AGNONE E L’ANTICA TRADIZIONE DEI FONDITORI DI CAMPANE – Gemme del Sud – Numero 25 – Luglio agosto 2022 – Ed. Maurizio Conte

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AGNONE E L’ANTICA TRADIZIONE DEI FONDITORI DI CAMPANE

 

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         Agnone (IS)

 

Ad Agnone, in provincia di Isernia, si tramanda ancora oggi l’antica arte di produrre campane in bronzo, con la tecnica a stampo, che affonda le radici nel Medioevo, quando la metallurgia in questo campo raggiunse alti livelli di esecuzione. 

 

L’utilizzo delle campane a fini funzionali ha una storia millenaria. Già in epoca classico-pagana se ne trovano testimonianze, ma è con il Cristianesimo che questo oggetto assunse una valenza simbolica molto forte, divenendo un elemento sacro destinato ad accompagnare la liturgia e a scandire i momenti di vita di un’intera comunità. 

 

Questa produzione sopravvive ad Agnone nella Pontificia Fonderia Marinelli che rappresenta, in territorio molisano, l’ultima fabbrica a mantenere intatta questa tradizione artigianale con prodotti che, anche nella decorazione, sono unici nel suo genere.

 

Fondata probabilmente intorno all’XI secolo, la Fonderia Marinelli è considerata 

una delle più antiche in Italia e nel mondo e, a conferma del suo valore, 

dal 1924, per volere di Papa Pio XI, può fregiarsi 

dello Stemma Pontificio. 


I Marinelli, mettendo in pratica conoscenze tramandate per generazioni, che escludono l’utilizzo di moderne tecnologie, ancora oggi danno vita ad un prodotto di altissima qualità, richiesto in tutto il mondo. Assistere alla nascita di una nuova campana, dove ogni gesto, scandito da preghiere, deve essere eseguito alla perfezione per non vanificare mesi di lavoro, è tornare indietro nel tempo, rivivere un rituale antico ed immedesimarsi nell’affascinante mestiere di fonditore.

 

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PARCO AYMERICH UN’OASI NEL CUORE DELLA SARDEGNA – Gemme del Sud – Numero 25 – Luglio agosto 2022 – Ed. Maurizio Conte

 

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PARCO AYMERICH UN’OASI NEL CUORE DELLA SARDEGNA

 

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           Laconi (OR)

 

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Il Parco Aymerich di Laconi, piccolo borgo tra Oristano e Nuoro, è il più grande parco urbano della Sardegna, un vero e proprio giardino botanico di circa 22 ettari appartenuto fino al 1990 alla famiglia Aymerich, feudatari del paese. 

Autore dell’originale riserva naturale, a partire dal 1830, fu don Ignazio Aymerich Ripoll, senatore del Regno d’Italia e appassionato collezionista 

di piante esotiche e rare, 

 

che cominciò ad importare dai suoi numerosi viaggi. 

 

Il Parco offre suggestivi sentieri naturalistici tra boschetti di lecci, carrubi, magnolie, olivastri, pini della Corsica. Di particolare interesse è la presenza di numerose specie di orchidee e quella, imponente, di un cedro del Libano, piantato nel 1835 quando aveva pochi anni, che oggi ha raggiunto un’altezza di 25 metri e una circonferenza di 415 cm. 

 

L’acqua è tra le maggiori attrazioni del Parco: abbondante in tutte le stagioni, crea spettacoli davvero insoliti per una regione come la Sardegna, notoriamente arida. Molto bella la Cascata Maggiore con i suoi 12 metri d’altezza.

Disseminate tra la vegetazione si possono ammirare diverse grotte 

e cavità naturali, la cui importanza è legata a vicende storiche: 

 

durante la Seconda Guerra Mondiale Laconi, come molti altri paesi sardi, accolse gli sfollati cagliaritani che fuggivano dai bombardamenti delle forze alleate che si abbatterono nel 1943 sulla città e il marchese Aymerich aprì il parco per offrire loro ricovero. 

 

Di grande suggestione, poi, sono le rovine del castello medievale, costruito nel XIII secolo. L’edificio presenta una sala principale dove è possibile vedere alcune sedute in pietra ed una bellissima finestra gotica che offre un panorama meraviglioso. 

 

Dal luglio del 1990 il Parco di Laconi è di proprietà della Regione Autonoma della Sardegna che l’ha acquistato dalla famiglia Aymerich.

 

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LA CHIESETTA DI PIEDIGROTTA A PIZZO – Gemme del Sud – Numero 25 – Luglio agosto 2022 – Ed. Maurizio Conte

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LA CHIESETTA DI PIEDIGROTTA A PIZZO

 

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           Pizzo (VV)

A pochi passi dal meraviglioso centro storico di Pizzo (VV), alla base di una collinetta che si affaccia sulle acque cristalline della spiaggia di Prangi, sorge una piccola chiesa interamente scavata nella roccia, uno dei tesori più suggestivi e incantevoli di tutta la Calabria.

La storia della Chiesetta di Piedigrotta è legata ad un’affascinante leggenda, tramandata di generazione in generazione, che narra del naufragio 

di un vascello con equipaggio napoletano 

avvenuto verso la fine del 1600.


Sorpresi da una violenta tempesta, i marinai si raccolsero nella cabina del Capitano dove era custodito il quadro della Madonna di Piedigrotta e tutti insieme iniziarono a pregare facendo voto alla Vergine che, in caso di salvezza, avrebbero eretto una cappella a Lei dedicata. La nave si inabissò e i marinai superstiti riuscirono a raggiungere a nuoto la riva. Insieme a loro, si salvarono anche il quadro della Madonna di Piedigrotta e la campana di bordo datata 1632. Decisi a mantenere la promessa fatta, scavarono nella roccia una piccola cappella e vi collocarono la sacra immagine. Ci furono altre tempeste e il quadro, portato via dalla furia delle onde che arrivavano fin nella grotta, fu sempre rinvenuto nel luogo dove il veliero si era schiantato contro gli scogli. 

 

La facciata della chiesetta è molto semplice, mentre 

l’interno offre uno spettacolo davvero unico e suggestivo. Lo spazio si divide 

in tre grandi grotte, popolate di personaggi sacri 

che prendono forma dalla roccia.


Fu Angelo Barone, artista di Pizzo Calabro, a dare alla cappella il suo aspetto attuale: a partire dal 1880 dedicò tutta la sua vita a questa chiesetta, ingrandì la grotta originaria, creò le due grotte laterali e scolpì molte delle figure di Santi e delle scene sacre. Alla sua morte, nel 1917, il figlio Alfonso continuò la sua opera per altri quarant’anni. La chiesetta, deturpata da atti vandalici, venne restaurata alla fine degli anni Sessanta da un loro nipote, Giorgio, anch’egli scultore.

 

 

 

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LA CATTEDRALE DI SAN PIETRO APOSTOLO – Gemme del Sud – Numero 25 – Luglio agosto 2022 Ed. Maurizio Conte

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LA CATTEDRALE DI SAN PIETRO APOSTOLO

 

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                Isernia

 

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Vuò un luogo cristiano sorgere dalle ceneri di un tempio pagano? 

 

Sì. Lo dimostra la città di Isernia che, con una delle sue opere architettoniche più importanti, è riuscita a sintetizzare questi due elementi, facendoli divenire parte di un’unica realtà. 

