SALENTO ARCHITECTURES – THE DEFENSE TOWERS by Giusto Puri Purini – Numero 7 – Aprile 2017

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SALENTO ARCHITECTURES: THE DEFENSE TOWERS

 

Santa Sophia became the “Great Mosque” and a new, great, cultured and aggressive superpower emerged from the Eastern Mediterranean, and quickly came into conflict with the Republic of Venice that, until then, had freely sailed from the Adriatic Sea to the Aegean Sea, with its merchant flows and countless placements and dominions, from Dalmatia to Asia Minor and beyond.Puglia became a strategic knot for Ottoman raids and, despite the occupation of the peninsula in 1484 by the Venetians (that arrived in Taviano), the latter could no longer bend their impetus.Algerian Khaided-Din (called Barbarossa), in 1537, destroyed Castro and Marittima and, on the ionic side, the ancient Ugento.The defense system of Puglia, and in particular of Salento, was unprepared and precarious; between works dating back to the ancient Romans, then to the Byzantines (to defend themselves from the Longobards and Aragoneses), built in the previous centuries in the form of fortified towers and fortified farms, it was no longer up to the task.At this point, in the European context, the fierce conflict between Francis I King of France and Charles V of Spain came to favor the latter and led him to govern a large part of Europe.

The history of Salento is dotted with a myriad of invasions: at first, by populations who became stationary, such as the Messapi and the Japigi; then by the Greeks; Incursions of Saracen pirates, attacks and looting, up to the great danger of the Ottomans which, among other things, cherished in the idea of reuniting the Roman Empire of the East with Rome. It was therefore under the Empire of Charles V that in 1532 the Viceroy of the Kingdom of Naples, Pietro de Toledo, promoted an impressive and strategic first line of defense along the Adriatic and Ionian coasts of Puglia, with the vast promontory extended in the heart of the Mediterranean. As a defense system urbanist he made a project where every tower could see and report dangers to the next one. Horns and bells, or visual alarms such as smoke (in daylight) and fire (at night) were used as an alarm. A second line of defense were the fortified farmhouses and, more inward, imponent castles, among which the Acaya one still stands out today. The ordinance of the Viceroy was strengthened in 1563 by the decree of Don Pedro Afan de Ribera.

This Italy, stretched and bathed by the waters almost everywhere in its circumnavigation, “offered” and acted as attraction and magnet for other populations.

The biblical exodus that millions of people carry out daily in recent years, puts in motion old grudges, fears and imbalances, and there is the need for a new conscience that will bring the great States (colonisers) to develop jobs and margins for a potential growth in the original places, in order to bring our Mediterranean back to being, as it was, a place for merchants, economic-financial exchanges, culture, religion, thought and work.

In 1529, after other conflicts and finally an agreement with Pope Clement VII, Charles V received the recognition of his “sought-after” possessions in Italy, among which the Kingdom of Naples, that included the beloved Puglia (where, morover, he never arrived).

The cost of this endeavour had become so high that, through competition announcements, titles were awarded to those who were willing to build towers, assigning it the title of “Captain of Tower”, who, besides reporting raids and defending with cannons and archibugs, could also collect duties. Whoever did not pay was denied the “right” of defense.

The Towers were then also used to contrast smuggling, that was partially tollerated, to prevent abusive salt trade that was big in those times, given the poverty of peasant populations, and to intercept slave traffic. Those constructed by Charles V, made of regular tuff quarried stones, generally had square or circular planes, with a sloping base; inside there usuallt were 2 levels, and a covered terrace; slits and gratings completed the facade. The Towers were provided with an underground cistern to collect rainwater. In some cases, today, they belong to port authorities and are still efficient whilst many are just ruins (unfortunately) and others have been restored. As Mario Muscari Tomajoli says, “The building of Fortified Observation points has been reported since Plutarch (125-50 BC) and was also made by the Romans, whose trade was put into crisis by pirates until 67 BC, when the Gabinia law allowed Pompey to arm a fleet against ravagers and made the Mare Nostrum calm.”

But this defense system does not exist only in Puglia and in the lower Salento, but in all of Italy’s and many other coasts of the Mediterranean, and marks, as a punctuation in the maps, 

the relationship of love and fear that the great sea carried brought.

Italy’s primacy of civilization, history, fertility of nature and costume imposed the need for self-defense systems, and today 

these wonderful constructions, in the rhythmic flow 

of landscapes, become indelible signs of history.

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I BRONZI RICOLLOCATI di Daniele M. Cananzi – Numero 7 – Aprile 2017

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I BRONZI RICOLLOCATI

 

Atteso da alcuni anni, il nuovo museo – evento nell’evento – ha portato alla ricollocazione dei Bronzi di Riace nella sede naturale che li ha accolti da quando vennero ritrovati nel 1972 a largo della costa ionica e dopo le operazioni di ripulitura e restauro attente e delicate, che hanno restituito la bellezza e l’incanto dei due nudi del V sec. a.C. che il mare nostrum si è preso la briga di conservare e preservare tanto a lungo.

 

 

E evidentemente, se si ammette l’assunto, è perché l’evento non è poi così tanto piccolo, e perché magari trova compimento in un momento di favorevole concatenazione di fatti che agevolano il verificarsi della novità. Fatto è che nel profondo Sud un evento, piccolo ma non tanto piccolo, si è verificato: la riapertura del Museo Archeologico Nazionale della Magna Grecia di Reggio Calabria. Uno dei più importanti siti magno greci, punto di riferimento internazionale, uno dei pochi edifici progettati sin dall’origine come museo e che esce dalla matita di Marcello Piacentini nel 1932.

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Cosa significa che due capolavori indiscussi dell’arte di ogni tempo sono stati ricollocati nel Museo? Si potrebbe pensare che nulla è più ovvio
di un’opera d’arte in un museo. 
Eppure parlare di evento
non è esagerato in questo caso.

 

Il Sud, specie quando è profondo, si ammansisce dietro un trascorrere del tempo che si dilata e sembra, in taluni casi, quasi arrestarsi. È quanto è accaduto per il Museo di Palazzo Piacentiniquando, sette anni addietro, è stato chiuso per una restaurazione che è diventata una ricostruzione, tanto da mantenere le mura esterne del progetto originario e da ristrutturare lo spazio interno quasi totalmente. Tanti anni, troppi, trascorsi nell’assenza di uno spazio essenziale, vitale, per una città. 
Finanziato nei progetti di elevato interesse tra quelli che dovevano essere rimessi a nuovo per i centocinquant’anni anni dell’Unità d’Italia, i lavori hanno trovato una serie di difficoltà che hanno ritardato il loro completamento, avvenuto solo con l’inaugurazione del 2016. Cose che capitano, purtroppo, togliendo così però spazi essenziali perché “spazi pubblici di apparizione” – per dirla con Hanna Arendt – nei quali e grazie ai quali si mantiene e raccoglie la cittadinanza, si mantiene e raccoglie la vita, quella migliore, di un territorio e di una città.

 

Ricollocare i due Bronzi, allora, ha un forte valore simbolico oltre che culturale. Durante la chiusura del Museo per restauro,essi sono stati trasferiti
a Palazzo Campanella dove a loro volta sono stati sottoposti

a un delicato intervento di ripulitura interna.

 

Si  era  infatti  osservato  che  le  crete di fusione,  rimaste al loro interno,  stavano lentamente corrodendo il bronzo. Con strumenti  chirurgici  e  sonde,  una équipe  specializzata  ha  provveduto  a  rimuovere il materiale in modo da impedire il processo corrosivo. Per tutto il periodo di questo nuovo restauro, i due Bronzi sono rimasti in una apposita sala costruita per permettere al pubblico di seguire le operazioni.

 

Un vetro, come nelle nursery, ha permesso di andare a trovare
i due augusti ‘malati’ nel letto di ricovero, 
rivelando l’amore
e l’affezione non solo di turisti e appassionati,
ma dell’intero popolo reggino.

 

Il quale non ha mancato di farvi visita e così di mostrare la partecipazione –come avviene per ogni degente – alle cure prima e alla guarigione dopo, dimostrando il perdurare di un legame profondo del popolo rispetto ai suoi illustri e antichi campioni che, ora perfettamente ristabiliti, si ergono nuovamente nella sala museale, fieri eredi di un nobile passato, audaci narratori di una storia che sfida, proprio attraverso loro, il tempo. Avere ricollocato i due Bronzi, dicevo, acquista così un valore simbolico altissimo.

