IL ROMANZO DEI CAMINANTI di Alessandro Gaudio – Numero 9 – Dicembre 2017

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 IL ROMANZO DEI CAMINANTI

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Cos’è un camminante (o caminante, in siciliano)?1
Quali tracce hanno lasciato i Camminanti lungo il corso dei loro molteplici itinerari attraverso tutta l’Italia? Specialmente dal 1952,
quando molti di loro si insediarono a Noto, a Priolo,
a Sommatino e in altri centri siciliani,

 

principalmente nella provincia di Caltanissetta, e poi, negli anni Settanta e Ottanta dello scorso secolo, come si è evoluto il loro legame con il mondo esterno? Cosa resta oggi delle loro attitudini originarie? Grazie a un bellissimo documentario di Giuseppe Tumino, regista indipendente ragusano trapiantato in Basilicata2, e della fotografa Rita Mirabella, ideatrice del soggetto e co-regista3, possiamo tentare di dare una risposta a tali quesiti. Dal lavoro − intitolato Il segreto dei Caminanti (Italia – 63′), uscito nel 2016 per Extempora e realizzato con il sostegno della Sicilia Film Commission − apprendiamo, se non altro, il modo in cui quel legame, non certo dei più labili, si è sviluppato nel tempo. Sulla sua consistenza e il suo peso sembra aver influito la scelta di stabilirsi in alcuni luoghi, di disporre di qualcosa che appartenesse finalmente a loro, di una casa, nella quale abitare durevolmente, di arredi, di alcuni oggetti, senza che, del resto, tale scelta abbia mai modificato la loro attitudine di nomadi.

 

La ricostruzione di questa attitudine, dell’universo del camminantismo, della filosofia e della ratio alla base del fenomeno, è giocata nel film sull’individuazione di alcuni concetti chiave, il principale dei quali
pare senz’altro essere quello di miseria.

 

è la miseria il motivo cardine del nomadismo di un popolo che, a quanto pare, sbarcò in Sicilia già alla fine del XIV secolo, al seguito dei profughi Arbëreshë che Carlo V stanziò nell’Italia meridionale per rinforzarne le difese contro la minaccia degli Ottomani? Pur dovendo sospendere ogni conclusione sull’autoctonia o sulla ziganità di antica data di questa comunità, sembra proprio così; tuttavia, non è il solo presupposto. C’è qualcos’altro cui pare che alluda anche il titolo del film. 

 

Alla miseria dei Camminanti – un tempo conciabrocche e stagnini, ora riparatori di cucine a gas e d’ombrelli e venditori di palloncini – Tumino e Mirabella si accostano lasciando che le immagini e le persone stesse parlino il più possibile per conto loro.

 

Alle immagini si aggiunge un uso contrappuntistico della musica, spesso a mo’ di vero e proprio commento ironico. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di componimenti neomelodici napoletani, prima ancora che popolari, prediletti dai Camminanti medesimi. Le parole delle canzonette di Mario Merola, di Gianni Celeste o di Angelo Mauro, richiestissime star del genere, integrano o, talvolta, contraddicono il senso di una immagine o la reticenza di una dichiarazione. Aggiungono una sfumatura laddove questa non sia immediatamente deducibile da quell’immagine o da quella laconica asserzione. In fondo, i registi costruiscono il loro film proprio sul non detto, pur avendo scelto di servirsi di modalità cineastiche che recuperano la concretezza dell’esperienza umana, concentrandosi non tanto sulle cose in se stesse, quanto sulle storie di alcuni uomini vivi nelle cose. Passando dall’uomo − in particolare, dalla storia e dalle parole di Antonino Rasizzi Scalora4 e della sua famiglia − ed eliminando ogni commento fuori campo, Tumino e Mirabella trovano una misura, un controcanto mai meramente emotivo o incantato o mitizzato che consente loro di liberarsi della struttura ideologica del documentario e del suo soggetto: i diversi intervistati rispondono con le loro voci, senza doppiaggio, 

 

e la fotografia s’impone come mezzo privilegiato dell’analisi della realtà, alternando veloci fotogrammi con inquadrature lunghe e fisse, in modo da definire la staticità di un volto, l’accendersi improvviso di uno sguardo o il peso di un gesto, come se fossero scolpiti in un tempo
eternamente presente, di fatto sottratto alla storia.

 

I registi, che non possono comunque limitarsi a mostrare, di fatto partecipano alla rappresentazione. Lo fanno, osservando, intervenendo sul sentimento del film. Ciò non significa affatto indulgere nel sentimentalismo, ma prediligere alcune modalità di figurazione: l’alternanza delle inquadrature, il montaggio serrato, la presa diretta di parole e spesso di suoni, rumori e musiche sono tutti accorgimenti che consentono di tradurre in termini audiovisivi tanto le dinamiche endogene del gruppo di Camminanti quanto le complesse e spesso difficili relazioni con l’esterno.   

 

Tumino e Mirabella vanno ben oltre la fascinazione che può originarsi dall’osservazione di una tribù di nomadi semistanziali e fornitori di servizi5, scegliendo di curare il nesso con i gaggi, vale a dire con i non camminanti.

 

Se si vuole indicare lo spazio di rappresentazione individuato da
Il segreto dei Caminanti bisogna cercarlo laddove la vita e le esperienze di questo popolo incontrano il nostro mondo, quello sul quale continuano a camminare («il camminantismo – assicura uno di loro – non si fermerà mai; come la rondine che non resta in gabbia»).

 

Si tratta dello spazio dell’immaginario e non è affatto scontato che un film riesca sempre a intercettarlo. Tumino e Mirabella ci riescono ponendo su quello spazio le eterne problematiche dell’integrazione e della comprensione dell’altro. Contribuiscono, per così dire, a colmare quel vuoto di immaginazione nel quale troppo spesso si è deciso di relegare questa gente. Lo hanno fatto con la passione e la sensibilità che filtrano da un lungo lavoro di ricerca (cui Rita Mirabella si è dedicata sin dalla fine degli anni Ottanta), senza rinunciare a mostrare le ombre, le cose poco scoperte, i simboli (significativo quello della rondine, ad esempio, talvolta ferita), le reticenze del baccaglio (il singolare linguaggio usato per non farsi capire), le superstizioni e le tante contraddizioni di questo popolo nel popolo. Presentano anche i tentativi di auto-rappresentazione operati dagli stessi Camminanti e, valutandoli alla luce della loro storia, delle rinunce alla loro libertà e alle specificità della loro cultura, ne registrano il fallimento. Questo fallimento, che pertiene anche al modo in cui i non camminanti si sono rappresentati questa comunità, qualcosa significa. «Cos’è un camminante?» − si chiede Antonino, il protagonista, alla fine del documentario. E arriva, subito dopo, alla conclusione che no, non c’è definizione che si possa dare, non c’è paragone che si possa fare. E non risiederà magari proprio in questa diffusa impossibilità di rendersi comprensibile uno dei motivi, forse il principale, della mancata integrazione di questa comunità?

 

Tutto sommato, sembra che la storia dei Camminanti, essendo interamente chiusa nel presente, sia rimasta in ombra per secoli
rispetto all’avanzare del progresso.

 

è quanto sostiene Sebastiano Vassalli nel ventiduesimo capitolo, intitolato Il camminante, del suo romanzo più noto, La chimera. Vassalli racconta di Gasparo Bosi, tra i Camminanti del basso Piemonte meglio conosciuto come Tosetto, che, nel tentativo di difendersi e di difendere il modo della sua esistenza, si chiude nel suo io, vivendo di appagamenti elementari; si costituisce, cioè, come personificazione di una esistenza votata al romanzo, dice Vassalli, rifacendosi alle testimonianze sui Camminanti fornite dagli scritti di Antonio Massara, letterato e studioso novarese vissuto tra Ottocento e Novecento. E allora, con Vassalli, proviamo a fornire qui una definizione di Camminante.   

 

Cos’è un Camminante se non un romanzo? Romanzo che nessuno si sarebbe sognato di scrivere perché vissuto interamente nel presente del suo essere Camminante, fatto di sofferenza fisica, indifferenza e discriminazioni.

 

Il destino comune a tutti i Camminanti è memorizzato, commemorato, trasmesso di generazione in generazione attraverso la famiglia,
il lavoro, le musiche. 

 

Sebbene la scuola pubblica italiana integri il passato nazionale nello spirito dei ragazzi Camminanti che la frequentano in numero sempre maggiore6, essi rivivono le angosce, i lutti, le poche vittorie della loro esperienza di vita. è proprio nel dolore e nella sofferenza della loro specifica condizione che i Camminanti individuano la loro visione del mondo, la loro immagine, la metafora palpitante della loro vita.

 

L’identificazione con questo passato, che continua inesorabilmente
nel presente, rende quella dei Camminanti una specie di comunità
di destino, i cui limiti, fatti di una miseria che si teme, ma che si
usa per vivere, non sono facilmente superabili nella riflessione
o in qualcosa che risieda al di là di quella comunità medesima.

 

Così, come conclude Vassalli, «un camminante è un camminante e basta»7: una tautologia − dunque non quel paragone che Antonino non riesce a formulare − che restituisce pienamente lo spirito cui si sono attenuti anche Tumino e Mirabella nel tentare di scrivere il romanzo di uomini di cui si parla da secoli ma che, contro ogni evidenza e nonostante il loro profondo legame con la vita e con il mondo, non sono mai esistiti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Sulla comunità dei Camminanti, di cui si era occupato Giuseppe Pitrè sin dalla fine dell’Ottocento, si veda il documentario andato in onda il 12 dicembre 1989 all’interno della rubrica Binocolo di Maria Grazia Mazzola, intitolato I camminanti e diretto, per la RAI, da Rita Calapso. Si considerino, poi, la tesi di laurea di Rita Paola Toro, di cui «Lacio Drom», rivista del Centro Studi Zingari (all’interno del n. 3-4 del 1991, pp. 4-79), ha pubblicato un’ampia sintesi, il volume di Teresa Schemmari, I Caminanti. Nomadi di Sicilia (Firenze, Atheneum, 1992) e i lavori di Sebastiano Rizza, apparsi su «Lacio Drom», negli anni Novanta, su «Italia Romaní», nel corso del decennio successivo e, più recentemente, sui «Quaderni di Semantica», tutti per lo più dedicati al bbaccàgghiu, il gergo usato dai nomadi siciliani. Se ne riportano qui di seguito i titoli più significativi: I ‘gizi’ di Sicilia erano zingari?, «Lacio Drom», settembre-ottobre 1991, n. 5, pp. 27-28; Alcune note: Tre voci ebraiche nel gergo dei Camminanti di Noto, «Lacio Drom», marzo-aprile 1993, n. 2, p. 25; Alcune note: Un blasone popolare zingaro, ivi, pp. 25-26; Zingari in Sicilia fra magia e religiosità popolare, «Lacio Drom», maggio-giugno 1995, n. 3, pp. 13-16; Genesi e metamorfosi dello “zannu” siciliano, «Italia Romaní» (a cura di M. Aresu e L. Piasere), Roma, CISU, 2008, vol. V, pp. 166-184; Tabbarari a mašcu: viaggio nel gergo dei caminanti siciliani, «Quaderni di Semantica», n. 2, 2012, pp. 291-308; Bbaccagghiu sic. e parlèsia nap.: due gerghi a confronto, «Quaderni di Semantica», n. 1, 2014, pp. 125-133; L’elemento zingarico nel bbaccàgghiu dei caminanti siciliani, «Quaderni di Semantica», n. 2, 2016, pp. 191-217.
[2] Giuseppe Tumino ha diretto documentari, cortometraggi, tra i quali Beddu nostru signuri (2’52”-2005), Terramadre (15’-2012), Abbiamo raccolto le pietre (23’-2008) e Atti e scene in luogo pubblico (25’- 2014), nonché diversi lavori sull’intercultura e alcuni videoclip. Sta lavorando alla sceneggiatura del suo primo lungometraggio. 

[3] Di Rita Mirabella si veda l’interessante indagine fotografica intitolata Caminanti siciliani, pubblicata su «Italia Romaní» (vol. II, a cura di L. Piasere, Roma, CISU, 1999, pp. 37-46); della stessa si consideri anche Parole di Caminanti, «Italia Romaní» (a cura di S. Pontrandolfo e L. Piasere), Roma, CISU, 2002, vol. III, pp. 199-237. 