 

In piazza Andrea d’Isernia, nel cuore del centro storico della città, fondata nel 264 a.C., si impone maestosa la Cattedrale di San Pietro Apostolo: di architettura neoclassica all’esterno e barocca all’interno, si erge su quel che resta del tempio dedicato dai Romani alla triade capitolina (Giove, Giunone e Minerva). 

 

Oggi, di tale tempio rimane il podio in travertino, che è il basamento della cattedrale, e la struttura della facciata, che si presenta con frontone, trabeazione e colonne in capitello ionico disposte a formare cinque campate.

Appena varcata la soglia dell’edificio, da subito si percepisce l’atmosfera del luogo, che sembra racchiudere tra le sue mura una moltitudine 

di avvenimenti susseguitisi nel tempo..

 

La triade capitolina ha conservato il suo spazio nonostante il susseguirsi degli eventi storici e naturali, e la cattedrale cristiana, edificata a seguito della dominazione bizantina dell’area, ha conservato la disposizione del precedente tempio, con abside a sud in corrispondenza delle naos dedicate ai tre dèi pagani. 

 

Il susseguirsi di fenomeni naturali, come gli smottamenti sismici, e umani, come i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, hanno conferito al luogo l’aspetto che ha oggi. 

 

Nel tardo Medioevo, infatti, la cattedrale è stata completamente ricostruita a causa di un crollo

L’opera fu modificata tanto che l’ingresso venne spostato nella piazza del mercato, concentrando così l’attività cittadina in un unico luogo. 

 

LNel 1769, poi, fu realizzata la cupola. Tuttavia, la forza distruttiva umana e quella naturale non hanno scalfito la sua essenza, tanto che scavi archeologici eseguiti nelle varie opere di restauro hanno consentito di «scovare un tesoro apparentemente segreto»: sono stati portati alla luce ulteriori resti dell’antico tempio pagano che, oggi, è possibile ammirare nella cattedrale attraverso la pavimentazione di vetro. A testimonianza del fatto che la sacralità riesce ad esprimere la sua essenza, e le sue molteplici forme, come parti di un’unica realtà

 

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LA TARGA FLORIO di Gaia Bay Rossi – Numero 25 – luglio agosto 2022 Ed. Maurizio Conte

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LA targa florio

 

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allineate sulla linea di partenza. La tensione era alta da giorni, tutti si rendevano conto che quella competizione, la Targa Florio, sarebbe entrata nella storia. 

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Era il 1906 e quella era una delle prime gare automobilistiche al mondo, basti pensare che la Mille Miglia sarebbe nata circa vent’anni dopo, nel 1927.   

 

La cosa più incredibile è che si disputò nella Sicilia di quegli anni, e lì si svolse anche in tutte le 60 edizioni successive. 

Ancora una volta la Sicilia, nonostante l’arretratezza dovuta ai molti fattori 

che non stiamo qui ad indagare, era in testa al mondo,


stavolta non per la ricchezza della sua arte, per la sua cultura multiforme, per la sua storia millenaria, per la sua incredibile biodiversità, ma per uno sport e per l’organizzazione di un evento che, così strutturato, in Italia non si era ancora mai visto.

Il luogo esatto erano le Madonie, una piccola catena montuosa nella parte Nord Occidentale della Sicilia che, come tutti i luoghi montani, aveva strade strette e tortuose, adatte più ai carretti che non a rombanti automobili. Solo un grande siciliano appartenente ad una famiglia fuori dal comune avrebbe potuto ideare e organizzare una simile competizione. Lui era Vincenzo Florio junior, figlio del senatore Ignazio Florio e di Giovanna d’Ondes Trigona, nonché cognato della “regina di Palermo” Franca Florio, moglie di suo fratello Ignazio jr. Ma facciamo un passo indietro e vediamo cosa stava succedendo in quegli anni a Palermo. 

La famiglia Florio, che ormai molti di voi hanno conosciuto anche grazie 

agli apprezzatissimi romanzi della trapanese Stefania Auci 

era, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, 

una delle famiglie più ricche dell’Italia 

della Belle Époque,


famosa in tutta Europa e molto oltre. Tra i loro amici vi erano capi di Stato e reali, politici di vario genere e grado, banchieri internazionali, e poi anche i rappresentanti più importanti della vita culturale dell’epoca, con pittori, artisti, musicisti, scrittori che entravano e uscivano dalle loro meravigliose case e dalle loro vite, lasciando sempre traccia di sé. 

Ad un certo punto, in mezzo all’immenso impero dei Florio,


che andava dalla Navigazione Generale Italiana (seconda più grande compagnia di navigazione del Mediterraneo), alle tonnare (con loro si ebbe per la prima volta la conservazione del tonno sott’olio con relativo inscatolamento), dalle cantine di Marsala, a Villa Igiea a Palermo (capolavoro dell’hôtellerie di lusso), dal Cantiere Navale di Palermo, nato per supportare l’attività della loro acciaieria, alle banche,

 

arrivarono anche le gare automobilistiche, che si affiancarono al resto.


Vincenzo Florio jr. poco più che adolescente, percorse la strada che tanto lo appassionava e iniziò a guidare auto sportive, partecipando a qualche piccola gara amatoriale. Nel 1905, ideò il nome di “Coppa Florio” per una gara automobilistica da lui organizzata e finanziata, che si svolgeva già dal 1900 a Brescia ma che assunse la denominazione di “Coppa” perché Vincenzo aveva deciso di istituire, oltre al premio di 50 mila lire, anche una coppa d’argento, opera di un suo amico orafo francese, alla Casa costruttrice che avesse vinto più volte nel corso di sette edizioni. Questa avventura lo catapultò definitivamente nell’idea delle gare sportive, dedicandosi con entusiasmo alla creazione di una nuova competizione da svolgersi sulle Madonie.   

 

Vincenzo disegnò il percorso a Parigi, aiutato da Henri Desgrange, direttore della famosa rivista francese “L’Auto”. Il percorso, come dicevamo, era molto complesso e difficile, poiché si snodava in quelle strade montane piene di curve che collegavano i vari Comuni della dorsale per 146 km e 900 metri. Vincenzo.

Florio stava dando vita ad una competizione che, proprio per queste difficoltà 

di tracciato, era destinata ad entrare nell’immaginario collettivo 

e a divenire leggenda.

Torniamo quindi a quel 6 maggio del 1906 con le automobili rombanti sul nastro di partenza di un circuito che avrebbero dovuto ripetere tre volte. Gli equipaggi erano: cinque Itala, una Fiat, due Bayard-Clement, una Berliet e una Hotchkiss. Di queste riuscirono a tagliare il traguardo solamente sette, tenendo conto che le auto dei due francesi furono bloccate da un incredibile errore della loro squadra: al rifornimento, il pieno fatto fu d’acqua e non di carburante. 

Vinse il torinese Alessandro Cagno su una Itala e, per coprire l’intero percorso, impiegò circa 9 ore e mezza ad una media di 46,8 km orari, distaccando di oltre mezz’ora il secondo classificato. Il premio in palio fu, oltre alla cifra di trentamila franchi in oro, una targa in oro massiccio in stile Liberty, creata per la gara da René Lalique e consegnata al vincitore direttamente dalle mani di donna Franca, la cui presenza all’evento, già da sola catturava l’attenzione degli spettatori e di tutto il bel mondo presente. 

