LUCE DA LEVANTE di Francesco Festuccia – Numero 6 – Ottobre 2016

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LUCE DA LEVANTE

 

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Spesso non si riesce a far andar via dalla testa quella “cartolina” in bianco e nero che scorreva inesorabile sui nostri schermi della Tv.

 I trulli, che, per me bambino, avevano quell’aspetto fiabesco e irreale, con il sottofondo della litania dell’”intervallo”, arcaico metodo per far quadrare i buchi di palinsesto di una televisione alle prime armi.

Eppure, i trulli di Alberobello (ora vero tesoro dell’umanità) da soli, per tanti anni, hanno dato al resto dell’Italia l’immagine della Puglia, quasi non ci fosse il mare, le spiagge infinite, le città vissute. Immagine distorta che sorprendeva quando a scuola sui libri di geografia scoprivamo il resto. E poi, dopo tanti anni, uno schiaffo all’immagine: la nave carica di immigrati albanesi vista e rivista in Tv e narrata meravigliosamente da Gianni Amelio nel 1994 in Lamerica. Ed ecco che l’immagine della Regione cambia radicalmente, ma sempre in maniera disassata rispetto alla verità, così come ci aveva fatto pensare, in una specie di Gomorra ante litteramLaCapaGira, geniale film del 1999 di Alessandro Piva sulla piccola vita della piccola criminalità. E subito dopo il più complesso Sangue Vivo, di un pugliese dal sangue inglese, Edoardo Winspeare.

Così, per anni, la “visione” della Puglia è andata per conto suo, tirata da una parte all’altra. Poi, i registi di cinema e tv hanno scoperto la “vera” Puglia con le sua straordinarie bellezze, la sua lingua, i suoi pregiudizi, i suoi slanci e i suoi sapori.

Sì, perché, grazie al grande e al piccolo schermo, quello che ci arriva dall’immagine-Puglia è cambiato. Tanti i film e fiction che hanno come sfondo gli scorci pugliesi. Ne abbiamo contati a centinaia negli ultimi anni, tanto da far diventare questa terra l’emblema del Sud, titolo che prima apparteneva forse solo alla Sicilia e alla Campania. E c’è di tutto in questo sterminato elenco. Si può correre sul filo del film d’autore con Ferzan Özpetek, che ha portato i suoi set in Puglia: da Allacciate le cinture a Mine Vaganti, che ci mostra un Riccardo Scamarcio nelle limpide acque del Salento (e, questa sì, è una delle immagini che restano più impresse). O far saltare i botteghini con il più popolare autore pugliese, quel Checco Zalone che ha messo a confronto la “pugliesità” più divertente con il Nord dai riti spesso “incomprensibili” (a proposito, è sempre curioso ricordare che il nome d’arte di Luca Medici non è altro che la storpiatura dell’epiteto pugliese “che cozzalone!”, sinonimo di “che tamarro!”). O ancora, tornare al mitico Lino Banfi, che poca Puglia forse ci ha fatto vedere nei suoi film, ma ne ha fatto diventare decisamente universale l’immagine attraverso il dialetto. Un mito del cinema, così mitico che persino Quentin Tarantino davanti a noi, in un festival di Venezia, si mise in ginocchio chiamandolo maestro. Tanto che, assieme al foggiano Renzo Arbore e a Michele Placido (nato in un paesino tra Puglia e Basilicata), è il simbolo della “puglitudine” in Focaccia Blues, film del 2009 di Nino Cirasola, in cui si racconta la storia vera della più nota catena di fast food costretta a chiudere uno dei suoi punti ad Altamura per la concorrenza dell’imbattibile focaccia locale.Scorriamo ancora questo sterminato elenco per trovare tanti filoni, anche sorprendenti. Se pensiamo alla storia e al fantasy non si può non parlare del maestro Pupi Avati, che con I Cavalieri che fecero l’impresa del 2001 trasforma i paesaggi e i monumenti della Puglia, da Barletta a Otranto, dal Gargano a Brindisi, in una sognata Europa medievale. O di Matteo Garrone e del suo Racconto dei Racconti del 2015, che apre una pagina su tutto il Sud ma anche sulla Puglia, come nell’episodio della pulce a Castel del Monte. Oppure Il Viaggio della Sposa, del 1997, di Sergio Rubini, che usa la sua Puglia, emblema dell’Italia del Seicento, per raccontare una contrastata storia d’amore.Ma si può anche ridere. Oltre al citato e popolarissimo Zalone, lo stesso Rubini è protagonista, in Manuale d’Amore 2, film di Giovanni Veronesi del 2007, nell’episodio dell’esilarante (ma non caricaturale) coppia gay salentina assieme ad Antonio Albanese: i due sono costretti a sposarsi in Spagna, ma non rinunciano alla loro amata terra d’origine. Dalla Puglia sono passati anche Aldo, Giovanni e Giacomo nel loro debutto cinematografico del 1997, Tre Uomini e una gamba, in cui percorrono l’Italia per arrivare, tra mille comiche avventure (e qualche ripensamento), a Gallipoli. Un “prodotto” della terra pugliese, popolarissimo per le sue apparizioni nelle tv locali, Uccio De Santis, si è immerso in un viaggio on the road alla ricerca della felicità in Non me lo dire, film del 2012 del suo sodale Vito Cea – partnership rinnovata quest’anno nel più iconico dei simboli pugliesi in Mi rifaccio il trullo.