 

Si tratta di un intero territorio che tenta di risollevarsi, che ora deve nuovamente ergersi, superando le difficoltà della sua storia recente e meno recente,
per ritrovare la fierezza e l’audacia che non può rimanere solo
entro le mura del Museo a testimonianza del passato,

 

ma da lì ed esemplarmente deve uscire per tornare a vivere tra le vie di una Città, Reggio Calabria, che tenta di risorgere, tra tante difficoltà, per riacquisire lo splendore del suo antico passato. Perché il Museo e proprio dal Museo ci si può aspettare tanto? Perché lì è conservata la memoria, perché nel percorso appassionante che conduce il visitatore dalla Preistoria e dalla Protostoria all’età Magnogreca, passando dalla terra al mare, dal mare alla terra, c’è la possibilità di verificare la grande bellezza e l’ineguagliabile capacità svelata nelle crete, negli oggetti di uso comune, nei pinakes, nelle opere decorative degli edifici pubblici e privati che ci narrano di un gusto, di una spiritualità, di un modo, che in realtà è un modo di vedere lo spazio, un modo di pensare, riempire, abitare lo spazio; di pensare e abitare la città.

 

I due Bronzi ricollocati anche questo rappresentano, e di questo rimangono in un tempo senza tempo – com’è quello che si avverte nella sala quando si è a loro cospetto – esemplari e testimoni.

 

Una terra martoriata, com’è quella della neo Città metropolitana di Reggio Calabria, da qui può e deve ripartire; lavorando sui problemi e superando le difficoltà, ricollocandosi – proprio come i Bronzi – in uno spazio diversamente pensato rispetto a quello asfittico che ne ha segnato drammaticamente, soprattutto dagli anni ottanta dello scorso secolo, una sub-condizione urbana. Anche per la Città c’è da rimuovere incrostazioni che ne deturpano e corrodono l’anima, quella nobile, quella bella; anche per la Città c’è bisogno di una opera di riqualificazione.

 

Ecco perché un evento piccolo, ma neanche troppo piccolo, potrebbe portare una grande novità che deve venire dal popolo innanzitutto.
Quello stesso che ha dimostrato la sua partecipazione
alla salute dei Bronzi 
e che deve volere rivendicare
l’orgoglio del Sud, della sua bellezza 

tutt’altro che sfiorita.

 

E forse proprio il combinato disposto di nuovo Museo, dunque luogo della memoria e del passato, con l’istituzione (nel 2014) della Città Metropolitana, dunque di una nuova struttura amministrativa territoriale operativa e luogo del futuro, potrebbe essere quella concatenazione favorevole per una svolta, finalmente, attesa e desiderata da tempo che i cittadini meritano ma di cui si devono essi stessi fare primi promotori; loro per primi devono riqualificare responsabilmente il loro spazio e le architetture sociali che lo determinano; magari proprio riprendendo quel gusto antico e magno greco per lo spazio pubblico che è bene comune. Una città, in fondo, è fatta dai cittadini, a loro si conforma e con loro cresce o si involve. Nei momenti difficili sono proprio i cittadini, è il popolo che deve riconquistare il diritto ad avere un futuro, esercitando quella tenacia iscritta nel DNA italico e meridionale in particolare.

 

 

I Bronzi ricollocati rappresentano la possibilità, rappresentano la speranza, indicano la via che è quella della bellezza mediterranea, nel tempo e fuori dal tempo, di un modo di pensare il proprio spazio, il proprio futuro.  

 

 

 

 

Cananzi
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 Immagini concesse dal Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria

 

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PALERMO CAPITALE DELLA CULTURA di Ilaria Borletti Buitoni – Numero 7 – Aprile 2017

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PALERMO CAPITALE DELLA CULTURA

 

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Nessuna strada o tratto del cammino umano è mai obbligato. Esistono sempre delle alternative. E se la politica riesce a fare il suo mestiere queste alternative le disegna per poi suggerirle per la scelta libera del popolo. Ciò vale anche in campo culturale. Per questo la vittoria di Palermo come Capitale Italiana della Cultura per il 2018 mi sembra molto significativa.

 

Palermo è stata certo premiata per la qualità informativa del dossier presentato al Ministero, per la significatività del progetto e per la sostenibilità del progetto stesso. Ed il riconoscimento di Capitale Italiana della Cultura è un riconoscimento alla capacità di progetto, 

e non solo alla città più bella o ricca di storia.

 

 

Un progetto che ha un fiore all’occhiello: Palermo ospiterà infatti nel 2018 MANIFESTA12, una fra le principale biennali di arte contemporanea su scala mondiale. “Nel 2018” ha dichiarato il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, “la nostra città sarà di fatto una capitale dell’arte contemporanea e la possibilità di abbinare le attività con quelle di Capitale Italiana della Cultura rappresenta una grande opportunità non solo per Palermo, ma per tutto il nostro Paese. La Capitale italiana potrà diventare un palcoscenico, facendo di quello che sarebbe un evento nazionale, un grande evento internazionale. La visibilità internazionale data da Manifesta sarà uno straordinario strumento per venire incontro alla volontà del Governo di diffondere il valore della cultura come volano per la coesione sociale, l’integrazione e lo sviluppo”.

 

Dunque non di sola bellezza parliamo. Palermo infatti non primeggia così tanto rispetto agli altri finalisti ­Alghero, Aquileia, Comacchio, Ercolano, Montebelluna, Recanati, Settimo Torinese, Trento e l’Unione comuni
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Lo ha spiegato del resto assai bene il Sindaco del capoluogo siciliano Leoluca Orlando quando, andando al microfono per ringraziare e dichiarare la propria gioia per la vittoria, ha subito “costretto” tutti gli altri sindaci a salire sul palco con lui, perché “questa è una vittoria di tutti”, e “nessuno può vincere da solo”.

 

 

Ma piuttosto Palermo ha vinto perché con Palermo vince e afferma la sua forza un modello di cultura che si è fondato nei secoli sulla capacità
di essere crocevia tra diverse civiltà, ­con un’impronta indelebile
lasciata da quella araba­ e diversi popoli, 

 

 

piuttosto che sulla capacità di erigere muri sempre più alti, come sembra purtroppo essere la moda odierna. Muri la cui altezza è direttamente proporzionale all’incapacità di stare nel mondo del territorio recintato. 

 

 

Palermo ci parla invece della forza e della vitalità che viene dal sapersi mescolare in spezie e pensieri, in tratti artistici e tratti somatici, 

in caratteri linguistici e musicali.

 

 

Questa capacità di attrazione ­- questa e non altro – è il vero segreto per una forte capacità di innovazione anche economica, come dimostra la resistenza che sta opponendo la Silicon Valley ai propositi isolazionisti del neo Presidente Trump. Su questo si è basato il segreto della prosperità di Palermo, da cui si è irraggiata la sua grande cultura e da cui, ­non a caso, è nata anche la nostra lingua italiana. Non appena anche a Palermo si sono cominciati ad erigere muri, essa ha cominciato a spengersi. Teniamolo a mente.

 

 

PalSolo cercando di governare i processi storici e vincendo paure
e superstizioni, una nazione può prosperare. E il mondo
diventare un po’ più sicuro. 

 

 Grazie Palermo.

 

 

 

 

 

 

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QUANDO LA SICILIA INCONTRÒ D’ANNUNZIO di Franca Minnucci – Numero 7 – Aprile 2017

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QUANDO LA SICILIA INCONTRÒ   D’ANNUNZIO

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A questa pubblicazione non era estraneo l’interessamento del poeta che aveva conosciuto il giovanissimo studente, all’epoca poco più che ventenne, e ne aveva avuto grande stima e ammirazione. Il poeta aveva trovato l’analisi dei suoi lavori geniale e particolarmente interessante; e forse è per questo che, terminato il suo furore creativo, finita la tragedia – La figlia di Iorio – nel bucolico soggiorno a Nettuno, il primo pensiero del poeta, in quei giorni di fine agosto, fu di invitare lo studente e proporgli la traduzione del dramma in siciliano. Ce lo racconta in un articolo sul Corriere della Sera lo stesso Borgese: “D’Annunzio, compiuta la tragedia pastorale, mi telegrafò ch’io andassi a visitarlo a Nettuno; e lì volai; lì, dov’era già de Karolis, fui suo ospite fra i lecci di Villa Borghese che Fausto Maria Martini chiama ampollosi; lo vidi la mattina cavalcare un cavallo scuro di nome Pertinace; e nel pomeriggio udii dalla sua voce d’araldo La Figlia di Jorio.

