PROCIDA. LA SPIAGGIA DI TROISI E PABLO NERUDA di Aurora Adorno numero 29 agosto 2023 editore maurizio conte

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PROCIDA. 

la SPIAGGIA DI TROISI 

E pABLO NERUDA

 

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a Pollara nella borgata marinara dell’isola di Salina a Malfa è possibile ammirare le Eolie e trascorrere qualche giorno di vacanza; bagnata dal cielo e circondata dal verde in quella che oggi viene chiamata “la locanda del Postino” vennero girate nei primi anni’ 90, tra genio e malinconia, le scene dell’omonimo film.

La pellicola, diretta dal regista Michael Radford e interpretata da Massimo Troisi, racconta dell’amicizia tra un postino di nome Mario Ruoppolo e il poeta Pablo Neruda; il viso dell’attore napoletano, malinconico giullare, è scavato dalla malattia, e gli occhi scuri resi ancora più espressivi dalla consapevolezza di una vita che sfugge tra le mani, proprio come la sabbia che il vento spazza via dalle spiagge di Salina. È il mare a fare da sfondo con le sue sfumature, tacito testimone della transitorietà della vita umana.

La semplice bellezza dei paesaggi marinari del Sud incornicia la storia 

del poeta Cileno che nell’isola venne esiliato nel 1948


con la consorte Matilde, e che per caso iniziò un postino, quasi analfabeta, alla bellezza della poesia e della lettura. «Mi sono innamorato di Beatrice» confessa Troisi al poeta che risponde a suon di Dante: «Le beatrici suscitano amori sconfinati, Mario. Che farai adesso?» chiede all’uomo intento a scarabocchiare qualcosa su un foglio; quando Neruda si rende conto che Mario non è capace di scrivere il nome dell’Alighieri lo aiuta. «Sono proprio innamorato» rincara il postino. 

«Ed io cosa ci posso fare» il poeta lo scruta perplesso.

«Se mi potete aiutare. La guardavo e non mi usciva neanche una parola. La guardavo e mi innamoravo.» Continua il dialogo tra i due amici, poi Mario prende coraggio: «Don Pablo, me la potete scrivere una poesia per Beatrice?»

Il film scorre tra le battute e gli scambi di vita, tra amore e amicizia, tra vita quotidiana e politica, fin quando Mario sempre più innamorato rincara la dose:

 

«Caro poeta e compagno lei mi ha messo in questo guaio e lei mi deve aiutare, perché mi ha regalato i libri, insegnato a usare la lingua non soltanto per mettere i francobolli. È colpa sua se mi sono innamorato.» 

«Ti ho regalato i miei libri, sì. Ma non ti ho autorizzato a usarli per il plagio. Se penso che hai regalato a Beatrice la poesia che avevo scritto per Matilde…» 

ribatte Neruda.

«La poesia non è di chi la scrive è di chi gli serve» si difende Mario, 

facendo intenerire il poeta.

E ancora oggi, rimanendo in silenzio, con i piedi ricoperti dai sassolini della spiaggia di Procida e l’orecchio teso tra il mare e i ricordi, è possibile udire la voce sommessa di Troisi che recita:   

 

Nuda sei semplice come una delle tue mani, 

liscia, terrestre, minima, rotonda, trasparente, 

hai linee di luna, strade di mela, 

nuda sei sottile come il grano nudo. 

Nuda sei azzurra come la notte a Cuba, 

hai rampicanti e stelle nei tuoi capelli, 

nuda sei enorme e gialla 

come l’estate in una chiesa d’oro.   

 

Nuda sei piccola come una delle tue unghie, 

curva, sottile, rosea finché nasce il giorno 

e t’addentri nel sotterraneo del mondo. 

come in una lunga galleria di vestiti e di lavori: 

la tua chiarezza si spegne, si veste, si sfoglia 

e di nuovo torna a essere una mano nuda.

 

Poesia nella poesia, le scene si intrecciano con la location del villaggio dei pescatori 

a Marina di Corricella il borgo caratteristico dall’architettura seicentesca 

dove le mura colorate sono sovrastate da archi,

 

e con la spiaggia di Pozzo Vecchio ribattezzata “la spiaggia del postino” in cui Mario incontra Beatrice per la prima volta; l’ufficio postale e la chiesa della Madonna delle Grazie finiscono per incorniciare l’intensità espressiva dei dialoghi e delle scene. Famose quelle in cui Mario pedala tra i monti costeggiando il golfo di Napoli; una delle banchine è stata appunto ribattezzata “Passeggiata Massimo Troisi” e vicino è conservata la bicicletta usata dall’attore durante le riprese del film.   

 

Sono tanti i lungometraggi girati sulle spiagge di Procida, set di “Il talento di Mr Ripley” interpretato da Matt Damon, e di “Francesco e Nunziata” con Sophia Loren e Giancarlo Giannini.