Film d’autore, comici, storici, fantasy: ora c’è tutto per renderci conto che l’immagine della Puglia è diventata totale, set perfetto con le sue tante angolazioni, di paesaggio, di suggestioni, di storia. Tanto che anche la Apulia Film Commission ha fatto e sta facendo un grande lavoro,

che prosegue con l’ultimo bando da poco presentato in cui sono stanziati tre milioni euro per attirare nuova cinematografia. Un fermento di cui sono esempio i film appena conclusi di Luca Miniero (Non c’è più religione, girato tra Foggia e il Gargano), Marco Ponti (Io che amo sempre solo te) e ancora Edoardo Winspeare con il suo La vita in comune. Poi documentari, fiction (come Questo è il mio paese, successo di Rai 1 con Violante e Michele Placido), cinema d’autore (con i nuovi lavori di Vito Palmieri, Pippo Mezzapesa e Pierluigi Ferrandini) e anche kolossal come Wonder Woman, il film della Warner Bros sull’eroina dei fumetti, in uscita nel 2017.

Sì, forse così ci dimenticheremo, anche se poi è un dolce e misterioso ricordo, di quei trulli in bianco e nero, unico simbolo, in quegli anni da poco trascorsi, di una regione dalle mille bellissime sfaccettature.

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IL SUD ESPORTA INTELLIGENZE Editoriale di Francesco Serra – Numero 6 – Ottobre 2016

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Tra 50 anni solo un italiano su quattro vivrà nelle regioni meridionali. Il grido d’allarme, lanciato dal rapporto Svimez 2015, non ha lasciato indifferente il Governo, ma la risposta a questa enorme ondata migratoria sta muovendo solo ora i primi passi.