Lalique firmò anche la targa dell’anno successivo e poi altri artisti firmarono 

i premi di successive edizioni: come Duilio Cambellotti, autore della targa del 1908 

e poi anche le illustrazioni di Terzi, Dudovich, Marinetti, De Maria, Gregorietti.


Il quartier generale della manifestazione era a Termini Imerese al Grand Hotel delle Terme, costruito a fine Ottocento in stile neoclassico dal noto architetto Giuseppe Damiani Almejda, che aveva appena terminato il teatro Politeama di Palermo. Lì vi alloggiavano sia i piloti con le Case costruttrici, sia la Palermo bene, e tutti insieme prima della gara impegnavano il tempo organizzando lussuose feste.

Migliaia di persone raggiungevano Termini Imerese con ogni mezzo a disposizione, dalle automobili alle carrozze, dai carretti siciliani ai numerosissimi treni speciali 

che partivano dalla stazione di Palermo.


Una delle gare automobilistiche più antiche del mondo era nata in Sicilia e il successo che seguì fu un successo per entrambi, per Vincenzo Florio e per la Sicilia stessa e la sua promozione turistica. Inoltre, 

grazie all’idea del giovane Florio venne fondato l’Automobile Club di Sicilia, 

il Giro d’Italia decise di includere nelle sue tappe anche la Sicilia, 

e a Palermo fu inaugurato il primo cinema.


Vincenzo morì il 6 gennaio del 1959, senza figli nonostante avesse avuto due mogli. La sua unica vera “figlia” riconosciuta fu così la Targa Florio, di cui disse: “Continuate la mia opera, perché l’ho creata per sfidare il tempo”. La Targa Florio classica si disputò dal 1906 al 1977 come gara automobilistica di durata, divenendo in seguito una gara rallistica con il nome di “Rally Targa Florio”, ma questa è un’altra storia.

Nel 1955 e nel lasso di tempo dal ‘58 al ’73, ha fatto parte del gruppo 

di gare titolate ai fini dei “Campionati Internazionali o Mondiali riservati 

alle vetture Sport o Gran Turismo”, ottenendo sempre maggior popolarità 

e ospitando piloti di fama e importanti Case costruttrici.

Incontriamo Giuseppe Calvaruso, un’appassionato ed entusiasta spettatore della Targa Florio dal 1970 al 1977, che ci racconta cosa volesse dire in quegli anni “vivere” questo evento: 

“I miei primi ricordi della Targa Florio risalgono al 1970 quando, quattordicenne con gli zii andammo a vedere la mitica competizione, e poi ci tornai ogni anno fino alla definitiva chiusura. Gli occhi del nostro narratore brillano, mentre mi racconta delle centinaia e centinaia di curve che le automobili dovevano affrontare in “un circuito di circa 72 Km. da fare 11 volte, che toccava vari paesi nel pieno della campagna siciliana, sfiancante per i piloti e stressante per i bolidi da corsa, e il più delle volte solo la metà dei partecipanti riusciva a tagliare il traguardo”.  Con l’entusiasmo di chi si sente un privilegiato, ci spiega che 

“la corsa, anzi “a cursa” come veniva chiamata dai siciliani, era valida 

per il Campionato Mondiale Marche che annoverava gare come 

la 24 Ore di Le Mans o la 12 Ore di Daytona e richiamava 

oltre 500.000 spettatori che arrivavano da ogni dove.


Il Campionato Mondiale Marche era importante come la Formula 1. Immaginatevi per noi Siciliani il piacere e l’orgoglio di vedere correre sulle nostre strade piloti famosi come Hill, Rodriquez, Bandini, Siffert, Redman, Elford, Stommelen, ecc. e ancora negli anni piloti mitici come Nuvolari, Achille Varzi, Taruffi, lo stesso Enzo Ferrari, Giunti, Merzario, De Adamich. Il giorno della gara ti rendevi conto dell’interesse che suscitava, centinaia di auto dell’epoca (le fiat 127, le Cinquecento, le 850) sparse lungo i bordi del percorso. E poi le storie e gli aneddoti che venivano raccontate da chi c’era già stato negli anni precedenti, e noi a bocca aperta ad ascoltare le storie e le gesta dei piloti più famosi. Che festa in quelle campagne, quanta gente con tanta passione per quei prototipi che, dal rumore in lontananza, già avvertivano chi stava arrivando:
“Chista (questa) è la Ferrari di Vaccarella, no è una Alfa Romeo 33, no è la Porsche di Siffert. Negli anni ’70 la Targa Florio mi vide sempre presente fino al 1977, per l’ultima volta.” 

Infatti, Nonostante fosse una gara abbastanza sicura, tanto che, per questo, 

Vincenzo Florio ai suoi tempi l’aveva definita “la gara più lenta del mondo”, 

anch’essa vide presentarsi il conto di morti e feriti, 

sia tra i piloti che tra il pubblico.


E, dopo alcuni incidenti più o meno gravi, nel 1977 durante la 61esima edizione, si replicò l’incidente avvenuto venti anni prima nella Mille Miglia.   

 

In un tratto subito successivo ad un rettilineo, gli spettatori furono travolti dalla macchina di Gabriele Ciuti, uscita di pista: due morti e tre feriti gravi. La gara fu sospesa e il risultato conteggiato al termine del quarto giro, sugli otto totali. Così finiva la Targa Florio.

 

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GARGANO POTENZIALITA’ E PROPOSITI di Luigi Ianzano – Numero 25 – luglio agosto 2022 – Ed. Maurizio Conte

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GARGANO POTENZIALITA’ E PROPOSITI

 

Il Gargano, come altre province meridionali, è territorio culturalmente fertile.Per sua natura, condivide con esse anche una certa fatica nel crederci, nel prendere coscienza delle proprie potenzialità, della propria identità caratterizzante. Stenta, perciò, al decollo.  

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Un esame attento della realtà lascia trapelare, in sostanza, accanto ad aspetti positivi e promettenti, solitudini operative, sclerotizzazione di spazi culturali, logiche municipalistiche, che convivono con considerazioni spesso anacronistiche, visioni banalizzanti, immagini da cartolina, narrazioni fosche, presagi di abbandono o morte certa di un territorio che, però, può offrire più di quanto si possa immaginare.

 

Eppure fino a un passato non troppo remoto, le eccellenze umane hanno prodotto non pochi lavori di conoscenza e di divulgazione di un patrimonio paesaggistico, botanico, archeologico e naturalistico di ragguardevole rilevanza. 

Fin dagli albori delle scienze naturali l’interesse per questo prezioso sperone d’Italia 

è stato premiato da scoperte notevoli.


Nomi noti e meno noti, come Andrea Mattioli, Luigi Anguillara, lo stesso, famosissimo Linneo, hanno contribuito a far conoscere rarità, endemismi, gemme presenti solo o soprattutto sul Gargano.   

