TRAVOLTI DALL’IMMENSITA’ DEL BLU di Giorgia Ippoliti numero32 febbraio marzo 2025 editore maurizio conte

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Travolti dall’immensità del blu

 

 

«è tutto sulle mie spalle». E chissà se, qualche volta, ci siamo chiesti a cosa fosse dovuta tale espressione, e se fosse vero che “tale peso” fosse espressivo solo di un grande sacrificio piuttosto che di una prestigiosa responsabilità. 

 È ancora una volta il Sud a disvelarci uno straordinario scenario,

 

fatto di miti, leggende e allegorie di vita che ci tramandano importanti e intramontabili insegnamenti. Lasciamoci, ancora una volta, guidare da questi insegnamenti. Affidiamoci alla mano sapiente della cultura tradizional-popolare che quest’oggi ci accompagna nella terra ove giunge chi sogna. 

«Salve, o Sicilia! Ogni aura che quo muove, pulsa una cetra od empie una zampogna, e canta e passa … io ero giunto dove giunge chi sogna»[2] 

 

Proviamo a chiudere gli occhi e ad immergerci 

in un mondo fantastico, nell’isola del sole.

 

Immaginiamo di tuffarci da uno scoglio, nell’azzurro mar di Sicilia, e qui incontrare un personaggio dal singolare aspetto. Metà uomo e metà pesce. D’altronde, «le ninfe inseguite qui non si nascosero agli dèi, gli alberi non nutrirono frutti agli eroi. Qui la Sicilia ascolta la sua vita»[3]. Ecco Cola (Nicola) che, quale punto di riferimento di naviganti e pescatori di sogni, ci si palesa innanzi, raccontandoci qualcosa di incredibile. Egli vive in mare, habitat che lo ha sempre affascinato, da quando la mamma, stanca delle sue incessanti giornate in mare, gli ha rivolto quella che, a prima apparenza, poteva sembrar una maledizione, ma che poi si è rivelata essere la “salvezza” della terra siciliana.

 

«Cola, che Tu possa diventar un pesce!». Ed ecco che improvvisamente i polmoni 
di Cola diventano branchie, i suoi arti inferiori amabili pinne.

 

Cola diviene veramente un pesce, pur rimanendo attaccato alle sue origini terrestri. 

Da quel giorno, egli sarà sì uomo, per metà, ma anche pesce, per l’altra metà, divenendo, grazie alla sua esperienza, un punto di riferimento per pescatori, naviganti e qualsiasi altro si affacci in mare. 

E se è vero che, «una notizia un po’ originale non ha bisogno di alcun giornale, ma come una freccia dall’arco scocca, vola veloce di bocca in bocca»[4], la notizia della straordinaria esistenza di Cola arriva sino alle sale del regno. Qui, tra busti di marmo e pareti rivestite d’oro, sullo scranno regale, Re Federico II, preoccupato delle sorti della sua terra e della sua amabile figlia, apprende dell’esistenza di Cola e della sua particolare condizione. Come sia possibile non sa, ma decide di indagare.

 

Cola viene convocato a corte, ove il Re decide di sottoporlo a una serie di prove,

 

per verificare che quanto «piano piano, terra terra, sibilando, va ronzando, nelle orecchie della gente»[5] fosse reale. 

Il Re, davanti a Colapesce, getta in mare una coppa d’oro rivestita di brillanti e fa una promessa solenne: se Cola riuscirà a recuperarla, sarà degno di congiungersi in matrimonio con sua figlia. 

Cola accetta la sfida e, senza pensarci su, si getta in mare, sino ai più profondi abissi, ove fa una scoperta singolare.

 

Esiste un regno parallelo, fatto di caverne, montagne e valli, ove si ergono tre colonne, chiamate a “reggere” la terra di Sicilia: una integra, una scheggiata e una rotta.

 

Cola, dunque, preoccupato delle sorti della sua città, riemerge in superficie e racconta al Re la sua sorprendente, e sconvolgente, scoperta. «Maestà li terri vostri, stannu supra a tri pilastri, e lu fattu assai trimennu, unu già si stà rumpennu»[6]. Il Re, preoccupato di quanto raccontato da Colapesce ma, al contempo, dubbioso della sua fondatezza, lo invita a ritornare negli abissi, per recuperare il sacchetto pieno di monete d’oro, che aveva gettato nel profondo mare, reiterando la sua promessa. «O destinu miu infelici, chi sventura mi predici. Chianci u re, com’haiu a fari, sulu tu mi poi sarvari»[7].

 

Cola, dunque, con estremo coraggio, si rigetta in mare. Ma, al momento di risalire, 

dopo aver recuperato il prezioso tesoro, si trova posto di fronte a un dubbio:

 

riemergere, lasciando la terra di Sicilia in balia del suo destino, e sposare la figlia del Re, o rimanere negli abissi, sacrificandosi pur di consentire alla sua amata terra di sopravvivere. Egli avrebbe, infatti, la potenza di sostituirsi al busto del pilastro e sorreggerne la parte su cui si poggia la terra di Sicilia. Ma, se è vero che da grandi poteri derivano grandi responsabilità, per Cola non vi sono dubbi: egli sorreggerà il peso della sua amata terra pur di consentirne la sopravvivenza.  

 

Decide, dunque, di rimanere negli abissi, rinunciando alla sua vita: pur di salvare 

la sua amata Sicilia, decide di farsi carico del peso della sua terra. 

Prende, sulle sue spalle, la parte alta della colonna rotta, 

pur di garantire la stabilità della città.

 

«Maestà! ccà sugnu, ccà Maestà ccà sugnu ccà. ’nta lu funnu di lu mari ca non pozzu cchiù turnari vui priati la Madonna ca riggissi stà culonna ca sinnò si spezzerà e la Sicilia sparirà»[8].

 

In un moto di estrema responsabilità, rinuncia all’amor della sua vita e alla sua “tranquilla” esistenza, pur di adempiere a qualcosa di più alto: ancora oggi, si narra si trovi lì, a sorreggere la sua amata terra, tanto che ogni smottamento del terreno vien inteso come “cambio” di spalla da parte di Colapesce. «Su passati tanti anni, Colapisci è sempri ddà. Maestà! Maestà! Colapisci è sempri ddà»[9].

Egli è sempre lì, travolto dall’immensità del blu, a testimonianza ed emblema d

el grande impegno che ognuno di noi porta sulle proprie spalle,


affinché  i  tre pilastri  della  nostra  esistenza,  secondo  le  più  variegate  accezioni,  rimangano  in equilibrio  per  sorreggere  la  nostra  vita,  in  un’ottica  di  continuo interscambio tra il nostro mondo sotterraneo e quello di superficie. 

 

 

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 [1] “Splash”, di Colapesce, Di Martino, 2023. 

 [2] Giovanni Pascoli, “Odi e inni”, Odi – L’isola dei poeti. 