Nella parte più alta dell’isola si trova la Terra Murata, piccolo borgo sorto in posizione difensiva, mentre in quella più antica edifici storici e religiosi si affacciano sul mare:

 

ail Convento di Santa Margherita Nuova, l’Abbazia di San Michele Arcangelo patrono dell’isola  e  il Castello d’Avalos in cui è stato girato “il Detenuto” con Alberto Sordi. Tra Punta Serra e Punta del Cottimo la spiaggia di Pozzo Vecchio è ora nota come la “Spiaggia del Postino” in omaggio al testamento artistico di un attore che ha saputo mettere in risalto gli aspetti poetici e belli del Sud, e che tra quelle spiagge e le nostre memorie rimarrà impresso per sempre, come il vento che tocca le Eolie e incide le rocce.

 

 

Procida – Spiaggia del Postino a Cala del Pozzo Vecchio
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 Foto da DEPOSITPHOTOS

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GLI ABITI DEGLI ARAGONESI AL DOMA DI NAPOLI Gemme del Sud numero 28 maggio giugno 2023 Editore Maurizio Conte

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GLI ABITI DEGLI ARAGONESI AL DOMA….     DI NAPOLI

 

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                          Napoli

 

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Il Museo della basilica di San Domenico Maggiore, 

nell’antico centro storico di Napoli, conserva un tesoro unico e raro:


abiti damascati, sottovesti, cappelli, scarpe, veli, cuscini di seta ed oggetti personali originari del XVI secolo appartenuti ad esponenti della casata aragonese e nobili loro contemporanei. 

 

Questi materiali sono stati rinvenuti all’interno di arche sepolcrali, bauli in legno che contenevano le spoglie mummificate dei defunti e i loro corredi. Originariamente posti nel coro della basilica, questi feretri oggi sono custoditi nella Sagrestia della chiesa sopra un ballatoio conosciuto come il passetto dei morti. 

 

In occasione di uno studio delle salme condotto negli anni Ottanta dalla Divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa, tutti i reperti, tra cui il vestiario, sono stati rimossi dalle tombe e sottoposti ad un accurato restauro per poi essere esposti permanentemente al pubblico nella Sala degli Arredi Sacri del museo.

 

In questa collezione di alto valore storico spiccano l’abito in taffetà e gros 

di Maria d’Aragona, l’abito di raso ed il cappello in velluto di Pietro d’Aragona, 

il cuscino funebre in seta di Ferdinando I detto Ferrante 

e l’abito damascato con nastri di seta 

di Isabella Sforza d’Aragona.

 

Quest’ultimo è stato oggetto di studio e riprodotto fedelmente dalla bottega sartoriale di Manifatture Digitali Cinema Prato all’interno di un loro master del 2020. 

 

I pregiati vestiari sono testimoni della moda in voga presso la corte aragonese e della qualità raggiunta dalla produzione tessile di allora, la cui raffinatezza e preziosità è possibile intuire nella varia ritrattistica dell’epoca.

 

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 Abito originario di Isabella d’Aragona e  riproduzione dell’abito di Isabella d’Aragona, MDC di Prato

SAN GIOVANNI BATTISTA AL ROSARIO E IL BAROCCO LECCESE Gemme del Sud numero 28 maggio giugno 2023 Ed. Maurizio Conte

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SAN GIOVANNI BATTISTA AL ROSARIO e il BAROCCO LECCESE

 

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                         Lecce

 

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Lo spirito del XVI secolo si manifesta in una delle sue interpretazioni più suggestive nel Salento e soprattutto a Lecce che, durante la metà di tale secolo, si trasforma da severa città fortificata a splendente esempio di città d’arte.

 

Fiorisce il barocco, facilmente riconoscibile per le sue forme straordinarie ed appariscenti, sorprendenti composizioni di decorazioni floreali, animali grotteschi, figure fantastiche ed allegoriche che si mescolano tra loro e fregiano le facciate degli edifici civili e di culto, dalla particolarissima chiesa di Santa Croce, fino agli esempi più tradizionali, come la chiesa di San Giovanni Battista al Rosario, che si lasciano ammirare per le loro facciate in pietra leccese

 

Qui la luce gioca un ruolo fondamentale, illuminando i dettagli e rivelando alla vista delicate composizioni che appaiono come tenui merletti.

 

La chiesa di San Giovanni Battista al Rosario si trova nel centro storico della città e fu ricostruita a fine Seicento su una preesistente struttura medievale per volere dei domenicani. La facciata, pur nella sua magnificenza barocca, non dimentica un impianto classico ed è divisa in due ordini architettonici separati da una balaustra. Il frontespizio è un tripudio di uccelli, fiori e putti, ma non mancano le figure care ai domenicani: il portale d’ingresso, incorniciato da due giganti colonne, è sormontato dalla raffigurazione di San Domenico di Guzman, ai suoi lati San Giovanni Battista e San Francesco ed in cima alla facciata la statua di San Tommaso d’Aquino, andata per metà perduta. 

