LA FONTANA DELLA FRATERNA Gemme del Sud Numero 22 Settembre ottobre 2021 ed. Maurizio Conte

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LA FONTANA DELLA FRATERNA

 

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              Isernia

Per la sua misteriosa e travagliata storia e l’assoluta incertezza riguardo alle sue origini, la Fontana della Fraterna, ad Isernia, è un monumento molto affascinante. 

Oggi la fontana si trova in piazza Giosuè Carducci, ma nel passato subì diversi trasferimenti di sede prima di trovare una definitiva collocazione.

Edificata nel XIII secolo, periodo in cui l’Italia è interessata 

da un forte rilancio per le architetture civili,

 

prende il nome dalla sua originaria collocazione a Piazza Fraterna, di fronte alla Chiesa della Concezione, dove aveva sede l’antichissima confraternita fondata da Pietro Angelario nel 1289, futuro papa Celestino V. Nel 1835 la nobile famiglia isernina Rampini trasferì la fontana in Largo della Concezione e la fece agglomerare con un’altra già esistente, conferendole l’aspetto attuale. 

Più tardi, nel 1889, secondo l’archivio storico comunale, il monumento venne nuovamente spostato, questa volta in via Marcelli e sempre vicino alla Chiesa della Concezione. Danneggiata dai bombardamenti il 10 settembre 1943, il monumento fu poi ricostruito per anastilosi, usando cioè le parti recuperate e di nuovo trasferita nell’attuale sito, Piazza Giosuè Carducci. 

La fontana è costituita da sei archi a tutto tondo disposti a loggiato, con sei getti d’acqua. Osservandola attentamente, si nota che la forma delle colonnine e dei capitelli sono diverse fra loro. Ciò è molto comune per le opere medievali, poiché i materiali usati – blocchi in pietra locale ed in travertino – erano di “spolio”, vale a dire reimpiegati, prelevati da strutture edificate in vari periodi, principalmente in epoca romana, di cui Isernia è ricca. Per questo motivo, 

la fontana presenta anche alcune epigrafi di ardua decifrazione. Le lettere D ed M visibili su di essa sono una dedica agli “dei Mani” (anime dei defunti).

 

Al centro vi è una lastra in marmo decorata da due delfini e motivi vegetali, proveniente sicuramente da un edificio sepolcrale datato tra 99 a.C. e 50 a.C. 

Un’altra lastra reca l’epigrafe AE PONT ed una legenda vuole che sia appartenuta al sepolcro di Ponzio Pilato, originario di queste zone.

 

 

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GARGANO IL MONTE DEL SOLE di Santa Picazio – Numero 22 – Settembre ottobre 2021 – Ed. Maurizio Conte

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GARGANO IL MONTE DEL SOLE

 

come di un luogo di estremo interesse, ma erano mancate le occasioni per verificarlo, mi era mancato il tempo, avendone trascorso molto fuori per motivi di studio, e mi era mancata un’auto personale per poter decidere un percorso in piena autonomia.

Poi capita che all’improvviso, quando non ci pensi più, ti ritrovi ad avere una macchina tua, ed un figlio di tre anni con una tosse che potrebbe giovarsi di aria buona, proprio di quella del nostro Gargano, bisognava solo decidere dove andare per poterla respirare a pieni polmoni. Interpellato mio marito, che da un po’ di tempo, sollecitato dai miei racconti, ha scoperto il piacere di fare delle escursioni sul territorio, azzardo la mia proposta. Dopo un attimo di esitazione per il fatto che si trattava di un percorso poco noto, decidiamo di andare.

 

Partiamo nascondendo una certa ansia per la viabilità irregolare ed approssimativa. L’ansia, però, si spegne all’improvviso; si spegne quando si apre di fronte a noi 

uno spettacolo naturale di rara bellezza!

 

Scendiamo dalla macchina quasi intimiditi; il paesaggio è fantastico. Il Gargano, infatti, anche per chi ci è nato, si rivela all’improvviso. Il Gargano si cela come in uno scrigno, e quando credi di aver pescato anche l’ultima gemma, ne scopri un’altra. Poi scopri che esiste addirittura un doppio fondo, e che le cose più preziose sono ancora tutte da scoprire. Il casale di Devia è una di queste! Lo spettacolo che si apre davanti ai nostri occhi ci toglie il fiato.

Restiamo muti ad osservare il mare, un mare di un incredibile colore, a cui le Tremiti movimentano l’orizzonte. Restiamo a lungo accovacciati sul limite dell’altopiano.


Sotto di noi la collina degrada per 250 metri, e si incunea dividendo i due laghi costieri di Varano e di Lesina. Penso alle tante spiegazioni che si danno ai toponimi; ma, per me, Devia può significare solo separa”! II Monte d’Elio, infatti, si protrae verso il mare separando i due laghi che, come due languidi occhi, sembrano destinati ad osservare l’infinito cielo!   

 

Decidiamo che il posto merita una esplorazione più approfondita, ed

 

Iniziamo con la visita agli importanti ruderi che ci siamo lasciati alle spalle 

per l’ansia di affacciarci sul panorama.

 

È difficile definire come chiesa quei ruderi, ma la struttura è chiara. Proviamo ad entrarci. Il tetto è praticamente scomparso; un paio di falchi danno segno di inquietudine ed abbandonano la trave su cui erano appollaiati. Una mucca, forse stanca per aver brucato l’erba non più tanto tenera, riposa ai piedi di un affresco coperto dalle ragnatele. C’è anche un asino che, come tutti gli asini, non mostra alcun interesse per le novità; sembra crogiolarsi nella sua solitudine. I nostri passi, seppure attenti, mettono in fuga una lucertola. Senza muoverci dal punto in cui ci troviamo, diamo uno sguardo in giro.

 

Sulle pareti notiamo degli affreschi che si sforzano di resistere al tempo 

e alle intemperie! Quel luogo, di cui pure avevo sentito parlare con interesse, 

sembra lontano anni luce dall’interesse degli uomini

 

che, solo un po’ più a valle, cominciano anche a parlare di turismo! Continuiamo l’esplorazione, inerpicandoci per quanto possibile con un bimbo al seguito.   

 

Scopriamo altri ruderi, mentre avanza il desiderio di saperne di più; bisognerà avviare una vera ricerca, e mi riprometto anche di interrogare gli amici di San Nicandro per capire i motivi di tanto abbandono. Da quel giorno, dal giorno di questa nostra prima esplorazione, sono passati tempo e storia.

Sono passati anni durante i quali, fra alti e bassi, abbiamo assistito anche da vicino 

ad un felice recupero del sito. La chiesa restaurata si è rivelata un vero gioiello. 

Gli scavi archeologici lungo i fianchi della montagna hanno messo in luce 

i ruderi del borgo di Devia.