[4] La foto che lo ritrae è un frame del documentario. L’altro scatto è di Marcello Bocchieri. 

[5] Cfr. D. Nemeth, Nomadi fornitori di servizi: signori temporanei di mercati imperfetti, in L. Piasere (a cura di), Comunità girovaghe, comunità zingare, Napoli, Liguori, 1995, pp. 231-248.

[6] Nel 2010 i Camminanti iscritti alle scuole pubbliche di Noto erano quasi 4 mila e costituivano il 40 per cento della popolazione scolastica. Tra i diversi studi dedicati all’analisi del processo di educazione scolastica di questa comunità, si veda A. Palazzolo, Noto. L’inclusione scolastica dei Caminanti siciliani, in Rom, Sinti e Caminanti e comunità locali. Studio sulle condizioni di vita e sull’inserimento nella rete dei servizi socio-assistenziali nel Mezzogiorno, Roma, maggio 2010, pp. 146-161. Si considerino anche S. Taccone, Dove i caminanti hanno trovato casa. Esperienza di integrazione a Noto, «Popoli e missione», maggio 2010, pp. 10-15 

 

 

 

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Marcello Bocchieri Foto

 

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I GIARDINI DI KOLYMBETHRA di Cinzia Terlizzi – Numero 8 – Luglio 2017

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 Così l’Abate di Saint Non nel 1778, di fronte alle meraviglie racchiuse nella Kolymbethra, giardino nell’incanto della Valle dei Templi 

ad Agrigento, fra il Tempio di Castore e Polluce 

e quello di Vulcano…


I suggestivi monumenti dell’era classica impreziosiscono questo angolo di terra che fra piante della macchia mediterranea, mandorli e gelsi presenta un prezioso agrumeto ricco di specie ormai rare che ancora oggi viene irrigato secondo le antiche tecniche arabe con acquedotti sotterranei da dove arrivava anche l’acqua che confluiva in un grande bacino: la Kolymbetra appunto, che serviva per approvvigionare l’antica città di Akragas….

 

Di Kolimbethra parla per primo Diodoro Siculo. Nella sua Bibliotheca Historica descrive la città giardino abbellita da una immensa vasca 

dove sboccavano gli acquedotti feaci e dove venivano 

allevati pesci in abbondanza e una grande varietà 

di specie botaniche.

 

La piscina veniva alimentata da un sistema complesso e sofisticato di gallerie e di cunicoli sotterranei, gli ipogei, che raccoglievano la preziosissima acqua permettendo alla vasca di conservare sempre lo stesso livello e al giardino di prosperare senza interruzioni o problemi dovuti alle crisi stagionali di siccità. Acque limpide e fresche dove i cittadini akragantini solevano immergersi e le donne lavare gli indumenti mentre l’ombra e i profumi dei giardini deliziavano i visitatori. C’è da restare sorpresi se si pensa che tutto questo avveniva, stando sempre a Diodoro Siculo, intorno al 480 a.C..    

 

Kolimbethra subì varie trasformazioni nel corso dei secoli.

 

La piscina venne interrata un secolo dopo la sua realizzazione,
ma l’ingegnoso sistema di cunicoli e di acquedotti non smise
di funzionare, consentendo a tutta l’area di diventare
un immenso orto-giardino dalle infinite potenzialità
agrarie e fruttifere:

 

limoni, aranci, carrubi, melograni, gelsi, pistacchi e perfino banani crescevano rigogliosi nel giardino delle meraviglie immersi in una cornice di essenze mediterranee dove erano prevalenti i lentischi, gli allori e i mirti. Nei secoli diciottesimo e diciannovesimo, Kolimbethra acquista l’aspetto di un gigantesco e straordinario agrumeto assecondando la tendenza dell’intera isola a favorire la coltivazione e il commercio delle arance e dei limoni, fino ad arrivare ai nostri giorni, quando, contrastando la rovina e l’oblio, la Regione, nel 1999, decide di affidare al Fondo Ambiente Italiano le sorti del sito.

 

Un gioiello archeologico e paesaggistico, un luogo tenuto per decenni 

in abbandono tornato all’originario splendore grazie al FAI, 

a cui è stato affidato nel 1999 dalla Regione Sicilia 

in concessione gratuita. 

 

Il Fondo Ambiente Italiano ha ora inaugurato un nuovo suggestivo percorso negli ipogei o “Acquedotti Feaci”, gli unici visitabili nella Valle dei Templi… 185 metri nel sottosuolo attraverso cunicoli che risalgono al 480 a.c.: scavati dagli schiavi fenici nella roccia tipica della zona, la calcarenite gialla, e utilizzati anche per conservare acqua e cibo e, durante la seconda guerra mondiale, come rifugio antiaereo. Si cammina così in un luogo dall’indiscutibile fascino e dal grande valore storico-archeologico e botanico-agrario…tra memorie del passato e profumi del presente.

 

Un’altra perla del Sud salvata dal degrado e dall’oblio e che torna a brillare per la gioia di tutti coloro che amano e difendono
l’eredità culturale del Bel Paese.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giardino della Kolymbetra © Vincenzo Cammarata_ok
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I GIARDINI      DI KOLYMBETHRA

 

 

 

 

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CRONISTA D’ECCEZIONE: QUASIMODO ALL’AJA 1948 di Carlo Curti Gialdino – Numero 8 – Luglio 2017

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CRONISTA D’ECCEZIONE: QUASIMODO ALL’AJA 1948

 

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I fotografi di tutte le agenzie giornalistiche del mondo facevano scattare gli obiettivi delle loro macchine. Ero accanto a Churchill, all’uomo della guerra, io italiano. Non l’ho saputo ringraziare, io europeo, che sogna un’Europa veramente unita, senza discorsi preliminari, dove ad ogni parola, s’ode il rumore d’uno scoppio lontano, d’un nuovo scoppio che potrebbe bruciare perfino le acque della terra”[1].

 

 
Così Salvatore Quasimodo (Modica, 20 agosto 1901 – Napoli,
14 giugno 1968) chiude la breve, seppur intensa, testimonianza 
della sua partecipazione ad una iniziativa di tutto rilievo fra le
molteplici che hanno contribuito alla nascita della collaborazione
fra gli Stati europei, dopo il secondo conflitto mondiale 
e nel pieno della guerra fredda.
 
Ci si riferisce al Congresso dell’Europa, svoltosi a L’Aja dal 7 al 10 maggio 1948[2], presieduto da Winston Churchill ed ospitato nella sede del Parlamento olandese. Il congresso, che fu definito dal federalista francese Alexandre Marc gli États généraux de l’Europe, aveva l’obiettivo di dimostrare che esisteva una corrente di opinione favorevole all’unità dell’Europa, di discutere dei passi da compiere per realizzarla e di proporre ai governi delle realizzazioni concrete. La salvezza dell’Europa nel 1948, nelle intenzioni degli organizzatori, era vista nella creazione di una federazione degli Stati europei, possibile mediante la creazione d’un organismo internazionale capace di offrire un vasto mercato interno, base d’una solida prosperità; e questo con la ricostruzione tecnica, con la comunità delle risorse, con la divisione dei lavori tra i popoli. Ed in effetti quelle realizzazioni poi ci furono. Tra di esse possiamo ricordare, nell’immediato, la nascita del Consiglio d’Europa nel 1949, associazione di Stati con sede a Strasburgo, che oggi conta 47 membri e la firma a Roma il 4 novembre 1950 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Agli inizi degli anni Cinquanta seguirono la Dichiarazione del Ministro degli esteri francese Robert Schuman (9 maggio 1950), la conseguente istituzione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA, Parigi 18 aprile 1951), primo ente sovranazionale europeo, progenitore delle Comunità europee (CEE ed Euratom) istituite, come noto, dai Trattati firmati a Roma il 25 marzo 1957, dai quali è nata l’attuale Unione europea.
 
Al Congresso dell’Aja parteciparono circa 800 personalità: uomini di Stato, parlamentari, religiosi di tutte le confessioni, industriali, dirigenti sindacali, economisti, docenti universitari, scrittori, poeti e artisti.
 
Della delegazione italiana, presieduta da Nicolò Carandini, diplomatico e politico, e composta, tra gli altri, da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi[3], Giuseppe Ungaretti e Ignazio Silone, fece parte, per l’appunto, Salvatore Quasimodo[4]. Il poeta ci ha lasciato una vivace e salace descrizione dell’incontro nel saggio Europa één, (Europa unita), pubblicato postumo nel volume A colpo omicida ed altri scritti, apparso nel 1977[5].
 
Con occhio tagliente di osservatore critico, Quasimodo inizia rilevando che “pare che tutte le delegazioni italiane ai congressi internazionali arrivino, per tradizione, nel luogo stabilito per gli incontri,
con ventiquattro ore di ritardo”.

 

Ed anche in questo caso gli italiani arrivarono all’Aja alla fine della prima giornata dei lavori quando le “questioni preliminari” erano state regolate, Churchill aveva pronunciato il suo discorso e le presidenze delle commissioni erano state decise. Per arrivare all’Aja, gli italiani, che viaggiavano in treno su una vettura speciale, avevano dovuto superare cinque frontiere (Svizzera, Francia, Lussemburgo, Belgio e Olanda), quelle stesse frontiere che, dalla fine degli anni Novanta, dopo gli accordi di Schengen, non prevedono più la visita doganale dei viaggiatori. Quasimodo, a beneficio del lettore, ricorda che L’Aja (Den Haag in olandese) deve il suo nome alla Haghe, l’antico terreno di caccia del conte Guglielmo II di Olanda che fece costruire in questi luoghi, nel 1280, il castello ‘s-Gravenhage (L’Aja dei Conti). Nella Sala dei Cavalieri (Ridderzaal) si svolsero le sedute plenarie del Congresso. Con molta ironia, se non sarcasmo, Quasimodo ricostruisce i primi incontri della delegazione italiana con gli altri congressisti: in un albergo di Scheveningen, che è la spiaggia dell’Aja, in cui gli olandesi si difendono dal forte vento “stando seduti sulla sabbia dentro un curioso riparo di vimini, rannicchiati in una specie di culla verticale” e dove ancora oggi il turista ammirato non può sottrarsi al richiamo sorprendente dei rosseggianti tramonti sul Mare del Nord. Ma quella sera l’attenzione degli ospiti riuniti presso il grande salone dell’albergo ristorante “Kurhaus” fu tutta per la delegazione italiana che, essendo anche in questa circostanza giunta in ritardo, “per ragioni di orientamento” (sic!) ed essendo tutti i tavoli occupati, fu fatta accomodare sul palco; il che provocò un lungo applauso dei congressisti, convinti che fossero entrati Churchill o l’Altezza Reale Giuliana… Nella cena offerta, in cui la pastasciutta o la bistecca ai ferri, annota Quasimodo, “erano lontane esattamente ventotto ore di ‘Express’” ed il calice di vino era a pagamento (250 lire di allora, che, rivalutate, corrispondono agli odierni 3,67 euro), le sigarette, confezionate per l’occasione, erano gratuite.

 

Quasimodo partecipò ai lavori della commissione culturale,
presieduta dallo spagnolo Salvador de Madariaga[6], che propose
un Centro europeo della cultura, poi istituito nel 1949 a Ginevra
ed un progetto 
di una università europea, che fu poi alla base
del Collège d’Europe di Bruges, una istituzione post-universitaria
pure creata nel 1949 e divenuta rapidamente un noto centro
di formazione per la futura classe dirigente europea.