 

Era cosa fresca e bellissima, un Aminta davvero agreste, un melodramma tutto pieno di musica senza bisogno di strumenti musicali; a me parve  miracolosa; e meraviglioso dono mi parve l’invito del poeta a tradurre il poema per la compagnia siciliana di Grasso nel mio dialetto nativo,

 

 

e a dargli “la seconda vita”, come egli poi troppo benevolmente mi lodò di aver fatto dedicandomi il libro”. Il giovane siciliano si impegnò moltissimo nella traduzione e come dichiarò egli stesso: «stesi giù una Figghia di Joriu in un siciliano illustre e colto che ricalcava anche nei versi e nelle assonanze il testo originale». Le prove con la compagnia Grasso iniziarono a Roma nel maggio del 1904, sull’onda del successo che La figlia di Jorio stava avendo con la compagnia Talli, in tutti i teatri d’Italia, da quella prima memorabile al Lirico di Milano del 1° marzo, così raccontata da d’Annunzio: «Quando La figlia di Iorio andò in scena a Milano, io, ad inizio di spettacolo, mi allontanai dal teatro. Ero, al solito, sereno; e solo ero veramente curioso di vedere che avrebbe pensato del mio pastore mistico e allucinato e della mia fola abruzzese, tanto diversa, e dei suoi riti, il pubblico milanese, il pubblico della ricchezza e del lusso, dei salotti e dei teatri. Mi aspettavo burrasca. Come mi parve che il primo atto fosse per finire, consultai l’orologio e tornai in teatro. Entro in palcoscenico e vedo un attore con la testa insanguinata: era caduto, credo per epilessia e si era ferito alla fronte: era Talli. L’atto era, però, finito proprio all’ora. Oltre il sipario, nel pubblico un silenzio: un silenzio sepolcrale come una pausa. Pensai, mi chiesi rapidamente: non è piaciuto? E allora scoppiò un tuono, un applauso solo, impressionante».

 

 

   L’edizione siciliana della Figlia di Jorio andò in scena invece solo qualche          mese  dopo, al Costanzi di Roma. Era il 17 settembre. La prima lettura      sembra che si sia svolta sul palcoscenico dell’Adriano e le prove
furono molto laboriose; Giovanni Grasso e gli attori emozionati
fino alle lacrime, tanto che d’Annunzio dichiarò che non aveva mai visto interpreti intenerirsi tanto della loro parte ad una semplice lettura.

 

 

Erano infatti schierati i più grandi attori siciliani come Mimì Aguillia, Maiorana, Angelo Musco e tanti altri. D’Annunzio aveva una grande ammirazione per Grasso e non nascose mai un giudizio esaltante sulle sue capacità attoriali. Lo spettacolo, nonostante le tante difficoltà, parve a tutti bellissimo; il pittore Pietro Sassi aveva allestito straordinarie scene e l’introduzione del poeta Martoglio, sostenuto da una base musicale, aveva dato il via ad uno spettacolo – melos – intensamente vicino all’anima dell’Isola che fonde in un’armonia di suoni, di colori, di sapori, la dolcezza e la forza, la violenza e la delicatezza.

 

   Una traduzione dove i motivi popolari venivano cantati con dolcezza e     armonia e dove le nostre incanate erano diventate delle nenie ossessionanti
e violente e dove, ancora con un grande colpo di genio teatrale, si erano riportate integralmente le lamentazioni delle prefiche ancora in uso
nelle provincie di Catania e di Trapani.

 

 

D’Annunzio fu chiamato in proscenio tantissime volte e si trascinò sul palco un riluttante giovanissimo Borgese a ricevere i meritati applausi di un pubblico tra l’altro competente ed esigente: basti pensare che in platea erano seduti personaggi come Mascagni, Franchetti e lo stesso Edoardo Scarpetta, arrivato per l’occasione da Napoli. Grande merito, quello di Borgese, di aver risvegliato, attraverso le parole di d’Annunzio, quelle muse sicule che lo stesso Virgilio invocava e di aver ricondotto la lingua siciliana ai suoi fasti letterari più alti e nobili Questo “file rouge” che ci unisce alla Sicilia credo che dovrebbe essere più conosciuto e più amato sia dai concittadini abruzzesi che da quelli siciliani, perché solo attraverso queste comuni radici ed esperienze si può ritrovare il senso e il valore della nostra civiltà. E, come scriveva Eleonora Duse proprio da Palermo, ritrovare proprio nell’azzurro di quel mare, che è anche il nostro, la vita e l’amore.

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Infatti il 1° e il 16 settembre 1903 sulla Nuova Antologia erano apparsi due articoli di un giovanissimo Giuseppe Antonio Borgese, dal titolo L’opera poetica di Gabriele d’Annunzio il primo, e Dal Canto Novo alla Laus vitae l’altro.

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«Chi legge le “Laudi” vive nel centro di un cerchio al di là del quale non v’è che il dubbio e il nulla. Vive dunque in un capolavoro»

 Gabriele D’Annunzio – Foto dai libri Meyers Lexicon scritto in lingua tedesca. Collezione di 21 volumi pubblicati tra il 1905 e il 1909.Diritto d’autore a href=’httpsit.123rf.comprofile_nicku’nicku 123RF Archivio Fotografico

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LA VUCCIRIA DEV’ESSERE SALVATA di Salvatore Maraventano – Numero 7 – Aprile 2017

LA VUCCIRIA DEV’ESSERE SALVATA  

 

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 Fino a qualche tempo fa, quando voleva farsi riferimento ad un evento che non sarebbe mai accaduto, in dialetto palermitano si diceva che sarebbe successo quando le balate della Vucciria si sarebbero asciugate.
 

In effetti, per centinaia di anni, il pavimento di Piazza Caracciolo, cuore pulsante di quello che, un tempo, era il mercato della Vucciria, è rimasto costantemente bagnato per effetto della massiccia attività di vendita del pesce e conseguente scarico del ghiaccio. Anche lo stesso nome del mercato racconta, poi, qualcosa della sua gloriosa storia: vucciria, in siciliano, significa “casino”, rumore, e testimonia la presenza dei cosiddetti abbanniatori (dal siciliano abbanniare: gridare), mercanti che propongono la loro merce con un urlo intonato che arriva a sembrare quasi un canto.

 

Ebbene, ciò che un tempo era metro di paragone dell’ impossibile è infine successo; le balate della Vucciria si sono asciugate.

 

Passeggiando per la piazza del mercato si percepisce un silenzio che, per chi ha memoria, è quasi assordante: gli abbanniatori non ci sono più. I commercianti rimasti nel mercato, ormai, sono veramente pochissimi. Ancora più inquietante, poi, è la desolazione di tutto il quartiere circostante – chiamato Della Loggia –in cui la fanno da protagonisti antichissimi e un tempo stupendi palazzi nobiliari abbandonati, diroccati, caduti in rovina, dove ormai a vivere è rimasta solo la nostalgia di tempi migliori.

 

 Le cause dello stato in cui versa oggi tutto il quartiere della Loggia – che per mille anni, grazie alla sua vicinanza col porto, è stato casa di ricchi armatori e mercanti provenienti da tutto il Mediterraneo e oggi, invece, è un deserto di tufo – sono molteplici e tutte, più o meno, legate alla complicata storia del capoluogo siciliano e alle sue contraddizioni.

Durante la seconda guerra mondiale, la città di Palermo subì numerosissimi bombardamenti che ne sfigurarono i bellissimi palazzi nobiliari del centro storico. In quel periodo, le classi più abbienti si spostarono verso le periferie o verso i paesi delle montagne per sfuggire ai pericoli della guerra. Le classi più povere, invece, non ebbero la stessa possibilità e furono costrette a subire la pioggia di bombe. I danni agli edifici, oltre che quelli alle persone, furono enormi, al punto che la maggior parte dei palazzi risultava completamente inagibile. Nell’ immediato dopoguerra la borghesia palermitana si tenne lontana dal centro storico e, in mezzo alle macerie della città dal cuore arabo, rimasero a vivere solo pochi disperati. La connivenza tra mafia e politica, infatti, permise a imprenditori edili senza scrupoli di inaugurare una fase di speculazione edilizia che consumò letteralmente tutte le campagne della periferia della città e portò alla demolizione di numerose antiche ville ed esempi unici di architettura liberty. Il cosiddetto “Sacco di Palermo” fornì alle classi medie della città nuovi e splendenti palazzi a basso costo dove andare a vivere. Al contempo, tra le macerie del centro storico crescevano povertà, miseria e quindi criminalità. Il processo di ricostruzione sarebbe ripartito solo negli anni ‘ 90 ed è, attualmente, ancora lungi dall’ essere completato.

 

I mercati del Capo e di Ballarò, che in precedenza si raccontavano essere vivi
e vitali come non mai, risentirono meno di questo processo di desertificazione. La ragione sta nel fatto che questi due mercati sono sempre stati, nella storia,
i mercati più popolari. La Vucciria era, invece, il mercato più ricco
e rivolto alle classi abbienti.

 

Alla fine degli anni ’ 90, il mercato della Vucciria, per quanto claudicante e in difficoltà, ancora resisteva. Ad assestargli il colpo di grazia fu l’ interesse che il luogo cominciò, agli inizi degli anni 2000, a suscitare per la movida della città. Piazza Caracciolo, la piazza principale del mercato cominciò a diventare luogo di ritrovo serale per i giovani palermitani. Qualche anno dopo, la vicina Piazza Garraffello diventava una delle più grandi discoteche a cielo aperto d’ Europa. Non si può negare che in quegli anni la movida della Vucciria esercitasse un fascino unico e inconfondibile: il sabato sera, centinaia di persone si ritrovavano a ballare all’ aperto, tra le rovine e le macerie di un quartiere bombardato in cui un tempo vivevano ricchi mercanti amalfitani e pisani, tra i fumi densi e fitti degli stigghiolari (venditori di stigghiole, un tipico cibo da strada palermitano), comprando birra a due lire da commercianti improvvisati e con la possibilità di trovare erba e anfetamine nel vicolo dietro l’ angolo. A quei tempi la Vucciria non era bella, ma sicuramente affascinante.