 

Tutta questa fioritura di interesse e di conoscenze è proseguita nell’ottocento e durata fino alla prima metà del novecento con studiosi, naturalisti e ricercatori nati e vissuti in loco, come Michelangelo Manicone e Giuseppe del Viscio, quest’ultimo il primo a far conoscere la presenza sul Monte Pucci di una necropoli paleocristiana dall’architettura originale e sofisticata e ricca di sepolture che solo con le odierne campagne di scavi oggi stanno rivelando tesori antropologici e paleontologici di enorme interesse storico e culturale. Sono la testimonianza di una insospettata vita comunitaria ricchissima nell’area sviluppatasi soprattutto dopo la caduta dell’Impero Romano. 

Dopo la seconda guerra mondiale la stasi, con rare eccezioni, come i saggi di Michele Vocino, e gli studi di Filippo Fiorentino, docente e umanista, che alla divulgazione dei tesori paesaggistici e culturali del Gargano dedicò gran parte della sua vita, non soltanto professionale, avversando la riduzione a pubblicità da depliant della storia e della prorompente bellezza paesaggistica della Montagna del Sole.

Tante e più che mai impellenti, oggi, le poste in gioco: dalla biodiversità 

agli ecosistemi, dallo sviluppo sostenibile ai modelli innovativi di impresa e consumo, dai sistemi di comunicazione ai modelli educativi, dal turismo sostenibile alla qualità della vita, dall’economia circolare al cambiamento climatico, all’alimentazione, 

allo spreco, alla tutela dei beni storici, artistici, religiosi, archeologici, 

alla conservazione del patrimonio linguistico.


Una complessità che può essere efficacemente e realisticamente fronteggiata solo con una convinta e partecipata opera di integrazione dei saperi, attraverso le lenti della ricerca scientifica e della riflessione umanistica, con spirito di apertura, arricchimento, accettazione delle diversità, approccio integrato agli studi. 

Per questa via si può tracciare un percorso comune ai vari approcci 

della conoscenza e perseguire una conoscenza olistica, 

dove il capitale umano assurga a ricchezza da preservare 

e le eccellenze del territorio divengano forze attive,


capaci di coniugare i valori fondanti dell’umanesimo con le nuove visioni e le sfide del mondo contemporaneo.   

 

In questo frangente, una proposta di ritrovo e confronto tra professionisti dei vari campi del sapere (scientifico, tecnico, umanistico, giuridico, economico e sociale) fa ben sperare, con interessanti e promettenti percorsi di condivisione, studio e ricerca finalizzati alla conservazione e allo sviluppo delle conoscenze caratterizzanti (culturali, sociali, storiche e scientifiche). 

Un progetto tanto necessario quanto ambizioso lanciato lo scorso giugno 

nella baia Calenella, nota località del comune di Vico del Gargano, 

dove sono confluite numerose personalità di ogni ramo 

del sapere scientifico ed umanistico.


Si è sottoscritta una carta di intenti e dato allo stesso sodalizio il nome di ‘Carta di Calenella’. L’obiettivo, certo ambizioso, è ben fondato: non disperdere le intelligenze che possono cogliere i fermenti di cui la provincia meridionale ha bisogno, attraverso un’offerta culturale (convegni, seminari, pubblicazioni, premi, borse di studio) nella quale ognuno possa farsi protagonista in rapporto alle personali professionalità ed esperienze, con i giusti propositi di dialogo con le istituzioni e la saggia apertura alle giovani voci emergenti dal territorio.   

 

Un fronte comune che promette bene, a considerare le primissime occasioni di incontro e condivisione. Un’impresa edificante che sa di efficace rilancio, che lascia aperte le porte di un favorevole riscatto.

 

 

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TRICARICO UNA STORIA MILLENARIA di Pietro Dell’Aquila – Numero 25 – luglio agosto 2022 Ed. Maurizio Conte

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TRICARICO UNA STORIA MILLENARIA

 

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C’è un paese che conosce “baldorie di venti”, come dice un poeta, un borgo che somiglia ad un treno con la sua Torre Normanna per ciminiera. È una cittadina arroccata sulle colline dell’alto materano. Non si sa bene quando abbia avuto origine. Qualcuno l’ha chiamata Torregreca, qualcun altro Torregrupata. Tricarico, il suo nome vero, e non si sa da che cosa derivi. Ipotesi fantasiose la vogliono fondata addirittura dagli Ausoni dopo il diluvio universale da un nipote di Noè; altre leggende ne attribuiscono l’origine ai popoli di Trica ed Argo – dai quali la sua denominazione – scampati all’eccidio di Troia e guidati da Diomede. Nel suo antico stemma un bue su tre colli; allora è possibile, piuttosto, che sia la città dei tre monti. 

 

A poca distanza dall’attuale sito, da una parte sotto il monte della Serra, i resti di un villaggio indigeno con resti di fornaci, scoperto durante i lavori di adduzione del gas, e dall’altra ad una decina di chilometri in località Fonti, su di un’ampia radura, la Civita, rovine di un castro romano fortificato del IV secolo avanti Cristo a difesa di masserie sparse sul territorio che rifornivano di derrate agricole l’Urbe.

Il primo documento che certifica l’esistenza della cittadina 

è una Convenzione dell’anno 849 tra Schinolfo, principe di Salerno, 

e Redalgiso duca di Benevento.


Il paese è incluso nel gastaldato di Salerno che gravitava nell’orbita longobarda. Di seguito Liutprando da Cremona ci dice della decisione del patriarca Poliedro di Costantinopoli nel 968 di autorizzare l’arcivescovo di Otranto a consacrare i vescovi suffraganei tra i quali quello di Tricarico. Il vescovo Santonio (Visita pastorale del 1585) riferisce che Arnoldo Godano, vescovo di Acerenza, nel 1060, in una sua controversa “Bulla” indirizzata al suo omologo tricaricese Arnaldo, descrive la diocesi di Tricarico, ne indica i confini, i privilegi e ne certifica il passaggio dal rito greco a quello latino. 

 

Insomma,

una millenaria storia di vescovi e di clero che hanno segnato le vicende 

della cittadina attorno alla curia, alla cattedrale, al seminario fondato 

ai primordi del Seicento ed alla miriade di chiese 

e conventi tuttora esistenti.


Accanto ad essi, e lungo le vie “processionali”, una serie di palazzi nobiliari di ricchi agrari e facoltosi borghesi (notai, giudici e avvocati), circondati dagli stambugi dei “cafoni” (braccianti e contadini poveri più o meno addetti al servizio dei potenti) che si addensavano anche nei rioni sottostanti della Rabata e della Saracena, come risulta da una bella stampa del Cinquecento edita ad Amsterdam da Johannes Blaeu. In quel periodo Tarquinio Ronchi, professore di Diritto Canonico, fondò il Monte Frumentario con cui si prestava il grano per la semina ai contadini bisognosi e i terreni di proprietà del Capitolo venivano loro concessi in enfiteusi a prezzi particolarmente modici. Ughelli, nella sua Storia Sacra, annota che al quinto Concilio Lateranense promosso da Giulio II nel 1512 “Qualcuno era pure noto per le capacità culturali, tale fu il veronese Lodovico Canossa, erudito presule di Tricarico”. Ma, in seguito, non mancarono voci dissonanti che si collocavano nell’ambito della riforma protestante come quella del “minore osservante Angelo Castellana da Tricarico, accusato di adesione al luteranesimo e lungamente detenuto, persistendo nei suoi errori, fu poi degradato il 15 agosto 1584 e rilasciato al braccio secolare”.