 

Quasimodo stronca il discorso di de Madariaga in plenaria, definito “gonfio e retorico, degno di un collaboratore d’una di quelle riviste letterarie che vedono la luce in ogni provincia degli Stati europei”. Ricorda, pure, che l’unico emendamento che la delegazione italiana riuscì a far approvare fu “accessorio, di carattere linguistico: la sostituzione d’un ‘europeo’ al posto d’un ‘occidentale’” e commenta, con le parole del Petrarca, “Italia mia, benché il parlar sia indarno…”. La seduta finale del Congresso si svolse ad Amsterdam nel corso di una grande riunione pubblica sulla piazza antistante il Palazzo reale. Quasimodo ricorda il risuonare dell’inno per l’Europa Unita (Europe united, Europe Unie, Europe èèn), con testo del poeta olandese H. Joosteen e musica del Maestro Louis Noiret, anch’egli olandese e lo sventolio di bandiere bianche con la E di Europa in rosso (vessillo allora del Movimento europeo, disegnata da Duncan Sandys, genero di Churchill, che poi, dopo la riunione dell’Aja[7], pretese che la E fosse colorata di verde). “Addio Amsterdam: il ritorno fu una corsa verso la stazione”. Il bilancio è amaro. Le parole di Quasimodo, che siamo abituati a conoscere quale poeta del dolore umano, sembrano indicare un atteggiamento di sfiducia verso le troppe parole roboanti e le poche conclusioni interessanti. Avrebbe, il poeta, preferito una visita alla città della pinacoteca e dei quattrocento ponti, dei settanta musei e delle due università, piuttosto che restare imprigionato al calar del sole nella ricordata piazza prospiciente il palazzo reale per una cerimonia sfiancante nel susseguirsi di discorsi non sempre pregnanti. Forse troppo provati, alcuni intellettuali, dalle vicende belliche, per coltivare la speranza. L’unico che sembra aver lasciato un segno nell’animo dello scrittore è proprio Churchill, “l’uomo della guerra”, per quel senso di gratitudine e riconoscenza che ogni uomo dell’epoca, ancora intimorito dallo spettro di una pace non duratura, era incline a tributargli. Settant’anni sono passati. La bandiera e l’inno dell’Unione europea non sono più quelli del Congresso dell’Aja del 1948. Sono stati sostituiti, rispettivamente, dalle 12 stelle dorate in campo azzurro e dall’Inno alla gioia della Nona sinfonia di Beethoven[8]. 

 

E, tuttavia, pur tra molte difficoltà e crisi ricorrenti, l’unità dei governi e dei popoli europei ci ha assicurato, dal 1945 ad oggi, il periodo di pace più lungo di sempre nella storia della nostra Europa. Non è poco. Occorre non dimenticarlo mai e ricordarlo sempre
alle nuove generazioni.

 

 

 

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 [1] S. Quasimodo, Europa een, in “A colpo omicida” e altri scritti, a cura di G. Finzi, A. Mondadori, 1977, p.61. [2] A. Varsori, Il Congresso dell’Europa dell’Aia, 7-10 maggio 1948, in Storia contemporanea, rivista trimestrale di studi storici, 1990, n. 3, pp. 463-493; J-M- Guieu & C. Le Dréau (dir.), Le “Congrés de l’Europe” à La Haye (1948-2008), P.I.E. Peter Lang, Bruxelles, 2009. 

 

[3] A. Spinelli, E. Rossi, Per un’Europa libera ed unita progetto d’un manifesto, più noto come Manifesto di Ventotene, scritto nell’inverno 1941 e pubblicato in edizione clandestina nel 1944, con prefazione di E. Colorni con il titolo Problemi della Federazione europea. [4] S. Paoli, The Italian Delegation to the Hague “Congress of Europe”, in J-M- Guieu & C. Le Dréau (dir.), op. cit., pp. 211-222. [5] S. Quasimodo, op. cit., pp. 51-61.

 

[6] La presidenza era stata originariamente offerta a Benedetto Croce, che rinunciò adducendo motivi di salute (S. Paoli, op. cit., pp. 214-215). [7] Riferisce R. Harmignies, Le drapeau européen, in Vexilla Belgica, n. 7, p. 77 che “Malheuresement, lorsque la cérémonie s’ouvrit au Binnehof et n’y avait pas un souffle de vent, tous les drapeaux pendaient mollement le long des hampes, formant ainsi un véritable mer rouge. Le viex Churchill vit rouge égalemen et Mr Sandys fut instamment prié de choisir un autre couleur pour l’emblème de son Mouvement!”. [8] C. Curti Gialdino, I Simboli dell’Unione europea. BandieraInno – Motto – MonetaGiornata, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 2005. 

 

 

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IL DIOMEDE RIAFFIORATO di Giorgio Salvatori – Numero 8 – Luglio 2017

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Diomede, eroe leggendario o veramente esistito? Tanta è la pletorica presenza di Ulisse nell’Iliade e, naturalmente, nell’Odissea, che i più stentano a ricordare la figura del suo valoroso sodale durante gli eventi di Troia. 

 

Eppure, Omero, nell’Iliade, gli dedica il quinto libro, dal titolo “Le gesta di Diomede”, descrivendo l’”aristia” – l’eccellenza dell’eroe – declinata in ripetuti episodi di valore. Valore che non incanta Dante che colloca, invece, Diomede, insieme con Ulisse, nella bolgia dei “male consiglieri” affermando: “E così insieme a la vendetta vanno come a l’ira’’ (Inf.XXVI,56,57). Dante non perdona infatti ai due eroi greci la predisposizione a coltivare sempre una smodata astuzia nel costruire inganni. Destini analoghi, insomma, perfino nelle perigliose avventure che entrambi affrontarono nei viaggi che li ricondussero a casa. Ed è questa la narrazione più tenace legata alla figura di Diomede, che ancora sopravvive nella memoria di quasi tutti gli odierni abitanti delle isole Tremiti. Il perché è strettamente collegato al mito della fondazione di queste isole dell’Adriatico. La storia narrata dagli isolani, estrapolata dai testi classici, rielaborata e riportata su varie pubblicazioni turistiche, ammette alcune varianti.  

 

La più suggestiva attribuisce al nostro eroe la creazione ex nihilo
delle Tremiti, o Diomedee, scaturite dagli abissi dopo il lancio in mare delle pietre che Egli aveva portato con sé da Troia.

 

La leggenda, comunque in tutte le sue versioni, narra sempre che Diomede, dopo essere tornato ad Argo, sentitosi tradito da una moglie infedele e da sudditi ostili, fu costretto a rimettersi in viaggio; ma, a causa di una terribile tempesta, fu spinto sulle acque del mare Adriatico approdando, infine, sulle coste settentrionali della odierna Puglia. Qui decise di fermarsi e fondò diverse città. Il destino riservò, a questo punto, anni di gloria a Diomede, acclamato nella nuova patria, prima, come eroe, poi, come re, dopo atti di ardimento e straordinarie imprese belliche. 

 

Dopo i fasti vissuti in terra dauna, giunse, infine, la morte.
Le spoglie dell’eroe furono sepolte sull’isola di San Nicola,
la più abitata tra le Tremiti, in un luogo mai realmente individuato nonostante una piccola grotta dell’isola venga citata
sulle guide turistiche come ‘’Tomba di Diomede’’.

 

Seguendo un collaudato modello mitopoietico, la leggenda racconta anche che i fedeli compagni dell’eroe greco furono trasformati in uccelli marini dalla dea Afrodite, forse per compassione o forse per vendetta – visto che la dea, durante la guerra di Troia, era stata ferita ad una mano da Diomede mentre tentava di soccorrere suo figlio Enea. Non è un caso che questi uccelli, le berte, vengano chiamati anche “diomedee’’. Il loro verso lamentoso, di notte, sembra a molti un pianto inconsolabile per la perdita della guida ardimentosa dell’amato capo.  

 

Fin qui, la leggenda. Affascinante, romantica, remota. Riscontri pochi
o nulli. Ecco però che, a distanza di oltre tre millenni dal periodo in cui si suppone si siano svolti gli eventi successivi alla guerra di Troia,
riaffiora dalla terra del Gargano un piccolo monile che fornisce
il primo, intrigante indizio della presenza dell’eroe omerico
nella terra dei Dauni.

 

Si tratta di un piccolo anello d’oro di epoca romana, probabilmente risalente al primo secolo dopo Cristo: molti secoli dopo, quindi, gli eventi mitopoietici narrati dalla leggenda omerica. L’anello risulta impreziosito da una gemma che reca la fine incisione di una figura maschile con le sembianze del nostro eroe. La scoperta, inaspettata, durante gli scavi intrapresi in una grande e dimenticata necropoli paleocristiana, individuata già sul finire del diciannovesimo secolo (Del Viscio,1887); poi abbandonata; quindi, riaperta parzialmente negli anni sessanta del secolo scorso e, poi, nuovamente abbandonata fino ad anni recenti, quando, con finanziamenti regionali, nell’antico luogo di sepoltura e alle pendici di un monte boscoso, si è tornato a scavare con nuova lena e mezzi adeguati. 

 

Nel libro che divulga questa scoperta (Biscotti, Giglio, La Rocca, 2016), Luigi La Rocca, Direttore presso la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia, afferma che l’anello, con castone in agata, costituisce la prima attestazione iconografica dell’eroe, la cui figura mitica è notoriamente connessa all’area garganica” e descrive l’incisione come inequivocabilmente raffigurante l’eroe greco Diomede che stringe in una mano il Palladio, cioè l’immagine sacra di Pallade Atena, venerata in Ilio e considerata dai Troiani e dai Greci come il più sicuro presidio per la difesa della città. 

 

E, infatti, la leggenda vuole che proprio Diomede, insieme con Ulisse (entrambi travestiti da mendicanti), riuscì a trafugare il prezioso simulacro da Troia e a portarlo via con sé nelle successive peregrinazioni. Un indizio, non una prova, ma, stando alle autorevoli affermazioni di La Rocca, la gemma dell’anello recuperato negli ipogei di Monte Pucci può essere considerata una traccia concreta 

della presenza di Diomede in Puglia. 

 

Qui ritorna la domanda: Diomede invenzione omerica o eroe approdato e vissuto sul Gargano? Rappresentazioni di Diomede, con o senza il Palladio, non sono rare: immagini emerse da tombe etrusche, raffigurate su reperti di epoca romana. Ma, quella riaffiorata dalle viscere del promontorio garganico, è l’unica, fino ad oggi, che fornisca un riscontro tangibile del possibile approdo del leggendario guerriero greco sulle spiagge della Puglia garganica. Pochi hanno dato rilievo alla notizia della scoperta: qualche riga vergata sul lancio di un’agenzia di stampa, brevi articoli di alcuni quotidiani regionali. Eppure, il rinvenimento meriterebbe maggiori approfondimenti, così come più spazio potrebbe essere dedicato alla eccezionale campagna di scavi che si sta conducendo nella necropoli di Monte Pucci, dove l’anello di Diomede è stato trovato. Si tratta infatti di un luogo la cui unicità è attestata da tutti i ricercatori, archeologi, antropologi, botanici, tecnici che stanno partecipando alla campagna di scavi con l’obiettivo di realizzare, sul posto, un museo archeologico e naturalistico ai piedi di una montagna che si affaccia su un mare dalle trasparenti sfumature di azzurro e di verde. 

 

Gli scavi hanno finora restituito ai ricercatori oltre 800 sepolture, 

tutte risalenti al periodo compreso tra il IV e il VII secolo d.C., 

rinvenute in 26 ipogei la cui insolita architettura ha sorpreso 

tutti quelli che hanno preso parte ai lavori.

 

Centinaia i reperti finora classificati tra lucerne, anfore, oggetti di ornamento, oltre ai tanti resti di individui inumati: adulti, bambini, intere famiglie. Una varietà di tombe a loculo, a baldacchino, a fossa semplice, ad “arcosolio” che, difficilmente, trova riscontro in altri siti di inumazione della penisola. Intorno alla necropoli, e sopra gli ipogei, il fortunato visitatore proverà stupore nell’immergersi in una natura rigogliosa dagli intensi colori e dai soavi profumi di flora mediterranea. Protagonisti dello spettacolo sono gli ulivi maestosi, i grandi caprifichi, le rare campanule garganiche. Una cornucopia di piante, di arbusti, di fiori odorosi. Un unicum da tutelare e offrire al pubblico quando saranno terminati i lavori di scavo e completate le opere di recinzione e di sentieristica guidata. Quali scoperte possa riservare ancora la necropoli ai ricercatori è difficile dirlo. Ciò che finora si è trovato, in ogni caso, dovrebbe indurre responsabili politici regionali e amministratori locali a impegnare il massimo delle risorse disponibili per rendere queste scoperte patrimonio diffuso e condiviso. Non sfugge a nessuno, infatti, che i benefici che ne potrebbero derivare per la cultura, l’economia, il turismo di qualità, sarebbero molteplici, vantaggiosi per tutti e, soprattutto, duraturi.