 [3] Leonardo Sciascia, “L’aspra bellezza della Sicilia” in “ La Sicilia e il suo cuore”, 

 [4] Fabrizio De Andrè – Gian Piero Reverberi, “Bocca di Rosa”. 

 [5] Gioacchino Rossini, “La calunnia è un venticello” , cavantina di Don Basilio, in “Il Barbiere di Siviglia”. 

 [6] https://www.sicilias.it/la-leggenda-colapesce-colui-porta-sulle-spalle-la-sicilia/ 

 [7] https://www.sicilias.it/la-leggenda-colapesce-colui-porta-sulle-spalle-la-sicilia/ 

 [8] https://www.sicilias.it/la-leggenda-colapesce-colui-porta-sulle-spalle-la-sicilia/

 [8] https://www.sicilias.it/la-leggenda-colapesce-colui-porta-sulle-spalle-la-sicilia/

Il Pianto Romano di Gaia Bay Rossi numero 32 febbraio marzo 2025 editore maurizio conte

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il pianto romano

 

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Salgo su per la collina senza sapere esattamente cosa mi si presenterà davanti.    I cartelli con scritto “Pianto Romano” mi dicono poco e non so neanche il punto esatto in cui mi trovo, se non che sono nella statale 113 della bella ed assolata campagna della provincia di Trapani.

 

Arrivata in cima alla strada di congiunzione con la statale, vedo un imponente obelisco che scopro essere un monumento garibaldino. Fu costruito nel 1885 da Ernesto Basile sulla sommità della collina che fu teatro della battaglia di Calatafimi 

(a poca distanza dal paese stesso), battaglia decisiva 

per le sorti dell’Unità d’Italia.


Questo combattimento fu il primo, avvenuto nel corso della spedizione dei Mille il 15 maggio 1860, nel luogo individuato nelle carte storiche come Pianto Romano, “Chianti di Rumano” (le piante dei Romano) in siciliano. Il nome si trova in antichi documenti del XVII secolo ed indicava i terreni lavorati a vigneti della famiglia dei Romano, di origine ebraica, proveniente da Salemi.   

 

Dalla cima del colle si può osservare molto bene tutto il campo di battaglia. Le parti erano rappresentate da un lato dai garibaldini, con i volontari arrivati da sud dopo aver lasciato Salemi, dove Garibaldi si era proclamato dittatore della Sicilia, dall’altro dai militari dell’esercito delle Due Sicilie, comandati dal generale Francesco Landi, che arrivavano da Alcamo. Garibaldi aveva bisogno di una vittoria per convincere la popolazione locale ad unirsi alla sua truppa, composta principalmente da bergamaschi e genovesi, ma anche da tanti giovani siciliani, denominati “picciotti”. In quel momento in Sicilia c’era un forte malcontento nei confronti dei Borbone, che infatti presidiavano l’isola con 30000 soldati. Il generale decise di inviare i suoi reparti in perlustrazione del territorio. Un distaccamento si era accampato a Calatafimi, per bloccare la strada a Garibaldi
   

La mattina del 15 maggio l’Ottavo Battaglione Cacciatori del maggiore Michele Sforza, una delle migliori unità dell’esercito borbonico, avanzò verso sud in missione esplorativa. I garibaldini erano circa 1500 comandati dal generale Giuseppe Garibaldi, 

mentre i borbonici circa 2000 con al comando il maggiore Sforza.

 

Alle dodici i borbonici si erano sistemati sulla collina del Pianto Romano. I garibaldini sull’altura di fronte. Li separava una profonda vallata. Il maggiore Sforza osservava i garibaldini e decise di fare la prima mossa. L’Ottavo Cacciatori avanzò nella valle, ma qui intervenne il fuoco inaspettato dei carabinieri genovesi. I Cacciatori vacillarono e poi batterono in ritirata, inseguiti dai garibaldini. A quel punto però erano proprio questi a dover scavallare la collina costantemente bersagliati dai nemici. All’una e trenta i garibaldini erano a metà del colle, il momento era particolarmente difficile, al centro un gruppo di soldati borbonici strappò il tricolore ai soldati garibaldini. Si trattava di una bandiera donata a Garibaldi dalle donne uruguaiane durante la sua campagna in quel Paese e che, nello scontro, fu portata via dai nemici. Garibaldi si mise a discutere con i suoi, il luogotenente Nino Bixio suggerì la ritirata. Ma Garibaldi rispose senza incertezze: “Qui si fa l’Italia o si muore”. La battaglia avrebbe deciso il successo o il fallimento della spedizione. A metà pomeriggio i garibaldini arrivarono in cima alla collina e Garibaldi, per incitare i suoi, si schierò con gli altri in prima linea: i suoi uomini avevano bisogno della sua imponente personalità.

 

I borbonici, dopo ore di battaglia, si diedero alla fuga, dirigendosi 
verso Alcamo, e i Mille entrarono a Calatafimi.

 

I corpi dei caduti, inizialmente lasciati sul campo di battaglia, furono poi seppelliti in una fossa comune. Il 27 maggio successivo Garibaldi si sarebbe recato a Palermo dove, dopo tre giorni, il 30 maggio, avrebbe firmato l’armistizio e allontanato i borbonici dalle fortezze.

 

Allora la Sicilia fu finalmente libera, anche se forse 

non lo sarebbe mai stata veramente.  

 

Ma torniamo al Museo di Pianto Romano. Un comitato di abitanti di Calatafimi il 9 settembre dello stesso anno richiese a gran voce la costruzione di un monumento che contenesse i resti dei caduti e fosse anche in memoria della battaglia. Il Basile lo progettò nel 1885, facendo in modo che la facciata dell’ingresso principale assomigliasse al frontone del tempio di Segesta, che si trova a pochi chilometri di distanza. All’interno appare 

 

appare il primo modello plastico storico in Sicilia che rappresenta la battaglia 

di Calatafimi, realizzato dall’artista Gianvito Gassirà. Costruito seguendo 

la tecnica del modellismo di scenari realistici riprodotti in scala, 

lascia stupefatti ed è straordinario vedere la collina

 e la vallata con il percorso dei soldati in miniatura, 

con le loro divise, gli abiti, le loro bandiere 

e con l’aggiunta di tanti particolari 

come vigneti e campi di grano, 

il tutto in circa 4 metri quadri

 

I materiali utilizzati sono gesso, polistirolo, segatura e materiali comuni, come le setole degli spazzoloni per riprodurre i canneti. Per finire, a dare vita all’intera ambientazione, circa 2800 soldatini dipinti a mano. Oltre all’assemblaggio e alla pittura, è stato molto importante il lavoro di ricerca per rendere storicamente accurata la ricostruzione della battaglia. All’interno del monumento di progettazione neoclassica inaugurato nel 1892 sono anche conservati i corpi di parte dei caduti di entrambi gli schieramenti, gli abiti e numerosi quadri e fotografie attinenti a Garibaldi e al suo periodo.   