Per dire dell’importanza e della vivacità culturale della cittadina, 

lo storico napoletano Camillo Ranieri Riccio riporta che nel 1613 

venne stampato a Tricarico il primo libro edito in Basilicata ad opera 

di Giovan Giacomo Carlino su commissione di Monsignor Roberti.


L’opera era stata scritta dallo stesso vescovo per celebrare le virtù di Suor Francesca Vacchini della quale era il confessore. Nel corso del Seicento i pittori Pietro Antonio Ferro e Cesare Sciarra produssero i loro affreschi nella cappella del Crocifisso del convento di Santa Chiara, nella chiesa del Carmine e nel chiostro del convento di Sant’Antonio.

La lunga fase di cristianizzazione e la connessa ininterrotta presenza clericale, 

a parere di illustri antropologi che hanno studiato persistenze 

e cesure degli elementi pagani nei costumi 

e nelle espressioni locali,


hanno evidenziato una maggiore attenuazione degli elementi orgiastici originali nelle tradizioni popolari dei centri curiali rispetto ai luoghi più distanti e periferici. Tali manifestazioni si rivelano con maggiore evidenza nelle festività carnevalesche, più morigerate o dissimulate nei paesi con sedi vescovili dove, pur conservando la matrice primigenia, si sono contaminate ed impregnate di contenuti religiosi depurandosi dalle antiche volgarità fescennine. Ad esempio le maschere di Tricarico che, imitando la transumanza di vacche e tori con annesse simulazioni di monta al suono assordante dei loro campanacci, avviano il loro percorso per le vie dell’abitato dopo aver reso omaggio a Sant’Antuono Abate, patrono dei suini, realizzando tre giri intorno alla sua chiesetta posta ai margini del borgo. 

 

Nella lunga sequela dei vescovi che hanno guidato il gregge pastorale tricaricese emergono, oltre ai già citati, i Carafa, Zavarrone, De Plato, Pinto, Spilotros, Onorati, Pecci e Fiorentini.

Agli inizi del Novecento, ad opera del Reverendo Giovanni Daraio, 

si costituiva l’Opera Pia “Confraternita di Sant’Antonio di Padova” 

che si prefiggeva l’obiettivo di aiutare e sostenere 

i meno fortunati ed i poveri della comunità.


Si devono a questo sacerdote diverse pubblicazioni sulla storia del paese e della diocesi pubblicate nel New Jersey, dove si era recato per assistere i nostri emigranti. Ne continuò l’azione pastorale Don Pancrazio Toscano che, sempre accanto alla chiesa di Sant’Antonio, fondò l’ospizio per l’assistenza ai poveri, ai vecchi e ai derelitti. 

In tempi a noi più vicini, hanno operato il vescovo Raffaello Delle Nocche (1922-1960) – di cui ci ha lasciato una bella biografia Monsignor Pancrazio Perrone – che, pur nell’aspro confronto ideologico del periodo postbellico, seppe trovare il modo di collaborare col sindaco socialista Rocco Scotellaro per l’istituzione dell’ospedale civile realizzato col concorso morale e materiale della popolazione. Inoltre fondò l’ordine delle “Discepole di Gesù Eucaristico”. Queste suore hanno dato il loro apporto per l’assistenza degli anziani nell’ospizio di Sant’Antonio, agli ammalati presso l’ospedale civile e soprattutto, mediante la gestione dell’Istituto Magistrale, hanno contribuito all’istruzione e l’elevazione culturale delle fanciulle loro affidate. Alla sua morte fu sostituito da Bruno Pelaia, insigne studioso dei testi biblici, ma rigido assertore della prassi dottrinale tanto che nella sua prima lettera pastorale affermava che “Una raffica violenta di materialismo ateo si appresta, con malcelata baldanza, ad avvelenare le nostre popolazioni semplici e laboriose con orpelli di progresso, di scienza e di benessere”. Non meraviglia, quindi, che con tali impostazioni ideologiche non riuscisse a recepire i nuovi orientamenti che stavano maturando all’interno del dibattito suscitato dal Concilio Vaticano II. Probabilmente era rimasto legato al clima di tensione che aveva visto la contrapposizione del 18 aprile 1948 tra i partiti della sinistra e la vincente Democrazia Cristiana. In quella vicenda si distinse Monsignor Angelo Mazzarone che intratteneva da tempo un forte legame con Padre Agostino Gemelli e faceva parte della redazione del giornale L’Ordine.  

 

Ormai, però, la situazione era mutata con l’avvio della collaborazione tra cattolici e socialisti nei governi di centro-sinistra e la crescente sensibilità religiosa che si manifestava tanto nel clero, quanto tra i laici. Le chiusure dottrinali produssero, sul piano locale, la perdita di due sacerdoti che avvertivano con maggiore responsabilità ed impegno i segni dei tempi nuovi. Il reverendo Nicola Calbi, che si era laureato brillantemente presso la Pontificia Università Lateranense con una tesi sulla Diocesi di Tricarico dalle origini al 1500 e che insegnava presso il locale Liceo Scientifico, dava alle stampe nel 1968 un libro dal titolo significativo: La scoperta del Vangelo e il nuovo socialismo. Nel volume si prendeva atto che il periodo della contiguità della Chiesa con la Democrazia Cristiana era agli sgoccioli e che il cristianesimo non poteva continuare ad essere rinchiuso entro lo spazio angusto di una delimitazione politica ormai datata e che bisognava dunque ricercare altri spazi ed altri orizzonti pastorali. La pubblicazione fece scalpore ed il suo autore si auto confinò a Roma per sfuggire alla malevolenza paesana. 

 

Identica sorte toccò a Nunzio Campagna, parroco della borgata agricola di Calle, reo di aver autorizzato i suoi contadini a stoccare il grano, la cui produzione per quell’anno era stata più abbondante, nei locali della nuova chiesa peraltro non ancora consacrata. L’iniziativa non piacque al vescovo Pelaia che ancor meno bene sopportò il ritardo con cui i piccoli cresimandi della zona ed i loro familiari, dopo aver accudito gli animali, si presentarono alla funzione religiosa da lui fissata. Non dissimulò il suo disappunto, con un prolungato atteggiamento d’incomprensione, nei confronti del sacerdote Campagna che con spirito evangelico si prodigava per l’elevazione culturale dei giovani ed il miglioramento delle condizioni di vita dei suoi parrocchiani. Anche lui si allontanò dal paese per andare ad insegnare Filosofia presso una scuola romana. Qui si dedicò allo studio ed all’approfondimento degli autori e dei testi del pensiero speculativo pubblicando volumi di grande pregio: per Marzorati Un ideologo Italiano, Francesco Lomonaco, successivamente per Aracne Metamorfosi dell’etica da Cartesio ai nostri giorni e per le edizioni dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Le parole dei filosofi. Ha, inoltre, pubblicato quattro romanzi di rilevante interesse: Socialmente pericoloso e di pubblico scandalo, Il violino di San Pietroburgo, Do Minore e Torregrupata, che ne testimoniano la straordinaria sensibilità.

 

Ma ormai altri tempi avanzano e il paese, in caduta demografica come tanti altri del Sud, continua la sua storia “sotto il cielo stellato a foglia a foglia”.