 

 

 

 

 

 

 

 

IL DIOMEDE RIAFFIORATO

 

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 Le foto sono di Valentino Piccolo, Direttore Gruppo Archeologico Garganico “S. Ferri”

 

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“LA NOSTALGIA DEL BELLO” di Marta Rizzo – Numero 8 – Luglio 2017

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“LA NOSTALGIA DEL BELLO”

 

La Calabria è stata la patria di Pitagora e tutto, qui, ricorda che la Magna Grecia c’è: “La gente di questi paesi è di un tatto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui, una volta, la civiltà era greca” – scrive Cesare Pavese

 
in una lettera alla sorella Maria, durante il confino impostogli dal regime fascista, tra il 1935 e il ’36, a Brancaleone (RC). Ed è stata raggiunta anche da latini, normanni, popolazioni baltiche (sempre meno, ma esistono ancora piccole comunità che parlano il greco-albanese). I coloni achei che giunsero qui dalla Grecia chiamavano Vituli gli abitanti del luogo, il cui etimo è da riferirsi a quello di toro (molti nomi di paesi, parlano di tori: Bova, Bovalino, Taurianova, Gioia Tauro). Il nome ha origine dal greco Kalon-brion: “faccio sorgere il bene”, ma potrebbe anche derivare da Calabri: “abitanti delle zone rocciose”. Tori rocciosi, i calabresi: oltre ogni semplificazione, sono davvero così.
 
Ci sono stati passaggi importanti, in Calabria, da parte
del grande cinema italiano e non solo.

 
È l’inaspettata meraviglia di questo posto ad aver incantato grandi registi. Il cinema, in Calabria, ha raccontato cose preziose, in uno spazio prezioso: Mario Camerini (Il brigante Musolino, 1950), Pier Paolo Pasolini (Il Vangelo secondo Matteo, 1964 e Comizi d’amore, 1965), Mario Monicelli (L’armata Brancaleone, 1966), Luigi Comencini (Un ragazzo di Calabria, 1987). Tutti sono rimasti folgorati dalla violenta bellezza antica di questi spazi. Eppure, a parte questi grandi, i film girati in Calabria hanno uno sfondo piuttosto stereotipato: dai briganti di Camerini ai mafiosi, o comunque svogliati e tendenzialmente delinquenziali personaggi del Meridione di Ficarra e Picone (Il 7 e l’8, 2007), Antonio Albanese (Qualunquemente, di Giulio Manfredonia, 2011), Checco Zalone (Quo Vado?, 2016).  Da qualche tempo, però, nella regione si percepisce una cauta ma positiva rinascita, dovuta anche al nuovo assetto della Fondazione Calabria Film Commission, oggi gemellata con quella della Lucania. La Film Commission calabrese nasce nel 2006, ma, in seguito ai debiti accumulati, processi e il commissariamento, non realizza nulla di buono nei suoi primi anni di vita. 
 
La nuova generazione del cinema calabrese e la nuova, attiva,
Calabria Film Commission

 
Intanto, qui, si formano registi di grande interesse, come Fabio Mollo, di Reggio Calabria. Pur dichiarando di sentirsi profondamente calabrese, ora è cittadino del mondo e regista affermato; ma, i sui primi documentari e il suo esordio, Il sud è niente (2013), hanno espliciti riferimenti al reggino; così come Il padre d’Italia (2017), candidato ai Globi d’Oro per gli attori Isabella Ragonese e Luca Mainetti, è girato tra Rosarno, Gioia Tauro e Reggio Calabria. È un altro film, realizzato nel 2014, a segnare una nuova fase del cinema di questa regione: Anime Nere è girato in Aspromonte, con lo stile del western (che in Italia ha avuto grandi maestri e successi internazionali). Si parla di ’ndrangheta, sì, ma lo si fa fuori dagli schemi, con coraggio e forza. Il film di Francesco Munzi vince 9 David di Donatello, 2 Ciak d’Oro e altri prestigiosi premi cinematografici. Nell’agosto del 2016 si procede ancora nella messa a punto delle attività audiovisive regionali, con la nomina del nuovo presidente della Calabria Film Commission, Giuseppe Ciprigno, esercente e membro della commissione ministeriale MIBACT, e del direttore pro tempore, Paride Leporace, già direttore della Lucania Film Commission: le 2 regioni danno vita a un nuovo e positivo progetto di collaborazione, piuttosto innovativo e fecondo, il progetto Lu.Ca.    
 
Oggi, la Fondazione Calabria Film Commission dispone di 500.000 euro l’anno e adotta una linea di intervento per il sostegno di produzioni cinematografiche nazionali e internazionali che scelgono di ambientare le nuove produzioni cinematografiche sul territorio. La Film Commission calabrese partecipa ai festival di Venezia, Cannes e a tutti i principali festival nazionali ed europei, promuovendo la regione e le sue attività. Parallelamente, offre formazione professionale e sostegno per nuove produzioni, promozioni e diffusioni di film realizzati da calabresi. Come recentissimo successo territoriale e divulgativo, la Regione e la Calabria Film Commission hanno finanziato uno sceneggiato televisivo, le cui riprese sono iniziate in giugno, sulla figura di Mimmo Lucano, sindaco di Riace (RC), e sulle sue innovative politiche di accoglienza dei migranti che, con un lavoro quotidiano e per lo più sconosciuto,  testimoniano lo spirito d’ospitalità dei calabresi (il calabrese è così: lavoratore, accogliente, talmente orgoglioso da non chiedere il riconoscimento della propria fatica). Lo sceneggiato andrà in onda nel febbraio 2018, su RaiUno. È con questa mentalità positiva, che si è arrivati a vedere il bel A Ciambra: una storia struggente di incontri tra ultimi sullo sfondo della frazione di Palmi, che si chiama Ciambra appunto, nel Golfo di Gioia Tauro. Il film di Jonas Carpignano, newyorkese-romano che da 7 anni vive a Gioia Tauro, ha entusiasmato critica e pubblico alla Quinzaine di Cannes nel maggio scorso, infondendo maggiore fiducia a una terra sulla quale trionfano i luoghi comuni, ma che si rivela vitale e priva di pregiudizi.
 
I registi nati qui, come molti calabresi, sono anche cittadini del mondo
 
Poi, ci sono i registi calabresi, che sono legatissimi, come rocce, alla Calabria e contemporaneamente riescono a integrarsi ovunque. La comunità dei calabresi nel mondo (www.calabresi.net) è una tra le più grandi. Emigranti, per necessità, ma forse anche curiosi, i calabresi. I registi nati qui, sono davvero cittadini del mondo: Carlo Carlei, per esempio, ha lasciato la sua Nicastro (CZ), prima per Roma, poi per gli Usa, dove ha avuto una nomination ai Golden Globe con La corsa dell’innocente (1994), fino al più grande successo internazionale di Romeo and Juliette (2013). E poi, Massimo Scaglione, formatosi a Los Angeles, e Andrea Frezza, regista e documentarista di Laureana di Borrello (RC), che ha vissuto in California. Ultimo nome, esemplare, è quello di Gianni Amelio: raffinato, colto, penetrante. Osservatore silenzioso, attentissimo alle pieghe intime dell’individuo, alle crisi del mondo, ai dolori della società. Riservato e gentile, Gianni Amelio, calabrese di Magisano (CZ), ha sconvolto, incantato, commosso il mondo con film come Porte Aperte (1990) tratto da Leonardo Sciascia, Il ladro di bambini (1992), Lamerica (1994), La stella che non c’è (2006), Felice chi è diverso (2014), fino all’incantevole, ultimo, La tenerezza (2017).
 
Intervista a Mimmo Calopresti: Come si può essere calabresi?
 
A un regista, sceneggiatore, attore, produttore calabrese nel mondo, si è scelto di fare alcune domande riguardo il suo rapporto con la Calabria. Parafrasando Leonardo Sciascia, che iniziava la raccolta di saggi Fatti diversi di storia letteraria e civile (1989) con il capitolo intitolato: “Come si può essere siciliani?”, e anche Gian Maria Volonté, interprete del grande film del calabrese Gianni Amelio, Porte aperte (tratto anch’esso da Sciascia), che nell’evocativa scena di viaggio sul traghetto sullo Stretto di Messina, concludeva il suo intenso monologo, allo stesso modo, con la domanda: “Come si può essere siciliani?”, a Mimmo Calopresti abbiamo chiesto: “Come si può essere calabresi”?
 
Cosa ricordi della Calabria, da bambino?
 
Ho lasciato Polistena (RC), dove sono nato, a soli 2 anni: ci siamo trasferiti a Torino, come tanti migranti, mio padre faceva l’operaio. La famiglia Calopresti appartiene a quella grande parte d’Italia che è partita, amando il proprio Paese, per sopravvivere in giro nel mondo; c’è un Domenico Calopresti, mio antenato e omonimo, che è arrivato a New York come migrante, nei primi del ’900. Ma per me, la vita calabrese è stata, ed è, decisiva. L’infanzia calabrese era estiva, soprattutto, e di sole donne: donne e bambini, perché gli uomini lavoravano al nord. Come in guerra… Estati intere senza maschi adulti. Vivevamo quelle giornate bollenti tra anziani, donne e bambini. Curioso e indimenticabile, formativo e utilissimo, quel tempo. Io stavo bene.
 
Che immagine associ alla Calabria?
 
L’immagine della mia Calabria è quella di un Eden. L’ho anche criticata molto, nel tempo, ma l’idea che ne ho è quella di un Paradiso. Sono nato nella Calabria dello Stretto, tra la parte più estrema del continente e la Sicilia. La Calabria dello Stretto di Messina è profondamente greca: sente tutta la nostalgia della fine del continente Europa, si apre al Mediterraneo e ricorda la propria storia: la civiltà greca, dalla quale è nata. Parlo di Calabria dello Stretto perché esistono varie “Calabrie”, per gli stessi calabresi: i cosentini, per esempio, sono e si sentono molto diversi dai crotonesi e viceversa; come chi è nato in Sila, si sente, ed è, più parte delle montagne che del mare – Anche se la giornata, estiva intendo, del calabrese si svolge svegliandosi tra i boschi di castagni, e poi giù, soltanto un’ora di macchina per fare un tuffo al mare, mangiare cibo squisito e andare alle feste, nelle piazze – Viaggio parecchio per la Calabria, la conosco (anche se nasconde dei posti che mi stupiscono e scopro sempre qualcosa di nuovo). Soprattutto da qualche anno, ci sono molte iniziative culturali, musicali, cinematografiche, retrospettive e rassegne, festival. Un altro tratto della Calabria è la vitalità, cosa che appare inaspettata a chi non è calabrese.
 
Come sono i calabresi?
 
Non lo so, se ne sono andati tutti… Ho parlato delle estati femminili della mia infanzia perché davvero penso che sia una regione disgregata, scissa: intendo dire che la miseria e l’inquietudine qui sono così presenti e tangibili, che il calabrese è destinato ad andare via, quasi per principio, oltre che per necessità. Penso che i calabresi siano particolarmente adattabili e più accomodanti di quanto non si dica: l’orgoglio e la nostalgia  della terra, al di là di ogni retorica, spesso ci hanno difeso (e parlo anche per me) dalla diffidenza, dalle umiliazioni, dalle discriminazioni. I calabresi, in Germania, Svizzera o a Milano, sono stati fortemente discriminati, sin dall’immediato dopoguerra. E dico Milano perché lì è stata davvero dura la vita dei migranti del sud, mentre a Torino ho sentito sulla mia pelle una maggiore fiducia verso di noi, forse perché c’era un’identità collettiva più forte. Fondamentalmente, non penso che i calabresi fuori dalla Calabria abbiano meritato e meritino ancora la circospezione, a volte il sarcasmo, che invece vivono.
 
Quanto il tuo essere calabrese ha influenzato il tuo cinema?
 
C’è sempre, nei miei film, l’idea del Sud: un grande Sud, con grandi potenzialità. Non racconto solo la Calabria, ma l’intero Sud, che è il luogo dell’uomo per eccellenza. A Torino, c’era una comunità calabrese forte, ben integrata. E io stesso mi sento torinese. Ma il mio essere un uomo del Sud è più forte: è il richiamo dell’antropos, della polis, della civiltà greca. Nel mio cinema ritrovo sempre la nostalgia del bello, dell’essere del Sud, non soltanto calabrese.
 
Come racconti la Calabria nei tuoi film?
 