 Il Sud non solo si sta svuotando, ma sta trasferendo altrove la qualità delle sue risorse. Secondo il rapporto Svimez, ad abbandonare il Mezzogiorno sono in particolare laureati, giovani, donne. Tra coloro che scelgono di vivere definitivamente altrove, la stragrande maggioranza sono proprio i giovani, il 40 per cento dei quali con un percorso universitario alle spalle. Al Sud si studia, ma non si trova lavoro: i laureati hanno un tasso di occupazione pari al 31,9 per cento, i diplomati pari al 24 per cento. Sono dati che fanno sprofondare il Meridione nelle classifiche europee. Per fronteggiare questa situazione, Matteo Renzi, nel novembre dello scorso anno, ha lanciato un Masterplan per il Mezzogiorno, indicato come un progetto fortemente innovativo: non più soluzioni calate dall’alto, ma interventi per “far leva sulle capacità e sulla voglia di mettersi in gioco dei cittadini e delle istituzioni meridionali”. In sostanza, il Masterplan è stato immaginato come uno strumento operativo finalizzato a mettere in movimento la società civile del Mezzogiorno in un contesto di “politica industriale e di infrastrutture e servizi che consentano di far diventare le eccellenze meridionali veri diffusori di imprenditorialità e di competenze lavorative, attrattori di filiere produttive in grado di garantire la ripresa e la trasformazione dell’economia del Mezzogiorno”. 
Sulla carta il progetto è molto ambizioso: si punta alla ripartizione di responsabilità tra le diverse amministrazioni, con l’obiettivo finale di costruire 16 Patti per il Sud con le 8 Regioni meridionali, le 7 città metropolitane (tra cui Napoli, Bari, Palermo e Cagliari) e il contratto di sviluppo di Taranto. 
A un anno dal lancio del Masterplan come si sono tradotte in pratica le indicazioni del Governo per il rilancio del Mezzogiorno e per fermare la fuga di cervelli?
Ad aprile Renzi ha fatto un tour del Meridione (Reggio Calabria, Catania, Palermo, Matera) al grido: “Si frulla per sbloccare l’Italia”. Buona volontà e propaganda per sostenere misure i cui risultati si potranno valutare solo a partire dai prossimi anni. A fronte della mancanza di interventi nella legge di stabilità del 2015, si è andati un po’ meglio in quella del 2016 (20% del Fondo di garanzia delle Pmi, il credito d’imposta sugli investimenti produttivi, interventi ad hoc per Bagnoli e Ilva di Taranto), per giungere, finalmente, allo stanziamento di circa 40 miliardi nella riunione del Comitato interministeriale per lo sviluppo il 10 agosto. 
In alcuni casi si tratta di riprogrammazione di risorse già disponibili e non utilizzate nel corso del tempo, piuttosto che di nuovi finanziamenti. Tuttavia, al di là dell’inevitabile perplessità per una comunicazione in generale propagandistica e sopra le righe, va riconosciuto che il metodo per la definizione dell’elenco degli interventi da finanziare (“Patti” tra Governo, Regioni, Città) rappresenta una novità interessante in termini di bilanciamento degli interessi nazionali e regionali. Altra cosa, invece, la valutazione delle scelte compiute, in alcuni casi non propriamente strategiche. 
A volte è la stessa narrazione trionfalistica del Governo a non sposarsi con la realtà. Un’oggettiva difficoltà nasce dal rapporto spesso conflittuale con le Regioni, ma anche il grande risultato di aver smaltito la quasi totalità dei fondi europei, non ha dato esattamente i frutti sperati: fino a oggi, si è trattato perlopiù di spese sostitutive di interventi già previsti con altre risorse. Il punto, in sostanza, dovrebbe essere non solo quello di non restituire i fondi europei, ma di accertarsi che gli stessi vengano utilizzati per ridurre gli squilibri e non solo per tappare i buchi. 
La notizia positiva viene invece dal finanziamento dei singoli Patti regionali e dalla firma del primo patto territoriale, quello con la Campania, che impegna il Governo e la Regione a realizzare interventi per 9,6 miliardi di euro, conteggiando i fondi già messi in conto nei diversi cicli di programmazione. L’intento è quello di mettere nero su bianco un elenco di azioni prioritarie su cinque macrosettori (infrastrutture, ambiente, sviluppo, turismo e sicurezza) entro il 2017. In caso di mancato raggiungimento dell’obiettivo fissato, il Patto prevede il ritiro del sostegno economico all’opera in oggetto. 
Il dato più interessante è certamente quello rappresentato dal finanziamento (circa mezzo miliardo) per 88 cantieri della cultura nelle cinque principali regioni del Sud. Il Cipe ha approvato il Piano di Azione e Coesione Complementare (Pac) 2014-2020 che costituisce l’ultima tranche del Piano operativo nazionale (Pon) Cultura e sviluppo del Mibact. 
Gli interventi sono tutti di rilievo. Tra gli altri, quelli per il Museo archeologico di Napoli, i parchi archeologici di Cuma, Velia e Paestum, la Reggia di Caserta, la Real Tenuta di Carditello, i musei e i parchi archeologici di Sibari, Locri e Scolacium, Castel del Monte, i Castelli Svevi di Trani e Brindisi, il Castello di Carlo V a Lecce, il parco archeologico di Venosa, il museo archeologico di Metaponto, il parco della Valle dei Templi di Agrigento e il parco archeologico di Gela. Misure che dovrebbero anche essere finalizzate a creare nuova occupazione e a contrastare la fuga di cervelli.
Da segnalare, infine, la rilevanza delle risorse messe a disposizione per il Contratto di programma RFI e le azioni previste per l’ulteriore rafforzamento dell’Accordo di partenariato sia per le aree interne, sia per i programmi complementari in materia di “Ricerca e innovazione” e delle “Città Metropolitane”. 
Come sempre, tuttavia, l’efficacia dell’intero programma si giocherà sull’effettiva disponibilità delle risorse e sull’efficienza dei diversi centri di spesa, questioni sulle quali, anche nel recente passato, la macchina amministrativa, ai diversi livelli istituzionali, non ha di certo brillato.

 

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IL SUD ESPORTA INTELLIGENZE

 

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ESULI NAPOLETANI A TORINO di Francesco Antonio Genovese – Numero 6 – Ottobre 2016

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ESULI NAPOLETANI A TORINO

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1.In tempi di Riforma Costituzionale viene spontaneo richiamare esempi luminosi e lungimiranti di azione politica. Mi riferisco al tempo in cui i costruttori del nuovo Stato (principalmente, Cavour e quel personale politico che, sinteticamente, si sarebbe oggi chiamato il «cerchio sabaudo») cominciarono a comprendere come la scienza giuridica poteva e doveva essere un’alleata, non un’antagonista!