 

Ora sono solo dei ruderi, dei quali solo alcuni sembrano degni di attenzione. Peccato, perché Devia deve aver avuto un passato importante. Già dal VII secolo erano iniziate le escursioni dalmate sui nostri litorali, governate da uno Juppano, una particolare figura di capo villaggio. ln seguito, secondo alcuni documenti risalenti all’Xl secolo, ritrovati nell’ abbazia delle Tremiti, Devia fu sede fortificata di una colonia slava. Ricordata nei documenti come civitas, pare sia stata fondata per volere dei Bizantini proprio a tutela delle coste perennemente soggette agli sbarchi di popolazioni poco gradite. Con il tempo, forse per l’arrivo dei Normanni, Devia viene abbandonata a vantaggio della piana Sannicandrese.

Di tutto il villaggio resta la chiesa. Una fortuna perché si tratta di un vero gioiello, 

con un importante ciclo di affreschi.

Ceduta nel 1032 all’abbazia di Tremiti dal Vescovo Giovanni da Lucera. Santa Maria iuxta mare, per la sua particolarissima posizione fronte mare, mostra all’esterno tre absidi semi circolari. ln quella centrale esiste, e resiste, un affresco del Cristo Pantocratore. Alcune monofore contribuiscono, filtrando la luce, a focalizzare gli affreschi lungo le pareti. Gli affreschi tutti molto interessanti, meriterebbero una trattazione a parte per il loro richiamo allo stile cavalleresco e crociato, una trattazione troppo lunga per iniziarla ora. L’abbazia delle Tremiti, e quasi tutte le chiese garganiche, che si avvalevano del mare come via di transito, erano importanti proprio in considerazione delle scarse ed impraticabili strade interne di quei tempi. Ai lunghi periodi di culto seguirono crisi e desolazione, e poi ancora una felice ripresa nel XVI secolo che durò fino al 1744. Da quel momento in poi inizia un nuovo abbandono, che la trasforma nella stalla sfondata che noi ritrovammo negli anni 60.

 

L’interesse per il sito riprese vigore, anche grazie alle mie convincenti chiacchierate, solo nel 1970 quando iniziarono finalmente i dovuti restauri!

 

Ora c’è un nuovo black-out! Ancora una volta si è spento l’interruttore culturale su Devia. Ne attendiamo le motivazioni che sembrano esclusivamente politiche. Quindi, lontane dalla soluzione. Quest’anno ci sono tornata, presa dalla nostalgia, accompagnata da quel bimbo di tre anni che oggi ne ha cinquanta, ma non più con lo stupore di allora. Sono scesa dalla macchina con l’amarezza di chi sa già, di chi conosce lo scarso valore che si riserva oggi, più che mai, ai nostri Beni culturali.

 

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 © Foto di Ivan Galavotti

 

IL BERGAMOTTO, L’ORO VERDE DELLA CALABRIA Gemme del Sud Numero 21 giugno luglio 2021 Ed. Maurizio Conte

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IL BERGAMOTTO, L’ORO VERDE DELLA CALABRIA

 

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Locride

 

Lungo la Costa dei Gelsomini, in un piccolo fazzoletto di terra nel cuore della Locride, grazie al clima favorevole ed ai terreni argillosi, fruttifica un agrume dalle straordinarie virtù benefiche, un’eccellenza calabrese conosciuta ed apprezzata in tutto il mondo: il Bergamotto.

 

Dalla cucina alla cosmesi passando per la medicina, sono tantissimi gli utilizzi 

di questo frutto, della cui coltivazione la Calabria detiene il primato mondiale.

 

Il frutto del Bergamotto ha origini antiche ma, nonostante le numerose ipotesi, esse rimangono ancora avvolte nel mistero. La stessa etimologia del nome è incerta: secondo alcuni potrebbe risalire alla città di Berga (nome antico di Barcellona), dove sarebbe stato importato da Cristoforo Colombo di ritorno dalle Canarie, o a quella di Pergamon (l’antica Troia). Altri associano il termine Bergamotto a Berg-a-mudi, che in turco significa “pero del Signore”.

Una leggenda racconta che un moro di Spagna vendette un ramo di Bergamotto 

ai signori Valentino di Reggio Calabria, che poi innestarono il nuovo frutto 

su un arancio amaro in un possedimento di loro proprietà.

 

Di sicuro sappiamo che la coltivazione di questo agrume sul litorale di Reggio Calabria risale al Settecento e che, sempre qui, nell’Ottocento, è documentata la prima estrazione dell’olio essenziale di bergamotto.

 

L’importanza del Bergamotto per questo territorio è testimoniata anche dall’esistenza di un museo ad esso dedicato, il Museo del Bergamotto di Reggio Calabria,

 

dove sono esposti macchinari e foto d’epoca che tramandano gli antichi processi di lavorazione e raccontano, al contempo, un pezzo di storia di questa terra. 

 

Dal 2001, inoltre, il Bergamotto di Reggio Calabria – Olio essenziale è riconosciuto come marchio D.O.P. dell’Unione Europea.

 

 

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LA CATTOLICA DI STILO Gemme del Sud Numero 21 giugno luglio 2021 Ed. Maurizio Conte

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LA CATTOLICA DI STILO

 

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Stilo

 

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Di origine greca, passata poi sotto il dominio dei Bizantini nel X secolo, Stilo (RC) è stato il più importante centro bizantino della Calabria meridionale.

 

Conosciuta per aver dato i natali al filosofo Tommaso Campanella, celebre autore 

de La Città del Sole, Stilo custodisce un piccolo gioiello architettonico: la Cattolica. 

 

In Calabria, dei monaci orientali avevano trovato rifugio dalle persecuzioni e si erano insediati alle pendici del Monte Consolino in agglomerati di grotte dette laure, ancora visibili sul territorio, dove perseguivano il loro ideale di povertà e distacco dal mondo. Furono proprio questi monaci a fondare, tra la fine del X e gli inizi dell’XI secolo, la Cattolica di Stilo.

La Cattolica è un edificio di piccole dimensioni che si distingue per la ricchezza cromatica e le forme geometriche tipiche delle chiese orientali.

 

E’ formata da un cubo sormontato da quattro cupolette poste in corrispondenza degli angoli delle facciate ed una centrale in posizione elevata rispetto alle altre. L’interno della chiesa, a croce greca, è composto da uno spazio quadrato, diviso in nove parti uguali dalle quattro colonne che ne segnano gli angoli. Ciò che colpisce è soprattutto l’uso sapiente della luce, quasi abbagliante nella parte superiore e tenue nella parte bassa, così da favorire il raccoglimento.

 

La decorazione interna mostra ancora l’intensità dei colori degli affreschi, realizzati 

in epoche differenti, di cui i muri della chiesa erano interamente ricoperti.

 

Tra questi è possibile ammirare ancora oggi una serie di figure che spiccano per la loro vivacità cromatica, come l’immagine della Dormizione della Vergine, l’Annunciazione e l’Ascensione.   