La racconto con parsimonia, nel senso che c’è, ma cerco di non abusare di quel richiamo, di quella nostalgia, che rischia di diventare retorica. Cerco di inserirla in un contesto generale, in racconti altri, che non riguardino esclusivamente quei posti. Perché, se i calabresi sono davvero cittadini del mondo, è la Calabria, come luogo e come idea del luogo, che stenta a diventare parte del mondo. Resta chiusa nei luoghi comuni, nella diffidenza da parte di chi non è calabrese, e questo è confermato dal fatto che chi va in Calabria per la prima volta, regolarmente, si stupisce della sua unicità, bellezza, accoglienza, allegria. Quando ho raccontato la Calabria, in Preferisco il rumore del mare o L’Abbuffata, ho cercato di aprirla ai fatti, alle storie di altri posti, di altre persone, non solo della Calabria...
 
Come vedi la Calabria, oggi?
 
Sono stato ovunque nel mondo e ho trovato calabresi ovunque nel mondo: dal Brasile, alla Russia, all’Europa tutta, all’America. E così, ho capito che dappertutto c’è la presenza dell’uomo, del luogo dell’uomo, del Sud. Nel mondo, cioè, circola ancora l’idea della Magna Grecia, della civiltà, di qualcosa di profondamente strutturato e forte, che arriva da lontano. E quest’idea è portata anche dai calabresi. Il punto è che la Calabria si deve aprire. Come ho detto, tutti quelli che scoprono la Calabria la amano e ci ritornano, perché è selvaggia, richiama l’ancestrale, i luoghi della memoria nascosta. Attualmente, poi, succedono cose nuove, positive, culturalmente parlando. Recentemente, ho letto sul New York Times che tra i primi 7 posti dove si mangia meglio al mondo, c’è la Calabria. E non è scritto su un giornale locale, ma su uno dei più importanti quotidiani del pianeta e si parla dei primi 7 posti al mondo dove gustare cibo: bello, no? I sapori calabresi, forti, delicati e potenti, sorprendono molto e sono radicati nella cultura calabrese. Ma c’è dell’altro, in Calabria. Forse, anche grazie a chi arriva qui scappando da guerre, fame, morte, la Calabria sta trovando, paradossalmente, nuova vita. Questi nuovi cittadini vengono accolti e spesso ripopolano interi paesi che erano quasi abbandonati; credo che questa nuova vita porti con sé un nuovo fermento. La parte sana e attiva della Calabria sta raccontando le storie di nuove persone e tutto questo fa nascere un nuovo punto d’osservazione, una riflessione superiore anche sulla propria cultura, che non può che arricchirsi e maturare insieme a quella altrui. Ecco, ora credo che la Calabria stia trovando la strada per essere davvero parte del mondo, in modo positivo e tangibile. 
 
Recentemente, per la Calabria, hai realizzato un progetto: Bella come un film. Di cosa si tratta?
 
È una specie di documentario, lo abbiamo fatto pochi mesi fa. Sono convinto che i calabresi, per far conoscere la Calabria migliore, debbano auto-raccontarsi. Così, da un’idea nata nell’Associazione Calabresi Creativi, con la Regione e la Calabria Film Commission, abbiamo lanciato un’iniziativa sui social networks – uso i social e ci lavoro: sono i nuovi luoghi dell’immagine in movimento, ma non ne abuso – Abbiamo chiesto ai calabresi di inviare su Instagram filmati girati da loro stessi, su quello che succede in Calabria: il mare, la montagna, i riti religiosi, le feste paesane, il cibo, la musica… Ne abbiamo ricevuti moltissimi, tutti interessanti e ne abbiamo premiati 5-6. Poi, ci è venuto in mente di montarli e farne un unico lavoro, sulla Calabria, fatto da calabresi. Mi è stato chiesto che lo montassi io ed è nato Bella come un film. Il presidente della Regione era entusiasta: è successo qualcosa di comunicativamente importante con quella cosa, in modo naturale. Lì ho davvero capito che, per aprirsi al mondo, la Calabria deve auto-raccontarsi, lo ripeto: è la migliore promozione che possa fare per se stessa. 
 
Per concludere, come vive tua figlia la Calabria?
 
Mia figlia ha 8 anni ed è curiosissima della Calabria. Io ci tengo molto che la conosca. Le racconto fatti, luoghi, storie di persone e lei vuole sapere tutto, mi fa un sacco di domande. Ma soprattutto, Clio nuota moltissimo, in Calabria.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

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Fabbricare, fabbricare, fabbricare
preferisco il rumore del mare
che dice fabbricare fare e disfare.
Fare e disfare è tutto un lavorare.
Ecco quello che so fare.
(Dino Campana)

 

la sua spettacolare natura sta lì per l’uomo. C’è tutto in Calabria: il mare, i laghi, la Sila e l’Aspromonte; cibo sorprendente nella sua complessa povertà gustativa; c’è odore di mare, di sole, argilla e finocchio selvatico; di castagni, querce, ulivi, funghi; ci sono feste paesane e riti pagani, religiosi, di grande valore antropologico, come ha insegnato Luigi Lombardi Satriani.

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NAPOLI “SPAGNOLA” di Sergio Lambiase – Numero 8 – Luglio 2017

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Che è un paradosso, o una boutade, ma con un fondo irriducibile di verità, soprattutto alla luce della impetuosa “barcellonizzazione” che ha investito Napoli negli ultimissimi anni, nel senso della iridescenza turistica e dello spettacolo insolito delle strade colme di viaggiatori incantati e qualche volta turbati. 

Come la Napoli di trenta o quaranta anni fa, Barcellona una volta era una città grigia, perfino triste, e chi vi capitava, per lavoro o per diporto, a stento si accorgeva del fascino del Paseo de Gracia con i capolavori del modernismo catalano o del fulgore del barrio gotico intorno alla cattedrale sontuosa dedicata a Sant’Eulalia. Poi vennero le Olimpiadi del ‘92 e la città mutò pelle, non più la vita sonnolenta, le strade vuote, la tristeza ereditata dal passato, ma nuove prospettive architettoniche, alberghi eleganti e musei rimessi a nuovo, e via, manco a dirlo, le ciminiere, la caligine, le vecchie fabbriche, i palazzi slabbrati, il grigiore del porto.

 

I tempi nuovi entravano a vele spiegate nella città cara a Gaudí, suscitando il malumore dei vecchi catalani, ma esaltando lo spirito giovanile in chi vedeva nella palingenesi turistica (e sportiva)

della città il motore di una invocata modernità.

 

Nel 2004, il Forum delle Culture, che invano si sarebbe tentato di replicare a Napoli, e con scarsa fortuna, una decina d’anni più tardi, rappresentò un’altra tappa avventurosa della modernizzazione di Barcellona, anche se nel sostituire il nuovo all’antico, qualcosa andava irrimediabilmente perduto. Chi scrive è stato testimone, sia pure occasionale, delle metamorfosi della città delle ramblas ai tempi del Forum. La metropoli aveva la febbre. Il quartiere di Poble Nou, roccaforte della classe operaia barcellonese (quella che aveva impugnato le armi contro i franchisti ai tempi della Guerra Civile) entrava nel mirino degli urbanisti o degli urbanisti-speculatori. La rambla di Poble Nou da ritiro accogliente degli operai delle industrie conserviere si mutava in una strada modaiola, votata alle lusinghe della cucina spagnola e alle ebbrezze della movida. Il piccone demolitore. cominciò a cancellare, nell’antico quartiere, aggraziati edifici di fine Ottocento per sostituirli con arditi, ma allo stesso tempo, anonimi volumi architettonici. Vanamente gli abitanti cercarono di opporvisi, con le “lenzuolate”, i volantinaggi, i piccoli cortei improvvisati che la polizia puntualmente rintuzzava. “Oggi Barcellona è una città trasparente, colorata, vivace, dinamica che piace ai giovani!” disse a commento Joan Clos, in quegli anni applaudito sindaco della metropoli catalana, ignorando malumori e proteste.     

 

La “barcellonizzazione”, nel senso della rigenerazione urbana, in sé, comunque, non è un crimine. Va al più governata, “decelerata”, semmai ricollocata in orbita, se per un eccesso di energia o di spavalderia amministrativa debordasse dai confini che la metamorfosi turistica impone al tessuto e alle forme di vita proprie di una città storica.

 

 Ma come sta vivendo Napoli la sua tardiva “barcellonizzazione”,
e a quali mutamenti la costringe?

 

Napoli è da sempre una città “disfunzionale”, per definizione bella e impossibile, sregolata, orgogliosa della sua “diversità” e irriducibilità, quasi nazione nella nazione, con le sue “leggi”, i suoi capricci, le sua tentazioni di eterna ribelle. Sono cose che sappiamo tutti; ma la “barcellonizzazione”, qualsiasi forma finisca per assumere, invocherebbe anche una misura d’ordine, una “normalizzazione”, un adeguamento agli standard che la modernità, e in particolare la modernità turistica suggerisce nell’epoca dei tour operator, dei voli a basso costo, della sharing economy (nei trasporti, nella pratica delle case vacanza, ecc.). Partenope è in grado di farvi fronte?     

 

Certo è che la città, o per lo meno il paesaggio urbano sta mutando. Sia ben chiaro: a Napoli non è in atto alcuna trasformazione radicale, come è accaduto a Barcellona a tempi delle Olimpiadi. Vedi il caso di Bagnoli in qualche modo la Poble Nou napoletana che non è mai stata investita dalla rigenerazione urbanistica (buona o cattiva che sia), né diventata un Parco tematico come è accaduto nella zona della Ruhr, con il Landschaftspark, all’indomani della dismissione delle acciaierie Thyssen. Stessa musica per la zona di San Giovanni a Teduccio, sul confine orientale della città, rimasta un cimitero di vecchie fabbriche slabbrate, anche se di recente vi si sono insediati i padiglioni dell’Academy Apple. I mutamenti, se vi sono, riguardano per il momento soprattutto la street scene, la buccia della metropoli, con le vie e le piazze principali della città, al Vomero, a Toledo, sui Decumani, nel quartiere di Chiaia, trasformate in veri e propri distretti gastronomici, dove domina il cibo di strada, con le pizze fritte vendute dovunque e le lusinghe del finger food che attrae soprattutto i turisti. Tutto qui? 

 

Per fortuna Napoli, ancor più di Barcellona, è una città di grandi risorse artistiche e di straordinari giacimenti culturali che fanno da nobile contraltare ai fumi molesti delle friggitorie.

 

Mai come in questi ultimi tempi il centro storico è punteggiato di avvenimenti culturali, o di riscoperta di tesori per troppo tempo nascosti alla vista, grazie anche all’impegno di associazioni di volontariato. Qui valgano un paio di esempi.  Quello dei volontari del Touring Club Italiano per il Patrimonio Culturale che hanno messo in luce, con il loro impegno disinteressato, i gioielli artistici della Basilica dei Santi Severino e Sossio o di San Giorgio Maggiore e quello del gruppo “Respiriamo Arte” che ha ridato voce all’antica arte dei setaioli napoletani, guidando i turisti negli ambulacri misconosciuti della chiesa dei SS. Filippo e Giacomo sul Decumano inferiore di Napoli. Certo, ancora molto resta da fare per articolare una coerente narrazione del patrimonio monumentale della città. Basti pensare alla trama magnifica degli ipogei e delle catacombe del quartiere Sanità-Vergini, non sufficientemente valorizzati, a cominciare dall’ipogeo greco-romano dei Cristallini con le struggenti epigrafi greche delle tombe, come quella per Aristagora, sacerdotessa di Leucatea.

 

Uno degli aspetti più interessanti della rinascita turistica di Napoli
è indubbiamente l’attenzione per le arti figurative contemporanee.

 

Risalire la stazione del metrò di Piazza Dante passando in rassegna le opere e le istallazioni di Jannis Kounellis o di Joseph Kosuth è ancora oggi una straordinaria esperienza estetica. Il museo MADRE (il Museo d’arte contemporanea Donnaregina) dopo un periodo in ombra è ritornato a brillare con importanti esposizioni di artisti internazionali. Si deve a Peppe Morra la creazione recente di nuovo museo dedicato all’arte contemporanea, con una vasta collezione di opere sistemate nelle stanze dell’antico Palazzo Cassano Ayerbo d’Aragona, proprio a due passi dalla stazione “Materdei” del metrò progettata da Alessandro Mendini. È merito di Morra anche la nascita, qualche anno fa, del piccolo museo dedicato all’arte “globale” del pittore austriaco Hermann Nitsch. 