E’ il caso di richiamare la vicenda di tre «fondatori» di quel connubio tra scienza giuridica e politica, tutti napoletani

il Pisanelli, si era stabilito a Napoli nel 1830, dove aveva acquisito una solida cultura giuridica e letteraria, dove si era laureato (nel 1832) in giurisprudenza, a soli venti anni, e dove si era inserito perfettamente nella società civile, frequentando i salotti della capitale borbonica, in particolare quello di Carlo Poerio,

Nonostante la capacità di cimentarsi nella materia civile, sarà un’altra opera di dottrina penalistica a segnalare il suo nome, poiché solo un anno dopo pubblicherà l’opera, adesiva della tesi abolizionista, Sulla pena di morte (Napoli 1848), in seguito più volte ristampata e divenuta un vero e proprio cult ante litteram.

Insomma, Giuseppe Pisanelli era passato, per merito delle sue sole capacità – e quando la scuola era ancora un ascensore sociale -, da piccolo provinciale salentino a fine e brillante giurista, a buon grado un intellettuale europeo, cresciuto culturalmente nella Napoli capitale preunitaria (allora, ancora la più grande città italiana), specie quando, in ragione di alcune note vicende politico-costituzionali di cui si dirà, «passerà il Rubicone» trasferendosi a Torino: la città del grande Cavour.

3. In quella stessa Napoli, con qualche anno di meno, aveva cominciato i suoi studi letterari un giovane irpino, Pasquale Stanislao Mancini, al liceo del Salvatore di Napoli – seguito, però, in tali studi da uno zio materno, l’avvocato Giambattista Riola, un personaggio non trascurabile.

Mancini, che mentre frequentava i corsi di giurisprudenza nell’ateneo napoletano si sbizzarriva anche in esercitazioni letterarie e poetiche, si laureerà in giurisprudenza nel 1835, a soli 18 anni, avviandosi subito alla professione forense e, qualche anno dopo (1840), al pari di Pisanelli, anche all’insegnamento privato del diritto

– oltre che alla cura, fin dal 1838, di un periodico di divulgazione, Le Ore solitarie, che, dal 1842, mutata la testata in Giornale di scienze morali, legislative ed economiche, ospitava prestigiosi interventi di altri intellettuali (in particolare P. Galluppi, A. Scialoja, M. De Augustinis, K. Mittermaier), su temi giuridici e amministrativi, ed informava sulla cultura napoletana, sulla filosofia, ecc. e che, successivamente, si era sviluppata ulteriormente in una Biblioteca di scienze morali, legislative ed economiche, con argomenti concernenti i più vari rami del sapere giuridico, in una prospettiva nazionale.
Mano a mano, Mancini era venuto ad occupare un ruolo di primo piano nel dibattito nazionale nelle scienze giuridiche e morali, come ci si avvide quando, nel 1841 pubblicò la sua corrispondenza con T. Mamiani Della Rovere, in un volume, Intorno alla filosofia del diritto e singolarmente intorno alle origini del diritto di punire: lettere di Terenzio Mamiani e Pasquale Stanislao Mancini (Napoli, 1841), che ebbe una notevole eco.

Di tutto questo, ovviamene, la monarchia borbonica mostrava di non comprendere né la grandezza né il possibile beneficio per se medesima – come ha scritto, di recente, sulle colonne di questa stessa rivista Cesare Imbriani,

a proposito dell’esperienza del 1821 (cfr. C.I., La costituzione mancata a Napoli, in Myrrha, n. 3) -, diversamente da qualcun altro (il Regno del Piemonte), dove per merito di Cavour e dei suoi cooperanti, si stava acquisendo una ben diversa capacità prospettica ed egemonica, capace di saper bene utilizzare quegli ingegni e di coinvolgerli nell’opera riformatrice.

4. Accadde, infatti, che con l’avvio, nel 1847-48, dei moti costituzionali, i nostri tre intellettuali si immersero completamente nella vicenda politica.
Pisanelli, ad esempio, che pure si riconosceva nella costituzione concessa da Ferdinando II il 3 febbraio 1848, eletto nel primo Parlamento napoletano (nel maggio 1848) non vi poté svolgere un ruolo significativo perché lo stesso Parlamento venne sciolto subito, il 15 maggio dello stesso anno. Rieletto in giugno, cercò di dare il suo apporto innovativo con la proposta di legge per l’abolizione della pena di morte, quella per la riforma della legge comunale e provinciale e con il celeberrimo progetto per l’istituzione di un giurì (per i reati di stampa e quelli politici). 
Ma, ancora una volta, Ferdinando II non capì e fu solo svelto a veder corto e sciogliere il Parlamento, nel marzo 1849, sopprimendo le libertà costituzionali.