 

La pianta a croce greca soffre della mancanza della cupola progettata e mai costruita e la copertura è realizzata con un tetto ligneo. Una particolarità della chiesa è il pulpito, unico a Lecce eretto in pietra leccese (gli altri sono lignei), che raffigura l’Apocalisse di San Giovanni di Patmos, tema sicuramente adatto all’ordine dei predicatori domenicani.

 

 

 

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IL FESTIVAL DELLA ZAMPOGNA Gemme del Sud numero 28 maggio giugno 2023 Editore Maurizio Conte

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IL FESTIVAL DELLA ZAMPOGNA

 

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                     Scapoli (IS)

 

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Scapoli è un delizioso centro abitato circondato dalle meraviglie del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. Si è sviluppato intorno ad una fortezza appartenente all’antica abbazia di Castel Volturno, fondata nell’VIII secolo d.C., oggi chiamata Palazzo Marchesale dei Battiloro. Le sue mura a strapiombo sulla roccia servivano a difesa dell’edificio e della sua popolazione da eventuali invasori.

 

Partendo dall’incantevole androne del palazzo denominato Sporto, attraverso le aperture del cammino detto “Scarupato”, si possono ammirare le cime di Monte Marrone e Monte Mare delle Mainarde.

 

Ma la particolarità di Scapoli sta in un’antica tradizione: la fabbricazione 

della zampogna, che qui si tramanda da secoli.

 

La zampogna di Scapoli è celebre ovunque ed ancora oggi: passeggiando per il borgo, si possono osservare gli artigiani al lavoro mentre ne creano nuovi esemplari. 

 

Quella di Scapoli è una vera e propria devozione. 

 

Per connettere il passato al futuro di questo prodigioso strumento è stato innanzitutto allestito il Museo Internazionale della Zampogna.

 

Ogni anno a luglio, poi, va in scena un festival che richiama gli appassionati 

di mezzo mondo, attratti dal folklore e dalla tradizione di questi suoni antichi, 

tanto da trasformare, in questo periodo, il piccolo borgo in un luogo magico, 

 

Se non vi trovaste a Scapoli in quei giorni, non vi rattristate: il Circolo della Zampogna cura una mostra permanente che raccoglie antiche cornamuse e zampogne e chissà…potreste ascoltare il suo suono passeggiando tra un vicolo e l’altro. 

 

 

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LA SARDEGNA DEI MISTERI di Gloria Salazar numero 28 maggio-giugno 2023 editore Maurizio Conte

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LA SARDEGNA DEI MISTERI

 

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La Sardegna ha conservato più di ogni altra regione italiana una cultura antica 

e misteriosa e costumi tipici particolari;

 

a partire dagli innumerevoli abiti tradizionali (ogni centro abitato ha il suo), che il primo maggio di ogni anno sfilano contemporaneamente a Cagliari per la sagra di Sant’Efisio in una delle processioni religiose più antiche (risale al 1656) e lunghe (65 km) del mondo. Non sono da meno le maschere del carnevale sardo – ad esempio gli impressionanti Mamuthones di Mamoiada – e le giostre spericolate e spettacolari, e tra queste S’Ardia di Sedilo – un palio di Siena più sfrenato – o la Sartiglia, che si tiene ad Oristano ininterrottamente almeno dal 1546.

In Sardegna non mancano neppure retaggi di epoche arcaiche:


i “fassoni” del golfo di Cabras, imbarcazioni simili a quelle degli antichi egizi; o le launeddas, strumenti musicali a fiato identici al flauto di Pan; e le “pinnette” i rifugi dei pastori costruiti come le capanne dell’età della pietra. Tra queste peculiarità ataviche c’è anche il “Canto a tenore”, riconosciuto dall’UNESCO come patrimonio culturale immateriale.

La cultura sarda è fatta inoltre di eccellenze artigianali tramandate da tempi immemorabili, in particolare “un’arte” che ha qualcosa di magico:

la filatura del bisso – anche detto “seta marina” 


– a Sant’Antioco; un materiale prodotto dalle conchiglie, che una volta tessuto risplende (quasi) come l’oro. Così come avvolte da un’aura di magia e mistero – al di là dei celeberrimi nuraghe – sono le numerosissime “domus de janas” (le “case delle fate”), tombe preistoriche scavate nella roccia, e tra queste l’imponente Sa Rocca a Sedini, che come i Sassi di Matera è stata trasformata in abitazione. Oppure le tombe a capanna, simili a quelle etrusche, ma di qualche migliaio di anni più antiche; ad esempio: Montessu a Villaperuccio, S’Incantu a Monte Siseri e S’Anghelu Ruju (L’Angelo rosso) ad Alghero. Luoghi suggestivi già a partire dai loro nomi, come lo sono le “tombe dei giganti” – tra le quali quella di S’Ena e Thomes a Dorgali – ed i “pozzi sacri”; in particolare quello di Santa Cristina a Paulilatino, costruito con precisione da “cantiere industriale” undici secoli avanti Cristo, ed in cui il sole entra solo agli equinozi (evidenziando le conoscenze astronomiche dei protosardi).  