 

C’era la decadenza, c’era l’ anarchia e c’era l’unicità di un luogo che probabilmente non aveva simili in tutto il mondo.

La movida sregolata e gli enormi interessi degli abusivi, che cominciavano a sviluppare importanti volumi d’ affari, resero la Vucciria una zona franca e senza regole nel pieno centro di Palermo. Fu così che la Vucciria divenne pericolosa e violenta. Fu così che cominciarono a susseguirsi senza sosta notizie di scippi, aggressioni gratuite e crimini di vario genere. Eppure, ancora oggi, le stesse forze dell’ ordine si mostrano restie ad entrare nel quartiere.
Il declino della Vucciria non si è arrestato. Dopo il boom della movida anche quella oggi sembra starla abbandonando, a causa dei troppi pericoli e dei numerosi episodi di violenze. Da quanto raccontato, risulta chiaro che oggi il quartiere della Loggia e il suo storico mercato della Vucciria abbiano bisogno di essere salvati dal declino. Che nel 2017 si permetta che un tale contenitore di storia e di bellezza rimanga ignorato, calpestato e insultato – e per di più in una città che riesce a dimostrare fermento e vitalità – è intollerabile.

 

Da queste considerazioni, nasce l’ idea della Professoressa Giovanna Acampa, docente di Estimo all’ Università Kore di Enna, di stimolare la rigenerazione
del quartiere attraverso micro-interventi di agopuntura urbana.

 

L’ idea alla base di questa metodologia di intervento è che progetti di rigenerazione su larga scala ed eterodiretti abbiano spesso scarsa capacità di incidere sul tessuto urbano del quartiere e, al contempo, generino frequentemente fenomeni di gentrification. Al contrario, micro-interventi accurati e chirurgici, a basso costo e a basso impatto sociale – quando messi a sistema in un quadro progettuale dagli obiettivi omogenei – hanno maggiore capacità di catalizzare la rigenerazione urbana e renderla più inclusiva e rispettosa del tessuto sociale preesistente.

 

Dalla creazione di orti urbani per i residenti, alla pulizia di piazze e spazi dove prima insistevano discariche abusive, etc., è questo il tipo di intervento su cui, in periodo di crisi, vale la pena scommettere.

 

Su questi presupposti metodologici la Professoressa Giovanna Acampa ha cominciato a coinvolgere numerose realtà all’ interno di questa cornice progettuale; da liberi cittadini a residenti, associazioni giovanili come il PYC, un gruppo di editori, il CODIFAS per lo sviluppo di Orti Urbani, il FAI, alcuni esperti di virtual reality per sviluppare forme di fruizione innovative del patrimonio storico, etc. Il lavoro di questo comitato spontaneo, che è chiaramente aperto a chiunque volesse contribuire, è appena iniziato, ma già sono numerosissime le iniziative in cantiere. Speriamo divengano presto realtà.

 

Se però, oggi, altri mercati come quello di Ballarò o del Capo sono ancora in grado di esprimere la stessa vitalità umana e commerciale e la stessa atmosfera da suq arabo che li hanno consacrati nella storia millenaria della città, negli ultimi decenni la Vucciria è andata, al contrario, incontro ad un graduale e lento processo di decadenza e desertificazione.

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“I SUD CHE AMO”. PATRIZIA RINALDI di Giuditta Casale – Numero 7 – Aprile 2017

Premio Andersen 2016 come migliore scrittrice per ragazzi: Patrizia Rinaldi è scrittrice senza specificazioni o determinazioni. Scrive di passioni, con raffinatezza ma senza affettazione, con l’eleganza e la grazia innata di cui godono certe anime.

 

Nel tuo ultimo romanzo, “Ma già prima di giugno” (E/O) c’è la volontà di rappresentare e descrivere un sentimento del sud incarnato da una città multiforme e contraddittoria come Napoli, attraverso una donna, Maria Antonia, forte propositiva volitiva e tenace, carnale e sensuale, che non cede al destino né alla Storia (è una delle sfollate da Spalato: scena che tu racconti con straordinario impatto).

 

Il Sud è maschile o femminile? Oppure la scommessa per il futuro
è di non essere né lui né l’altra?

 

Forse ogni femmina bella e sapiente contiene il suo contrario. Forse ogni maschio virile e fiero sa concedersi la fragilità che per sbaglio
è ritenuta donna. 
 

Ho cercato di rendere Maria Antonia un personaggio che si dimena nelle sue differenti nature.
Mi auguro un Sud ermafrodita, che indichi il rispetto per quello che siamo e pure per quello che non desideriamo essere. 

 

Nei libri per ragazzi, i luoghi sono più ombreggiati, meno determinati e dettagliati. Penso alla scuola crollata di “Piano Forte” (Sinnos),  in cui i protagonisti rimangono prigionieri a sperimentare le loro fragilità e più ancora le loro potenzialità; ai (non) luoghi, che sono ambientazione universale della gioventù, di “Adesso scappa” (Sinnos): casa strade palestra; ai cunicoli di “La compagnia dei soli” (Sinnos), in cui però si possono scorgere i sotterranei di Napoli, come in “Federico il pazzo”, (Sinnos) in cui appare una Napoli presente, ma sfumata nei contorni, definita ma anche universalizzata nella sua carica di “periferia”, che non vuol dire solo degrado e abbandono, ma anche solidarietà, amicizia, cultura e convivenza. Perché da Francesco, adolescente che si finge Federico II di Svevia, e che viene etichettato dai compagni come “pazzo”, impariamo concretamente che la cultura ci salva, dal bullismo, dalla storia e da un destino segnato.

 

 

C’è nel Sud, quello più direttamente pensato e abitato dagli adolescenti,
una carica di riscatto e di universalità, 
che lo fa assurgere
a ombelico del mondo? 
Possiamo sperare che del Sud
i nostri figli comprenderanno 
e valorizzeranno

gli aspetti positivi e i valori portanti? 

 

Non so se noi possiamo sperare, ma dobbiamo consentire la speranza
ai nostri ragazzi.

 

La denuncia dei danni e delle omissioni sociali non basta, i ragazzi che vivono nelle periferie dei poteri sono la maggior parte. Hanno diritto al futuro, allo spiraglio possibile.
In questo non faccio alcuna differenza tra nord e sud.

 

Patrizia Rinaldi è una scrittrice del Sud? E se sì, quali sono gli elementi che rendono la tua scrittura “meridionale” o “mediterranea”?

 

Sono una scrittrice nata a Napoli da genitori campani e sono profondamente legata alla mia terra.
La sfida che propongo alla mia scrittura, a ogni nuovo romanzo, è cambiare per accordarsi al contesto narrativo e continuare a somigliarsi.
 

 

Un’ultima domanda in omaggio alla rivista che ci ospita: Myrrha il dono del sud.
Qual è la myrrha del sud, quel potenziale culturale e letterario degno di essere portato in dono a una divinità? E se dovessi scegliere tra i tuoi titoli, o i progetti letterari a cui hai aderito, quale di questi definiresti un dono del Sud?

 

Un particolare anche minimo che cambi in meglio il giorno, soprattutto
dei ragazzi, che contenga la variabile dell’amore, in ogni forma.
L’omaggio che porterei è una piccola utopia di bellezza,
anche solo da immaginare. 
Sceglierei i progetti letterari
del carcere minorile di Nisida, mi hanno insegnato
la resistenza ostinata contro il danno.
 

.

 

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 I Sud che amo non sono omologati in definizioni fisse.
Sfumano, si contraddicono, gridano e sussurrano.

 

Hanno la rabbia della Ortese, la lucidità perfetta di Sciascia, strascichi barocchi di Consolo, la perfezione della lingua di Bufalino, gli squarci vivi e popolari di Viviani e De Simone, la cultura mai didattica di Montesano, i ricordi nostri tradotti in arte da Starnone, le fondamenta da tradire di Basile, la grazia sublime, drammatica e amorosa, di Ruccello.
La lista sarebbe troppo lunga e rischierei di diventare pedante, cosa che il Sud non deve diventare. Noi siamo in movimento e non possiamo contrapporci ad altri afflati culturali, ad altri paesaggi. Piuttosto li dobbiamo amare e comprenderli. Farne pane nostro, come si addice ai porti e ai monti scalati e senza muri.