 

Il recupero della Cattolica di Stilo si deve all’archeologo Paolo Orsi, soprintendente per le Antichità della Calabria, che la individuò nel 1911 e la sottopose ad un lungo restauro

 

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L’OASI DI TORRE SALSA Gemme del sud numero 21 giugno luglio 2021 Ed. maurizio conte

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L’OASI di.torre salsa

 

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Siculiana

 

Lungo il litorale agrigentino, tra Siculiana Marina ed Eraclea Minoa, si estende per circa 6 km la Riserva Naturale Orientata di Torre Salsa, gestita dal WWF, dove il mare azzurro e cristallino lambisce ampi tratti di spiaggia dorata. 

Un luogo ricco di storia in cui il ricordo degli sbarchi dei pirati saraceni del XVI secolo è testimoniato dai ruderi di due torri di avvistamento, Torre Salsa e Torre Pantano, e la presenza dell’uomo è attestata dal ritrovamento di quattro tombe bizantine e da una calcara utilizzata, in tempi più recenti, per produrre gesso.

Tratti di costa alta, formatasi dalle stratificazioni argillose e calcaree  

che richiamano alla mente la vicina “scala dei Turchi” di Realmonte  

si alternano a falesie a strapiombo sul mare 

con panorami mozzafiato,


mentre nelle zone basse la sabbia sciolta forma dune costiere dove fiorisce il Giglio marino. 

Nell’antica macchia mediterranea sopravvive una vegetazione diversificata, in grado di resistere al clima arido del periodo estivo, e che durante la fioritura primaverile esplode in un tripudio di colori. Nei tratti boschivi crescono il Pino di Aleppo, l’Eucalipto e l’Acacia. Torrenti ramificati e profondi, tra cui il Salso che dà il nome all’Oasi, sfociano in mare creando incantevoli scorci scenografici.

In questo angolo di Sicilia ancora selvaggio ed incontaminato vive l’Istrice 

e nidificano molte specie di uccelli tra cui l’Usignolo di fiume, i Gabbiani corallini 

ed il Passero solitario, di leopardiana memoria, e ci si può immergere 

alla scoperta di fondali marini ricchi di flora e fauna.


Sulla spiaggia, ogni anno torna a nidificare anche la tartaruga marina “Caretta caretta”, specie protetta inserita nel progetto WWF di salvaguardia della specie, che in estate offre la visione spettacolare della schiusa delle uova e del lento e suggestivo cammino dei piccoli rettili verso il mare aperto, sotto l’occhio vigile dei volontari dell’Oasi.

 

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 Photo credit © WWF

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LA CHIESA DI SANT’ANTIOCO DI BISARCIO Gemme del Sud – Numero 21 Giugno Luglio 2021 Ed. Maurizio Conte

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LA CHIESA DI SANT’ANTIOCO DI BISARCIO

 

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Ozieri

 

Domina la piana di Chilivani, nel comune di Ozieri, la chiesa di Sant’Antioco di Bisarcio. Posta su di uno scenografico sperone roccioso di origine vulcanica,

 

la chiesa è un raro esemplare dell’architettura romanica sarda anche 

per grandezza e stato di conservazione, 

 

realizzata con la trachite, tipica pietra locale. Ex Cattedrale della diocesi di Bisarchium/Guisarchum tra l’XI e il XVI secolo, la chiesa è frutto di tre interventi costruttivi distinti.   

 

La data della posa della prima pietra è incerta poiché un incendio avvenuto tra il 1082 e il 1127 danneggiò la chiesa in parte, e tutto l’archivio nel quale era custodita la notizia. La prima costruzione risale alla seconda metà dell’XI secolo, mentre avvenne entro il 1153 la ricostruzione post-incendio, nella quale fu riedificata l’aula a tre navate, l’abside ed il campanile. Infine, una terza fase antecedente il 1174 durante la quale fu aggiunto il bellissimo portico decorato con il fregio della caccia. 

Nota è invece

la consacrazione della Cattedrale di Bisarcio, celebrata sotto l’episcopato 

di Giovanni Thelle l’1 settembre 1164, 

 

giacché se ne conserva memoria in una trascrizione apocrifa di una fonte manoscritta. La conferma proviene dall’individuazione di un’epigrafe graffita in un concio del prospetto absidale presente all’interno della chiesa, in caratteri onciali, che riporta l’anno 1164 ed il nome del vescovo Giovanni Thelle.   

 

La chiesa ha pianta longitudinale a tre navate, con abside semicircolare, affiancata da un campanile. Addossato alla facciata c’è un ampio atrio realizzato su due piani. 

 

La sala che un tempo era adibita alle riunioni del clero con il vescovo, 

situata al secondo piano della facciata, conserva un camino 

che ha la cappa a forma di mitria vescovile, 

un unicum nel suo genere!

 

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VILLA JOVIS A CAPRI di Fabio de Paolis – Numero 21 – Giugno Luglio 2021 – Ed. Maurizio Conte

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VILLA JOVIS A CAPRI

 

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a bordo di una veloce esareme, probabilmente la “Ops”, l’Imperatore Tiberio Giulio Cesare Augusto giunse nell’isola di Capri per rimanervi fino alla fine dei suoi giorni

 

Capri era allora una montagna in mezzo al mare, abitata da gente greca longeva, ricoperta di lauri, mirti, aranceti, alti pini.

 

Un’isola odorosa di resine, ricca di boschi e di grotte con cinghiali e capre. Un’isola che rendeva difficili eventuali attacchi via mare, che non aveva porti, ma solo approdi naturali e sorvegliati come quello di Tragara (tra i faraglioni e lo scoglio del Monacone). Un luogo ideale per quel monarca che, non sentendosi più al sicuro, voleva allontanarsi da Roma e dai suoi complotti. Andar via per sentirsi lontano e protetto dalle continue ostilità che serpeggiavano nei “palazzi” romani. La figura dell’Imperatore Tiberio ha sempre diviso il giudizio degli storici. Furono soprattutto Tacito e Svetonio a riportare fatti presunti e pettegolezzi dei nemici politici e del popolino romano. Pensiamo agli ultimi anni di vita trascorsi a Capri: Tiberio viene descritto come un mostro feroce in preda alla follia, un despota dalla personalità crudele e senza scrupoli, un sadico avvezzo ai vizi ed alla lussuria, nonché preda di continui peccati di gola. Si narrava che fosse stato tanto libero in fatto di lascivia che fosse soprannominato anche “Liberius”. 