 

A lato del mausoleo si trova il Viale delle Rimembranze, fiancheggiato da cipressi. Percorriamo tutto il viale e ci troviamo di fronte al campo di battaglia, dove è stata posta una stele nel 1960, in occasione del centenario della battaglia, sulla quale sono scritte le famose parole dette, secondo quanto riporta Cesare Abba, da Garibaldi a Nino Bixio a Calatafimi: “Qui si fa l’Italia o si muore”. 

 

Ferma accanto alla stele, sento arrivare delle biciclette. Sono tre, si fermano 

e uno di loro legge “Qui si fa l’Italia o si muore” e prosegue sarcastico: 

“Era meglio chi muria” (era meglio se moriva).

 

 

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LA VOCE DI NAPOLI di fernando popoli numero 32 febbraio marzo 2025 editore maurizio conte

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 LA VOCE DI NAPOLI

 

Il cantante nacque a Villaricca, piccolo paese della provincia di Napoli, da genitori poverissimi e, come egli stesso racconta nel suo libro Scontri e incontri, è costretto a lasciare la scuola a metà della terza elementare perché non ha i libri, ha smarrito una scarpa dell’unico scalcagnato paio di scarpe che possiede e si vergogna di andare in classe come un pezzente. 

A nove anni,

 

poco più che bambino, si iscrive ad una scuola serale di musica organizzata per formare la banda musicale del paese. A undici anni diventa ufficialmente 

suonatore di clarinetto ed inizia così la sua carriera musicale.


A diciassette anni si trasferisce a Napoli con la famiglia. Comincia a lavorare come operaio per guadagnarsi da vivere ed entra nel giro di alcuni studenti ai quali palesa le sue prime qualità canore, che vengono subito apprezzate.   

Nel 1943 entra a far parte del novantunesimo reggimento di cavalleria di Torino. Si trova a casa in convalescenza quando riceve la notizia che a Napoli stanno insorgendo contro le truppe tedesche, dunque forma velocemente un gruppo di giovani volontari suoi coetanei, insieme si armano con l’aiuto di un capitano di artiglieria e riescono audacemente a sminare un ponte a Chiaiano. Sulla via del ritorno incontrano un drappello di tedeschi con cui si apre un violento conflitto a fuoco, dove viene ferito gravemente. Trasportato in ospedale dai compagni sopravvissuti su di una ”carrettella”, si salva la vita quasi per miracolo, ma rimane per sempre con una gamba claudicante.   

 

Spinto dagli amici di Chiaiano, inizia a frequentare la scuola di canto del maestro Gaetano Lama e del cantante Vittorio Parisi che lo prendono subito a ben volere e ne intuiscono le sue eccellenti doti canore. Dopo pochi mesi, presentato dallo stesso Parisi, debutta al Teatro Reale di Napoli ottenendo un lusinghiero successo, ma la sua carriera viene subito osteggiata dall’impresario del teatro che vuole favorire i suoi cantanti e lo esclude dagli spettacoli. Affronta così un momento estremamente duro e difficile. Frequenta la Galleria Umberto I, di fronte al Teatro San Carlo, dove si riuniscono spesso cantanti e attori disoccupati in cerca di scritture che non arrivano, ma l’anno successivo

partecipa ad un concorso bandito dalla Rai per voci nuove e riscuote un clamoroso successo. Giunto alla fase finale della competizione, che si svolge 

al Teatro Delle Palme, nel quartiere Chiaia, 

a ridosso della celebre Via dei Mille, 

si classifica primo assoluto


con 298 voti a suo favore, mentre il secondo classificato ne ottiene solo 43. La vittoria giunge come una salvezza: ottiene il premio in denaro di tremila lire ed un contratto con Radio Napoli, e la miseria è abbandonata per sempre. Comincia a cantare in seguitissime trasmissioni radiofoniche con la guida del Maestro Gino Campese che dirigeva in quegli anni Radio Napoli. Su suggerimento di Campese

cambia il suo nome d’arte in Sergio Bruni per non confondersi con un omonimo cantante ed inizia per lui un periodo di grandi successi, 


in un ambiente altamente professionale qual è la Rai di Napoli. Contemporaneamente riprende a studiare per affinare le sue qualità canore. Inoltre, si sposa felicemente con Maria Cerulli e ha con lei quattro figli.   

 

Nel 1949 partecipa alla prima Piedigrotta, trampolino di lancio per le voci nuove, e ha un grande successo con la canzone Vocca ‘e rose di Mallozzi e Rendine, due autori di chiara fama. Negli anni di partecipazione alle successive edizioni di Piedigrotta lancia le canzoni ‘O ritratto ‘e Nanninella, Suonno a Marechiaro, Vieneme ‘nzuonno e nel 1962 si classifica primo con Marechiaro Marechiaro, di Murolo-Forlani. Nel 1960

al culmine della sua carriera ormai consacrata, partecipa per la prima volta 

al Festival di Sanremo e canta Il mare, di Pugliese, e È mezzanotte, di Testa e Rossi, ottenendo uno strepitoso successo di pubblico ed entusiasmando tutta l’Italia.


Ora tutti gli impresari lo richiedono per i loro spettacoli, il Festival l’ha consacrato come grande interprete della canzone napoletana, ma lui si rifugia nella sua bella villa per una pausa di riflessione. Riduce drasticamente le sue esibizioni con la delusione dei suoi fans e il suo repertorio attinge sempre più alle canzoni classiche.   

 

Negli anni Sessanta tiene concerti acclamatissimi in America e in Russia, rifiutando molti altri inviti e rinunciando a fiumi di soldi. Comincia a porsi il problema della continuazione della canzone napoletana in un mondo ormai dominato dall’avvento del Rock e da altre forme musicali. Con il poeta Salvatore Palomba musica Parole povere e Carmela, che diventa subito un classico della canzone napoletana.  

Viene invitato alla trasmissione televisiva Levate ‘a maschera Pulicenella e il sindaco di Napoli Maurizio Valenzi si congratula con lui per la vitalità e la freschezza con cui rinnova la grande tradizione della canzone. 

Tra gli anni Ottanta e Novanta realizza un’antologia della canzone napoletana orchestrata da Roberto De Simone e da lui stesso. Si ricordano anche la sua interpretazione nel film Serenata a Maria, per la regia di Luigi Capuano, e le sue partecipazioni ai film Il viaggio di Vittorio De Sica e Che cosa è successo tra mio padre e tua madre? di Billy Wilder.   

 

Per un certo periodo si dedica anche alla pittura, realizzando delle mostre. 

Fonda inoltre un’associazione dal nome “Centro di cultura per la canzone napoletana”, dove insegna a titolo gratuito canto e chitarra a tutti quelli che ne fanno richiesta. 


In un piccolo teatro di venticinque posti nella sua dimora si esibisce, sempre gratuitamente, con i suoi allievi. Nel 1994 la casa discografica Emi, la più importante in assoluto, pubblica l’album Sergio Bruni, la voce di Napoli.   