Misteriosi e suggestivi sono anche i tanti edifici abbandonati 

ed i villaggi fantasma della regione,

ad esempio: Gairo vecchio; il Villaggio Asproni; il villaggio di Monte Narba; Grugua con la villa Modigliani (che appartenne alla famiglia del celebre Amedeo); il borgo di Sant’Angelo a Fluminimaggiore; Tratalias vecchia; le rovine minerarie di Ingurtosu, e la chiesa di San Pantaleo a Martis. Località così numerose che è stato creato un apposito sito internet, dall’evocativo nome di “Sardegna Abbandonata”, per censirle tutte; lo stesso obiettivo che si prefigge il sito “Nurnet” per quelle nuragiche. In Sardegna ci sono anche delle specificità zoologiche: non esistono le vipere, ma in compenso vi dimorano il ragno violino, l’unico velenoso italiano, e cavallini bradi (della Giara) piccoli come pony; così come più piccole sono anche altre specie indigene, ad esempio i cinghiali.

Sotto il profilo naturalistico l’isola conta due parchi nazionali e numerose altre riserve naturali marine e terrestri di inviolata bellezza; tra queste la biosfera di Tepilora, tutelata anch’essa dall’agenzia dell’ONU.


La natura ha creato in Sardegna monumenti di notevole impatto: l’Orso di Palau, scolpito nel granito dall’azione del vento e del mare; S’Archittu nel comune di Cuglieri, un grande arco di pietra (“lunare”) bianca sul mare; Sa Preta Istampata a Galtellí, un’alta parete rocciosa forata nel mezzo; o la piscina naturale di Cane Malu a Bosa. Ed ancora: la grotta di Su Mannau a Fluminimaggiore, tra le 10 più belle d’Italia secondo il TCI; la grotta marina “Sardegna” a Masua (così detta per la sagoma della sua imboccatura che ricorda i contorni dell’isola), con un colore dell’acqua che nulla ha da invidiare a quello delle più famose della nostra penisola; e soprattutto la grotta subacquea di Nereo a Capo Caccia, con i suoi 500 metri complessivi la più grande d’Europa e del Mediterraneo. Uno dei record dell’isola, che tra l’altro è anche la regione meno sismica d’Italia.

Ma le suggestioni non finiscono qui, perché in Sardegna ci sono anche delle foreste pietrificate; scenari incantati che custodiscono tipologie differenti di alberi fossili; 

tra le più notevoli quella di Martis.


Infine l’ipotesi avanzata – non senza ragione – qualche tempo fa, interrogandosi sul motivo per il quale è scomparsa la sua più antica – ed autoctona – civiltà, quella nuragica (una civiltà straordinariamente all’avanguardia per la sua epoca): la Sardegna era forse Atlantide?

 

 

 

 

 

 

 

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UN’ALTRA SARDEGNA di Gloria Salazar numero 27 gennaio febbraio 2023 Ed. Maurizio Conte

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UN’ALTRA SARDEGNA

 

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Un’isola dalle interminabili distese incontaminate e disabitate, dagli scenari sempre diversi (gli altipiani delle Giare, le montagne del Gennargentu, i tacchi dell’Ogliastra, gli stagni costieri, dove nidificano i fenicotteri rosa); punteggiati in cima alle falesie da cinquecentesche torri difensive, testimonianza del periodo di dominazione spagnolo.

 

Per secoli, infatti, l’isola è stata un crocevia nel Mediterraneo

 

ed una terra di conquista di cui porta ancora le tracce nella lingua, nella gastronomia e nelle architetture. Vestigia delle dominazioni straniere si ritrovano nei borghi, alcuni annoverati tra i più belli d’Italia. Ad esempio ad Alghero, “la piccola Barcellona”, (dove si parla il catalano), con le sue splendide fortificazioni; a Carloforte, nell’isola di San Pietro – una delle isole nell’isola – (dove si parla il genovese), che sembra un angolo di riviera ligure; a Bosa, con le case dalle facciate multicolori, dominata dal castello toscano dei Malaspina, e a Castelsardo (un tempo chiamato Castelgenovese e poi Castellaragonese) dominato da quello genovese dei Doria; ad Iglesias con la cinta muraria pisana ed i balconi “sivigliani”; ed a Buggerru, fondata da imprenditori francesi ed un tempo detta “la piccola Parigi”.   

 

Una regione italiana giustamente famosa per il suo mare cristallino e le sue spiagge caraibiche che spesso sono state utilizzate, al posto di quelle, per la pubblicità.

 

Ma anche una regione, al di la delle coste, ingiustamente sconosciuta.

 

Probabilmente perché mal collegata (con l’esterno ed all’interno), lontana da tutto e spesso dimenticata da tutti (perfino – e per fortuna- anche dall’Isis, che inizialmente non l’aveva inserita nelle mappe della “riconquista”), non ha beneficiato dell’arrivo di un turismo colto, come è successo invece in altre regioni d’Italia con gli inglesi, che hanno fatto la fortuna, ad esempio, della Toscana. Eppure questo isolamento ha consentito di preservarne la natura e mantenerne inalterate molte caratteristiche ancestrali che altrove si sono perse.   