Dall’altra parte, invece, autorevoli scrittori e storici quali Plinio il Vecchio, Valerio Massimo, Seneca e Velleio Patercolo non accennarono minimamente a suoi possibili malcostumi, ma, al contrario, diedero di Tiberio un giudizio sostanzialmente positivo: quello di persona proba, distaccata, con un carattere chiuso, un uomo riservato e tormentato, che ovunque vedeva traditori e spie, ma al contempo generoso e con un alto senso dello Stato, attento ai bisogni del popolo romano e delle sue Province. Questo perché Tiberio, sotto Augusto, era stato anche un valente generale (c’è chi sostiene il migliore della sua epoca), capace di pacificare la Germania e tenere sotto controllo la situazione in Pannonia e Dalmazia. Un Imperatore che, successivamente, decise di seguire scrupolosamente i dettami augustei, che accentuò il potere imperiale nei rapporti con il Senato e soprattutto che mantenne la pace ai confini, chiudendo per lungo tempo il tempio di Giano. Sta di fatto che l’Imperatore, giunto a 68 anni, si trasferì a Capri, dedicandosi a trasformarla in un impenetrabile rifugio dorato e profondendo nell’isola ricchezze e tesori. Si dedicò da subito alla costruzione di strade, ville e palazzi destinati ad accogliere i suoi uffici, e di un nuovo porto, costruito a Marina Grande. Sui punti più elevati e strategici face costruire 12 grandi ville dedicate a divinità, ma quella di Giove,

 

“Villa Jovis”, sul promontorio orientale dell’isola, a 334 metri sul livello del mare, 

fu il suo capolavoro, e per 10 anni il principale palazzo del governo di Roma. 

 

Collocata su una rupe nel luogo più inaccessibile dell’isola, altissima sul mare, Villa Jovis era una costruzione che fungeva da palazzo imperiale, da imprendibile fortezza e da pretorio. Con lo stile tipico delle abitazioni signorili romane, arredata con mosaici, statue, marmi e decorazioni, la dimora si estendeva per 7.000 metri quadri ed era formata da enormi terrazze, giardini e ninfei che si allungavano sulle pendici del Monte Tiberio. Una residenza accessibile solo via terra mediante un angusto passaggio sempre ben controllato da numerosi soldati. Attraverso le comunicazioni del Senato, i rapporti di polizia e le relazioni dei suoi ministri, ma anche grazie alla sua rete di spie, alle lettere provenienti da amici e parenti e ad un faro utilizzato per le comunicazioni con la terraferma, da Villa Jovis l’Imperatore controllava ogni cosa. Così lo storico Gregorovius: “Da qui Tiberio vedeva tutto ciò che si svolgeva sull’isola e scorgeva anche le navi che venivano dall’Ellade, dall’Asia, dall’Africa, oppure giungevano da Roma”. 

Il servizio delle comunicazioni ottiche, che si attuava altresì mediante un codice segreto con fumate di giorno e coi fuochi delle torce di notte, era affidato ad uno speciale corpo di vedette. Sulla costa del golfo di Napoli operava poi un sistema di torri costiere per le comunicazioni ottiche e di veloci liburne che consentivano all’Imperatore di ricevere rapidamente messaggi ed impartire ordini. Le giornate che Tiberio trascorreva a Capri erano laboriose. Verificava con cura le nuove leggi per Roma e dal suo studio ogni giorno risolveva i problemi provenienti dalle numerose Province dell’Impero. Appassionato cultore di letteratura e di filosofia, era circondato di grammatici, bibliofili e calligrafi con cui spesso discorreva ed a cui affidò la cura della biblioteca privata ospitata nel proprio palazzo. L’edificio era circondato di ninfei ed esedre, seguiva l’andamento del terreno, con forti dislivelli superati da numerosi piani e scalinate che consentivano di salire di roccia in roccia fino al punto più alto, ove era collocata la monumentale loggia imperiale.

Un’enorme terrazza con la sala del triclinio ed un belvedere che dominavano 

tutta l’isola ma, soprattutto, dai quali si ammirava 

lo spettacolo del Golfo di Napoli, 


una curva che va da capo Miseno, con le isole di Ischia e Procida, fino alla costiera sorrentina, a quella amalfitana ed al Cilento. Era lì che Tiberio trascorreva intere giornate in profonda solitudine, rinunciando addirittura alla presenza della sua scorta, della sua servitù e del segretariato imperiale, dedicandosi, invece, a passeggiate solitarie lungo il belvedere della sua villa. Sul suo terrazzo aveva fatto piantare alberi di lauro, perché riteneva che durante i temporali le folgori non avrebbero colpito le piante di alloro. 

Nella loggia imperiale Tiberio aveva l’abitudine, prima di sedersi a tavola, di bere a digiuno del vino per stimolare l’appetito, una sorta di aperitivo ante litteram. Sulla sua tavola erano presenti frutta e ortaggi, pere, uva passa, cavoli e cetrioli. Di questi aveva una vera passione, li mangiava con frequenza quotidiana e, per questo, si era fatto costruire speciali cassette munite di ruote in cui li coltivava, cosicché in inverno potesse spostare le piante per esporle al sole.

 

Non lontano dalla loggia imperiale, quasi all’improvviso, il baratro, 

una rupe di 300 metri a picco sul mare, chiamata poi 

la “Carneficina del Mostro”, o “il Salto di Tiberio”, 

ove si narrava che l’Imperatore 

vi facesse precipitare 

le proprie vittime.

 

Gli eventuali sopravvissuti sarebbero stati poi finiti in mare da marinai armati di arpioni e bastoni. Si raccontava anche che a Villa Jovis Tiberio disponesse di numerose camere da letto, tutte adorne di statue e di libri con le posizioni amorose, come i molles libros scritti dalla poetessa greca Elefantide. Numerosi anche i dipinti lascivi come quelli di Pausia. Svetonio addirittura narra che Tiberio, in una divisione ereditaria, davanti alla scelta tra un quadro rappresentante una scena erotica della ninfa Atlanta con il re Meleagro ed un milione di sesterzi, senza indugio avesse scelto subito la pittura, mettendola nella camera da letto. 

Al centro della villa c’erano le cisterne dedicate alla raccolta dell’acqua piovana, usate sia come acqua potabile, sia come riserva destinata alle terme. L’impianto idrico si estendeva lungo tutto il lato del palazzo e quello destinato a bagno era composto da una serie di cinque ambienti paralleli al corridoio; nel calidarium vi erano due absidi, una con la vasca, un’altra con il bacino di bronzo per le abluzioni. Secondo Svetonio, in alcune grotte Tiberio si intratteneva, come ben noto nei costumi della Roma antica, anche con giovani fanciulli. Ma come altre dicerie, anche questa non è supportata da ulteriori fonti, se non il solito Svetonio. Invece 

 

è certo che l’Imperatore amasse fare le abluzioni, soprattutto nella Grotta Azzurra, dove teneva colte conversazioni ed organizzava raffinati conviti. 