 

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A SERRA SAN BRUNO TRA SPIRITUALITA’ E BELLEZZA di Claudia Papasodaro – Numero 25 luglio agosto 2022 Ed. Maurizio Conte

A SERRA  SAN BRUNO TRA SPIRITUALITA’ E BELLEZZA

 

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«In territorio di Calabria, […] io abito in un eremo abbastanza lontano, da tutti i lati, dalle abitazioni degli uomini. Della sua amenità, del suo clima mite e sano, della pianura vasta e piacevole che si estende per lungo tratto tra i monti, con le sue verdeggianti praterie e i suoi floridi pascoli, che cosa potrei dirti in maniera adeguata? Chi descriverà in modo consono l’aspetto delle colline che dolcemente si vanno innalzando da tutte le parti, il recesso delle ombrose valli, con la piacevole ricchezza di fiumi, di ruscelli e di sorgenti?». Così Brunone da Colonia, fondatore dell’ordine dei Certosini, in una lettera scritta nel 1097 ad un amico monaco, descrive il territorio ricevuto in dono dal conte Ruggero il Normanno per la fondazione del suo eremo, 

la Certosa di Santo Stefano del Bosco, primo monastero d’Italia 

e secondo in Europa dopo quello di Grenoble, in Francia.


La Certosa di Serra San Bruno, con le sue possenti mura, le sue torri ed i suoi baluardi, sembra quasi una città fortificata. Un luogo avvolto nel silenzio e carico di mistero perché impenetrabile, come vuole la regola certosina. Così impenetrabile e misterioso da aver dato origine nel tempo a numerose leggende: per anni si sono rincorse voci che al suo interno si fosse rifugiato il famoso fisico Ettore Majorana, scomparso nel 1938, per espiare il suo senso di colpa derivante dall’aver intuito gli effetti devastanti che avrebbero avuto le sue ricerche sull’atomo. Effetti terrificanti che un altro uomo, il 6 agosto 1945, vedrà con i suoi occhi: il pilota che sganciò la bomba su Hiroshima, che inorridito da tanta devastazione, congedatosi dall’esercito, si sarebbe ritirato nella Certosa di Serra San Bruno, dove sarebbe diventato monaco ed avrebbe fatto voto di clausura. Bisogna ammetterlo: il fatto che uno degli scopritori delle proprietà del neutrone lento, fondamentale per la fissione atomica, ed il responsabile materiale dello sgancio della prima bomba atomica si siano rifugiati nello stesso luogo è un’ipotesi davvero affascinante, sembra quasi la trama di un romanzo. In realtà, un soldato nella certosa c’è stato veramente. Ma non quello dell’Enola Gay. Si tratta di Lennan Leeroy, reduce americano della Guerra di Corea. Per quanto riguarda Ettore Majorana il mistero rimane. A sostenere la tesi della presenza del fisico nella cittadella certosina fu un personaggio illustre: lo scrittore Leonardo Sciascia che, forse non tutti sanno, scrisse un libro proprio sulla scomparsa di Majorana e nel 1975 si recò personalmente a Serra San Bruno per indagare su questo giallo, rimasto irrisolto. 

Leggende a parte, di certo c’è che la Certosa è un luogo straordinario e questo lo si percepisce anche al solo ammirarla da fuori.

Un luogo dove il tempo sembra essersi fermato a mille anni fa e dove i monaci continuano a vivere nel raccoglimento e nella preghiera,


lontani dal mondo corrotto, come vuole l’insegnamento del loro fondatore, che così scriveva a proposito della vita nella Certosa: “Qui si pratica un ozio laborioso e si riposa in un’azione quieta. Qui, per la fatica del combattimento, Dio dona ai suoi atleti la ricompensa desiderata, cioè la pace che il mondo ignora”.   Ed è proprio questa sensazione di pace a sorprendere quando ci si trova qui. Una sensazione quasi inaspettata, così insolita soprattutto per coloro che hanno l’anima in affanno a causa della frenesia di un mondo che corre troppo. 

A poca distanza dalla Certosa, raggiungibile attraverso sentieri che profumano di erbe aromatiche ed officinali, il Complesso del Santuario di Santa Maria del Bosco, immerso in un incantevole bosco di maestosi abeti bianchi, trasporta chi lo visita in una dimensione di contemplazione, regalandogli un momento sospeso nel tempo.  

Qui una vena sorgiva forma

un laghetto, definito dall’antropologo Ernesto De Martino 

«il piccolo Gange della Calabria». Le sue acque, infatti, 

sono ritenute miracolose:


San Bruno, come raffigurato nella suggestiva statua, raccolto in preghiera, vi rimaneva immerso per ore fino alla cintola, per vincere la sua quotidiana lotta contro il demonio. E per questo è conosciuto anche come “Laghetto delle Penitenze”. Ogni anno, nel lunedì dopo la Pentecoste, giorno della solenne festa del Santo, arriva gente da ogni dove per bagnarsi nelle sue acque gelide che si crede guariscano i malanni del corpo e quelli dell’anima. A trarre beneficio da questo bagno purificatore sarebbero soprattutto gli “spirdati”, ovvero i posseduti dal demonio, o dallo spirito di uno morto ammazzato o deceduto in circostanze misteriose. Suggestione o no, 

a Serra la credenza popolare nei poteri taumaturgici di San Bruno 

è fortemente radicata ed ancora oggi la devozione dei serresi 

nei confronti del loro protettore è profonda ed incondizionata.


Questo contribuisce a quell’aura di spiritualità e misticismo che, unito alle bellezze naturali ed artistiche, alle tradizioni ed alla buona cucina, fanno di Serra San Bruno una meta da visitare almeno una volta nella vita.

nell’omonima Serra in provincia di Vibo Valentia, vuol dire immergersi ancora oggi in una dimensione fatta di natura, bellezza e quiete, la stessa che tanto aveva colpito il monaco certosino, che qui deciderà di trascorrere gli ultimi anni della sua vita.

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Raimondo di Sangro principe di Sansevero di Gaia Bay Rossi Speciale Napoli aprile maggio 2022 Ed. Maurizio Conte

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RAIMONDO DI SANGRO PRINCIPE DI SANSEVERO

 

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La citazione dell’astronomo e direttore dell’Osservatorio di Parigi rispecchia perfettamente la figura del principe di Sansevero: uomo sapiente e versatile, vero genio del suo secolo, grande conoscitore delle lettere, delle arti e del pensiero filosofico, così come valoroso uomo d’armi, primo Gran Maestro della Massoneria napoletana, prolifico inventore e grande mecenate. Tutto questo nell’epoca creativa e feconda del primo Illuminismo europeo.

Un uomo così innovativo ed eclettico non poteva non far scaturire

numerosissime leggende popolari:


«Fiamme vaganti, luci infernali – diceva il popolo – passavano dietro gli enormi finestroni che danno, dal pianterreno, nel vico Sansevero […] Scomparivano le fiamme, si rifaceva il buio, ed ecco, romori sordi e prolungati suonavano là dentro […] Che seguiva, dunque, ne’ sotterranei del palazzo? Era di là che il romore partiva: lì rinserrato co’ suoi aiutanti, il principe componeva meravigliose misture, cuoceva in muffole divampanti…» 

Salvatore Di Giacomo, Un signore originale, da Celebrità napoletane, Trani 1896.   