 

La voce calda e suadente di Patrizia Rinaldi, scrittrice a tutto tondo,
come poche in Italia, si presenta da sola con la lista che traccia
un itinerario di poetica: la sua.

 

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“I SUD  CHE AMO”

 

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SAN LEUCIO. GENIUS LOCI di Helene Blignaut – Numero 7 – Aprile 2017

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SAN LEUCIO. GENIUs         LOCI

 

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La bellezza conquista e innamora perché, oltre al fascino della superficie percepita dallo sguardo umano, nasconde e palesa una profondità, una sub-stantia che irradia valore e che chiede di non essere trattenuta, bensì diffusa a chi ne sappia godere.

Bellezza contagia bellezza e, in un luogo che riesca ad apparire nello splendore che gli viene dalla sua propria storia, ogni cosa e ogni avvenimento che vi s’inseriscano saranno belli per conseguenza e brilleranno della stessa luce, seguendo naturalmente il palinsesto prospettico generato dal mirabile contenitore.

 

Esiste  un l uogo,  nel Sud d’Italia, la cui bellezza, come in una fiaba, deve tutto alle sue stesse vicende secolari e alle opere  che  proprio  lì furono create.  Opere  che,  ancora  oggi, escono da sapienti mani artigiane per essere offerte all’intelligenza  dell’estimatore  in  tutta  la  loro  profondità  estetica  atemporale  e  che  perpetuano l’ambizione di una virtuosa  sintesi  tra  il  bello  e  il  giusto  così  come la pretese l’assoluto iniziatore, il re Ferdinando IV di Borbone. Si parla   dunque   di  San  Leucio,  frazione  della  città  di  Caserta, che,  per  volere  di  questo  re,  divenne  subito   un imprevedibile  unicum  tra  nobiltà  monumentale  affacciata  su verdi paesaggi pensosi e una comunità umana che si ritrovò privilegiata nell’apprendere l’arte della tessitura della seta e della produzione di straordinari manufatti.

 

Mentre la Real Colonia di San Leucio vedeva la luce e si avviava quieta e operosa a realizzare, giorno dopo giorno, pur nel suo esiguo limite territoriale, il regale sogno sconfinato, i cognati di Ferdinando IV lasciavano la testa sotto la lama di una cruenta rivoluzione.

 

Il nostro re aveva preso in moglie Maria Carolina d’Asburgo e Lorena, sorella dell’Autri-chienne (ndr. Chienne in francese significa cagna), così come era chiamata, dal popolo francese in rivolta, Maria Antonietta d’Austria, sposa del re Luigi XVI. Sangue e terrore la cui eco, tuttavia, non riuscì a fermare la volontà di questo visionario che, forse sopraffatto dall’eccessiva pompa della reggia di Caserta, aveva deciso di trasformare il borgo in una splendida nicchia la cui esistenza e meraviglia non restassero, però, fini a sé stesse. Nel luogo già esisteva una deliziosa antica chiesetta e lui fece costruire, nell’area del Belvedere, un casino di caccia e vi mandò a vivere alcune famiglie perché vi si dedicassero. Il re era dotato di una mentalità moderna e così pensò di dare vita a un modello sociale di assoluta novità, imponendo un armonico assetto urbano con una piazza circolare e strade a sistema radiale; promuovendo un’autonomia economica con la creazione di un opificio per la produzione di sete di eccellenza, di qualcosa che davvero mai si fosse visto prima.

   

Non solo visionario, ma anticipatore di quella uguaglianza 

che fondava la dignità del vivere sul lavoro ma anche
sulla previdenza sociale e la considerazione (ante-litteram) 

dei diritti umani con l’orario giornaliero di lavoro ridotto a undici ore anziché le quattordici in vigore nel resto d’Europa, con la parità di paga per uomini e donne, la formazione scolastica obbligatoria e gratuita

e con l’avviamento al lavoro che teneva conto delle attitudini 

dei ragazzi. 

 

Anche la casa di abitazione era gratuita e costruita con tutti i comfort possibili all’epoca. La vaccinazione per prevenire il vaiolo era obbligatoria. La gestione di questa impresa, che inoltre sapeva produrre un notevole indotto, anticipava infatti l’affermazione di diritti la cui rivendicazione avrebbe segnato in seguito la storia politica e sociale del continente. Una sorta di Fernandopoli con un Codice, i cui principi fondamentali erano: l’educazione, la buona fede e il merito e in cui non vi era spazio per distinzioni di grado e condizione. Dal patrimonio vivente dei bachi da seta che venivano coltivati nell’edificio della cuculliera, fino alla preparazione delle matasse, ai filatoi, ai telai, alla seteria meccanica, la creazione di tessuti lussuosi per l’abbigliamento e per prestigiosi arredi seppe evolvere in una straordinaria gamma di broccati di seta con oro e argento, di particolari gros de Naples e anche in un originale tessuto innovativo che venne chiamato Leucide.

   

Con l’introduzione nella prima metà dell’Ottocento del jacquard,

la tecnica di tessitura, di cui si vantava la Francia,

vennero create opere che ne nobilitavano i risultati 

e si avvicinavano più all’arte che a oggetti 

di uso comune.
 

I colori erano naturali e l’ispirazione culturale delle sfumature inusitate imponeva definizioni che già da sé evocavano emozioni e desideri: verde salice, verde di Prussia, Siviglia, Acqua del Nilo… Nomi suggestivi di stoffe per tappezzerie, arazzi, tendaggi, coperture di divani e cuscini, ma anche scialli, corsetti, fazzoletti e altri deliziosi capi d’abbigliamento. I tessuti per l’arredo affascinavano re e regine e Papi e ancora oggi impreziosiscono gli ambienti del Quirinale, del Vaticano, di Buckingham Palace, della Casa Bianca e di altri prestigiosi siti. Ancora, famosi stilisti della moda internazionale si lasciano tentare per le loro creazioni di altissima gamma. La storia scorre, il divenire del progresso produce decadenze e nuovi inizi; così, con l’avvento dell’Unità d’Italia, il sogno di Fernandopoli venne inglobato dal demanio statale. Tuttavia, la mitologia di una materia nata dalla volontà imperterrita di un re non poteva soccombere.

 

Oggi, i tessuti di San Leucio restano un patrimonio d’eccezione e,

in quelle trame, resta immutata una vitalità del fare che non ha mai smesso di nutrire sé stessa. Con l’opportuno ausilio delle nuove tecnologie,senza snaturare il lavoro artigianale, si realizzano opere

che ancora ci riportano la profondità multipla della loro bellezza,

la loro storia, la loro eredità utopica,
 

ma anche la delicatezza tattile o lo spessore cremoso di certe lavorazioni, la consistenza – che pare profumata – dei grandi disegni floreali, le tonalità sonore delle sete croccanti. Sensazioni che stimolano un’appassionata attenzione euristica per scoprirne ulteriori significati. Gli appartamenti reali e la casa del tessitore sono visibili oggi nella loro formula museale; tuttavia, il consorzio delle aziende che discendono da quelle antiche famiglie è più che mai attivo e disponibile. Le iniziative culturali richiamano visitatori da tutto il mondo: in luglio, il Leuciana Festival è un’evocazione storica in costume. In ottobre, la Festa del Vino, delle Vigne e della Seta perpetua, in maniera felicemente materiale, quella fantasticheria che animò un antico re. Nelle fabbriche e nelle botteghe tutta una ricchezza di tesori da scoprire.

 

 

 

 

 

Le foto sono state gentilmente concesse dal Complesso Monumentale di San Leucio

 

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Helene Blignaut

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MOULIN: IL PITTORE EREMITA di Pierluigi Giorgio – Numero 7 – Aprile 2017

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MOULIN:   il pittore eremita  

 

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“Qui non vi è altro che l’opera della natura selvaggia e incontaminata! Vorrei riuscire a tradurre in delicati pastelli, riflessi e trasparenze…. e in ogni sua mirabile mutevolezza, tutta, tutta la luce delle Mainarde….”