– nel senso di intellettuali cresciuti e formatisi a Napoli, per quello che allora Napoli rappresentava per l’intero mezzogiorno continentale (Abruzzo incluso): Antonio Scialoja (1817), forse l’unico napoletano vero, essendo il discendente di una famiglia procidana, poi trasferitasi a S. Giovanni a Teduccio – oggi un popoloso quartiere di Napoli, ma allora un comune orientale confinante, da quel lato, con la città, assieme a Barra, Ponticelli ed altri piccoli casali che verranno inglobati definitivamente (e perderanno perciò la loro autonomia) solo con la riforma della città, con la creazione della Grande Napoli da parte del fascismo, nel 1925; Giuseppe Pisanelli (1812), un salentino – essendo nato a Tricase, ora in provincia di Lecce, ma allora nella provincia di Terra d’Otranto – e Pasquale Stanislao Mancini (1817), di origini irpine – essendo nato a Castel Baronia (Avellino) -, ma trasferitosi assai presto a Napoli, per gli studi.
Tutti avevano studiato a Napoli, nella medesima facoltà di giurisprudenza, traendone grande profitto e successo.

 

2. In particolare, il più grande dei tre,

 

esponente del liberalismo costituzionale appena tornato dall’esilio, legandosi in amicizia a molti futuri esuli risorgimentali, tutti ritrovati a Torino, come Giuseppe Massari, Pasquale Stanislao Mancini e Antonio Scialoja.
Pisanelli aveva maturato anche una non comune capacità professionale-forense tanto che, come di solito avveniva, dopo aver coltivato anche interessi letterari e filosofici (che gli saranno non poco utili negli anni a venire), nel 1837 aveva pubblicato numerose arringhe e allegazioni forensi – com’era proprio degli avvocati di una certa capacità ed eleganza – ed una monografia giuridica penalistica – Sul problema della punibilità del mandante nei reati di sangue -, che aveva avuto anche un certo successo. Egli aveva anche cominciato ad esercitare la professione forense, prevalentemente in materia civile e, con discreta fortuna anche l’attività di insegnante privato – che era propriamente quella maggiormente gettonata nella Napoli preunitaria -, al punto che, nel 1839, aveva fondato, insieme a un altro brillante giurista napoletano, Roberto Savarese, una scuola privata di diritto, rimasta attiva fino al 1847, ossia alla vigilia dell’esilio.

Molti parlamentari furono arrestati, ma Pisanelli riuscì fortunosamente a imbarcarsi da Napoli, da dove raggiunse prima Genova e poi Torino – subendo, nel 1853, la condanna in contumacia a venticinque anni di reclusione e alla confisca dei beni.


Qui animò, insieme ad altri fuoriusciti napoletani, alcuni circoli politico-culturali di orientamento liberale e patriottico e da qui, nel giugno 1850, partì per un viaggio a Londra e a Parigi (dove entrò in rapporto con un gruppo di intellettuali: Vincenzo Gioberti, Guglielmo Pepe, Ruggiero Bonghi), per sensibilizzare le opinioni pubbliche degli Stati nazionali più sensibili, quelle inglese e francese, sulla situazione del Regno delle Due Sicilie. Tornato a Torino ritrovò Mancini e Scialoja, che erano già entrati in rapporto con l’entourage cavouriana e gli proposero di collaborare al famoso Commentario al codice di procedura civile per gli Stati sardi, un’opera di ampio respiro – in molti volumi – che non solo avrebbe dovuto sostituire i manuali stranieri in uso nei diversi Stati italiani, ma avrebbe dovuto offrire i materiali per la prossima codificazione, quella che sarebbe stata la base del processo e dell’organizzazione dell’Italia unita, su cui è cresciuta la nostra cultura giuridico-istituzionale, anche contemporanea.
Nel 1857, sempre a Torino, insieme a Massari e Scialoja, pubblicò un giornale legale, L’archivio, un vero e proprio deposito di idee giuridico-istituzionali che ancora attende di essere studiato ed esaminato.

Non c’è allora da meravigliarsi se troviamo Pisanelli attivo collaboratore nel processo di riordinamento delle Università di Modena e Bologna, coordinato, nel 1859-60, da Luigi Carlo Farini, il governatore provvisorio delle province dell’Emilia e, dall’estate 1860, a seguito della spedizione dei Mille e del tracollo della dinastia borbonica, tra quegli esuli napoletani ai quali Cavour si rivolge per contrastare Garibaldi nella transizione verso l’unificazione nazionale.