 

La Sardegna perciò è molto più che un mare “da cartolina”, ha molto altro da offrire.  In primis la qualità della vita, che garantisce, insieme alla genetica, un primato di longevità ai suoi abitanti, studiato persino dai giapponesi, gli altri ultracentenari del pianeta.

 

Ma la Sardegna – la terra emersa più antica d’Italia 

– è un’isola di altri (sconosciuti) primati:


come l’olivo di Luras che di anni ne ha più di 4mila; il Pan di zucchero, il faraglione più alto del Mediterraneo; Piscinas, un deserto in miniatura, con dune costiere tra le più alte d’Europa ed una delle più belle spiagge del mondo secondo il National Geographic; Porto Pino con le dune bianchissime; la Grotta subacquea del Bue Marino, la più lunga d’Italia (70 km.); anche un canyon, Su Gorropu, “il più spettacolare del continente”.   

 

Nell’isola ci sono architetture megalitiche che possono rivaleggiare con quelle del nord Europa: i molti dolmen (come quello di Sa Covecadda a Mores), ed i circa mille menhir sparsi nel territorio, tra i quali il più alto d’Italia (quasi 6 metri) a Villa Sant’Antonio; anche noi abbiamo le nostre – piccole – Stonehenge, ma pochi le conoscono.

 

In Sardegna c’è un esercito di pietra che risale a più di otto secoli prima 

dell’esercito di terracotta cinese: i Giganti di Monte Prama,

 

tra le più antiche sculture a tutto tondo del Mediterraneo, alte quanto alcune di quelle dell’isola di Pasqua; c’è una necropoli preistorica, a Sant’Andrea Priu, con sepolture tra le più vaste del Mediterraneo; c’è persino una ziqqurat, simile a quelle della Mesopotamia, a Monte d’Accoddi, ma pochi lo sanno. Come pochi conoscono le terme romane di Fordongianus (antica Forum Traiani); le città romane di Nora e Tharros, in riva al mare; l’abazia romanica di Saccargia, la più maestosa delle tante chiese medievali isolate nella campagna; il tempio di Antas, al centro di una foresta; o il villaggio preistorico di Tiscali (che ha dato il nome alla società di comunicazioni), in una dolina. C’è anche un sito dichiarato dall’UNESCO patrimonio dell’umanità: la reggia nuragica di Su Nuraxi a Barumini; uno dei moltissimi ed imponenti nuraghe che torreggiano nell’isola.

 

Tutti monumenti immersi in un paesaggio intatto, sovrastato da una volta stellata 

che nei cieli della Penisola non riusciamo più a vedere.

 

 

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IL SALOTTINO DI PORCELLANA A CAPODIMONTE Gemme del Sud numero 27 gennaio febbraio 2023 ed. maurizio conte

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IL SALOTTINO DI PORCELLANA  A CAPODIMONTE

 

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                         Napoli

 

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Originariamente creato per gli appartamenti privati della regina di Napoli Maria Amalia di Sassonia nella Reggia di Portici, questo capolavoro della Real Fabbrica di Porcellana di Capodimonte fu realizzato tra il 1757 e il 1759. Nel 1866, quando il Palazzo Reale di Portici divenne proprietà demaniale, fu smontato e riposizionato in una sala della Reggia di Capodimonte, dove si trova tuttora.

 

Il salottino, progettato da Giovan Battista Natali, è in stile rococò ed è composto 

da pannelli in porcellana a sfondo bianco decorati ad altorilievo, posizionati 

alle pareti ed alternati a sei ampi specchi racchiusi da cornici 

di festoni floreali e candelieri a tre bracci 

sempre in porcellana.

 

Nella colorata decorazione compaiono frutti, animali, scene di genere con uomini e donne nei caratteristici abiti tradizionali cinesi e cartigli scritti in mandarino, temi che si rifanno alla moda cinese e alle cineserie in gran voga nell’Europa del XVIII secolo. 

 

Anche il soffitto richiama la stessa tipologia decorativa delle pareti, ma è in stucco con decorazione a rocailles, mentre è in porcellana il mirabile lampadario che pende al centro della sala nel quale, tra i dodici bracci avvolti da tralci di fiori, il fusto raffigura una palma, una scimmia e un cinese con ventaglio. 

 

Fantasie e suggestioni dell’Estremo Oriente andarono ad alimentare un gusto per paesi lontani creando un misto di stili in cui accanto ad elementi esotici tradizionali si aggiunsero capricci ed invenzioni che diedero origine ad un linguaggio tipicamente europeo espresso in una porcellana di qualità e di una raffinatezza unica.