 

Nel 1995 tiene
.

due memorabili concerti: il primo ha luogo a Napoli, a Piazza San Domenico Maggiore, alla presenza del sindaco Antonio Bassolino, con diecimila spettatori in delirio, 

il secondo a Roma, al Teatro dell’Opera, per volontà dell’assessore Gianni Borgna, 

che in quell’occasione scrive «Sergio Bruni è la voce di Napoli».


Anche Eduardo De Filippo, nel riprendere questa citazione, gli dedica una poesia.   

 

Nel 2000 lascia Napoli e la sua bella villa per ritirarsi a Roma, dove vivono le sue due figlie, e da allora si interrompono per sempre le sue performance.   

 

Cosa ha rappresentato Sergio Bruni per Napoli è presto detto: con la sua voce soave ha interpretato la più autentica canzone napoletana, quella che tocca il cuore per la sua poeticità e per la sua semplicità narrativa, allietando persone di tutti i ceti sociali, da quelli più popolari a quelli alto borghesi. Sergio Bruni, «la voce di Napoli», ha cantato per tutti coloro che chiedevano di sognare trasportati dai versi immortali e da quella melodia le cui radici si innestano nella grande tradizione musicale e canora napoletana. Quest’uomo semplice e schietto, modesto ed eccelso, generoso ed altruista rispose con il suo canto al loro bisogno di poesia. Su YouTube oggi vi sono migliaia di visualizzazioni dei suoi video e commenti entusiastici, a testimonianza di quanto sia ancora apprezzato.

 

 

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LA SARDEGNA E L’UNESCO di Gloria Salazar numero 32 febbraio marzo 2025 editore maurizio conte

 

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La sardegna e l’unesco

 

È la regione italiana che detiene, su scala nazionale, di gran lunga la percentuale maggiore di aree archeologiche, ossia il 17%, contro – incredibilmente – l’8,2% di quelle, ad esempio, del Lazio; ed è un valore sottostimato, perché si riferisce solo ai siti musealizzati. Per la precisione, oltre alle suddette aree archeologiche, nell’isola vi sono il 3,5% dei parchi archeologici ed il 2,7% dei manufatti archeologici nazionali. 

Numeri alla mano, dei 342 siti (tra aree, parchi e singoli monumenti) archeologici italiani, 61 si trovano in Sardegna. Senza contare le 30 strutture museali dedicate all’archeologia presenti nella regione.  La fonte è l’ISTAT, dati riferiti al 2017 del report del 2019 “I Musei, le aree archeologiche e i monumenti in Italia”. 

Un valore sottostimato, dicevamo, perché i siti archeologici censiti nel Piano Paesaggistico regionale della Sardegna sono più di 10.000 e molti, addirittura, non vi sono stati ancora inseriti. 

Praticamente 

non c’è neppure uno dei 377 comuni isolani che non annoveri delle vestigia archeologiche nel suo territorio. Si tratta di resti prenuragici, nuragici, fenici, punici, romani; un tesoro inestimabile e tuttora parzialmente inesplorato.


Di recente, nel 2020, è stata costituita l’Associazione “La Sardegna verso l’UNESCO”, per promuovere la candidatura di 32 dei principali siti nuragici, bene identitario sardo per antonomasia, alla lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità. 

Una goccia nel mare, ma una goccia importante. 

Ad oggi in Sardegna vi è un solo complesso nuragico, tra gli ottomila esistenti, ricompreso tra i monumenti 

Patrimonio dell’Umanità: il sito di Su Nuraxi a Barumini. Lo scopo prefissosi dall’Associazione è quindi quello di  

far includere il patrimonio nuragico nella World Heritage List, affinché ne «sia riconosciuto, tutelato e protetto l’inestimabile valore universale».


Augurandoci che questo possa servire anche a preservare nel presente – e per sempre nel futuro – l‘incontaminato contesto paesaggistico nel quale si trova questo patrimonio, di recente minacciato dall’indiscriminata installazione di foreste di pale eoliche e tappeti di campi fotovoltaici.   

 

L’iter è lungo, ma se la candidatura verrà – com’è auspicabile – accolta, una pagina importante della civiltà umana sarà portata all’attenzione mondiale. Quella di un’isola ancora da scoprire: una Sardegna che è un museo a cielo aperto.

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L’Italia, si sa, possiede un patrimonio archeologico straordinario. Quello che non si sa, o non si dice, è che la Sardegna di questo patrimonio ne possiede circa un quinto. 

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 Foto di Gloria Salazar

 

IL TEATRO-TEMPIO DI PIETRAVAIRANO Gemme del Sud numero 31 ottobre novembre 2024 editore maurizio conte

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IL TEATRO-TEMPIO DI PIETRAVAIRANO

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                  Pietravairano (CE)

 

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Pietravairano è un antico borgo di origine normanna non lontano da Caserta, 

che fino a poco più di vent’anni fa era ignaro di essere 

il custode di un tesoro straordinario.

 

Una mattina del febbraio 2001, il professor Nicolino Lombardi – dirigente scolastico con una grande passione per il volo e per l’archeologia – sta compiendo uno dei suoi tanti voli di ricognizione con lo scopo di coronare il suo più grande sogno: fare un’importante scoperta archeologica. 

 

Giunto all’altezza del Monte San Nicola, nota delle pietre bianche disposte in modo semicircolare e il suo sogno finalmente si avvera: si tratta dei resti di un antico complesso di epoca romana fino ad allora sconosciuto.

Il complesso archeologico del Teatro-tempio Romano di Pietravairano costituisce 

un raro esempio di impianto del tipo teatro-tempio risalente al II-I secolo a.C. 

Secondo gli storici, il luogo era un’area di culto fortificata già in epoca sannitica, 

che i Romani poi riconvertirono in un santuario dedicato forse a Giunone, 

a cui aggiunsero un ampio teatro scavato direttamente nella roccia.

 

Le due strutture sorgono su due terrazze a quote differenti: sulla terrazza superiore ciò che resta del tempio a pianta rettangolare; una ventina di metri più in basso, il teatro di cui si conservano la cavea semicircolare e la scaena

 

Il sentiero che dal comune di Pietravairano porta a Monte San Nicola è leggermente impegnativo in alcuni tratti ma ne vale davvero la pena: il complesso è maestoso e il panorama che si gode da qui è uno spettacolo nello spettacolo. La vista spazia in ogni direzione, dalla costa tirrenica al massiccio del Matese e regala la sensazione di dominare la vallata stando sospesi nel vuoto.

 

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IL POLO MUSEALE DI LATIANO Gemme del Sud Numero 31 ottobre novembre 2024 editore Maurizio Conte

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IL POLO MUSEALE DI LATIANO

 

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                     Latiano (BR)

 

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Nel 2018, a seguito di un lodevole progetto di riqualificazione del sistema museale, 

un vero e proprio “museo diffuso” è nato a Latiano (in provincia di Brindisi), 

per questo definita “città dei musei”. I musei civici della città 

sono stati riuniti in un unico Polo Museale

 

che trova la sede principale nell’ex Convento dei Domenicani (bellissimo edificio cinquecentesco appositamente restaurato), ma si espande anche nella Torre del Solise e nel Palazzo Imperiali, ubicati nel centro storico, e nel Parco archeologico di Muro Tenente, situato in piena campagna. 

