but also on social 

security and the consideration of the (yet unwritten) human rights, 

with daily working hours reduced to eleven instead of the fourteen 

in effect in the rest of Europe, with equal pay for men and women, compulsory and free schooling and jobstart schemes 

that took into account the attitudes of young.

 

Even the homes were free and built with all possible comforts of those times. Vaccination to prevent smallpox was mandatory. The management of this endeavor, that was also able to produce a considerable income, anticipated the claim of rights that would later mark the political and social history of the continent. A sort of ‘Fernandinople’ with a Code whose fundamental principles were education, good faith and merit, and where there was no room for distinctions of rank and condition. From the living heritage of the silkworms that were cultivated in the building called the cuculliera, to the preparation of the bundles, the spinning wheels, the looms, the creation of luxurious fabrics for clothing and prestigious furnishings evolved in an extraordinary range of silk brocades with gold and silver, with particular ‘gros de Naples’, and also in an original, innovative fabric called Leucide.

 

 

With the introduction in the first half of the nineteenth century of the Jacquard, the weaving technique of which France was proud, 

the outcomes improved resulting in the creation of objects 

closer to being works of art rather than every day items.

 

The colors were natural, and the cultural inspiration of the unusual nuances imposed definitions that evoked emotions and desires: green willow, Prussia green, Seville, Nile Water… Impressive names of fabrics for upholstery, tapestries, curtains, sofa and pillow covers, but also shawls, corsets, handkerchiefs and other delicious clothing items. The furnishing fabrics fascinated kings and queens and popes, and today they still enrich rooms in the Quirinale, the Vatican, Buckingham Palace, the White House and other prestigious sites. Moreover, famous international fashion designers let themselves be tempted by these for their top range creations. History goes on, the becoming of progress produces decadence and new beginnings; thus, with the advent of the Unification of Italy, the dream of Fernandinople was embedded in the state properties. However, the mythology of a matter born from the imperious will of a king could not succumb.

 

Today, San Leucio’s fabrics remain an exceptional heritage
and, 
in those textures, an unchanged vitality of doing that has 

never ceased to nourish itself remains. With the aid of the
new technologies, without distorting craftsmanship, 

it is possible to create works that still show us the multiple 

depths of their beauty, their history, their utopian legacy,

 

but also the tactile delicacy or the creamy thickness of certain details, the texture – which seems fragrant – of the great floral designs, the tones of crunchy silks. Sensations that stimulate a passionate heuristic attention to discover further meanings. The regal apartments and the weaver’s house are visible today in their museum formula; however, the consortium of companies that descend from those older families is more than ever active and available. Cultural initiatives invoke visitors from around the world: in July, the Leuciana Festival is a historical costume evocation. In October, the Feast of Wine, of Vineyards and of Silk reenacts the same fantasy that animated an ancient king. In the factories and shops is a wealth of treasures to discover.

 

 

 

 

 

Le foto sono state gentilmente concesse dal Complesso Monumentale di San Leucio

 

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Helene Blignaut
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