Eccolo allora ritornare lì da dove era partito esule, ma stavolta come ministro della Giustizia (nel governo provvisorio insediato da Garibaldi all’inizio di settembre 1860), nella ricerca di far estendere al Mezzogiorno lo Statuto albertino e i codici del Regno di Sardegna e per divenire, di lì a poco, professore della prima cattedra di diritto costituzionale istituita all’Università di Napoli (29 ottobre 1860), poi nuovamente Guardasigilli nel governo del luogotenente Luigi Carlo Farini, autore di una interessante legge di ordinamento giudiziario, che non era affatto la replica – pura e semplice – di quello sardo del 1859.

5. A sua volta, Antonio Scialoja, che era stato nominato (già nel 1846) professore di Economia politica all’università di Torino e che nel 1848, quando Ferdinando II aveva concesso lo Statuto, aveva fatto ritorno a Napoli dove era diventato ministro dell’Agricoltura e del commercio, ma poi era stato arrestato, dopo la restaurazione dei Borbone (nel settembre del 1849), e condannato a nove anni di reclusione, commutati nell’esilio perpetuo dal Regno di Napoli – per intercessione di Napoleone III. Cosicché,

tornato a Torino, l’economista napoletano era stato subito officiato di diversi incarichi e – avendolo Cavour in grande stima – perciò impiegato nell’opera di rinnovamento del Piemonte e che aiutò non poco gli altri esuli nella considerazione del grande statista Piemontese.



Sicché, tornato anch’egli a Napoli durante la «dittatura» di Garibaldi, aveva ricoperto la carica di ministro delle Finanze, da dove aveva cominciato una rilevante carriera ministeriale – come segretario generale del ministero dell’Agricoltura, industria e commercio (1861), segretario generale del ministero delle Finanze (1861- 1862), ministro delle Finanze (1865-1866 e 1866-1867), ministro della Pubblica istruzione (1872- 1874).

6. Anche per Mancini, l’esilio torinese (dopo aver difeso alcuni colleghi deputati colpiti da varie accuse per i fatti del 15 maggio) si rese necessario per il suo coinvolgimento personale nel processo e poi la condanna a 25 anni di carcere in contumacia. E anche lui era fuggito (1849), con la nave francese “Ariel”, con l’intenzione di espatriare in Francia, lasciando a Napoli la moglie e cinque figli. Ma una volta a Genova decise di rimanere nel Regno di Sardegna e, soprattutto lo Sclopis (un importante giurista ed intellettuale torinese), lo aveva convinto a stabilirsi a Torino, dove gli giungerà la notizia della privazione della cattedra di diritto naturale – alla quale l’ateneo napoletano lo aveva chiamato due anni prima.

A Torino, dove trovò un gruppo di altri esuli (R. Conforti, G. Pisanelli, V. Lanza, tra gli altri), si rivelò provvidenziale la rete di conoscenze che aveva coltivato negli anni precedenti che gli resero più facile l’inserimento nell’ambiente subalpino (C. Balbo, M. d’Azeglio, ecc.) dove venne presto chiamato ad importanti incarichi

– ad es., dalla presidenza del Consiglio, per un Progetto per la creazione di una scuola diplomatica che si proponeva di fornire alla carriera degli Esteri una nuova classe dirigente, che non fosse solo di provenienza aristocratica. 
Mancini, infatti, era convinto che i Piemontesi avevano “una grande missione e una grande responsabilità insieme” e che da loro dipendeva il futuro dell’Italia e il mondo cavouriano gli riconobbe, dopo un lungo dibattito in entrambi i rami del Parlamento, con un regio decreto (14 nov. 1850), una cattedra di diritto pubblico esterno e internazionale nell’Università di Torino, dove cominciò le sue lezioni con una prolusione dal titolo Della nazionalità come fondamento del diritto delle genti (Torino 1851), che ebbe un grande successo.