Ne era affascinato. Trasformata in un grandioso e silenzioso ninfeo sorto nel mare, fra giochi di luci e raffinati effetti solari filtrati dall’azzurro del mare, aveva fatto ornare la grotta di molte statue rappresentanti sirene, tritoni, ninfe e divinità. Opere d’arte ispirate al mondo classico, che applicate alla parete rocciosa, all’altezza del livello marino, apparivano uscite spontaneamente dalle acque. Abbandonata per decine di secoli, la villa venne riscoperta nel XVIII secolo, sotto il regno di Carlo di Borbone, e subì dei devastanti scavi durante i quali vennero asportati molti preziosi pavimenti in marmo. Villa Jovis fu poi oggetto, nel 1932, di un intervento di recupero, diretto dall’archeologo Amedeo Maiuri. Furono rimosse le macerie che si erano nuovamente accumulate sulle rovine della villa, che ne risultarono rivalorizzate. Ad Amedeo Maiuri è stata intitolata la strada che, partendo dal centro della contrada di Tiberio, conduce alle rovine.

 

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FRANCA FLORIO REGINA DI SICILIA di Gaia Bay Rossi – Numero 21 – giugno lugio 2021 – Ed Maurizio Conte

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FRANCA FLORIO REGINA DI SICILIA

 

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Queste le parole di Gabriele D’Annunzio, uno dei numerosi ammiratori di Franca Florio, come anche il Kaiser Guglielmo II di Germania che la soprannominò «Stella d’Italia».

 

 

 

Definizioni perfettamente rappresentate dal ritratto che le fece Giovanni Boldini nel 1901, poi costretto a modificarlo perché giudicato troppo audace dal committente, Ignazio Florio jr, marito di Franca. Nella versione definitiva, 

Boldini ritrae donna Franca in tutto il suo fascino e femminilità, 

avvolta da un elegante abito di velluto nero, con al collo 

la famosa collana di perle regalatale dal marito


– che si narra le fosse stata donata per farsi perdonare i numerosi tradimenti. La collana era lunga 1 metro e 40, con trecentosessantacinque perle di Cartier di grosso calibro. Si racconta che mise in imbarazzo persino la Regina d’Italia, Elena di Savoia, che possedeva una collana di perle simile, ma non così bella e preziosa.   

 

La favola della collana (una perla per ogni tradimento) è stata smentita più volte dai familiari, ma si è consolidata nel tempo per la fama di tombeur de femmes di Ignazio jr. Reputazione che, all’inizio della loro relazione, aveva causato un ostico diniego ad un possibile matrimonio da parte della famiglia di lei, gli aristocratici siciliani Jacona della Motta di San Giuliano. 

Per sottrarre la giovane all’influenza del rampollo della famiglia Florio, 

si trasferirono con la ragazza a Livorno, nonostante lui fosse 

uno dei migliori “partiti” d’Europa, oltre che 

intelligente e molto innamorato.


I due giovani, però, continuarono a scriversi tante e tali lettere d’amore fino a far capitolare il padre di lei e, nel 1893, a meno di vent’anni, Franca entrò a pieno titolo nella famiglia Florio. In quel periodo si trovava a Palermo il compositore e musicista Johannes Brahms, che dopo essersi esibito per un gruppo ristretto di partecipanti durante un ricevimento dai Florio, decise di regalare alla famiglia il suo pianoforte. Lo strumento venne messo all’Arenella, nella sala centrale della palazzina liberty “I Quattro Pizzi” (così chiamata per le quattro guglie che la sovrastano), dove lo si può ammirare tutt’oggi.   

 

Donna Franca era

la protagonista indiscussa della vita del bel mondo palermitano, 

parlava tre lingue straniere e, con il suo fascino e la sua eleganza spontanea, 

divenne in breve tempo la “regina di Sicilia”, 


aumentando il prestigio della famiglia Florio in tutta Europa. Oltre al carisma personale, era un’abile imprenditrice e aiutò il marito Ignazio, uno dei più importanti capitalisti dell’inizio del XX secolo, nella gestione dell’economia della famiglia che possedeva banche, industrie, cantieri navali, fonderie, tonnare, saline, cantine vinicole (il famoso Marsala) e, soprattutto, una delle più grandi flotte europee, la Società di Navigazione Italiana, prima a collegare la Sicilia con il continente e ad attivare rotte transatlantiche regolari tra la penisola italiana e il nord America.   

 

Ignazio e Franca Florio erano una coppia perfetta: giovani, belli, ricchi e generosi, sostennero la maggior parte delle più grandi attività culturali e imprenditoriali della città, consolidando il loro immenso impero economico

Donna Franca si dedicava alle opere umanitarie ed al sostegno 

delle classi sociali disagiate: era una visionaria coraggiosa

 

e decise di realizzare i primi asili nido all’interno degli stabilimenti, tra cui quelli della tonnara di Favignana, per aiutare le donne lavoratrici in difficoltà. 

I coniugi crearono poi una scuola per le giovani lavoratrici analfabete 

della società tessile, un fondo per gli operai bisognosi e l’Istituto dei ciechi 

a Villa del Pigno, il primo del genere ad essere aperto in Italia. 


Si dedicarono anche ad attività culturali come il completamento del Teatro Massimo, dopo oltre venti anni di battaglie burocratiche e accadimenti d’ogni genere: con i suoi 7.730 metri quadrati, è ancora oggi il più grande teatro lirico italiano e il terzo in Europa, dopo l’Opéra di Parigi e lo Staatsoper di Vienna.

Franca aveva un ruolo fondamentale accanto al marito nei salotti mondani 

delle grandi capitali europee, e all’epoca anche Palermo lo era, felice meta 

di regnanti, capi di Stato, artisti, poeti, musicisti e scrittori. 

 

Alta nobiltà e teste coronate furono ospiti dei Florio nella grande villa della vasta proprietà terriera dell’Olivuzza, tra cui i sovrani inglesi, Edoardo VII con la moglie Alessandra, l’arciduca ereditario d’Austria Francesco Ferdinando e lo zar Nicola II, ospite a Villa Florio all’Arenella. Banchieri come Morgan, Vanderbilt e Rothschild arrivavano a Palermo per affari, ma anche per potersi deliziare dell’ospitalità e del grande fascino di donna Franca, e così molti artisti come Pietro Canonica, che ne eseguì una scultura del busto a grandezza naturale, i pittori Boldini e Michetti, letterati come Maupassant, Oscar Wilde e Montesquieu (che le dedicò un’ode), D’Annunzio e Matilde Serao che la definì “divina immagine muliebre”, musicisti da Leoncavallo a Mascagni, Puccini e Wagner, e il tenore Enrico Caruso. Tutti soggiogati dal suo fascino. L’anziano Imperatore Francesco Giuseppe le regalò una tromba identica a quella della sua auto, cosicché lei potesse girare per le strade di Vienna assaporando il rispetto e gli stessi privilegi riservati alla vettura dell’Imperatore.