 

I musei che costituiscono il Polo sono, nell’ex Convento dei Domenicani, quello delle Arti e Tradizioni di Puglia e quello del Sottosuolo e della Storia della Farmacia, e presso il Palazzo Imperiali la Pinacoteca Comunale ed il Centro di Documentazione Archeologica che, con la sua collezione archeologica “Antonio Marseglia”, è strettamente legato al sito del Parco Archeologico di Muro Tenente. A tali strutture si aggiunge inoltre la Casa-Museo Ribezzi Petrosillo.

Il Museo delle Arti e Tradizioni è uno dei primi di Puglia ad aver raccolto, dal 1974, testimonianze della cultura demo-etno-antropologica della regione

(oltre 4.000 oggetti e migliaia di documenti, anche fotografici, 

nonché le due notevoli sezioni speciali 

dedicate al vino ed alla ceramica).

 

Importanti sono le quattro ricchissime sezioni del Museo del Sottosuolo, che è unico in Puglia, la collezione del Museo della Storia della Farmacia, con la biblioteca specialistica fornita anche di volumi rari sull’alchimia, ed il Centro di Documentazione Archeologica, che con il suo eterogeneo repertorio di oggetti fornisce un interessante excursus dalla preistoria al Medioevo. 

 

Oltre all’esposizione delle sue pregevoli raccolte, il Polo è stato concepito per essere anche un centro polifunzionale che, ospitando diverse attività di divulgazione (mostre, convegni, eventi artistici, laboratori), ha la finalità di ampliare la fruizione dei musei da parte di un più vasto pubblico.

 

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CHIESA DI SAN BARTOLOMEO A CAMPAGNA gemme del sud numero 31 ottobre novembre 2024 editore maurizio conte

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CHIESA DI SAN BARTOLOMEO A CAMPAGNA

 

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                  Campagna (SA)

 

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A Campagna, in provincia di Salerno, si trova la Chiesa di San Bartolomeo, luogo particolarmente significativo poiché nel 1573 Giordano Bruno vi compì il noviziato e celebrò la sua prima messa, come ricorda una lapide sulla facciata dell’edificio.

 

La chiesa, situata nella parte medievale della città, la più antica, fa parte 

dell’ex-convento domenicano di San Bartolomeo, ex-campo di internamento 

per ebrei ed oggi sede del Museo della Memoria e della Pace, 

meritevole anch’esso di essere visitato.

 

L’edificio è di notevole pregio e contiene inoltre due preziosi gioielli artistici: un Crocifisso ligneo e la cripta, contenente alcuni resti di defunti mummificati. 

 

Il bellissimo Crocifisso è uno dei rari esempi di Cristo velato ed ha una storia particolare. San Bernardino da Siena, giunto a Campagna nel 1440 come nunzio apostolico, fu accolto da una processione cui parteciparono tutte le chiese del paese, esponendo la statua del loro santo più importante. Alla vista del suggestivo Crocifisso portato dai domenicani, il Santo cadde in ginocchio ed iniziò a pregare invocando il “Santissimo Nome di Dio”. Per le incredibili sembianze umane del Cristo, ne ordinò poi la vestizione con abito rosso ed il velamento. Il 14 settembre, con cadenza settennale (a parte rare eccezioni, come per il Giubileo del 2000), iI Crocifisso viene portato in una suggestiva processione, detta appunto “del Santissimo Nome di Dio”, molto sentita e partecipata dalla popolazione locale.

La facciata della chiesa è semplice e lineare. L’interno, nel quale coesistono 

elementi artistici di varie epoche, è a navata centrale, sormontata 

da un grande soffitto ligneo a cassettoni dalle belle foglie 

d’oro zecchino in stile barocco e recante nel mezzo 

un dipinto attribuito a Francesco Solimena.

 

Nel transetto vi sono due cappelle, dedicate rispettivamente alla Madonna del Rosario ed al Santissimo Nome di Dio. In quest’ultima, sull’altare in legno, anch’esso decorato da foglie in oro zecchino in stile barocco, si eleva il Cristo velato. 

 

Il pavimento è rivestito da maioliche a disegno geometrico risalenti all’Ottocento, mentre gli arredi sono cinquecenteschi, con rifacimenti del Settecento.

 

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UN UOMO IN PIEDI di Marina Alberghini numero 31 ottobre novembre 2024 Editore Maurizio Conte

Benedisse l’unione la Dea lunare Diana, della natura gioiosa regina delle selve e dei boschi, di quella Natura incomparabile che splendeva nel luogo dove era nata quella magia musicale. Luogo incantato che fu chiamato Partenope, dal nome della Sirena suicida per amore, perché anche l’amore era indispensabile a quell’ alchimia, ne era anzi una componente essenziale, inscindibile

Quel luogo, dove cantavano Mare, Bellezza, Musica e Amore si chiamò in seguito Napoli, ed essendo un dono degli Dei, ammaliò per secoli 

i viaggiatori di ogni Paese,

 

che non potevano sapere che quella bellezza, quel fascino che apparivano nuovi ai loro occhi, erano anche misteriosamente antichi. Perché Napoli è il più sontuoso palinsesto di grandi culture stratificate. 

Di quell’antica bellezza, delle sue fortune poi declinate, tanti hanno parlato, ma alcuni sono stati glorificati in eccesso, altri, con meriti spesso maggiori, sono stati tenuti nell’ombra. Molti i nomi celebrati tra chi parla a sproposito di Napoli, ma quanti conoscono, ad esempio, quello di Giuseppe Marotta, scrittore tra i pochi che compresero pienamente la straordinaria poesia e umanità napoletane? E infatti il suo nome è caduto nel dimenticatoio. Per fortuna, nonostante le scopiazzature, fra gli storici emerge ancora un gigante: Luciano Salera.   

 

Sapevo della lotta del Sud per restare indipendente, il mio nonno napoletano, figlio di un ufficiale borbonico, mi raccontava quello che, secondo lui, aveva combinato Garibaldi, e in seguito anche mio marito, benché fosse bolognese, mi diceva sempre che Garibaldi e compagni avevano, consapevolmente o no, distrutto la più grande civiltà italiana dell’epoca. Poi otto anni a Napoli, dove mio marito era stato chiamato a fondare l’Aeritalia, mi riconfermarono nell’amore per una città incomparabile.

Ma mai avrei pensato di conoscere, incarnato, uno dei maggiori conoscitori 

di quella lotta dimenticata che raccontava nei suoi libri e il cui stile 

non era piatto e noioso come quello degli storici ufficiali, 

ma vivo, splendente e carnale.  


Come conobbi quell’uomo che era fatto di mare e come il mare poteva essere tempestoso e ferire, ma essere anche sereno e brillante delle mille luci del sole?     