 

I tesori artistici di Napoli fanno del centro storico della città e dei quartieri a ridosso dell’antico tracciato delle mura aragonesi un unicum
nel panorama artistico italiano.

 

Resta il problema della sua tutela, nell’assedio della modernità turistica che il processo di “barcellonizzazione” determina col suo luccichio. Troppi negozi nuovi che sostituiscono vecchie botteghe artigianali, troppi micro-abusi nelle facciate e nei cortili di palazzi, troppi vandalismi che fanno a cazzotti col decoro urbano (basti guardare alle scritte che imbrattano mura medievali e reperti romani lungo i decumani), troppi bar, troppi gazebo, troppe pizzerie e friggitorie. Nel lungomare “liberato”, all’odore del mare si è sostituito da tempo quello delle carni alla brace e degli spiedini di pesce.      

 

Negli ultimi tempi è accaduto che il processo di “barcellonizzazione”, che ora investe, o contamina, Napoli, proprio nella metropoli catalana sia improvvisamente arrivata al capolinea. “Non vogliamo essere come Venezia” si è gridato nella città delle ramblas. “Via i turisti, meglio i rifugiati!”. Sono avvisaglie, o per il momento semplici sintomi d’un malessere, nel tentativo di far argine al “nemico alle porte”, leggi il turista, il barbaro moderno che mette i piedi nelle fontane o improvvisa picnic tra le rovine antiche. Ma il turismo di massa è anche un potente, e prepotente, motore economico, tanto più necessario, dopo la deindustrializzazione e la terziarizzazione che hanno investito, a cominciare dagli anni Ottanta-Novanta, Napoli come Barcellona. Che fare, allora? 

 

Chi amministra una metropoli attraente come Napoli (o Barcellona,
o Madrid, o Amsterdam) è come un funambolo
in equilibrio su un filo teso.

 

Basta un momento di distrazione per precipitare nel vuoto – un vuoto di idee e di politiche urbane – con la città abbandonata alle scorribande del turista “mordi e fuggi”. Non sarebbe auspicabile, per una delle più antiche e nobili città del mondo, che il numero delle friggitorie superasse quello degli ipogei o dei musei d’arte, lasciando i Decumani o Toledo preda delle “molestie olfattive”, così definite da una recente sentenza della Cassazione.   

 

 

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NAPOLI “SPagnola”

 

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SU ANTICHE ROTAIE: VIAGGIO AL SUD di Alberto Sgarbi – Numero 8 – Luglio 2017

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SU ANTICHE ROTAIE: VIAGGIO   AL SUD

 

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Salire su questi treni fa un po’ lo stesso effetto di prendere un aereo: alla stazione di partenza il mezzo ingloba il viaggiatore come in un guscio e lo restituisce, fresco e riposato, a quella di arrivo,
quando il viaggio è concluso.


Si è guadagnato moltissimo in termini di comfort e tempi di percorrenza, ma si è persa quasi del tutto la dimensione del viaggio come esperienza di attraversamento, lettura dei “paesaggi” e dei territori, intesi sia nella loro dimensione naturale che in quella antropica. Anziché guardare fuori dal finestrino, gran parte dei passeggeri delle “frecce” ha lo sguardo rivolto a portatili, tablet e smartphone, perdendo così quella capacità di osservare i contesti attraversati che ha contraddistinto per secoli l’uomo “viaggiatore”. Anche se è assodato che ormai la tecnologia domina le nostre vite, rimane in tutti noi una componente “umana” che cerca sempre di riemergere.

 

Ecco allora che tante persone cercano di uscire, in senso metaforico, dalle strade già tracciate, andando alla ricerca di qualcosa che permetta loro di riappropriarsi di ciò che si ritiene perduto, dimenticato o sepolto, di quella parte più vicina all’essenza della vita. 


Si cercano allora i paesaggi dove ancora la presenza umana e la natura riescono a fondersi armoniosamente: cittadine e piccoli borghi dove la vita sembra essere maggiormente a misura d’uomo, dove gustare cibi con i sapori genuini delle tradizioni e condividere momenti di socialità. Tutto questo trova una sua declinazione anche nel mondo dei trasporti su rotaia che, proprio nell’era dell’alta velocità, va riscoprendo antichi tracciati in alcune zone particolarmente caratteristiche del nostro paese, soprattutto concentrati nel Centro e Sud Italia. Si tratta di antiche linee ferroviarie che hanno perso, o sensibilmente ridimensionato l’originario ruolo di vie di comunicazione per il quale esse erano nate, tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900. Questo fatto è comune a tutti i paesi maggiormente sviluppati d’Europa e del mondo e, in quasi tutti,

 

si è sviluppato – a partire dagli anni ’50 e ’60 – un movimento di gruppi, associazioni e cittadini che hanno avviato azioni per impedire 

la distruzione di molte ferrovie minori, riadattandole 

ad un nuovo ruolo: la ferrovia turistica. 


Giusto per dare conto di cosa significhino le ferrovie turistiche in Europa, è bene sapere che i numeri sono di tutto rispetto: i passeggeri trasportati sono 20 milioni, il giro d’affari è di circa 500 milioni di euro, i km di linee turistiche sono oltre 5.000 e i dipendenti di tali ferrovie sono circa 3.700 (col supporto di migliaia di volontari), dimostrando che si tratta di un’attività che può creare lavoro e ricchezza. Ma non basta: quasi sempre la ferrovia turistica vede un esercizio svolto con materiale rotabile storico, ossia treni formati da antiche carrozze con sedili in legno (o con i velluti rossi se di prima classe…), spesso trainate da locomotive a vapore, ma anche elettriche o diesel, la cui costruzione va dai primi del ‘900, fino al 1970 circa, rappresentando molti decenni di storia industriale.

 

Il salire su questi antichi convogli è, già di per sé, un’esperienza che ha un fascino particolare, alla quale si aggiunge quella di godere

la visione di incantevoli paesaggi, ancor più apprezzabili
per la bassa velocità del treno e per il fatto che si può stare
affacciati al finestrino, assaporando profumi e odori
di brezze che sanno di bosco, di prato e di mare.


In Italia, a causa del basso livello di cultura scientifico/tecnologica e, più in generale, di condizioni socio-economiche diverse, il fenomeno delle ferrovie turistiche è arrivato con circa trent’anni di ritardo rispetto al resto d’Europa. Ci sono però dei segnali estremamente positivi e incoraggianti, che fanno sperare che il nostro paese possa rapidamente colmare il suo ritardo e valorizzare, come meritano, ferrovie storiche e relativi territori. In generale, si può notare un salto di consapevolezza inimmaginabile solo una decina di anni or sono: dal 1995, esiste la Federazione Italiana delle Ferrovie Turistiche e Museali; un organismo che raccoglie le associazioni di appassionati ed amatori di treni e ferrovie, che per anni non arrivava alle 10 unità federate, mentre ora ha raggiunto il ragguardevole numero di 24 associazioni rappresentate. Ma la cosa più rilevante l’ha realizzata il gruppo FS, creando, nel 2013, un organismo espressamente dedicato alla conservazione della cultura storica aziendale (che, a dirla tutta, è un patrimonio di tutta la nazione): si tratta della Fondazione delle Ferrovie dello Stato Italiane che, fra le altre cose, si occupa dello sviluppo delle ferrovie turistiche.

 

La Fondazione FS è diretta da un giovane e dinamico ingegnere, Luigi Cantamessa, che ha messo a frutto un patrimonio creato nei decenni scorsi dai rapporti, quasi sempre informali, che il mondo associativo teneva con alcuni funzionari “illuminati” delle Ferrovie dello Stato, facendo segnalazioni e sollecitando coloro che potevano intervenire, per non disperdere testimonianze storiche che oggi si rivelano fondamentali per lo sviluppo del turismo ferroviario.

 

In questo quadro, il Sud gioca un ruolo di primo piano, ancora più significativo perché, storicamente, la passione per i treni e le ferrovie è molto più “giovane” rispetto al Nord, dove già negli anni ’70 vi erano gruppi di appassionati forti e strutturati. Si è sempre pensato che la cultura legata alla tecnologia fosse carente al Sud, mentre ora assistiamo ad una rimonta che nessuno si sarebbe aspettato. I soci delle Associazioni di amici delle ferrovie del Sud, sono quasi tutti giovani, fortemente motivati e animati da una grandissima passione, sia per i treni sia per le loro bellissime terre: un mix vincente che sta portando a risultati estremamente fruttuosi. Fra le tante realtà associative ne vogliamo citare tre, i cui progetti sono di sicuro rilievo: l’Associazione Le Rotaie-Molise, l’Associazione Ionico Salentina Amici delle Ferrovie, col suo ramo “operativo” Rotaie di Puglia e l’Associazione Ferrovie in Calabria.

 

L’Associazione Le Rotaie-Molise è operativa dal 2002 e ha realizzato uno dei più spettacolari progetti: quello dalla salvaguardia della ferrovia Sulmona-Carpinone, denominata “Transiberiana d’Italia”, per le bellezze e varietà dei paesaggi tra i parchid’Abruzzo e della Maiella.


Un capolavoro di ingegneria, per una linea inaugurata nel 1892, il cui culmine è la stazione di Rivisondoli-Pescocostanzo, a 1268 metri sul livello del mare. Dopo una prima fase embrionale, lo sviluppo di questo progetto è avvenuto quando vi è stato l’interessamento della Fondazione FS, che ha fatto sì che la linea fosse mantenuta percorribile dai treni anche dopo la sua chiusura al traffico ordinario e mettendo a disposizione uno splendido treno storico, che percorre la linea, partendo da località diverse, con un programma di ben 28 viaggi per il 2017. Per dare un’idea dei numeri, sulla Transiberiana d’Italia hanno viaggiato circa 9.000 passeggeri nel 2015, balzati a 14.000 nel 2016!

 

Rimarchevole anche il grande lavoro dell’Associazione Ionico Salentina Amici delle Ferrovie, che ha dato un contributo determinante per la costituzione del Museo Ferroviario di Lecce 

e del treno storico Salento Express,


gestito per diversi anni assieme all’amministrazione delle Ferrovie del Sud-Est, ora purtroppo fermo, a causa dei noti eventi negativi, che hanno visto il fallimento della precedente gestione e l’acquisizione del gruppo da parte di Ferrovie delle Stato Italiane. In ogni caso il treno storico Salento Express è conservato in buono stato e si spera che possa ripartire presto per solcare gli incredibili paesaggi pugliesi, fra cui il particolarissimo raccordo ferroviario che giunge alla fermata di Gallipoli Porto, collegando l’isola della città vecchia con la terraferma, proprio come a Venezia!

 

La sezione “turistica” di AISAF, denominata Rotaie di Puglia,

è impegnata nello sviluppo di altri itinerari regionali, col treno storico Murgia Express, dell’amministrazione delle Ferrovie Appulo Lucane,
le cui linee collegano le città di Bari, Altamura, Matera e Potenza.


Infine la giovanissima (in tutti i sensi: dalla data di costituzione all’età media dei membri) Associazione Ferrovie in Calabria, che ha lavorato duramente per convincere gli Enti Locali e l’amministrazione delle Ferrovie della Calabria a ripristinare una tratta della bellissima ferrovia “Silana” con il treno storico a vapore, che ha ottenuto un successo superiore a ogni aspettativa.

 

La ferrovia che da Cosenza porta a San Giovanni in Fiore, attraversa l’altopiano della Sila ed è, anch’essa, un capolavoro di ingegneria 

che nulla ha da invidiare alle famose ferrovie svizzere.


Si pensi che, in 67 km, passa dai 202 metri sul livello del mare di Cosenza ai 1404 metri della stazione di San Nicola – Silvana Mansio, stazione ferroviaria più alta d’Italia! Ora la ferrovia è agibile solo parzialmente, ma, essendo il tracciato ancora sostanzialmente integro, si auspica che venga reso percorribile nella sua interezza in tempi ragionevoli.

 

Il Sud non si limita però ai soli casi illustrati, perché altre realtà sono operative o stanno emergendo, come la ferrovia dei “Templi”

da Agrigento a Porto Empedocle, o la ferrovia dell’Irpinia,
da Avellino a Rocchetta S. Antonio, entrambe gestite
con i treni della Fondazione FS.
 