Si narra anche che una sera, alla Scala di Milano, Arturo Toscanini girò per un attimo le spalle all’orchestra mentre era in corso un applauso, per dirigere il suo inchino verso un palco tra i tanti: era entrata Franca Florio.

 

La sera del 16 maggio 1897, all’inaugurazione del Teatro Massimo a Palermo, si rappresentava il Falstaff di Verdi, ma gli occhi di tutti erano calamitati dal fascino di donna Franca. Il teatro era splendido e immenso, la gente lo ammirava come se fosse un monumento. Eppure la vera attrazione quella sera era lei, avvolta da una stola di zibellino a coprirle parte del bellissimo abito lungo di seta color albicocca che amplificava le luci brillanti emesse dai diamanti della sua parure.   

 

Come ricorda Nello Ajello: “Franca Florio viveva fra cronaca e leggenda. Leggenda erano le sue toilette, la sua servitù, le sue villeggiature, da Saint-Moritz a Beaulieu-sur-mer, i teatri che frequentava e che finanziava, gli yacht su cui navigava, le case che abitava, dalla villa dell’Olivuzza all’appartamento in Villa Igiea alla dimora di Favignana”.

Sono gli anni di massimo splendore, della sfavillante Belle Époque,

 

vissuti senza badare a contenere le enormi spese per gioielli e abbigliamento (donna Franca indossava esclusivamente abiti tagliati per lei dal sarto parigino di origine britannica Charles F. Worth), o a quelle di rappresentanza per ville, servitù e manutenzione di sei panfili, tra cui i lussuosissimi yacht “Sultana” ed “Aegusa”, o per i costosissimi ricevimenti e gli innumerevoli viaggi.   

 

Dopo varie vicende tristi, legate soprattutto alla perdita di tre bambini, fra cui l’unico figlio maschio, il piccolo erede “Baby Boy” sul quale Ignazio aveva riposto tutte le sue aspettative, cala il sipario sulla storia della famiglia: tra la fine degli anni Venti e la metà degli anni Trenta, per la famiglia Florio ci fu il crollo economico. Un destino segnato in parte da scelte sbagliate, forse anche da un tenore di vita esagerato rispetto ai cambiamenti storici e sociali, ma soprattutto da uno sviluppo economico che ha visto favorire l’espansione industriale delle regioni settentrionali rispetto al Meridione d’Italia.   

 

Nel centenario della nascita di Leonardo Sciascia, ecco le sue parole sulla vicenda di Franca Florio:

 

“Una storia proustiana, di splendida decadenza, di dolcezza del vivere, 

di affabile ed ineffabile fatalità”.

 

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FONDAZIONE BANCO DI NAPOLI L’ARCHIVIO STORICO di Orazio Abbamonte – Numero 21 – Giugno-Luglio 2021 – Ed. Maurizio Conte

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FONDAZIONE BANCO DI NAPOLI L’ARCHIVIO STORICO

 

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Presso la sede della Fondazione Banco di Napoli, alla via Tribunali 212, è conservato l’Archivio Storico, giacimento documentario dalla straordinaria importanza. Si tratta d’una tra le raccolte più rilevanti al mondo – poco meno di 100 km lineari di carte – di documentazione relativa ad attività di imprese bancarie d’età moderna. Il più antico atto lì conservato risale all’inizio del secolo XVI; la parte più cospicua della raccolta va dalla fine di quel secolo sino all’Unità d’Italia.

 

Il corpo di maggior pregio della raccolta è costituito dal materiale attestante l’attività creditizia degli otto banchi pubblici napoletani – presso la sede della Fondazione 

era il Monte dei Poveri – istituzioni per lo più formatesi su un nucleo di finalità caritative, all’epoca affidate a congregazioni di aristocratici e religiosi. 

 

Erano principalmente questi i soggetti impegnati a svolgere la funzione solidaristica nei confronti delle fasce più deboli della popolazione, in un contesto istituzionale pubblico che all’epoca si disinteressava quasi del tutto di ciò che oggi verrebbe definita attività di sostegno alla povertà. Anche al fine di procurare la provvista di danaro necessario allo svolgimento dell’assistenza ai deboli e diseredati – ma ovviamente non solo per questo scopo – le congregazioni s’organizzarono ben presto in banchi ed avviarono una fiorente attività nel settore del credito, ideando anche le forme giuridiche e tecniche più appropriate alla circolazione della ricchezza ed al prestito di danaro.

Centrale strumento per rispondere alle necessità della nascente attività bancaria 

fu la cosiddetta ‘polizza’. 

 

Questa, altro non era che il documento con il quale il cliente del banco – colui che aveva cioè depositate a suo nome somme presso di esso, divenendone creditore – poteva disporre del danaro a lui intestato, effettuando così pagamenti e transazioni d’ogni sorta, senza che fosse necessario maneggiare direttamente moneta ed evitando così i rischi e le difficoltà connesse alla diretta gestione del numerario.

Detto in questi termini, però, non s’intenderebbe l’importanza straordinaria dell’archivio dei banchi pubblici napoletani, miniere di conoscenze d’ogni sorta 

circa la storia della Città e del Mezzogiorno in età moderna.


Bisogna anche sapere che, all’epoca, ancora non era invalso il regime di ‘astrattezza’ del titolo di credito. Ciò significava che all’interno della polizza erano indicate, spesso anche con dovizia di particolari, tutte le ragioni della transazione che davano luogo al pagamento. Cosicché leggendo quei documenti, si ottengono informazioni le più varie, sulla vita di singoli e comunità, su storie di artisti, come su vicende matrimoniali, su momenti grandi e piccoli di famiglie aristocratiche come dell’alta borghesia o di semplici artigiani, commercianti, professionisti.

 

Enormi flussi informativi sono a disposizione su atti pubblici, di politica economica, 

di alleanze, guerre, corruzioni, furti, sulla storia sociale e culturale.

 

L’elenco è pressoché sterminato, quanto sterminato è evidentemente l’ambito d’attività d’una banca – in questo caso di otto banche –  la quale costituisce cuore pulsante in qualsiasi comunità, crocevia dove s’incontrano, si scontrano e si compongono gli interessi più vari. Accanto ai grandi temi, ci sono poi anche le notizie minute, di persone e personaggi, della loro vita privata come di quella pubblica, dall’acquisto di un’abitazione, alla costituzione d’una dote, al pagamento delle spese d’un banchetto, al mercanteggiamento di stoffe e vestiti.

Insomma, attraverso le carte di quell’archivio, è possibile ricostruire storie 

non altrimenti conoscibili e soprattutto avere esperienze di vite d’altri tempi,

con le loro caratteristiche, i loro sfondi originali, le loro esigenze in parte distanti dalle nostre, in parte invece espressione di quella continuità ininterrotta che è la vicenda umana, con le sue altezze e le sue bassezze, i suoi balzi, le sue rovinose cadute. 