 

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“SA ROCCA” DI SEDINI LA CATTEDRALE DELLE “DOMUS DE JANAS” Gemme del Sud numero 27 gennaio febbraio 2023 Ed. Maurizio Conte

“SA ROCCA” DI SEDINI LA CATTEDRALE DELLE “DOMUS DE JANAS”

 

 Gemme del Sud
                     Sedini (SS)

 

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In Sardegna l’uso di scavare tombe nelle roccia ha avuto larga diffusione: sono più di duemila le sepolture rinvenute in tutta l’isola, risalenti al Neolitico, testimonianza della grande abilità degli uomini di lavorare la viva roccia con pochi strumenti rudimentali. Spesso venivano ricavate una accanto all’altra, dando vita così a vere e proprie necropoli.

 

Secondo la tradizione popolare, queste strutture erano abitate da piccole creature leggendarie, un po’ fate ed un po’ streghe, che instancabili tessevano splendide stoffe sui loro preziosi telai d’oro e per questo sono conosciute come 

“domus de janas” (letteralmente “case delle fate”). 

 

Unica nel suo genere è quella di Sedini, paesino della valle dell’Anglona, in provincia di Sassari, al punto da essere definita “la cattedrale delle domus de Janas”. “Sa Rocca”, come la chiamano gli abitanti del luogo, è realizzata in un enorme masso alto 12 metri che si trova completamente in superficie, con la punta della roccia che si staglia verso il cielo. Ha la peculiarità di trovarsi nel cuore del paese e non, come la maggior parte delle domus de janas, in luoghi isolati e difficilmente raggiungibili. 

 

Proprio questa insolita posizione – una “casa delle fate” incastonata tra le strutture 

del paese – le conferisce un fascino particolare e regala al visitatore 

un colpo d’occhio sorprendente. 

 

Altra particolarità è che, pur avendo mantenuto una parte delle sue caratteristiche originali, nei secoli ha subito diverse trasformazioni che l’hanno resa parte viva del paese: è stata prigione, luogo di ricovero per animali, negozio, sede di partito ed abitazione privata. Oggi ospita il Museo delle Tradizioni Etnografiche dell’Anglona che si sviluppa su tre livelli ed ogni livello ha un racconto, una sorpresa da svelare. Bellissima la parte che conserva intatta la struttura medievale, con il focolare scavato al centro della stanza nel pavimento roccioso e scale a chiocciola ricavate nella roccia.

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CORALLIUM RUBRUM. JAN FABRE E L’AURA PARTENOPEA di Francesca Romana De Paolis numero 27 gennaio febbraio 2023 Ed Maurizio Conte

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Corallium Rubrum. Jan Fabre e l’aura Partenopea

 

Al centro di una doppia trasmutazione alchemica, per così dire – che consta della devitalizzazione dell’organico e quindi della vitalizzazione dell’inorganico, a garanzia di uno splendore imperituro, nodo di remoti commerci tra Mediterraneo e Oriente, legame tra il folklore del passato e il lusso folklorico del presente – risiede

uno dei più pregiati doni del Sud: il corallo.


È risaputo che dal 3500 a. C. l’uomo appendesse corni animali sull’uscio delle proprie caverne, gesto apotropaico. Noto che dagli scavi di Pompei ed Ercolano siano affiorati, tra i molteplici reperti, anche enigmatici cornicelli

Dall’antica Roma Plinio il Vecchio, nell’enciclopedica Naturalis Historia, descrive le spade dei Galli come decorate in oro rosso. 

E nel Medioevo pillole coralline rappresentarono un portentoso farmaco contro crisi epilettiche, incubi e malattie infantili. 

Tutti sanno infine che nel Meridione il corno di corallo è simbolo di buona sorte. Lungi da interpretazioni freudiane esso rappresenterebbe, nella forma, il fallo di Priapo, antica divinità simbolo della forza generativa maschile e della fecondità della natura.

E benché dal diario di Marco Polo – che raccontò dei corallini ornamenti indiani 

e degli amuleti nepalesi, degli utensili tibetani e degli elmi e dei copricapi mongoli 

o ottomani – affiori in sottoparlato il profilo di una via del corallo, accanto 

alla via delle spezie e a quella della seta; benché percorrendo 

la vesuviana cittadella di Torre del Greco o i vicoli partenopei, 

possiamo ancora scorgere il profilo di questa via, 

ci accorgiamo lo stesso di un rischio imminente.


Non possiamo non constatare – in questo ventunesimo secolo di humana historia – una crisi auratica dilagante, un dissolvimento cultuale della materia dalla quale perfino il sacro corallo sembra non avere scampo. Qualsivoglia oggetto di pregio, quando non davvero rituale, per non soccombere alla scadenza effimerica dell’oggi, abbisogna di un gesto salvifico in controtendenza. 

Soffermiamoci su quel sublime olio su tavola rinascimentale che è La Madonna di Senigallia di Piero della Francesca, laddove il bambino Gesù indossa un ciondolo di corallo, monito del futuro sacrificio. Soffermiamoci sulle Sette Opere di Misericordia dell’ultimo Caravaggio, che al corallo si lega non per iconografia, ma per significazione, poiché nulla di più misericordioso e caritatevole esiste del sangue versato per l’Altro. Corallium sanguinis imago. E scopriamo come un modo vi sia – offerto proprio da Napoli, città sirenica, partenopea, feconda di risorse – per ritrovare alfine l’aura del Corallium Rubrum, sopravvissuta in resilienza.