 

Raimondo nacque nel 1710 da Antonio di Sangro duca di Torremaggiore e dalla nobildonna Cecilia Gaetani dell’Aquila d’Aragona. La madre morì pochi mesi dopo averlo messo alla luce nel castello di Torremaggiore, paese nella Capitanata, uno dei feudi della famiglia del padre. 

Il ragazzo

fu cresciuto ed educato dai nonni paterni che, dopo un primo periodo a Napoli, 

dove venne avviato allo studio della letteratura, della geografia 

e delle arti cavalleresche, lo mandarono al Seminario romano 

diretto dai padri Gesuiti, in cui rimase per dieci anni.


Lì Raimondo ebbe modo di dimostrare la sua intelligenza ed una grande curiosità, dedicandosi allo studio della filosofia, delle lingue, della storia antica, della chimica; dimostrò anche una buona predisposizione per la meccanica, nonché per la pirotecnica, le scienze naturali, l’idrostatica e l’architettura militare. Di questo periodo è la sua prima invenzione: un palco pieghevole progettato in occasione di una rappresentazione teatrale al Seminario gesuitico, che suscitò lo stupore di Nicola Michetti, architetto di corte dello zar Pietro il Grande, incaricato della costruzione.   

 

Terminati gli studi nel 1730,

visse tra Napoli e Torremaggiore fino al 1737, anno in cui si stabilì definitivamente nel Palazzo Sansevero, nel cuore della Napoli storica.


Qui si sposò nel 1736 con la cugina Carlotta Gaetani dell’Aquila d’Aragona. Per il suo matrimonio Giambattista Vico gli dedicò un sonetto (Alta stirpe d’eroi, onde famoso) e a Giovanni Battista Pergolesi fu commissionata dallo stesso principe la prima parte di un preludio scenico. Negli anni che seguirono, grazie alla stima che di lui aveva Carlo III di Borbone, il principe elevò le sue cariche ufficiali, divenendo prima gentiluomo di camera con esercizio di Sua Maestà e poi Cavaliere dell’Ordine di San Gennaro. Accrebbe anche il numero delle sue invenzioni, con un’ingegnosa “macchina idraulica”, capace di sospingere l’acqua a qualsiasi altezza ed un innovativo “archibugio” a retrocarica, in grado di sparare sia a polvere, sia ad aria compressa.

Negli anni della maturità Raimondo fu particolarmente prolifico, 

tanto che la sua fama oltrepassò i confini del Regno


realizzò un “cannone leggero” che pesava centonovanta libbre in meno degli altri modelli esistenti, ma con una gittata molto superiore; fu colonnello del Reggimento Capitanata di Carlo III di Borbone, distinguendosi nella vittoriosa battaglia di Velletri contro gli Austriaci del 1744. Da quest’ultima esperienza nacque la pubblicazione Pratica di Esercizj Militari per l’Infanteria, elogiata da Luigi XV di Francia e da Federico II di Prussia, poi adottata dalle truppe spagnole.

Già iscritto all’Accademia dei Ravvivati di Roma ed alla Sacra Accademia fiorentina, nel 1743 fu ammesso all’Accademia della Crusca con lo pseudonimo di Esercitato; l’anno successivo ottenne da Benedetto XIV il permesso di leggere… i “libri proibiti”, avendo così accesso ai libri dei filosofi francesi e degli illuministi più radicali, nonché ai testi massonici ed alchemici.


Realizzò spettacoli pirotecnici con fuochi d’artificio dai colori sfavillanti e mai visti prima di allora, in cui inserì anche il verde, noto per il suo valore simbolico ed ermetico. 

Creò un tessuto impermeabile con cui fece confezionare due mantelle, con le quali lui ed il sovrano disquisivano, passeggiando sotto la pioggia, sotto gli occhi dei napoletani! 

Preparò alcuni farmaci che guarirono inaspettatamente da malattie gravi. 

Si dedicò ad esperimenti di idraulica e meccanica, mettendo a punto la famosa “carrozza marina” su cui si vedeva avanzare nelle acque del golfo, grazie ad un sistema di pale a forma di ruote, tra lo stupore del popolo. 

Sviluppò un metodo di stampa con caratteri policromi, utilizzando delle macchine tipografiche da lui stesso progettate. 

Creò una sostanza che era l’esatta riproduzione del sangue di San Gennaro contenuto nella Sacra Ampolla, e riusciva nella relativa liquefazione.

In questo periodo iniziò anche i lavori alla Cappella Sansevero, 

che proseguirono poi fino alla sua morte.


Ma tutto il progetto trovò fondamento nella sua appartenenza alla Massoneria, cosa che lo mise al centro di un “intrigo” che parve “il maggior del mondo”. Dopo aver costituito la loggia “Rosa d’Ordine Magno” (anagrammando il suo nome), il principe scalò tutta la gerarchia della Libera Muratoria fino a divenire Gran Maestro di tutta la Massoneria napoletana.

Di lì a poco Benedetto XIV, con la bolla Providas Romanorum Pontificum 

del 18 maggio 1751, condannava la Massoneria, proibendo ad ogni cattolico 

di farne parte. A questa seguì un Editto Regio emanato dal re Carlo III di Borbone, che vietava le attività massoniche. Il principe consegnò al re la lista degli affiliati 

e scrisse una Epistola a Benedetto XIV nella quale difese 

la fedeltà di tutti i massoni, sia al Papa, sia al Re.


Si prestò a fare un passo indietro, anche se continuò, con la dovuta riservatezza, a sovrintendere la sua loggia “Rito Egizio Tradizionale”, portando avanti, però, l’attività più spirituale ed ermetica, molto diversa da quella della Massoneria tradizionale appena abbandonata.   

 

Nonostante l’abiura, i rapporti con la Santa Sede si deteriorarono a causa della pubblicazione della Lettera Apologetica dell’Esercitato Accademico della Crusca contenente la Difesa del libro intitolato Lettere d’una Peruana per rispetto alla supposizione de’ Quipu scritta alla Duchessa di S**** e dalla medesima fatta pubblicare. Il testo verteva formalmente su un antico sistema di nodi (i quipu) degli Incas del Perù, che servivano a conservare e trasmettere informazioni; in realtà, conteneva numerose citazioni di autori eterodossi, princìpi massonici, rimandi alla cabala e – pare – anche messaggi esoterici nascosti da un codice segreto. La Lettera fu considerata “una sentina di tutte l’eresie” dall’Inquisizione romana che, nel 1752, la mise all’Indice dei libri proibiti.

A quel punto Raimondo preferì dedicarsi alle sue invenzioni 

nei sotterranei del proprio palazzo.


Fra queste, quella più nota fu un indecifrabile “lume perpetuo”, «poiché dunque non si può dubitare che esso non sia un vero lume […] e che è durato per tre mesi e qualche giorno senza alcuna diminuzione della materia che gli serviva da alimento, gli si può dare a giusto titolo il nome di perpetuo».