 

Da alcuni anni, al fine di rendere i contenuti dell’Archivio sempre più ampiamente 

e variamente fruibili, sono in corso due progetti. Da una parte, attraverso l’adesione 

al programma Transkribus è in atto la digitalizzazione del materiale documentario 

e la successiva sua trasformazione in caratteri a stampa, d’agevole lettura.

 

È un processo di ‘traduzione’ che si serve di tecnologie particolarmente sofisticate ed avanzate, grazie al quale, anche eventualmente su specifica richiesta, è possibile avere un accesso enormemente semplificato a quanto si custodisce nell’Archivio: un accesso cioè consentito anche ad utenti non particolarmente edotti di diplomatica e paleografia.

Dall’altra, è attivo ormai da circa otto anni, presso la sede della Fondazione, 

un Museo della documentazione archivistica. Un museo dotato 

di ricco materiale multimediale

 

che permette al visitatore d’entrare in contatto diretto con il contenuto dei documenti, eventualmente interagendo con esso, e di rendersi conto del funzionamento dell’attività bancaria, nonché d’essere introdotto a racconti di vario contenuto ispirati dalle carte conservate nell’Archivio: e d’avere così diretta esperienza d’una varia ed estremamente suggestiva immersione nel passato, del quale potrà letteralmente avvertire il sapore, anche se in precedenza non ne aveva nemmeno il sentore.

 

In sintesi, l’obiettivo che la Fondazione Banco di Napoli s’è prefissa è stato duplice: per un verso, assicurare la conservazione e la più completa fruizione del patrimonio archivistico al novero, relativamente ristretto, degli studiosi professionali; 

per un altro, avvicinare quello stesso patrimonio 

ad un più vasto pubblico d’interessati,

 

in modo da far apprezzare il valore d’una lunga e coinvolgente storia, la storia del Mezzogiorno d’Italia, in ciò aspirando anche a diffondere sensibilità ed avvertenza per il contesto in cui si vive, condizioni non ultime per l’avanzamento della socialità e così della stessa civiltà.   

 

Di recente la Fondazione sta anche sollecitando, insieme ad altri soggetti pubblici e privati, l’intervento della Regione Campania, perché eserciti il potere di prelazione per l’acquisizione del non lontano edificio, un tempo sede del Monte di Pietà, uno degli otto banchi pubblici la cui documentazione è presente nell’Archivio. Ove l’operazione riuscisse, quella sede potrebbe andare a costituire uno dei siti di conservazione della memoria storica napoletana e del Mezzogiorno d’Italia, potenziando la vocazione del quartiere, già sede, oltre che dell’Archivio Storico, dell’Archivio di Stato, del Pio Monte della Misericordia e di vari altri luoghi culturali d’elezione.

 

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MUSICHE E STORIA DI AUTORI LUCANI di Pietro Dell’Aquila – Numero 20 – Marzo-Aprile 2021 – Ed. Maurizio Conte

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MUSICHE E STORIA DI AUTORI LUCANI

 

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Così, per quanto riguarda la Basilicata, possiamo ricordare i rilievi di Diego Carpitella che, al seguito della spedizione di Ernesto De Martino, registra dalla viva voce degli ultimi cantori le testimonianze sonore di una cultura popolare ricca ed antica.

L’attività musicale lucana affonda le sue radici in un imprecisato passato 

di cui resta il segno nelle melodie delle arpi viggianesi risalenti agli inizi 

del Settecento. E dobbiamo agli artisti di strada, emigrati che portarono 

in giro prima per l’Europa e poi negli USA un repertorio di novene 

e canti natalizi originali, la diffusione della nostra musica popolare.

A questi ignoti musicanti e ai loro compagni suonatori d’organetto ha ridato vita in tempi recenti Ambrogio Sparagna, autore di numerose pubblicazioni relative alla tradizione musicale. Non meno importante l’esperienza di Antonio Infantino (1944-2018) che dal 1966 ha recuperato canzoni e musiche popolari riproducendole in versioni attualizzate dal suo notevole estro artistico. La sua scomparsa ha comunque lasciato una scia di allievi che va dai “Tarantolati di Tricarico” a Pietro Cirillo.

 

La posizione geografica del territorio lucano, posta a metà strada 

tra le capitali meridionali, Napoli e Bari, ne ha da sempre condizionato 

i gusti e le ricadute culturali.

 

Pertanto nell’ambito della tradizione musicale classica, fino agli inizi degli anni Novanta, se si esclude l’esperienza del venosino principe Carlo Gesualdo (1560-1614), famoso in ambito internazionale per la sua intensa attività di madrigalista, che interpretò con audacia stilistica utilizzando nuovi cromatismi e modulazioni sonore, i musicisti lucani erano di fatto rimasti nell’ombra. Si deve al maestro Luigi Pentasuglia, docente di musicologia del Conservatorio di Matera la riscoperta e la riproposizione di spartiti e musiche degli autori lucani dal Cinquecento al Novecento.

 

Nel travagliato passaggio dai canoni della musica strumentale polifonica 

di stile franco-fiammingo del ‘500 alle nuove sonorità barocche partecipano 

gli autori lucani: Gregorio Strozzi, Marc’Antonio Mazzone e Giovanni Trabaci.

Le forme poetico-musicali del madrigale trovano variegate assimilazioni nelle canzoni a quattro voci, dette “madrigaletti”, del Mazzone che da Miglionico raggiunse prima Napoli e poi Venezia dove pubblicò gli spartiti delle sue composizioni dedicate al Cavaliero Napolitano Antonio Grisano, nel 1568 e al Duca di Mantova, nel 1570. 

All’affinamento delle tecniche espressive sugli organi, sui cembali e sui clavicembali si dedicò Gregorio Strozzi, nativo di San Severino Lucano, in provincia di Potenza, che fu organista della Chiesa dell’Annunziata di Napoli e insegnante di canto.

 

Più affine all’estetica gesualdina, si rivela Giovanni Maria Trabaci (1575-1647 circa) nato a Irsina e morto a Napoli. Fu celebre organista e direttore della cappella reale di Napoli. Pubblicò raccolte di mottetti, messe e musiche profane. La sua produzione più significativa, tuttavia, resta la musica per organo e cembalo raccolta nei volumi “Ricercate, canzone francese, capricci a quattro voci” del 1603 e il “Secondo libro de ricercate et altri vari capricci” del 1615 di notevole complessità contrappuntistica.   

 

La maggiore produzione musicale, ritrovata e pubblicata in due supplementi al Bollettino della Biblioteca Provinciale di Matera nel 1993, riguarda le “Sei Sonate a Tre op.1” a cura di Angelo Pompilio e i “Minuetti e Contradanze” a cura di Luigi Pentasuglia del musicista materano Egidio Romualdo Duni (1708-1775).   