Ma, accanto all’insegnamento ed al lavoro intellettuale, Mancini portava avanti anche l’attività professionale, sia quella forense sia quella di studio:

era divenuto un avvocato di fama (un decreto del 2 giugno 1851, concedendogli la cittadinanza sarda, gli aveva fornito il prerequisito per esercitare la professione legale sia in tribunale sia in Cassazione ma era servito a integrarlo anche psicologicamente nel sistema piemontese).
Inoltre, gli arrivavano incarichi ufficiali: nel 1850, il suo inserimento in una commissione creata per rivedere le leggi civili e criminali (su impulso del guardasigilli G. Siccardi); e, poco dopo, l’elezione a membro della Commissione per la statistica giudiziaria. Senza dire della collaborazione con U. Rattazzi nella preparazione della legge sulla soppressione delle corporazioni ecclesiastiche, promulgata nel 1855 nel Regno sardo.
Si è poi già detto dell’incarico particolare di studio della legislazione ordinamentale e processuale, in collaborazione con G. Pisanelli e con A. Scialoja, e con l’ausilio di alcuni giuristi piemontesi: il Commentario del Codice di procedura civile per gli Stati sardi, con la comparazione degli altri codici italiani e delle principali legislazioni straniere, I-VIII, Torino 1855-57.
Anch’egli – considerato a Torino il giurista più esperto nelle questioni dell’organizzazione statale e nei problemi di diritto internazionale -, fu perciò inviato da Cavour a Bologna e a Firenze per studiare i problemi legislativi, esperienza culminata con quattro relazioni: la base della decisione del governo di estendere la legislazione sarda all’Emilia e alle Marche e di lasciare in vigore in Toscana i codici preesistenti in attesa di una nuova codificazione che armonizzasse le condizioni legislative di tutto il Regno.

7. L’apporto dei giuristi – ed economisti, come lo Scialoja – napoletani, esuli a Torino, costituisce ancora una pagina non completamente esplorata della storia nazionale, ma rappresenta – per quello che è stato accertato – sicuramente un momento alto della cultura istituzionale ed innovativa del Mezzogiorno (con tutti i suoi uomini del foro, dell’Università e dell’insegnamento privato, dei circoli e dei salotti) nella preparazione e nella edificazione del nuovo Stato unitario.

La vita dei suoi protagonisti proseguirà ancora per qualche tempo, ma è in quello snodo di un ventennio circa (dal 1847 al 1865) che i Nostri diedero un contributo rilevantissimo alla nuova codificazione ed alla predisposizione dei fermenti di un’Italia fattasi finalmente Nazione, una realtà istituzionale, culturale e spirituale non chiusa, bensì – anche per il loro grande merito – aperta al dibattito europeo, ossia ad un tema che è ancora decisivo anche per il nostro tempo storico.

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IL PROCLAMA DI TRANI di Umberto De Augustinis – Numero 6 – Ottobre 2016

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IL PROCLAMA DI TRANI

 

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 Le vicende storiche della città di Trani in relazione alle sue istituzioni ed iniziative giuridico-giudiziarie sono di tutto rispetto e di eccezionale rilevanza anche per lo spirito di innovazione e progresso che le caratterizza.

 Gli “Ordinamenta et Consuetudo maris edita per consules civitatis Trani” (ovvero gli “Statuti marittimi”) sono il codice della navigazione nel Mediterraneo, risalgono al 1063 ed all’iniziativa del conte normanno Pietro di Trani. Ma Trani vanta anche l’esistenza di un polo giudiziario (avvocati, magistrati e professori di diritto) che ha costituito per molti secoli un vero motore di impulso, di rinnovamento, di proposta, di novità, con caratteristiche assolutamente peculiari d’avanguardia.

Già tra la fine del XV e i primi del XVI secolo, a Trani operava nientemeno che la prima donna al mondo ammessa ad esercitare la professione di avvocato: di Giustina Rocca è lecito pensare che si parlasse in tutta Europa, tanto che William Shakespeare ne riproduce il ruolo nella Porzia del “Mercante di Venezia”,

dimostrandosi ben consapevole della rivoluzionarietà di una scelta del genere (denunciata, nel caso, dai paludamenti maschili indossati da Porzia nell’esercizio delle sue funzioni). 
La tradizione successiva si rafforzò con la sede della “Regia Udienza” della Provincia, dovuta alla fama di città “innovatrice” goduta da Trani, e con la conferma costante sia del presidio giudiziario di primo grado che della Corte criminale. Nel 1899, la Corte di Trani aveva quattro Sezioni penali ed era considerata la terza corte dell’Italia meridionale dopo quelle di Napoli e Palermo. Era, dunque, un polo giudiziario di rispetto e rilevanza. 
In questo contesto decisamente effervescente e stimolante, nel mese di aprile del 1904, mentre a Roma si svolgeva uno sciopero generale in favore dei tipografi per una maggiore libertà di stampa (che sarà seguito da molti scioperi in vari settori nello stesso anno),