 

L’incontro ebbe qualcosa di misteriosamente già previsto e d’altronde io non credo nelle coincidenze ma che tutto abbia un fine nella nostra vita perché guidato da un filo misterioso. Era una sera di ottobre del 2009. Mio marito Giordano, dopo 40 anni di matrimonio felice, da un anno era volato in Cielo e io avevo preferito restare sola nella nostra casa rifiutando di trasferirmi dai parenti. Lavoravo ai miei libri, ma a volte ero molto triste. Specialmente con l’arrivo dell’autunno, in quella sera fiesolana del 29 ottobre, sentivo il vuoto attorno a me.

Ma quella sera si rivelò speciale… Sul grande tavolo antico del salone 

era aperto il quotidiano Il Giornale. Stavo preparando la cena 

e buttai un occhio sulle Lettere dei Lettori. Una mi colpì. 

C’era una tale forza in quella lettera che rivendicava 

le ingiustizie passate di un popolo che era stato 

depredato e colonizzato!


Una forza tale che sentii l’impulso di dire a quella persona che aveva ragione, che la pensavo uguale! Che aveva ragione da vendere! Che io avevo scritto della grande civiltà dei Borboni nel mio libro sul Presepio Napoletano! Una cosa davvero inusitata, perché non sono mai stata propensa a scrivere a sconosciuti. Mai.

Vidi la firma: Luciano Salera, Napoli. Anche qui agì il destino perché, 

se avesse firmato la mail con uno pseudonimo, tutto sarebbe finito lì.


Cercai il telefono nell’elenco abbonati e lo chiamai. La sensazione immediata fu che fossimo due vecchi amici che si erano ritrovati, una sensazione reciproca di felicità. Che iniziò con uno scambio di libri e con lui che mi mandava ricette di cucina napoletana insieme con i ricordi dei nostri cari sposi defunti. Andò avanti per più di dieci anni. Parlavamo di tutto e tutti i giorni in un rapporto fatto di mail e di telefonate che arricchirono la nostra vita.   

 

Da quel primo incontro, non pensate che io stia esagerando, egli mi apparve come un antico Cavaliere senza Macchia e senza Paura, fedele per sempre alla sua “Patria napolitana”, come la chiamava, ai suoi colori che erano quelli dei Borboni. E l’arma di quel Cavaliere era la penna. Ho letto tanti libri di storia: alcuni leggeri e a volte umoristici oppure aneddotici, come quelli di Cervi e Montanelli, altri molto documentati, come Declino e caduta dell’Impero Romano, di Edoardo Gibbon, troppo austero per i miei gusti. Invece Luciano coniugava un filo di finissimo humour alla serietà delle sue documentazioni, spesso vere scoperte.

Dopo la morte della moglie adorata, anche lui come me aveva deciso di vivere solo nella dimora che aveva visto crescere una famiglia unita e felice. 

Si dedicava totalmente ai suoi libri. Amici pochi, ma buoni,

come Giorgio Salvatori che lo intervistò al tg2, il magistrato Edoardo Vitale, e l’editore Pietro Golia, che curò per Controcorrente due sue pubblicazioni “Garibaldi, Fauché e i predatori del Regno del Sud” (2006) e “La Storia Manipolata 1860-1861- Documenti e Testimonianze” (2009). Inoltre era circondato dell’affetto delle due figlie, Giorgia e Antonella, e delle nipoti che amava teneramente.

 

Ma  quando  lo  conobbi  io  aveva già  problemi  di  salute ed era diventato un misantropo. Col tempo si aperse con me completamente. Ma sempre da lontano, io a Fiesole, lui a Napoli. Forse lui, che era molto orgoglioso, non  avrebbe  voluto  farsi  vedere  nell’avanzare di un rapido declino, fisicamente diverso da come era stato. Era  un  uomo  molto  sensibile ma di una sensibilità maschia, mai l’ho sentito piangersi addosso. Anzi, se gli dicevo  di curarsi si  arrabbiava. Gli  scocciava  anche  sentirsi chiedere come stava. Era capace di momenti d’ira pensando al destino della sua  Patria Napolitana, e allora faceva paura. Ma a volte  poteva  tramutarsi  in un  umorista  divertentissimo che  mi faceva  piangere dal  ridere facendomi sentire una quindicenne. Posso dire che da quando non c’è più io non ho più riso come allora?
Si è portato via la mia allegria e sono improvvisamente invecchiata.

 

Era un vulcano, un uomo luminoso, i suoi momenti burrascosi 

erano nuvole che coprono il sole e che poi sparivano.


Io mi abbeveravo alla sua sterminata cultura, al punto tale che, grazie a lui, ritengo di essere cresciuta anche spiritualmente. Diceva spesso che Napoli non è una città, ma una nazione. Intuizione felicissima, infatti Napoli non ha niente a che fare con le altre città della Campania e del Sud perché è una stratificazione di molte e grandi civiltà, a cominciare dalla greca. Il suo orgoglio lo portava addirittura a non promuovere i suoi libri o a cercare editori. Fui io a fargli conoscere l’editore Solfanelli e a portare il suo
“La fuga di Garibaldi e il giallo della morte di Anita” (edizione Solfanelli, 2016), alla giuria del Premio Firenze. Ne scaturì un premio e una menzione d’onore. Ogni suo successo lo sentivo come mio. Inoltre mi affiancai a lui, inviando lettere ai giornali, nella sua lotta per ristabilire la verità sul Sud depredato e mistificato. 

Era geniale. Una personalità multiforme sempre determinata a chiedere il massimo a se stesso. Difficile definirlo. tenebroso, insondabile, ironico, focoso, gelido, romantico, scontroso, spiritoso, ma affettuoso, passionale, folle, cupo, iroso, fascinoso, misterioso, indomabile, incomprensibile, sboccato, raffinato… cambiava sempre, pur restando se stesso. 

Con gli editori non fu mai un uomo facile. Delegava tutto a me. Solo con Golia aveva un rapporto fraterno ma anche con lui una volta qualcosa si spezzò. Perché Luciano sapeva anche essere verbalmente violento, e riuscì a volte a farmi piangere, ma poi tornava il sereno e le volte che mi fece ridere o sorridere furono molte di più! 

Tenerissimo quando parlava delle figlie e in particolare delle nipoti. Ma si preoccupava di quando sarebbero cresciute in un mondo così corrotto e io lo consolavo dicendogli che tutto dipende sempre dalla base ricevuta in famiglia. Questo contava. E ho potuto averne la conferma oggi, constatando i successi accademici e professionali delle nipoti.

 

Quando cominciava un libro me ne parlava a lungo. Poi me lo mandava 

per sapere che ne pensassi e perché gli correggessi le bozze.