 

Ebbene sì, sono a caccia di fantasmi dall’alba, stimolato per caso da una vecchia rivista del 1960 con un articolo a firma Maurizio Costanzo, ove si riferiva della strana vicenda di un pittore francese, vincitore di prestigiosi premi e votato ad una gloria che mai perseguì: Charles Lucien Moulin, nato a Lille nel 1869 e deceduto in Molise nel 1960, che – dando un calcio a galleristi e mercanti d’arte – scelse di vivere quasi metà della sua non breve esistenza, ritirandosi in una sorta di eremitaggio artistico e creativo, nelle alte terre del Volturno. Eccomi a rintracciare questo riflesso di Francia tra i risvolti della montagna e i vicoli del borgo per inseguirne nonostante il tempo andato, il pensiero, la filosofia di vita semplice, del tutto personale eppur così umana, significativa: maggiormente oggigiorno, in tempi di crisi identitaria e relazionale: un messaggio di pace e d’equilibrio sereno con tutte le cose, la natura, gli uomini, gli animali:

 

“Ciò che mi guida, è l’amore, il bello; ma tutte le cose hanno una ragione d’essere; “L’arte dà il segno del divino che è in te. Tu lo intuisci,
lo cerchi – se vuoi. Nella natura, nella comunione di spirito con essa,
lo vivi… Questa sola è la mia verità: l’amore per il prossimo,
la natura e tutto, tutto ciò che è bello!…”

 

“Mio zio lavorava in Francia” mi fa Mimì Coia, un anziano impettito signore, “conosceva Moulin e quando seppe che sarebbe venuto a Villa Medici per un lungo periodo, grazie alla borsa di studio vinta per i suoi meriti artistici, gli disse di fare un salto a Castelnuovo a trovare il fratello che qui in piazza aveva una rivendita di vino e generi diversi. Mio padre se lo vide arrivare a piedi un pomeriggio con una gran barba lunga e folta, addosso un vestito dimesso ed ai piedi le ciocie. Pensando che fosse un vagabondo in cerca di elemosina, o al massimo uno zampognaro di passaggio lo invitò a bere un bicchiere di vino. Il pittore gli rispose con un sorriso e con un italiano misto ad accento francese: “Tu sei Giovanni Coia, vero? Io sono Charles Moulin!”. Al mio papà per poco non gli veniva un colpo: il fratello gli aveva anticipato in una lettera l’arrivo di un “gran professore”, ma non certo così conciato!….”

 

Era persona colta, saggia, paziente, disponibile. Tra l’altro, aveva studiato presso l’Orto botanico di Parigi l’uso delle erbe medicinali
e curò gratuitamente tanta gente, beccandosi una denuncia
da parte del medico locale: nessuno andava più da lui!

 

Roberto Fiocca mi parla della sua natura artistica: Moulin nasce con l’educazione naturalistica di Lille, si perfeziona con questa alta precisione fatta di creazione di vita e di bellezza ideale. Il soggiorno a Castelnuovo al Volturno, è un approdo: egli vede quello che ha sempre sognato: la “bellezza” di Bougherau, suo insegnante d’accademia, la trova nella realtà attraverso lo studio approfondito della natura…. Non seguì nessuna corrente pittorica in particolare: possedeva la rara capacità di afferrare l’anima delle cose; di tutte le cose…. Nei suoi dipinti, vibranti di luce, nella gamma variegata dei colori, si avverte l’alito divino della sua anima… I soggetti ed i delicati paesaggi – tra armonie di tinte e sfumature di colore, luci ed ombre – hanno lo stupore, la meraviglia dell’uomo appena creato; della natura che si scopre alla sua prima alba, venerata come una dea per mostrarla agli uomini in tutta la sua divina bellezza e sacralità…

 

“Il mio metodo è di trovare la composizione che meglio permette di chiarire il sentimento di ogni soggetto; l’ora si intende come luce: passata l’ora, è passato l’incanto… Non cerco mai la stranezza nell’originalità: faccio e agisco solo secondo coscienza. Ho potuto conservare la mia libertà e non mi è costato. Ho sempre sentito di non poter diventare ricco e di non veder chiaro nei miei problemi di pittura che in solitudine e molto tardi: adesso comincio a capire il perché delle cose.

 

Se il fine della vita è l’aspirazione alla felicità, l’Arte deve, in misura dei suoi mezzi, contribuire a questo fine, seminando serena commozione e splendore di bellezza… Il principio ed il dovere dell’artista è di essere l’archetto del violino delle anime e di farle vibrare: è d’essere un germe di felicità.

 

La felicità della pittura moderna invece, consiste proprio nel non riuscire a scoprire nessun perché: essa è piena d’inquietudine e incertezze, è una pittura da sbandati, che rispecchia il male del secolo, dell’uomo moderno che cerca di salire sulle proprie spalle per non essere schiacciato nel vuoto che ha nel cuore…”.

 

Incontrando la gente tornata stanca dalla campagna, chiedeva spesso se poteva fare un ritratto: qualcuno a volte restava perplesso, sapendo che Mssiù li avrebbe fatti posare a lungo e non per una sola volta… Al termine, donava il dipinto e si condivideva quel che una misera tavola poteva offrire: una minestra, un piatto di fagioli o di patate. Non chiedeva mai nulla; si accontentava di poco…  “I Castelnuovesi sono buoni e generosi perché hanno il sole; quando il sole riscalda l’uomo non ha bisogno di lottare: la natura non dà mai cattivi consigli”.

 

M’informo sull’eremitaggio di Moulin: la baracca è lì, proprio in cima a Monte Marrone: l’ha costruita con le sue mani, pietra su pietra; lì è vissuto per qualche anno di erbe, radici, decotti e un pò di cibo offerto dai pastori, tra lupi e camosci e – come la gente del luogo narra – in compagnia di spiriti, streghe e folletti. “Qui non vi è altro che l’opera della natura selvaggia e incontaminata! E’ tutto grandezza e magnificenza!… A chi gli chiedeva se avesse mai visto l’orso, rispondeva: “Ma certo! Ogni mattina quando mi guardavo in uno specchio rotto…”. Era un convinto assertore della filosofia di Jean-Jacques Rousseau da lui tradotta in vita pratica: la civiltà, origine dei mali e le infelicità dell’uomo; la natura, invece, depositaria delle qualità positive… Un’esistenza da condurre in totale simbiosi con la natura stessa; per sentirsi parte viva di essa con animo genuinamente primitivo, con lo stupore autentico di un bambino che conserva ancora il suo spontaneo incanto.

 

“Non si deve rompere l’equilibrio con la natura, ma lasciare il mondo così come è stato creato… Il progresso porterà al regresso, alla corruzione, all’autodistruzione dell’uomo. Ma il mondo non finirà: esso si trasformerà in caos, ma nel caos ci sarà sempre la vita
e tutto risorgerà…  E poi, allo scadere del ciclo – ci saranno altri cicli,
di milioni, miliardi di anni – di nuovo e ancora il caos…”
 

 

Tina Castrataro mi accoglie nella sua casa piena di gatti: “Ero affascinata da quel vecchio, ne ero forse innamorata, in senso spirituale, come può esserlo una bambina; provavo ammirazione, tenerezza. Ricordo che parlava in modo gentile, a frasi brevi, secche, con voce bassissima ed una particolare inflessione francese. Era un uomo fantastico, mite, grande! Credeva in qualche cosa di assoluto e indirettamente credeva in Dio, poiché confidava nell’arte, nel sublimare tutto in essa, affetti, religione. “Non è per virtù mia che mi vengono le idee… è una forza, un’energia superiore che me lo manda: il mio Dio? La bellezza, la natura, l’arte, l’intelligenza… Un Creatore che chiamano Dio, Allah, Geova e altri nomi ancora… Vivere secondo i principi morali della religione, di qualsiasi religione, è per me vivere secondo natura, nel rispetto di tutte le creature, nell’accontentarmi di quanto mi è stato dato, nell’accettare la vita com’è…”

 

21 Aprile 1960: una suora lo assisteva già da tempo per le cure necessarie. Ormai novantunenne, allettato e nonostante gli acciacchi, volle ritrarla… D’un tratto, la mano scivolò sul foglio, inerte…….  Se ne andò via così Moulin, proprio quando la luce con le sue sfumature, si risveglia dal lungo sonno invernale: sì, se ne andò così… il primo giorno di primavera…

 

È l’alba…. attratto da una forza irresistibile, ai piedi del monte, gli scarponi inzuppati di rugiada, fiatone in gola, passo dopo passo, m’inerpico lungo una ripido sentiero, ingoiato da un immenso bosco di faggi secolari. Un paio d’ore tutte d’un fiato per arrivare in cima… e finalmente il rifugio in pietra, tra quattro rocce e basse chiome di faggio contorte dal vento! Eccomi qui, eremita anch’io nell’antico ricovero in pietra, nello scenario dei momenti più significativi, nello spazio delle emozioni e del pensiero più segretamente intimi dell’artista…. Come posso descrivere ciò che sento? Moulin provò la prima volta le stesse emozioni che ora avverto io?…  Sì, Moulin è qui; è sempre stato qui!… Tutto è permeato della sua Energia: colma i risvolti della montagna, le variegate sfumature della luce, il canto del vento, il ciangottio del torrente, avvolge la mia stessa anima…. Sì, tutto questo è Moulin!…

 