116 magistrati del distretto della Corte di appello di Trani, prevalentemente “pretori”, cioè magistrati di rango “basso”, decisero di predisporre ed inviare al Capo del Governo, Giovanni Giolitti, ed al Ministro di grazia e giustizia, Scipione Ronchetti, un documento con il quale, con toni abbastanza rispettosi, ma molto fermi, si chiedeva una sollecita riforma dell’ordinamento giudiziario,

partendo dalla considerazione dei cosiddetti magistrati in sottordine (i pretori), ai quali si chiedeva di attribuire competenze maggiori nella decisione del contenzioso civile e penale. In quel momento i pretori costituivano una sorta di riserva di base della magistratura, per progredire nella quale era previsto un concorso molto serio. Le osservazioni contenute nel “proclama” erano, tuttavia, certamente condivise anche da buona parte dei magistrati di rango superiore, che intravedevano in esse la possibilità di limitare le ingerenze dall’esterno con incremento del loro potere (ai capi degli uffici era attribuito il potere di redigere “rapporti segreti” sui “magistrati sottoposti” nei quali si parlava anche dei loro orientamenti politici, con influenza sulla carriera).

Il documento tranese, quindi, centrava le sue principali valutazioni sulla necessità di tutelare e garantire l’indipendenza della magistratura con particolare riferimento all’esterno.

A tal fine, memori delle tre ondate di epurazione seguite all’unificazione italiana con pensionamenti e rimozioni variamente giustificati, si esprimevano critiche alla possibilità per il Ministro di trasferire i magistrati con atti, tutto sommato, di motivazione solo apparente, stabilita fin dal 1859 dal Ministro Rattazzi per il Piemonte (r.d. 13 novembre 1859, n. 3781) e poi estesa al Regno d’Italia con il r.d. 6 dicembre 1865, n. 2626. All’epoca, la motivazione del trasferimento era «l’utilità del servizio»; il consenso dell’interessato non era necessario e spesso il trasferimento era solo una punizione, debitamente annotata nel curriculum personale. Il Ministro Ronchetti, che pure era di idee aperte – è sua l’introduzione in Italia dell’istituto della sospensione condizionale della pena – non gradì affatto le espressioni del “proclama”, usando “bastone e carota” e, cioè, promuovendo, da un lato, un centinaio di procedimenti disciplinari, ma, anche, curando, come risposta di “buona volontà”, l’accelerazione dell’approvazione della legge n. 372/1904, che stabiliva ruoli e stipendi degli impiegati pubblici, e riconosceva piccoli miglioramenti economici ai magistrati. Il significato politico della vicenda non passò, quindi, inosservato ed ebbe contraccolpi. All’esterno, solo 5 anni dopo, anche a seguito della pubblicazione sul “Corriere giuridico” del proclama, a Milano, veniva fondata l’Associazione Generale fra i Magistrati d’Italia (AGMI);

il documento, noto come “Proclama di Trani”, si consacrò, così, come l’espressione della prima protesta in forma collettiva della Magistratura (e, certamente, la più forte dal punto di vista dei pubblici funzionari) e, soprattutto, la premessa dell’associazionismo giudiziario.

La effettiva rivoluzionarietà degli eventi innescati a Trani nel mondo giudiziario, a riprova del fermento colto dai magistrati tranesi nel “proclama”, si coglie molto distintamente nelle successive valutazioni di Vittorio Emanuele Orlando, Ministro di grazia e giustizia nel 1909, il quale ebbe a manifestare “dubbi gravissimi sulla possibilità che l’iniziativa produca frutti utili e degni”, perché “la magistratura italiana ha una costituzione rigorosamente gerarchica” e “la gerarchia ne costituisce l’essenza”. Le iniziative caldeggiate nel proclama e sostenute dall’associazionismo giudiziario avrebbero danneggiato “la dignità e l’autorità” dei magistrati di maggior rango, perché anche le associazioni apparentemente apolitiche, “poi nella loro effettiva attività difficilmente vi si mantengono fedeli”.

Orlando coglieva, dunque, il significato politico del processo riformatore avviatosi a Trani, al quale aveva dato risposta con importantissime leggi

(note come leggi Orlando n. 511 del 1907 e n. 438 del 1908, quest’ultima istitutiva di un Consiglio superiore della magistratura). Nelle sue parole si coglie la scelta di assicurare la funzionalità del sistema giudiziario all’azione di Governo attraverso la garanzia derivata dal rispetto della gerarchia giudiziaria (conformemente alle vedute dei gradi più alti della stessa magistratura dell’epoca). Si deve riconoscere, comunque, che, per le sue considerazioni ultime sopra riportate, alla fine, Vittorio Emanuele Orlando è stato, forse, il primo importante uomo politico ad avere intuito lucidamente la possibilità di un ruolo specifico ma anche il pericolo di una possibile degenerazione politica dell’associazionismo, oggetto tuttora di discussioni fin troppo a tutti note.

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