Entro la napoletana chiesa ottagonale del Pio Monte della Misericordia, 

in via dei Tribunali – fondata nel 1602 grazie a sette nobili caritatevoli 

che offrivano assistenza ogni venerdì presso l’ospedale degli Incurabili – 

si trovano, in forma permanente, dal 2019, quattro sculture realizzate 

dall’artista contemporaneo Jan Fabre (Anversa, 1958). 

In dialogo con i dipinti seicenteschi delle sette cappelle d’intorno 

e con l’opera del Merisi, posta sull’altare: si tratta di una tetragonia 

di sculture fatte interamente di corallo.


L’artista belga, amante di Caravaggio e di Napoli, che non a caso ha dato a suo figlio il nome Gennaro, è legato al concetto di Caritas e ha scelto il corallo per risvegliarne la storia a partire dalla tradizione culturale e pittorica barocca. Il filo rosso – più rosso non potrebbe dirsi – che lega le sculture fiamminghe è la presenza, in ciascuna, di grossi, guizzanti cuori anatomici. Di volta in volta associati a simbologie cristologiche. 

Nella Purezza della Misericordia, ispirata alla tela del Merisi, ove Sansone eroe biblico, beve dalla mascella di un asino, questa è la base ossea su cui si regge il cuore umano, dal quale sbocciano magnifici gigli, simbolo della purezza della Vergine Maria, cui la chiesa è dedicata. La colomba con ramo d’ulivo è il soggetto corallino de La Libertà della Compassione, dove il cuore umano è stretto fra catene. E lo stesso cuore è circondato di edere nella Rinascita della Vita, a omaggiare il ciclo di vita, morte e resurrezione. Mentre nella Liberazione della Passione il cuore di corallo si fa serratura ed accoglie le chiavi del Paradiso di San Pietro.

Perché adempia al suo compito di portare fortuna il corallo dev’essere ricevuto 

in dono, non acquistato, infatti le opere fabriane sono state donate dal fiammingo 

al Pio Monte della Misericordia, grazie al sostegno di Gianfranco D’Amato 

e Vincenzo Liverino in ricordo dei Cavalieri del Lavoro 

Salvatore D’Amato e Basilio Liverino


Questo fa del Pio Monte non soltanto un celebre luogo di culto cristiano e il custode partenopeo di una delle più complesse opere di Caravaggio, ma anche un tempio della Buona Sorte. 

Varcando la soglia della chiesa tutto ciò che il corallo taceva torna a galla. Quella storia raccontata da Ovidio, che vuole la rossa viscera splendente generarsi dalle stille di sangue della Medusa decollata da Perseo. La sollecita corsa quattrocentesca all’acquisto di gioielli corallini di Alfonso d’Aragona per soddisfare la vanitas della sua Lucrezia d’Alagno.

La fascinazione che ebbe per il corallo la moglie del re di Napoli Gioacchino Murat, Carolina Bonaparte, che regalò al fratello Napoleone una spada imperiale ornata 

di cammei torresi, una scacchiera corallina ed altri gioielli vermigli.


La moda per il Rubrum Corallium che di qui si espanse alla corte di Francia. 

Il racconto di qualche viaggiatore d’oggi, che forse si è udito senza troppa cura. Che descrive alcune casupole Polinesiane sull’isola di Huahine, povere e disadorne viste da fuori, ma che all’interno custodiscono ancora pavimenti rivestiti di corallo. E ancora, le colonie degli artigiani di Torre del Greco generatesi in Giappone quando si scoprirono risorse coralline nel Pacifico. 

I mercanti ebrei di Livorno e Genova che sovraneggiavano sul mercato corallino, messi in riga dall’ordine giuridico di Ferdinando IV di Borbone. La diaspora quattrocentesca dei fini corallari siciliani che si insediarono in Campania portando le proprie tecniche di lavorazione tra Napoli, San Giorgio a Cremano, amalgamandosi agli artigiani napoletani del corallo. 