Abbraccio tutto con lo sguardo… Su questo baratro infinito, credo di comprendere la scelta del pittore, tra impegno e abbandono, coinvolgimento e distacco, ma non fuga dal mondo, no!… La comprendo e compenetro, in uno stato di profonda empatia – quasi tra sovrapposizione, fusione e sdoppiamento: lui e me – in questa ricerca di un deliberato, intenso contatto con l’artista, con il suo pensiero, con il modo d’essere e di vivere… Nel desiderio unico di riappropriarsi, di riaccordarsi con se stessi… Nell’appagamento semplice di un richiamo, di una voce interiore; nel bisogno ritrovato di salvaguardare la meraviglia, lo stupore, l’incanto del bambino; per proteggere il patrimonio dei valori profondi che l’uomo – che ognuno di noi – ha dentro di sé; nello scrigno segreto del proprio cuore… Senza inquinamenti né contaminazione, senza disperderli nel cicaleccio del mondo; scimmiottando il mondo… Un’appartenenza a sé, che lui avrebbe perso forse tra galleristi famelici, mercanti d’arte, le luci ammalianti del successo: sì, è l’amore la sua scelta: il motivo fondamentale, la vera opera d’arte della sua vita; un amore ideale, puro, universale; un’esistenza attuata secondo coscienza… tradotta in dipinti, parole, saggezza e spiritualità: nella sublimazione totale nell’arte: proprio tutto, anche il sentimento per una donna…

 

“La donna è una creatura sublime, soggetto d’arte: io avrei dovuto scegliere o l’una
o l’altra e ho scelto l’altra; nessuna avrebbe mai potuto capire fino in fondo la mia vita
e sarebbe stato ingiusto da parte mia imporgliela. Lega tra loro due uccelli: avranno insieme quattro ali, ma non potranno mai volare…”.

 

Si racconta che in gioventù partì per l’Italia con una delusione nel cuore: Emilìe, conosciuta poco tempo prima di andare in sposa ad un altro uomo. Fu un amore reciproco, mai dichiarato, ormai non più possibile… Quel filo impalpabile tra i due non si spezzò mai; una notte, dopo svariati anni, lui la sognò: qualche tempo dopo venne a sapere che Emilìe era morta proprio nello stesso istante… Un attimo prima dell’ultimo viaggio, le anime che non hanno età, si erano incontrate per l’ultima volta: la candida anima dell’una si era accostata a quella dell’altro, per un tenero, estremo commiato…

 

M’incammino per scendere giù in paese… Non so che ora sia e cosa del futuro mi aspetti; ma non me ne importa proprio niente!…

 

Giù, dalla valle, echi di zampogna….

 

Pierluigi Giorgio è autore, attore, regista. Ha girato: “Moulin, il poeta del pastello”, film – documentario che si può richiedere contattandolo su Fb.

 

 

 

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Mi appare all’improvviso e sovrasta il paese. Castelnuovo al Volturno, in territorio d’Isernia, è incollato lì, come un presepe aggrappato alla roccia, quasi per timore di scivolar giù nelle acque del fresco torrente alle pendici del monte; e come presepe che non si smentisce, è paese di validi zampognari. “Per Monte Marrone esiste un sentiero?…” chiedo a due che incontro per strada: resto letteralmente di stucco quando uno di loro, s’informa se sto cercando la capanna di Mssiù Mulè il pittore e, nel pronunciare il nome, si fa il segno della croce come stesse parlando di un santo.

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IL BATTISTERO DELL’ANIMA. CASTEL DEL MONTE di Nicola Primo Zema – Numero 7 – Aprile 2017

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La “folgorazione” è avvenuta a cavallo delle ultime feste 2014 – 2015. Stefano Benazzo, Ambasciatore d’Italia, fotografo, scultore e modellista architettonico, che mi onora della sua amicizia, aveva allestito in Doglio, un luogo delizioso quanto mai adatto ad ospitare la bellezza, una Mostra intitolata “Dialogo” in cui venivano esposti modelli architettonici di chiese cristiane, una moschea ed una sinagoga. Tra questi luoghi esplicitamente di culto, al centro della Mostra, spiccava un modello in scala di Castel del Monte.

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IL BATTISTERO DELL’ANIMA. CASTEL         DEL MONTE

 

Si va da posizioni “negazioniste” di qualunque valore simbolico del Monumento, a derive estreme che affermano realtà esoteriche nascoste alluse da elementi simbolici: cercherò di stare nel mezzo, non tanto perché “in medio stat virtus”, quanto perché mi sembra, in definitiva, una posizione più plausibile. Divido la riflessione in tre parti: Ipotesi sulla funzione del Castello; un monumento disegnato dalle mani del Sole; percorso attraverso alcuni simboli presenti, simulando un itinerario iniziatico.

Da svariati decenni si è discusso sulla reale “funzione” del Castello: è un dibattito ancora aperto.

Il prof. Giorgio Masetti della Università di Bari, Facoltà Lettere Antiche, afferma che di tale termine esistono ben sette significati, tutti validi in funzione del contesto. Tra questi, si possono citare “lastricato” o come pavimentazione, o come lastrico solare, cioè una copertura, il che porta a considerare l’intervento come completamento di una struttura già esistente; oppure, indicante, genericamente, “materiale edilizio da costruzione”, per un’opera da completare o da iniziare, quindi, nello specifico, potrebbe indicare la costruzione ex novo del Castello. Dubito di questa ultima interpretazione, proprio sulla base del documento riportato: 

 

– Se actractus significa genericamente materiale edilizio da costruzione, allora diventa pletorica la specificazione actractum ipsum in calce lapidibus et omnibus aliis oportunis…“questo actractus con calce, pietre e tutto il necessario”…

 

– Diventa incomprensibile l’esecuzione totale di un’opera così importante affidata ad un funzionario di una giurisdizione territoriale diversa, licet de tua iurisdictione non sit “benché esso non stia nel distretto della Tua giurisdizione”; si può capire questo incarico solo con carattere di estemporaneità, per un intervento urgente e di completamento. Dunque il Castello, di cui si ignorano il nome dell’architetto, l’impegno economico e, in definitiva, il primo committente, era un fabbricato preesistente, completato da Federico II solo per un intervento marginale.

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Ipotesi sulla funzione del Castello. 

Chi ha costruito il Castello? 

Sembra una domanda oziosa dalla risposta scontata: Federico II di Svevia. Non sembra così certo.

Per ogni Castello che Federico II intendeva costruire sono documentati il luogo scelto, il nome dell’architetto e la somma di denaro destinata all’opera1. Per Castel del Monte si ha soltanto un mandato del 29 gennaio 1240 dell’Imperatore Federico II, inviato da Gubbio al giustiziere di Capitanata, Riccardo di Montefuscolo, in cui viene prescritto: «Cum pro castro, quod apud s. Mariam de Monte fieri volumus per te, licet de tua iurisdictione non sit, instanter fieri velimus actractum, fidelitati tue precipiendo mandamus, quatinus actractum ipsum in calce lapidibus et omnibus aliis oportunis fieri facias sine mora; significaturus nobis frequenter, quid inde duxeris faciendum.». «Poiché per il castello, che abbiamo intenzione di costruire vicino a Santa Maria de Monte, vogliamo che venga subito eseguito tuo tramite – benché esso non stia nel distretto della Tua giurisdizione l’actractus, ti incarichiamo, quale nostro fedele, di predisporre senza indugio questo actractus con calce, pietre e tutto il necessario, in attesa che Tu ci tenga continuamente informati di ciò che intendi fare in questa faccenda…»2

Cosa è l’actractus.

Ipotesi di studiosi che si fondano sul simbolismo esterno e sui simboli ancora visibili all’interno del fabbricato stesso, attribuiscono la originaria proprietà del Castello ai Templari: Castel del Monte, come vedremo nella seconda parte, è come disegnato dalle “mani del sole” caratteristica tipica delle costruzioni templari.

In proposito, nella terza parte, relativa ai simboli presenti, ne citerò due tipicamente templari e trarrò interessanti sviluppi su uno di essi. Il prof. Giorgio Masetti, succitato, definisce actractus in questo modo: canalis in quam aqua actrahitur “canale nel quale si attira l’acqua”. Si tratterebbe, quindi, della esecuzione di un’opera accessoria per una struttura esistente. E qui si apre il pregevole e convincente contributo di due docenti del Politecnico di Bari, Facoltà di Architettura, prof. Ubaldo Occhinegro e prof. Giuseppe Fallacara che hanno redatto un saggio: Castel del Monte: Nuove ipotesi sull’utilitas del monumento, accessibile per via informatica e che invito caldamente a leggere. Castel del Monte non è un’opera militare e questo si può chiaramente dedurre sulla base degli elementi di architettura militare e logistica non rilevabili nel Monumento. In estrema sintesi, il Castello è una costruzione per la raccolta dell’acqua piovana e di falda per il loro trattamento finalizzato alla cura del corpo e dello spirito.

Dicono i nostri Autori: “Castel del Monte è stato progettato per essere il “battistero” per la redenzione del corpo in primis, ma anche dell’anima dell’Imperatore stesso, alla strenua ricerca dell’Immortalità”.