 

L’edizione, che si avvale di una preziosa presentazione di Giovanni Caserta che

 

inserisce l’attività della famiglia Duni nel complesso quadro della società materana dell’epoca, al bivio tra i resti di una cultura clerico-nobiliare 

e le insorgenti pulsioni illuministiche,

propone gli spartiti di un fine artista che nelle sue peregrinazioni francesi e inglesi è costretto, per motivi di sopravvivenza, a impartire lezioni di musica alle nuove leve di studenti borghesi (presumibilmente giovani gentildonne) alle prime armi nell’approccio agli strumenti musicali.   

 

Di origine familiare piuttosto modesta, Egidio Romualdo Duni fu avviato agli studi ecclesiastici insieme ai suoi fratelli. Naturalmente non gli mancò una robusta istruzione musicale. Tra i suoi fratelli, sacerdoti e musicisti, si distinsero prima Giacinto e poi Saverio ed Emanuele per la loro attitudine filosofica e giuridica sebbene d’impianto e stampo naturalistico.

 

Egidio, a soli nove anni, fu mandato a Napoli per studiare musica,

 

prima al Conservatorio di Santa Maria di Loreto e poi a quello della Pietà dei Turchini e, quindi, a quello dei Poveri di Gesù Cristo, da dove uscì Maestro di Cappella dopo aver avuto maestri del calibro di Pergolesi e Traetta. A solo ventiquattro anni musicò la sua prima opera (Artaserse) cui seguirono diverse altre (Baiarte, Nerone, Adriano in Siria, Demofoonte, Catone in Utica) con i versi di Pietro Metastasio. Seguirono numerosi spostamenti che lo portarono a Roma, Milano, Londra, Leida, Vienna e Firenze, componendo opere di musica sacra e alcuni oratori.

 

Intorno al 1789 approda a Parma, alla corte di Filippo di Borbone, dove s’imbatte 

con l’opera tragica e comica francese rappresentata da Carlo Simone Favart 

e Luigi Anseaume e soprattutto fa la conoscenza di Carlo Goldoni che avrà 

profonda influenza sulla sua successiva produzione artistica.  

A registrare l’incontro a Colorno, dove si erano recati entrambi per motivi di salute, è lo stesso commediografo veneziano nelle sue “Memorie” ritraendo Duni oltre che come musicista anche come uomo d’ingegno, di brio e di conoscenze letterarie.

 

Tra il 1756 e il 1757 Egidio Duni arriva a Parigi, patria e magnete degli artisti 

e degli intellettuali dell’epoca, dove sarà raggiunto da Goldoni e conoscerà 

Diderot e Gian Giacomo Rousseau.

 

In Francia il musicista materano rimarrà fino alla sua morte. Quivi musicherà numerosi testi tra i quali “La figlia malvista”, “La campanella”, “L’isola dei pazzi” e “Gli zoccoli” che furono molto apprezzati dal pubblico e dalla critica francese.   

 

In tempi più recenti hanno operato: Michele Carafa principe di Colobraro (Napoli 1787-Parigi 1872), Francesco Stabile (Miglionico 1801-Potenza 1860), Vincenzo Ferroni (Tramutola 1858 – Milano 1934), il tursitano Carmelo Antonio Bruno (1938-2016), Otello Calbi (San Mauro Forte 1917- Roma 1994) e l’irsinese Giuseppe Mascolo (1927-1974).

 

Del principe Carafa si sono occupati Luigi Pentasuglia ed Ernesto Pulignano pubblicando gli spartiti della “Collezione di Cavatine Italiane per canto e pianoforte” nel 1996 nel Supplemento al Bollettino della Biblioteca Provinciale di Matera.


L’alto lignaggio consentì al Carafa di muoversi con disinvoltura nell’ambiente parigino entrando nell’orbita di Cherubini e Rossini con canti e melodie originali ed eleganti, orchestrate con cura, e destinate più che ai teatri ai salotti della buona società parigina.   

 

Francesco Stabile, figlio di un latifondista potentino, dopo gli studi giovanili napoletani presso la prestigiosa scuola dello Zingarelli e nonostante il successo della sua prima composizione operistica (Palmira), preferì ritirarsi a Potenza sia per curare gli affari di famiglia dopo la morte dei genitori che per sfuggire alle contrapposizioni feroci coi colleghi del capoluogo campano tra cui, forse, anche il Bellini.

Le composizioni musicali del Carafa e dello Stabile, comunque, non si discostano dalla tipica tecnica costruttiva delle musiche in esecuzione presso il Conservatorio 

di Musica napoletano, caratterizzate da una limpida e ripetitiva grazia armonica.


La vicenda artistica di Vincenzo Ferroni si svolge prima a Parigi, dove completa gli studi con Massenet, e poi a Milano tra composizioni prima di stile wagneriano e poi di tipo nazionalistico. La sua composizione più celebre resta la “Fantasia Eolica” del 1916 che sembra preludere alle arie espressionistiche. 

Docente di armonia complementare presso il Conservatorio materano, Carmelo Antonio Bruno, allievo del maestro Nino Rota, nei suoi “Tre movimenti per pianoforte a quattro mani” del 1991 ripropone con originalità ritmi melodici minimalisti di straordinaria forza espressiva. Il compositore e critico musicale Otello Calbi, maestro presso il Conservatorio di Napoli, ha dedicato prevalentemente il proprio impegno alla produzione musicale per chitarra. Vanno ricordate le sue composizioni “C’era una volta” del 1976 e il “Canone per due chitarre” del 1881 che superano le classiche tipologie “segoviane” per iscriversi in una nuova letteratura chitarristica. 

Quasi a omaggiare un genere di musica che da sempre cerca di coniugare il genere classico con il gusto folclorico e popolare ricordiamo, in chiusura, il maestro Giuseppe Mascolo che ha composto meritoriamente arie per Bande da Giro tra cui il “Fascino esotico” del 1954.

 

Gran parte dei brani citati sono stati registrati e pubblicati in tre Compact Disk 

dal Gruppo Musicale “Ensemble Gabrieli”, purtroppo in edizione limitata 

e ormai di difficile reperimento.

 

Concerti si sono tenuti, oltre che presso il Conservatorio di Matera, al Ramapo College e all’Indian Trail Club nel New Jersey (USA) nonché nella prestigiosa sede dell’”Église de Saint Eustache” a Parigi rispettivamente nell’ottobre e dicembre 1997.

 

All’interno dei processi di omologazione e globalizzazione in atto, le identità culturali si vanno progressivamente sgretolando nonostante la sete di passato che ormai, paradossalmente, ci appare come l’unico futuro possibile. Pertanto sono significative tutte le ricerche e i tentativi di recupero e valorizzazione dei tratti distintivi delle tradizioni regionali che pure hanno trovato spazio a partire dagli anni Cinquanta.

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