Perché  lui  scriveva di getto e non rileggeva. C’erano  momenti  in  cui  era  amareggiato al pensiero dei troppi arrivisti: scrittori  da  quattro soldi, spesso  solo  giornalisti, pseudo  scrittori che saccheggiavano i suoi  libri e che, mediante vantaggiose  amicizie,  balzavano agli  onori di citazioni su giornali e in TV con libri troppo spesso scritti male. Gli  dispiaceva  non  per  sé,  perché  rifuggiva da onori  e  successo,  ma perché il suo pensiero, le sue ricerche, andavano in giro storpiati. Un altro suo dispiacere era di non aver fatto Lettere, come gli sarebbe piaciuto (e come sarebbe stato giusto) ma Economia e Commercio, per volere del padre.

 

Io gli mandavo via via i miei libri a ogni uscita, e un divertente diario 

dove lui vestiva i panni di un greco antico protagonista di mille avventure. 

Per lui scrissi anche una poesia,

 

“Uomo solitario’’, che gli piacque molto: Uomo solitario e racchiuso / nella torre del tuo orgoglio.              / Sale invano la voce del mare / a ricordarti il rigoglio / della stagione carnale. / Nella tua casa silente / vuoi respirare soltanto / la polvere antica / di libri vissuti / Amaramente scrivendo / di cupe ingiustizie 

/ Di anni perduti.   

 

Negli ultimi anni era molto peggiorato, quasi paralizzato nelle gambe, e si disperava temendo di sopravvivere a sé stesso e di essere di peso alle figlie. Poi è arrivato il Covid e credo lo avrà accolto come un amico.   

 

Perché le aquile non sono fatte per restare in gabbia.

 

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RICORDO DI LUCIANO SALERA

   UNO STORICO DEL SUD DA NON DIMENTICARE 

 

 

CECILIO FRIOZZI DI CARIATI: IL PRINCIPE 007 di Demetrio Baffa Trasci Amalfitani numero 31 ottobre novembre 2024 Editore Maurizio Conte

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CECILIO FRIOZZI DI CARIATI: IL PRINCIPE 007

 

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Ma la realtà supera sempre la fantasia e infatti Cecilio, molto più dell’immaginario James Bond, univa in sé nobiltà, bellezza, fascino, intelligenza, spregiudicatezza, intuito ed una smisurata ricchezza personale. Egli fu l’ultimo erede dei titoli di Principe di Cariati, Principe di Montacuto, Duca di Castrovillari, Duca di Seminara, Marchese di Romagnano, Conte di Santa Cristina, Barone di Palmi e Barone di GarreriI, più una lunga sfilza di signorie minori, ma fu anche e, soprattutto, un avventuriero ed una spia.II

Cecilio nacque all’Ambasciata italiana di Pechino il 22 gennaio 1890, 

dove il padre Lorenzo era Segretario di Legazione, mentre sua madre 

Amata d’Ehrenoff era figlia del potente Ministro d

el Regno di Svezia e Norvegia in Cina


ultima rappresentante della sua antica e nobile famiglia, vedova in prime nozze di un Wallenberg, la più ricca famiglia svedese, il cui patrimonio ammonta a svariati miliardi di dollari.   

 

Sin da bambino studiò in Inghilterra, presso il prestigioso Eton CollegeIII. Allo scoppio della Prima guerra mondiale lo troviamo in India, dove lavorava ufficialmente come ingegnere petrolifero, ma questa era solo una copertura: in realtà la sua carriera nello spionaggio era già brillante1

Cecilio sapeva guidare ogni sorta di mezzo, dalle moto, alle auto, agli aeroplani, passando ovviamente per i carri armati, era appassionato 

di corse automobilistiche e di equitazione,


nel 1915 brevettò l’innovativo “impermeabile Friozzi”IV, rivoluzionario per l’epoca, costituito da un quadrato di tela cerata foderato di lana, con un foro al centro per la testa, versatile ed utile sia per le corse a cavallo in quanto lasciava libere le braccia, sia come coperta da campeggio.   

 

Il Principe di Cariati fu anche un grande seduttore e nel 1921 fu protagonista di un celebre scandalo dell’epoca, quando a Londra convolò a nozze con l’inglese Amelia Spratley-Johnson che per lui abbandonò a New York il figlio di sei anni e il primo marito, il barone polacco Maximilian Stanford de Sheyder-Shottland. Con lei si trasferì dapprima in Persia, lavorando presso una compagnia petrolifera anglo-persiana e, quindi, definitivamente in India, ma sfortunatamente da queste nozze non nacquero figli e la giovane Amelia morirà purtroppo in un incidente automobilistico nei pressi di Rawalpindi nel 1929. 

Pochi anni dopo si risposò con l’inglese Grace Hampshire, anche se il matrimonio durò poco e decise così di rientrare in Europa verso la metà degli anni ’30, trasferendosi a Firenze nella villa che la famiglia possedeva e dedicandosi alla sua nuova passione: gli aeroplani.   

 

Nel 1938 conobbe a casa della famiglia Rosselli del Turco una giovane italiana, Giulia Rio[ii], che sposò poco tempo dopo e da cui ebbe un’unica figlia, Vita, morta però a pochi mesi.IV

È proprio negli anni della Seconda guerra mondiale che la vita del Principe Cecilio inizia a prendere una piega ancora più avventurosa: convinto antifascista, 

lasciò il suo Paese e venne arruolato, benché cittadino italiano, 

presso il servizio segreto britannico.


Dagli archivi inglesi recentemente in parte desecretati scopriamo alcune missioni che lo videro protagonista, soprattutto in India, Estremo Oriente, Sud America, Tibet e nel Terzo Reich. Qui, nella Germania nazista sappiamo che si spacciava per un conte polacco e, insieme alla terza moglie, che gli fu abilissima complice col nome di Julia Chochoska, venivano invitati ad importanti ed esclusivi ricevimenti, dove scoprirono segreti, rubarono documenti e conobbero Adolf Hitler, correndo anche il rischio di venire scoperti e fucilati sul posto!

 

Durante la guerra venne catturato in India per presunte attività di spionaggio 

in favore dell’Italia di cui comunque aveva mantenuto sempre la cittadinanza,


ma egli, mentendo spudoratamente, e grazie alla sua ottima conoscenza, tra le tante, anche della lingua inglese, convinse la polizia di non essere mai stato in Italia, di non parlare italiano e di essere un innocuo e mediocre ingegnere e fu rilasciato. A poco valsero gli allarmi che successivamente arrivarono da Londra e che lo definivano come un agente segreto straniero ‘pericolosissimo’ perché a quel punto l’astuto Cecilio era già lontano e al sicuro!

Tornò in Italia appena in tempo per assistere alla fine del Regno 

e alla nascita della Repubblica e, nel febbraio del 1949, 

lo troviamo a Firenze dove si occupò di liquidare 

i suoi ultimi beni, per poi partire alla volta 

del Pacifico meridionale,


dove visse fino alla morte, senza disdegnare altre sporadiche missioni in giro per il mondo a favore dell’Alleanza atlantica contro il totalitarismo sovietico, in omaggio alla sua forma mentis profondamente liberale.   