In effetti, il Castello era impiegato per gli stessi scopi anche per ospiti importanti dell’Imperatore, siano essi alti funzionari che Cavalieri che intraprendevano come un percorso iniziatico. “In esso, concepito come ideale battistero del corpo e dell’anima, lavoravano medici ed alchimisti…”I nostri Autori espongono, in modo puntuale, l’organizzazione degli spazi interni del Castello riconducendoli alla loro funzione e ipotizzando i trattamenti che vi avvenivano leggendo le geometrie interne e segni lasciati dai residui secchi di prodotti alchemici, senza entrare, però, per onestà intellettuale, nella interpretazione dei simboli presenti di cui il castello è pieno. I percorsi sono obbligati ed indicati dalla struttura dei portali: riccamente decorati sul prospetto di entrata, nudi nella parte posteriore, come a “vietare”una via di ritorno, assimilabile ad un ripensamento di chi ha intrapreso il “viaggio”.

Si accede obbligatoriamente nel cortile ottagonale al centro del quale è testimoniata la presenza di una grande vasca anch’essa ottagonale, monolitica, di marmo, con sedile periferico interno3, riempita d’acqua e con getto centrale a mo’ di sorgente: la forma di questa vasca ricorda un “battistero”. L’inizio di un lavacro purificatore per il corpo
e per lo spirito.

I vani finemente decorati originariamente con marmi, stucchi e mosaici, fungevano da “tepidari”e “calidari”, con pavimenti più bassi, soglie di separazione delle sale più alte, rispettivi camini e servizi igienici con acqua corrente: i pavimenti, come negli hammam islamici, sarebbero invasi di acqua più o meno calda adatta alle diverse cure del corpo. L’edificio è munito di cinque cisterne pensili di raccolta di acqua piovana, di 28 m3 l’una, non a servizio diretto dei cinque servizi igienici delle torri, ma comunicano, per il troppo pieno, in altre direzioni, ma soprattutto con una cisterna posta sotto il cortile ottagonale della capacità di 250 m3; questa ultima riversa il troppo pieno entro una ultima cisterna interrata posta a 20,00 m dall’edificio. I recenti restauri, inoltre, hanno rilevato la presenza di pozzi profondi 60,00 m che raggiungono falde ricche di acqua sottostanti il castello. Chiudo questa sezione con una osservazione sintetica degli autori citati, raccomandando, ancora, di accedere al loro lavoro:

“Studiando il progetto dell’edificio, dalla planimetria generale sino ai più piccoli elementi di decoro architettonici, il castello risulta essere una enorme macchina di raccolta, smistamento ed utilizzo delle acque piovane.” E, come detto sopra: “…concepito come ideale battistero del corpo e dell’anima…”.

(Seguirà la seconda parte: Un monumento disegnato dalle mani del Sole).

1 Cfr. Aldo Tavolaro, Castel del Monte e il santo Graal, EDIZIONE GIUSEPPE LATERZA di Giuseppe Laterza, 2004, p. 30 e segg. 

Traduzione di Dankwart Leistikov , da un opuscolo AndriArte curato da R. Ruotolo – P. Petrarolo, Sveva Editrice, Andria, 1993, pagg. 33-42

Completamente demolita da vandali nella seconda metà del XIX secolo.

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ARCHITETTURE DEL SALENTO: LE TORRI DI DIFESA di Giusto Puri Purini – Numero 7 – Aprile 2017

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ARCHITETTURE DEL SALENTO: LE TORRI DI DIFESA

 

Santa Sofia diventa La “Grande Moschea” e nasce nel Mediterraneo Orientale una nuova, grande, colta ed aggressiva superba potenza, che entrerà velocemente in conflitto con la Repubblica di Venezia, la quale, fino ad allora, aveva liberamente solcato i mari dall’Adriatico all’Egeo, con i suoi flussi mercantili e le innumerevoli postazioni e domini, seminati dalla Dalmazia fino all’Asia Minore ed oltre. La Puglia, diventava un nodo strategico per le scorrerie Ottomane e,nonostante l’occupazione della penisola nel 1484 da parte dei veneziani (lo sbarco a Taviano), questi ultimi non riuscirono più, a frenarne l’impeto. L’Algerino Khaized-Din (detto il Barbarossa), nel 1537, distrusse Castro e Marittima e, sul versante ionico, l’antica Ugento. Il sistema di difesa della Puglia, ed in particolare del Salento, era impreparato e precario; tra opere risalenti prima agli antichi Romani, poi ai Bizantini (per difendersi da Longobardi ed Aragonesi), costruite nei secoli precedenti sotto forma di torri costiere e masserie fortificate, esso non era più all’altezza del compito. A questo punto, nel panorama europeo, l’aspro conflitto tra Francesco I Re di Francia, e Carlo V re di Spagna, si risolse in favore di quest’ultimo portandolo a governare una gran parte d’Europa.

La Storia del Salento è costellata da una miriade di invasioni: all’inizio, da parte di popoli divenuti stanziali, come i Messapi ed i Japigi; poi, da parte dei greci; incursioni di pirati saraceni, attacchi e saccheggi, ed ora il grande pericolo degli Ottomani, che tra l’altro cullavano l’idea di riunificare l’Impero Romano d’Oriente con Roma. Fu dunque sotto l’Impero di Carlo V che il Vicerè del Regno di Napoli, Pietro de Toledo, nel 1532, promosse un’imponente e strategica prima linea di difesa lungo le coste Adriatiche e Ioniche della Puglia, con quel vasto promontorio che si protende nel cuore del Mediterraneo. Come un’urbanista dei sistemi di difesa, fece realizzare un progetto dove ogni torre potesse vedere e segnalare alla successiva i pericoli incombenti. Come allarme si usavano i corni e le campane, o allarmi visivi, come il fumo (di giorno) ed il fuoco (la notte). Una seconda linea di difesa erano le masserie fortificate e, più all’interno, imponenti Castelli tra i quali spicca, ancora oggi, quello di Acaya. Il provvedimento del Viceré fu rafforzato nel 1563 dall’ordinanza di Don Pedro Afan de Ribera.

Quest’Italia, protesa e bagnata dalle acque quasi in ogni punto del suo periplo, “offriva” e fungeva da attrazione e calamita per altre popolazioni.

Oggi l’esodo biblico che milioni di genti compiono quotidianamente in questi ultimi anni, rimette in moto antichi rancori, paure e disequilibri, e deve nascere una coscienza nuova che induca i grandi Stati (colonizzatori) a sviluppare nei luoghi di origine lavoro e sviluppo, per riportare il nostro mare ad essere, come da sempre, luogo di mercanti, di scambi economico-finanziari, di cultura, direligione, di pensiero e di lavoro.

Nel 1529, dopo altri conflitti e finalmente l’intesa con il Papa Clemente VII, Carlo V ottenne il riconoscimento dei suoi “ambìti” possedimenti in Italia, tra i quali il Regno di Napoli, che includeva l’amata Puglia (dove tra l’altro non arrivò mai).

Il costo economico di tale impresa era diventato così alto che, attraverso bandi di concorso, si conferivano titoli a chi s’incaricava di costruire torri, assegnandogli il titolo di “Capitano di Torre”, il quale, oltre a segnalare scorrerie ed ad approntare difese con cannoni ed archibugi, poteva anche riscuotere dazi. Agli insolventi veniva “duramente” negato il diritto di difesa.

Le Torri, in seguito, serviranno anche per contrastare il contrabbando, in parte tollerato, per impedire il commercio abusivo del sale molto in voga in quei tempi, data la povertà delle popolazioni contadine, e ad intercettare il traffico degli schiavi. Quelle edificate da Carlo V, costruite con conci di tufo regolari, sono generalmente a pianta quadrata o circolare, con il basamento scarpato; all’interno, ambienti normalmente su 2 livelli ed un terrazzo merlato di copertura; feritoie e caditoie completano la facciata. Le Torri sono fornite di una cisterna sotterranea per raccogliere l’acqua piovana. In certi casi, oggi, sono delle Capitanerie di Porto ancora efficienti; molte sono solo ruderi (purtroppo) ed altre sono state restaurate. Come dice Mario Muscari Tomajoli “La costruzione di Osservazioni fortificate è riportata fin da Plutarco (125-50 a.C.) e fu realizzata anche dai Romani, il cui commercio venne messo in crisi dai pirati sino al 67 a. c., quando la legge Gabinia consentì a Pompeo di armare una flotta contro i predoni e rendere tranquillo il Mare Nostrum”.

Ma questo sistema di difesa non esiste solo in Puglia e nel basso Salento, bensì in tutte le nostre ed in tante altre coste del Mediterraneo, e segna, come un’immane punteggiatura nelle mappe, il rapporto di amore e di paura che il grande mare portava con sé.

Il primato della civiltà, della storia, della fertilità della natura, del costume, le imponeva anche sistemi di autodifesa, ed ecco che, oggi, queste mirabili costruzioni, nel ritmico fluire dei paesaggi, diventano segni indelebili della storia.

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