Questo fa Napoli, città pulsante di segreti. Mischia le carte e sovrappone le storie. Dal mito alla religione, dal lusso d’Oriente, alla moda cortese fino all’arte contemporanea. E lo fa anche attraverso la storia infinita dei rami di corallo.  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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 Foto di Francesca Romana de Paolis

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MATTIA PRETI, CAVALIERE (E ORGOGLIO) CALABRESE di Claudia Papasodaro numero 27 gennaio febbvraio 2023 Ed. Maurizio Conte

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MATTIA PRETI, CAVALIERE

E ORGOGLIO CALABRESE

 

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Molti conoscono la vicenda artistica di Mattia Preti: gli esordi romani col fratello Gregorio, anch’egli pittore, la straordinaria parentesi napoletana, la consacrazione maltese. In pochi, forse, conoscono la vicenda umana di questo artista, oggi riconosciuto come uno dei grandi protagonisti della stagione pittorica seicentesca, definito da Roberto Longhi “apocalittico, secondo solo a Caravaggio”. Pochissimi, probabilmente, sanno che 

il legame di Mattia Preti con la sua terra va ben oltre quell’appellativo 

di “Cavalier Calabrese”, che sempre lo accompagnò da quando, nel 1642, 

per volere di papa Urbano VIII, ricevette l’investitura di Cavaliere di Obbedienza Magistrale dell’Ordine di San Giovanni Gerosolimitano. E poco noto è che, 

nonostante la fama ed il prestigio di una carriera che lo tenne costantemente lontano, non dimenticò mai la sua Taverna, il piccolo borgo che gli aveva dato i natali 

e che aveva lasciato giovanissimo (come tanti altri calabresi 

ieri e ancora oggi) per cercare fortuna altrove.


Taverna, nel catanzarese, è una graziosa cittadina di poco più di 2500 abitanti, incastonata tra i monti della Sila Piccola e non lontana dallo Ionio, dove d’inverno ti inebria l’odore di legna bruciata e d’estate senti quasi il profumo del mare. Qui il sentimento di orgoglio e la riconoscenza nei confronti del Cavalier Calabrese è ancora palpabile, come dimostra la statua bronzea a lui dedicata posta nella principale Piazza del Popolo, opera dello scultore Michele Guerrisi, altra grande personalità calabrese. 

 

Mattia Preti è stato un artista estremamente prolifico, documentato con circa settecento opere, tra disegni, dipinti, affreschi e progetti architettonici, che oggi sono conservati in chiese, collezioni private e musei di tutto il mondo. 

 

E proprio Taverna può vantarsi di custodire oltre 20 opere del suo figlio più illustre – un numero davvero incredibile per un piccolo centro come questo. Come ha affermato lo storico dell’arte John Thomas Spike – uno dei maggiori studiosi dell’artista – 

“non ci sono esempi paragonabili di pittori che abbiano voluto creare la memoria 

di sé stessi nel loro luogo natale”. E questo, in effetti, 

è un fatto davvero straordinario.

 

All’apice della sua carriera nell’isola di Malta, dove trascorse gli ultimi trent’anni della sua lunga ed intensa vita al servizio dell’Ordine dei Cavalieri, elevato prima al rango di Cavaliere di Grazia e poi di Commendatore dell’Ordine Gerosolimitano, l’artista si prodigò nella realizzazione di opere da inviare alle chiese del suo borgo natale, dove volle tornare (e restare) con la sua arte. 

 

Emblematica in questo senso è la Predica di San Giovanni Battista, la monumentale tela nella chiesa di San Domenico, dove Mattia Preti, anche se lontano, volle acquistare una cappella in onore della sua famiglia. Questo gesto rappresentò un vero e proprio riscatto sociale per l’artista: una rivalsa dalla delusione subita dalla famiglia nel 1605, quando al padre Cesare fu negato lo status di nobile a causa dell’insufficiente ricchezza

Dedicò l’altare al Battista – patrono dei Cavalieri – e nella grande tela inserì 

il suo autoritratto in qualità di donatore dell’altare stesso, come a voler suggellare 

in eterno il suo legame con quel luogo,


in una sorta di testamento pittorico che, secondo Spike, fa del Preti “il primo pittore che ha voluto creare, con deliberato impegno e notevole dispendio di mezzi, un monumento permanente a sé stesso” nella sua terra natia. Si raffigurò come più amava farlo, con la veste da Cavaliere, lo sguardo fiero e nella mano destra insieme la spada e il pennello, suoi inseparabili compagni di vita. 

 

Nella stessa chiesa sono altre sei le tele del Preti che è possibile ammirare, tra cui il Cristo Fulminante che da solo vale il viaggio. 

Altre opere sono conservate nella chiesa di Santa Barbara e nel Museo Civico, 

meta ogni anno di migliaia di visitatori e divenuto, dalla sua fondazione nel 1989, 

un punto di riferimento imprescindibile per gli studiosi dell’artista 

a livello internazionale.


Un piccolo borgo diventato importante centro culturale grazie all’attaccamento di un figlio che se n’è andato senza mai però lasciarlo davvero e che, con dedizione e riconoscenza, si impegna per tenerne sempre vivo il ricordo. 

 

Mattia Preti – Cavaliere e orgoglio calabrese – con la sua storia ci racconta dell’amore e, al tempo stesso, del tormento di coloro che hanno dovuto lasciare questa terra. Un sentimento profondo e sincero, come la Calabria stessa

 

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The ceiling of Church of St Francis of Assisi, Valletta, Malta

 Nella foto: dipinto di Mattia Preti nella chiesa di San Francesco d’Assisi a la Valletta – Malta – Foto da DEPOSITPHOTOS