Concludo con l’auspicio che tutto questo possa trovare una stabilità e un assetto definitivi anche grazie ad una proposta di legge la cui prima firmataria è la deputata siciliana Maria Iacono, a dimostrazione della voglia di riscatto e della progettualità che vengono dal Sud. Il nome della proposta di legge è: “Disposizioni per l’istituzione di ferrovie turistiche mediante il reimpiego di linee in disuso o in corso di dismissione situate in aree di particolare pregio naturalistico o archeologico” ed è stata approvata lo scorso 24 gennaio alla Camera con una votazione all’unanimità. Come Federazione delle Ferrovie Turistiche e Museali abbiamo dato il nostro contributo in termini di proposte e sensibilizzando diversi parlamentari sul tema a noi caro, confidando in una rapida approvazione anche al Senato, per aprire una nuova stagione che dia all’Italia, e al Sud in particolare, il rilievo che essi meritano nel panorama del turismo ferroviario mondiale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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BIOECONOMIA: UNA SFIDA PER IL MEZZOGIORNO di Piergiuseppe Morone e Francesca Govoni – Numero 8 – Luglio 2017

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Come converrebbe la maggior parte degli storici, la prima fondamentale transizione si è verificata più di 10 mila anni fa quando l’Homo sapiens si è trasformato da cacciatore-raccoglitore in agricoltore e il genere umano ha imparato a coltivare e ad addomesticare gli animali. Questo è stato lo sviluppo più significativo nella storia dell’umanità, sviluppo che ha rappresentato uno spartiacque tra il Paleolitico e il Neolitico – spianando la strada ad una nuova era, a partire dalla quale la relazione umana con le risorse naturali sarebbe cambiata per sempre.

 

Da allora, molte altre rivoluzioni si sono verificate nella storia dell’umanità
e le grandi innovazioni, spesso insieme a nuovi modi di sfruttare
le risorse naturali, hanno indirizzato il cambiamento.

 

Passando dall’età del legno a quella del carbone, siamo entrati – quasi un secolo fa – nell’età del petrolio. Tale era, caratterizzata da un forte aumento in termini di ricchezza e di opportunità e da modelli di produzione e di consumo di massa, sta probabilmente volgendo al termine: la sostenibilità di questo modello, infatti, risulta fortemente minacciata dalle grandi sfide del nostro secolo.Più nello specifico, la popolazione mondiale, attualmente pari a circa 7,5 miliardi di persone, è destinata ad aumentare di quasi un miliardo entro il prossimo decennio e raggiungere i 9,6 miliardi entro il 2050. Al contempo, le grandi economie in rapida crescita (come Cina e India) diventeranno sempre più ricche e la classe media mondiale arriverà a triplicarsi entro il 2030 (la maggior parte di questa crescita sarà concentrata nei paesi in via di sviluppo). Per mettere questi trend in prospettiva, entro il 2030 i paesi asiatici rappresenteranno oltre il 65% della classe media mondiale, rispetto all’attuale 35%.Un effetto importante che scaturisce da questi trend è

 

l’aumento del consumo e della domanda di generi alimentari, di beni manufatti e delle fonti di energia. Tali circostanze determineranno
un aumento della pressione sul sistema economico e ambientale
mondiale attraverso almeno tre canali:

 

(1) le emissioni di gas a effetto serra (GHG), (2) la sostenibilità degli elementi chimici presenti sul nostro pianeta e (3) la gestione dei rifiuti prodotti dall’uomo.

 

In primo luogo, l’aumento in termini numerici della popolazione condurrà ad una maggiore richiesta di energia

 

(necessaria, tra le altre cose, per sostenere la crescente domanda nei settori dei trasporti, del manifatturiero e del settore agroalimentare), con conseguente incremento delle emissioni prodotte dall’impiego di combustibili fossili. Un ulteriore effetto negativo del trend in esame passa attraverso l’impiego delle aree verdi naturali: l’aumento della domanda di generi alimentari determinerà, infatti, uno sfruttamento sempre maggiore di tali aree, con conseguente intensificazione della deforestazione.

 

L’accelerazione prevista nella crescita della domanda mondiale comporta, inoltre, un’altra necessità: preservare la sostenibilità degli elementi chimici presenti sul nostro pianeta

 

al fine di garantire alle generazioni future le stesse opportunità di sviluppo dell’attuale generazione. Sebbene l’effetto più immediato dell’esaurimento di tali elementi sarebbe quello di una riduzione dei beni potenzialmente producibili, tale fenomeno ha delle rilevanti ricadute anche sul ciclo del carbonio, poiché molte tecnologie verdi (ad esempio le tecnologie legate allo sfruttamento dell’energia solare) utilizzano proprio questi elementi a rischio esaurimento.

 

Infine, l’aumento generalizzato dei consumi è associato ad un forte aumento della produzione di rifiuti.

 

Questa potrebbe raddoppiare entro il 2025 e, nonostante lo sforzo intrapreso dalla maggior parte dei Paesi OCSE, il volume dei rifiuti potrebbe aumentare ancora fino al 2050 a causa del cambiamento nella composizione della popolazione mondiale legato al progressivo fenomeno di urbanizzazione.Va a ciò poi aggiunto come i pur significativi sforzi intrapresi da molti Paesi ad alto reddito, rivolti a ridurre la produzione dei rifiuti, siano spesso in gran parte vanificati dalle tendenze esistenti nell’Asia Orientale (la regione a crescita più rapida del mondo per rifiuti). Basti pensare alla produzione di rifiuti solidi in Cina, destinata a passare da 520/550 tonnellate al giorno nel 2005 a 1,4 milioni di tonnellate al giorno nel 2025.

 

Alla luce di queste considerazioni, appare necessario intraprendere un percorso di cambiamento che si inserisca nel solco di una necessaria quanto opportuna transizione da una società basata sul consumo di massa, sulla produzione incontrollata di rifiuti e sullo sfruttamento dei combustibili fossili, ad una società caratterizzata, invece, dalla riduzione e valorizzazione 

dei rifiuti e da nuovi modelli di produzione e consumo.

 

Questo cambiamento tocca le corde più sensibili del nostro il tessuto sociale ed istituzionale e va oltre il mero cambiamento tecnologico. Di conseguenza, la questione da affrontare è se questa transizione sia realizzabile nel prossimo futuro e quali passi possono essere efficacemente intrapresi per portare tale transizione a compimento.

 

Come evidenziano gli studiosi della transizione, tre condizioni devono essere soddisfatte simultaneamente affinché possano realizzarsi grandi cambiamenti:

 

(1) le nuove tecnologie che sostituiranno le tecnologie preesistenti devono aver raggiunto un adeguato livello di maturazione e devono essere economicamente vantaggiose; (2) un numero significativo di attori (produttori, consumatori, policy makers, opinion leaders, etc.) devono condividere alte aspettative sul futuro della nuova tecnologia e sulla transizione in atto; (3) i principali stakeholders operanti nella società civile devono attivamente esercitare pressioni per il cambiamento. La coesistenza di queste tre condizioni rende possibili i cambiamenti di paradigma. Ma dove si inserisce l’Italia ed il Mezzogiorno in questa traiettoria del cambiamento? Il processo di transizione rappresenta senz’altro una sfida stimolante per l’Italia, dove è stata proprio l’industria, attraverso i suoi principali players (tra i quali Novamont, Mossi Ghisolfi, ENI-Versalis, ed il connesso indotto popolato da imprese di piccola e media dimensione attive nel settore dei biopolimeri e dei chemicals), a guidare il cambiamento portando avanti una tradizione di collaborazione con il mondo della ricerca. Basti pensare al caso di Matrica, una joint venture paritetica costituita proprio da ENI-Versalis e Novamont al fine di 

 

riconvertire lo stabilimento petrolchimico di Porto Torres in una bioraffineria integrata nel territorio per la produzione di prodotti ad alto valore aggiunto utilizzando anche feedstock di seconda generazione.

 

Un progetto, questo, dal grande impatto non solo ambientale, ma anche economico e sociale. La riconversione di siti petrolchimici ormai dismessi in bioraffinerie è la strada che si è seguita anche a Marghera e che si vuole seguire a Gela.

 

In questo contesto il Mezzogiorno può trovare nuovi stimoli alla crescita
che si concilino con la sostenibilità ambientale, economica e sociale. 

 

Proprio a Gela, la crisi del settore della raffineria tradizionale si è riversata sul territorio locale, con conseguenze pesanti a livello di occupazione che hanno accentuato gli effetti della grave recessione economica mondiale. 

 

Ripartire dalla bioeconomia è una concreta possibilità: con il Protocollo d’Intesa siglato nel 2014, Eni ha avviato un processo di trasformazione 

del sito industriale in una green refinery,  

 

dove dovrebbero essere prodotti biocarburanti utilizzando non solo olio di palma grezzo di importazione, ma anche oli esausti di cottura e grassi animali. E’ inoltre auspicabile, nel processo di transizione di cui si tratta, l’annunciata realizzazione di un impianto pilota per la trasformazione della frazione organica dei rifiuti solidi urbani del territorio in bio-olio. In questo modo, non solo si avrà a disposizione una quantità maggiore di feedstock da trasformare in bio-olio, ma si fornirà un supporto concreto alla valorizzazione del food waste locale. Tutti questi virtuosi processi di conversione lasciano presagire un’accelerazione nel settore della bioeconomia, che potrebbe essere ulteriormente facilitata da interventi mirati dei policy makers nella politica industriale, con ricadute positive sulle economie locali e su di un tessuto sociale altrimenti avviato ad una pericolosa disgregazione. 

 

La bioeconomia, dunque, può divenire un nuovo driver di sviluppo 

del Mezzogiorno: un’opportunità, questa, che i policy makers 

non possono sprecare.

 

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BIOECONOMIA: UNA SFIDA PER IL MEZZOGIORNO

 

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LA MANNA DAL SUD di Viviana Meloni – Numero 8 – Luglio 2017

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La manna dunque fece il suo ingresso nella storia come cibo celeste e dono divino, caricandosi da subito di una spiritualità che l’accompagnerà sino ai giorni nostri come simbolo dell’alleanza tra l’uomo in cammino e Dio che si prende cura di lui. Durante l’attraversamento del deserto la manna cadeva abbondante ogni giorno e gli Ebrei, come racconta il sedicesimo libro dell’Esodo, la raccoglievano “ciascuno secondo il suo bisogno”. Al mattino del sesto giorno ne cadeva il doppio, perché il settimo giorno – lo Shabbat, istituito proprio la prima settimana di caduta della manna – gli Ebrei dovevano rispettare il riposo. Tuttora nelle case ebraiche, quando si prepara il cibo per il sabato, si cuociono due pagnotte, chiamate Challot, che vengono riposte fra due panni di cotone uno sopra e l’altro sotto per ricordare lo strato di brina che ricopriva al mattino la manna nel deserto.
 
 Oggi, anche senza levare gli occhi al cielo, è possibile visitare un luogo dove si trova questo alimento preziosissimo. E’ il Parco delle Madonie, in Sicilia, alle spalle di Cefalù e a un golfo di distanza da Palermo: dal tronco dei frassineti che vi crescono si estrae la manna sin dai tempi della dominazione araba, tra il nono e il decimo secolo.
 
Da allora la coltivazione dei frassineti si estese in tutte le regioni del centrosud fino ai monti della Tolfa nel Lazio e alla Maremma, e nel 1500 vi venne imposto un dazio doganale per aumentare le entrate del Regno. Oggi invece la manna si raccoglie solo in Sicilia, tra Pollina e Castelbuono, Cefalù e San Mauro, Geraci e Isnello. Ormai la superficie coltivata è ridotta e in pochi praticano l’antico mestiere dello “Ntaccaluoru”. La manna è dunque la linfa estratta dalla corteccia di una varietà di frassino chiamato Orniello. Il frassinicoltore attende che la pianta entri nel periodo di quiescenza estiva fino a spingerla allo stress idrico quando il terreno completamente asciutto si stacca dalle radici e le foglie verdi cominciano a virare verso il giallo. Quello è il momento per la prima incisione che viene praticata a circa dieci centimetri da terra con un coltello chiamato “mannaruolu”. Dalla metà di luglio alla fine di settembre, ogni mattina, si fanno le “ntacche” a distanza di un paio di centimetri l’una dall’altra: 
 
 dai tagli fuoriesce una melata azzurrina prima amarognola e poi dolce che, a contatto con l’aria e al sole della Sicilia, diventa bianca 
e prende la forma di piccole stalattiti, o cannoli.
 