 

Si calcola che alla sua morte il patrimonio di Cecilio Friozzi ultimo Principe di Cariati ammontava alla spropositata somma di ben 2000 miliardi di lire dell’epoca; ma il mistero che avvolse tutta la sua vita non lo abbandonò neanche dopo la morte, in quanto sembra che sua erede fu sua figlia Vita, la quale in realtà non era morta, ma venne dal furbo genitore spedita in America sotto falso nome per crescere ricca e al sicuro, lontana dai pericoli della Guerra mondiale.  

 

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RETABLOS di Gloria Salazar numero 31 ottobre novembre 2024 editore maurizio conte

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Chi ha reminiscenze scolastiche ricorderà di non aver mai sentito parlare dell’arte rinascimentale sarda.  

 

Quando si pensa alla Sardegna sotto il profilo artistico viene in mente tutt’altro. Tutti conoscono la civiltà nuragica con i suoi bronzetti e le sue misteriose torri, molti sanno dell’esistenza degli splendidi esempi di architettura romanica, forse qualcuno penserà agli artisti contemporanei; ma la pittura medioevale e rinascimentale sarda – se mettiamo da parte gli scritti di pochi storici dell’arte, in particolare Corrado Maltese, e i fondamentali studi di ambito locale – è sfuggita, almeno come movimento, ai radar della storiografia dell’arte nazionale. 

 

In una terra contesa per secoli tra l’Italia (Pisa, Genova e poi il Piemonte) e la Spagna, lo studio dell’arte sarda è rimasto terra di nessuno. Eppure in Sardegna vi sono, pressoché ignote, interessanti testimonianze di arte pittorica, cicli di affreschi e dipinti Medioevali di grande suggestione

 

Ma la manifestazione più notevole dell’arte sarda è rappresentata dai retabli

 

vasta espressione di un importante fenomeno artistico, altrettanto sconosciuto, fiorito nell’isola nel XV e XVI secolo.  

 

Paradossalmente, o forse no, negli ultimi anni la Spagna si è dimostrata maggiormente interessata alla storia ed alle vicende artistiche isolane, piuttosto che l’Italia stessa; probabilmente come conseguenza della dominazione iberica, sotto la quale la Sardegna si è trovata dal XIV al XVIII secolo. 

 

Ed è proprio dalla Spagna che nel ‘400 venne importata in Sardegna la fattispecie del retablo, termine derivato dal latino “retro tabula”, ossia dietro la tavola (dell’altare). I retabli – italianizzazione dello spagnolo retablos – per alcuni aspetti corrispondono ai nostri polittici. Hanno come caratteristica principale una struttura imponente in legno scolpito e dorato, suddivisa in numerosi scomparti posti su vari ordini, nei quali sono inseriti statue e dipinti su tavola, prevalentemente a fondo oro. La loro più impressionante rappresentazione è costituita dal Retablo Mayor della Cattedrale di Siviglia, il più grande del mondo, un’opera monumentale che misura quasi 30 metri di altezza e 20 di larghezza.

 

Anche in Sardegna i retabli sono pale d’altare maestose ricoperte d’oro. Incorniciano dipinti dai colori vividi, pervasi da una leggiadria iconografica 

che sotto certi aspetti rimanda all’arte gotica.


Sono opera di artisti sardi e sardo catalani, della maggior parte dei quali, purtroppo, non è noto il nome, e che sono conosciuti perciò come “Maestro” della località in cui si trovano i loro principali lavori. 

La Sardegna era stata una terra di conquista e per certi versi, seppure un’isola, idealmente anche una terra di confine, e come tale aveva subito le influenze dell’una e dell’altra sponda limitrofe al suo territorio. Per questa ragione

 

gli stilemi delle pitture dei retabli sardi sono riconducibili
sia a quelli coevi dell’arte spagnola che a quelli italiani;

non scevri, anzi spesso fortemente connotati, da richiami fiamminghi. D’altronde all’epoca l’impero spagnolo, di cui la Sardegna faceva parte, si estendeva fino alle Fiandre, della cui Scuola artistica la penisola iberica aveva recepito totalmente i modelli. 

Il Retablo di San Bernardino, datato al 1455, è noto per essere il più antico retablo sardo ed è conservato, come molti altri, nella Pinacoteca Nazionale di Cagliari.

 

Ma è nel Retablo di Tuili che si rinviene la più alta raffigurazione
dell’arte pittorica rinascimentale della Sardegna,
opera del cosiddetto Maestro di Castelsardo,


cui fu attribuito tale nome per i frammenti di un retablo rinvenuti nell’omonima località. L’artista, la cui vera identità non è stata stabilita con certezza, era contemporaneo – per fornire una collocazione temporale – di Botticelli e Perugino. Recentemente è stato ipotizzato si potesse trattare di Gioacchino Cavaro, forse zio di Pietro Cavaro, pittore appartenente ad una prolifica dinastia. Quest’ultimo fece parte, insieme al figlio Michele, della più famosa Scuola d’arte del Rinascimento sardo, la Scuola di Stampace – attiva dalla fine del XV secolo – che prese il nome da un quartiere storico di Cagliari dove si trovavano le botteghe degli artisti.  

Ne furono protagonisti, oltre ai Cavaro, Antioco Mainas, insieme ad altri pittori minori, anch’essi autori, quasi sempre anonimi, dei dipinti di innumerevoli retabli.

 

Alla scoperta di queste opere d’arte della Sardegna si potrebbe ispirare
un inconsueto itinerario di viaggio nell’isola, una “via dei retabli”.


Infatti tali opere, o parti di esse, oltre che nella già menzionata Pinacoteca di Cagliari, che ne custodisce la principale raccolta, e nel Museo Diocesano della città, si trovano in numerose chiese e musei sparsi su tutto il territorio. Per citare alcuni tra i più notevoli ricordiamo i retabli di: Villamar; Perfugas (il più grande della Sardegna, con 54 tavole); Ozieri, con le splendide opere dell’omonimo Maestro, alcune visibili anche a Benetutti, a Ploaghe e a Bortigali, a proposito del quale Federico Zeri disse: “si potrà definire il Maestro di Ozieri un pittore sardo nella stessa misura in cui Chopin può dirsi risolto nell’etichetta di compositore polacco”; Ardara (il più alto – 10 metri – tra quelli sopravvissuti nella loro interezza); Dolianova; Codrongianos; Iglesias; Lunamatrona; Suelli; Oliena; Olzai; Gonnostramatza; Milis. Senza dimenticare la collezione conservata nel Museo Antiquarium Arborense di Oristano e quella del Museo Diocesano di Alghero.

I retabli perdurarono a lungo come “forma d’arte”. Con l’avvento del Barocco l’aspetto architettonico della struttura assunse un’importanza preponderante
ed i dipinti furono soppiantati da sculture lignee.


Anche di questa tipologia esistono in Sardegna vari esempi, tra i quali: lo spettacolare retablo di San Pietro a Sassari, alto 12 metri; e l’imponente retablo di Sant’Antioco ad Iglesias.

 

 

RETABLOS

 

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