Con due di queste lampade eterne il principe avrebbe voluto illuminare 

il Cristo velato di Giuseppe Sanmartino, una volta posto 

nella Cavea sotterranea:


ma il progetto non venne realizzato e non si parlò più del lume perpetuo. Si continuò invece a parlare del Cristo velato, una delle opere marmoree più straordinarie al mondo, e della Cappella Sansevero, il cui progetto iconografico, esaltazione del casato e tempio alchemico, ermetico e massonico, fu ideato dal principe stesso e ricreato dagli artisti prescelti. Le dieci statue delle Virtù, tra cui la Pudicizia e il Disinganno dedicate alla madre ed al padre di Raimondo, ed il Cristo velato, il cui velo è «fatto con tanta arte da lasciare stupiti i più abili osservatori», sono gli elementi portanti di tutto il percorso simbolico che comprende il pavimento con il motivo a labirinto e, oggi, anche le misteriose “macchine anatomiche”, realizzate con due scheletri di uomo e di donna, con il sistema arterioso e venoso perfettamente integro.

I lavori durarono fino alla fine della sua vita. Come scrisse Gian Luca Bauzano 

sulla morte di Raimondo di Sangro:


«Gli esperimenti alchemici, probabile l’uso di materiali radioattivi lo portarono alla morte. Scompare in una nuvola sulfurea, come Don Giovanni di Mozart. Quando il musicista apprende della sua morte ne resta colpito. Gli dedica una Sonata in memoriam. E forse lo eterna come Tamino nel Flauto. Ma una magia di Sangro l’ha compiuta, come la Fenice si è eternato».

 

«Non era un accademico, ma un’accademia intera».
Jérôme Lalande, Voyage d’un François en Italie, 1769

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Fonti 

 

Museo Cappella Sansevero, museosansevero.it 

Dizionario Biografico degli Italiani, voce Raimondo di Sangro 

Dizionario Biografico degli Italiani, voce Nicola Michetti 

Carteggio con Andrea Alamanni in Archivio Digitale Accademia della Crusca: adcrusca.it 

Gian Luca Bauzano, Raimondo di Sangro, il principe massone che scoprì la radioattività, in Corriere.it 

Rino Di Stefano, Raimondo di Sangro, il principe maledetto, in Il Giornale, 18 ottobre 1996, riportato in rinodistefano.com 

Vittorio Del Tufo, Il Cristo velato e la favola nera del principe, Il Mattino 20 marzo 2016, in ilcartastorie.it

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LA CHIESA DI SAN NICOLA DI MYRA di Paola Ceretta – Numero 23 – Dicembre 2021 gennaio 2022 Ed. Maurizio Conte

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LA CHIESA DI SAN NICOLA DI MYRA

 

 

Quella dedicata a San Nicola di Myra è una piccola chiesa rupestre che si trova nella provincia di Mottola, in territorio tarantino, dove per secoli i devoti hanno pregato davanti alle immagini sacre che custodisce e al santo di origini orientali che ha ispirato la figura di Babbo Natale tanto diffusa nella civiltà occidentale. I miracoli operati in favore dei bambini e l’amore per essi sono alla base della tradizione pugliese di San Nicola che ogni anno torna sulla Terra per lasciare un dono ai bambini. 

 

Posta lungo l’antico cammino dei pellegrini che nel Medioevo si recavano nel Sud Italia percorrendo la via Appia per imbarcarsi nei porti di Taranto e Brindisi e raggiungere la Terra Santa e per gli abitanti del circondario, 

la chiesa di San Nicola, seppure segnata dal trascorrere del tempo, 

è ancora oggi piena di fascino e significati.


Le pitture che conserva – dipinte in un arco di tempo che va dalla fine del X alla prima metà del XIV secolo – rappresentano in territorio pugliese un’arte sacra popolare nata da una commistione di influssi teologici ed artistici dell’Oriente e dell’Occidente cristiano. 

 

Arrivati sul ciglio della gravina di Casalrotto e attraverso una scala tagliata nella pietra – cui la Sovrintendenza ha adattato una struttura in ferro – si giunge all’entrata dell’edificio, ricavata sul lato ovest, dove sono presenti resti di tombe medievali e due nicchie con tracce sbiadite di antichi affreschi.

Varcata la soglia, si entra nella roccia, in una pianta a croce greca inscritta, 

in un mondo lontano e simbolico


e si viene accolti da raffigurazioni come la “Deesis” o la “Vergine con Anapeson” e dalle figure di santi che ci guardano e ci raccontano la loro storia, fatta di scelte di fede, di eventi miracolosi, di martìri, di sangue innocente versato, di corpi frammentati e di reliquie. 

 

La zona di Mottola ricca di gravine – spaccature del terreno di origine carsica – ospita altre chiese rupestri che insieme a quella dedicata al santo di Myra sono conosciute  come “Le mirabili grotte di Dio”, ma questa di San Nicola spicca fra tutte per la bellezza e lo stato di conservazione dei suoi affreschi, sopravvissuti al trascorrere del tempo e agli atti vandalici ed offre al visitatore contemporaneo emozioni e suggestioni uniche, create anche dalla luce che penetra all’interno dell’edificio.

E’ l’unica, infatti, nella quale in alcuni giorni dell’anno si manifestano ierofanie 

sulle immagini di tre santi, è quella dove l’invisibile diviene visibile 

e nella quale antichi e sconosciuti architetti hanno voluto dare 

manifestazione al sacro: hiéros “sacro”, phanein “manifestare”.


Attraverso un foro gnomonico ricavato nella nicchia a destra dell’entrata, accanto a croci dipinte, al tramonto i raggi solari penetrano all’interno degli ambienti sacri e proiettano una piccola ellisse luminosa che appare sui corpi di tre santi che divengono “presenti” e sembrano voler trasmette la loro benedizione ai fedeli: sul cuore e la mano destra benedicente di San Nicola, il 14 marzo e il 30 settembre, date legate alla nascita del santo e alla collocazione delle sue spoglie nella basilica di Bari; sul petto di San Leonardo da Limoges il 6 novembre e sul corpo di San Giovanni Crisostomo il 14 settembre, giorni legati alla loro morte e ricorrenza fissata dal Calendario Romano dei Santi. 

 

La devozione a San Nicola di Myra in Italia ha origini antiche e, seppure la veridicità di alcuni episodi legati alla sua storia sia controversa, il racconto della sua vita è costellato da azioni caritatevoli e memorabili verso poveri e bisognosi e da numerosi miracoli. 

 

Vissuto tra il III e il IV secolo, è un santo legato all’acqua, al mare, protettore di naviganti, mercanti, viaggiatori, ma lo è anche dei bambini e delle fanciulle. E’ un santo miroblita, taumaturgo. Il suo corpo opera miracoli, guarisce. Fonti antiche raccontano che dalle sue spoglie emanava una fragranza e scaturiva un liquido chiamato oleum, unguentum, myro considerato salutare e prodigiosa medicina, quella “manna” che ancora oggi viene raccolta dalla sua sepoltura di Bari e distribuita ai fedeli.

 

Avvicinarsi al culto di San Nicola, così profondamente radicato in territorio pugliese, può diventare oggi l’occasione per riscoprire radici, riti e tradizioni popolari di cui è custode e ricco il Meridione ed addentrarsi in un territorio unico come quello delle Murge tarantine può farci conoscere antichi percorsi, mostrare inaspettati paesaggi e condurci a scoperte sorprendenti come le chiese rupestri di Mottola.

 

 

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