La manna a cannolo è la più pregiata perché priva di residui. Poi c’è la manna in sorte (o manna di pala) che è quella che si va a depositare sulle pale di ficodindia disposte alla base del tronco. E per finire la manna rottame che scorre lungo la corteccia e viene staccata con la “rasula”. I cannoli di manna vengono messi ad asciugare, prima, all’ombra e, poi, al sole su degli stenditoi per far loro raggiungere il giusto grado di umidità. Infine, viene inscatolata in appositi contenitori di legno riposti in luoghi asciutti e pronti per la vendita.
 
 Le proprietà curative della manna erano conosciute sin dai tempi 
della scuola di medicina di Salerno.
 
Essa è in primo luogo un blando lassativo privo di effetti collaterali e molto indicato in età pediatrica. A differenza della senna (o cassia) contenuta in tutti i lassativi in circolazione – che alla lunga può causare problemi anche seri – la manna agisce contro la stipsi attirando acqua nell’intestino e facilitando dunque lo svuotamento del colon. E’, poi, un regolatore e rinfrescante delle vie intestinali in quanto è in grado di purificare l’apparato digerente da tossine, parassiti intestinali e residui di cattiva alimentazione. E’ un fluidificante emolliente, sedativo della tosse e un dolcificante naturale a basso contenuto di glucosio e fruttosio indicato per i diabetici. La manna si assume a pezzetti, sciogliendoli in bocca oppure diluendoli in una tisana o nel tè.   
 
Dal 2002 la manna è dal un Presidio Slow Food con un proprio disciplinare di produzione che ne garantisce la provenienza e la qualità. 
 
La “Manna eletta delle Madonie” rientra nell’elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali del ministero delle politiche 
agricole e forestali.
 
Il Presidio coinvolge sette produttori che usano il moderno sistema del filo di nylon su cui cola la manna, novità introdotta nella metà degli anni ‘80 che ha rivoluzionato la tecnica di raccolta consentendo di ottenere molto più prodotto puro di quando gran parte del raccolto scendeva lungo la corteccia riempiendosi di numerose impurità. Oltre ai sette produttori del Presidio, ce ne sono altri, qualche decina, fra cui parecchi anziani che lavorano alla vecchia maniera. Il raccolto complessivo è di 300-400 chili all’anno. Il presidio ha aiutato i produttori anche nella vendita diretta che prima non era possibile in quanto l’intero prodotto veniva conferito alla grande industria senza possibilità di contrattare sul prezzo. Per avere un’idea: il costo della manna-cannoli è di 16 euro per 50 grammi e di 8 euro per 20 grammi di prodotto. La manna da drogheria invece ha un prezzo di 18 euro circa per 100 grammi. 
 
 La manna è leggera e se ne produce un chilo con tre o quattro piante a stagione. Profuma di macchia mediterranea, ha un gusto fra il dolce 
e il lievemente amaro con un retrogusto di mandorla o miele 
e un colore tra il bianco e il giallo caramello a seconda 
del cultivar e del terreno.

Con la manna si fanno dolci, liquori e saponi (una importante casa cosmetica francese la impiega come componente della crema per le mani). Interessante è poi il suo impiego in cucina: nei ristoranti di Castelbuono si può gustare il filetto di maialino nero in crosta di manna con mandorle e pistacchi. Il pasticcere siciliano Nicola Fiasconaro, circa 20 anni fa, ha creato il Mannetto, dolce molto particolare ricoperto di una candida glassa di manna. Provare per credere. 

 

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LA MANNA DAL SUD

 

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Ma cos’è la manna? Se lo chiesero – “Man Hu?” letteralmente in ebraico: “cos’è?” – anche gli Israeliti in fuga dall’Egitto verso la Terra Promessa quando videro cadere dal cielo quel cibo sconosciuto che Dio aveva mandato loro per sfamarli e che da allora fu chiamata, appunto, “ManHu”. 

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IL SAN CARLO. NAPOLI CAPITALE DELLA MUSICA di Antonio Lopes – Numero 8 – Luglio 2017

Teatro di San Carlo, lavori di ristrutturazione ago.2008 - gen.2
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IL SAN CARLO. NAPOLI CAPITALE DELLA MUSICA

 

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Se Venezia aveva visto l’opera uscire dalle corti e diventare 

un fenomeno commerciale, il più importante centro musicale in Italia 

per tutto il XVIII secolo fu Napoli e, almeno fino a metà del XIX secolo, insieme a Vienna e Parigi, una delle grandi capitali 

della musica in Europa.

 
Napoli per tutto questo periodo è stata certamente la più grande città italiana, più grande di qualsiasi altra città europea eccetto Londra e Parigi, una città ampiamente cosmopolita. Nel 1734, un principe dei Borboni spodestò gli Austriaci e ristabilì l’egemonia della sua casata su tutta l’Italia meridionale, dove regnò con il nome di Carlo III. Uno dei primi provvedimenti del nuovo sovrano fu l’edificazione, nel 1737, del Teatro San Carlo su progetto di Giovanni Antonio Medrano. Il teatro, che può attualmente ospitare più di 2500 spettatori tra la platea, i cinque ordini di palchi e una galleria sovrastante, è il più antico teatro lirico attivo in Europa. La splendida sala, originariamente rivestita in azzurro con decorazioni in oro (i colori dei Borboni), suscitò subito molta ammirazione e meraviglia tra i tanti visitatori stranieri che ebbero modo di assistere agli spettacoli organizzati sempre con grande sfarzo.
 

Il compositore inglese Charles Burney, amico dell’Ambasciatore inglese Lord Hamilton (la cui moglie era stata l’amante dell’ammiraglio Nelson), scrive, nel suo “Viaggio musicale in Italia” del 1770, che “il teatro era sfarzosamente illuminato e incredibilmente affollato di un elegante pubblico […], le candele dei palchi riflesse dagli specchi 

e moltiplicate dalle luci del palcoscenico producevano 

un splendore abbagliante per gli occhi”.


Da quando il San Carlo aprì i suoi battenti, si affermò come il più importante teatro d’opera europeo, tenuto conto che la città che lo ospitava era, a sua volta, con i suoi quattro importanti conservatori risalenti al XVI secolo, una capitale della musica in Europa.   
 
Per tutto il XVIII secolo e per la prima metà del successivo, Napoli rappresentò un’irresistibile calamita per qualsiasi musicista avesse avuto l’ambizione di farsi notare. Si pensi a Georg Frederich Handel, nato in Sassonia, che operò a Napoli nel 1708; soggiornò a Napoli anche il compositore tedesco Johann Adolf Hasse, allievo del grande Alessandro Scarlatti, maestro della reale cappella musicale. Fu sempre a Napoli che Pietro Metastasio, il più influente librettista di opere serie del XVIII secolo, iniziò a lavorare prima di trasferirsi a Vienna. Nel 1770, Mozart, all’epoca quattordicenne, fu portato a Napoli, dove si trattenne per oltre un mese; nel frattempo, scriveva a Salisburgo che “il teatro era bellissimo” ma aveva notato che il re, durante la rappresentazione, “se ne stava seduto su uno sgabello per sembrare più alto della regina”.
 

Le vicende del San Carlo s’intrecciano con quelle del Regno di Napoli. Uno snodo fondamentale nella storia del teatro è rappresentato dall’entrata in città di Giuseppe Bonaparte, fratello maggiore 

di Napoleone, nel febbraio del 1806, alla testa di un corpo 

di spedizione franco-italiano.

 
Da questo momento si apre per il San Carlo un periodo di grande sviluppo grazie a due eventi fondamentali: la regolarizzazione del gioco d’azzardo da parte del governo napoleonico e l’assegnazione della gestione del teatro, nel 1809, a un ricco e intraprendente impresario milanese, Domenico Barbaja, che aveva già assunto l’appalto delle case da gioco a Napoli.La grande intuizione di Barbaja fu appunto quella di coniugare le due grandi passioni dei napoletani per il gioco e per l’opera. Nel 1808, con l’ascesa al trono di Gioacchino Murat, dopo la nomina di Giuseppe Bonaparte a Re di Spagna, Barbaja riuscì ad ottenere l’autorizzazione ad aprire un vero e proprio casinò dentro il San Carlo, a patto che ampliasse il teatro stesso con un ridotto adatto a ospitare i tavoli da gioco; per quanto riguarda la direzione del teatro, l’appalto comportava un lungo elenco di responsabilità, definendo le nuove opere, i cantanti  e il numero di orchestrali (con settantotto membri permanenti, divenne, infatti, una delle prime orchestre in Italia). Il governo finanziò anche nuove scenografie e macchine sceniche oltre a quelle pagate di tasca propria da Barbaja che si vide riconosciuta la proprietà di altri accessori, strumenti e costumi: una vera fortuna. 
 

In questo modo il finanziamento della produzione operistica poteva essere assicurato non soltanto con la vendita dei biglietti per i singoli spettacoli o in abbonamento (una novità per il costume italiano), ma anche dagli introiti derivanti dai giochi.

 
Contemporaneamente egli si adoperò per un miglioramento qualitativo delle opere rappresentate, scritturando i più grandi cantanti e i musicisti più promettenti con contratti remunerativi, ma anche di lunga durata. Ciò permise a Barbaja di costituire una vera e propria compagnia con compositori e cantanti di elevato valore artistico, in grado di offrire spettacoli di eccezionale livello. Tra questi, la grande intuizione fu di chiamare, nel 1815, un giovane musicista che già aveva fatto parlare di sé in Italia: Gioacchino Rossini. Il contratto prevedeva la composizione di due nuove opere all’anno e le funzioni di direttore musicale. Al San Carlo, durante il periodo rossiniano, furono rappresentate fra il 1815 e il 1822 diverse opere serie del musicista pesarese: Elisabetta Regina d’Inghilterra, Armida, Mosè in Egitto, Ricciardo e Zoraide, Ermione, La donna del lago, Maometto II, Zelmira; al Teatro del Fondo fu presentato, nel 1816, l’Otello, essendo il San Carlo andato distrutto da un incendio (sarà ricostruito in appena otto mesi più spendente di prima).

La stessa formula organizzativa consentì poi a Barbaja di esportare cantanti e musicisti in altri teatri; nel 1822, egli assunse la direzione dei teatri viennesi e vi fece debuttare con straordinario successo la compagnia napoletana con la Cobran (moglie di Rossini), Nozzari, Rubini, Nourrit e Lablache. La diffusione delle opere di Rossini e dei suoi cantanti del San Carlo raggiunse e conquistò anche Parigi quando, nel 1825, il compositore fu nominato direttore artistico del Theatre des Italiens. In quella veste organizzò una vasta serie di scambi di cantanti tra Parigi e il San Carlo. L’intuito che Barbaja aveva avuto con Rossini lo assistette poi anche con altri musicisti: chiamò a Napoli il debuttante Bellini e mise in scena gran parte della produzione di Donizetti. Egli continuò a occuparsi sempre di teatro fino alla morte, avvenuta per apoplessia, nella sua villa di Posillipo il 19 ottobre 1841.

Il San Carlo è sopravvissuto a queste vicende e, pur cedendo lo scettro dell’egemonia dei teatri lirici italiani alla Scala di Milano nella seconda metà del XIX secolo, ha continuato a rappresentare un fondamentale punto di riferimento per gli spettacoli operistici in Italia e in Europa, tenuto conto che ai suoi spettacoli hanno preso parte 

i più grandi cantanti, i direttori d’orchestra 

e i registi più famosi fino ai nostri giorni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Autore-fondo-immagine
Domenico_Barbaja

Si può ritenere che l’Opera sia una delle forme più complesse e affascinanti – ma anche più costose – di espressione artistica esistenti: la musica, il canto, la recitazione e la scena si fondono in un unicum che, da quando è nata in Italia all’inizio del XVII secolo, come raffinato svago di colti aristocratici (si pensi all’Orfeo di Claudio Monteverdi, rappresentato il 24 febbraio 1607 nel Palazzo Ducale di Mantova), si è poi rapidamente diffusa, appassionando tutti i pubblici, prima in Europa e poi nel resto del mondo. 

Le foto sono state gentilmente concesse dal Teatro San Carlo di Napoil

 

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