IL BRIGANTAGGIO MERIDIONALE di Agostino Picicco – Numero 19 – Dicembre 2020 gennaio 2020

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IL BRIGANTAGGIO MERIDIONALE

 

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Al di là dei favoleggiati tesori nascosti dai briganti in antiche torri, le cui storie avventurose e romantiche si raccontano ancora oggi, magari con meno fascino di un tempo,

il fenomeno del brigantaggio meridionale postunitario è progressivamente 

disvelato nei suoi aspetti più prosaici.


Contribuisce a quest’opera di verità la recente pubblicazione dello studioso Valentino Romano, autore di vari volumi sul tema, con particolare attenzione alle radici sociali del fenomeno. Nel volume “Un popolo alla sbarra” (Secop Edizioni), Romano porta alla luce

gli atti processuali relativi alla lotta al brigantaggio attuata 

dal Generale marchese Emilio Pallavicini, 


inviato a debellare definitivamente il fenomeno, con poteri speciali rispetto alla giustizia e ai compiti di polizia ordinari.  

Il Generale è già noto alla storia perché il 29 agosto 1862 aveva guidato la colonna che all’Aspromonte aveva fermato la spedizione che Garibaldi conduceva dalla Sicilia per la conquista di Roma e aveva ordinato l’attacco durante il quale lo stesso Garibaldi fu ferito. Superata la resistenza opposta dai volontari garibaldini,

Pallavicini ottenne la resa di Garibaldi.


Tra il 1863 ed il 1864, riuscì a sgominare le bande dei briganti, facendo pagare un grande prezzo in vite umane. Pallavicini e la sua “Colonna Mobile”, comprendente vari reparti dell’Esercito,

fu infatti inviato dallo Stato a sedare le rivolte,


settore in cui era militarmente esperto, e lo fece in modo spregiudicato pur di raggiungere gli obiettivi che si era posto, senza tenere conto del valore della vita umana e delle istanze sociali del popolo. E così riuscì a sconfiggere e distruggere nella zona murgiana della Puglia le bande di Ninco Nanco, Carmine Crocco, Ciucciariello (Riccardo Colasuonno). Ecco allora che –

esaminando le carte dell’epoca – emergono i tanti casi di briganti fucilati 

durante i trasferimenti, mentre tentano la fuga 

(così dicono i rapporti della scorta), 

e non si tratta di casi isolati.


É fondato il sospetto che si tratti di un modo per liberarsi di loro evitando pastoie burocratiche e procedure garantiste.  

Il libro di Romano rivela, grazie all’esame dei documenti processuali e di polizia, tutta una casistica, anche umana, con storie di paese, drammatiche e talvolta ironiche, di un mondo di povertà in cui si incontrano soldati, grassatori, manutengoli, pubblici amministratori che facevano a “scaricabarile” delle loro incombenze. 

Il brigantaggio, che è sempre tema attuale di studio, diventa la feritoia per esaminare la storia post unitaria, al di là degli stereotipi e delle posizioni ideologiche.  

L’esame approfondito delle sentenze, proposto dall’autore, denuncia il pressapochismo spesso doloso della giustizia militare, in qualche caso rimediato dalla magistratura ordinaria.

Essere parenti di un brigante era in sé una colpa, lo stesso incrociare per caso

i briganti per strada, portare una pagnotta in più in tasca (fosse anche per i figli) 

voleva dire voler rifornire di viveri i briganti.


Tante ingiustizie furono evitate, a prezzo di discredito e di numerosi mesi in carcere, che non prevedevano risarcimenti di alcun genere. 

Il contesto è quello di una società poverissima, dove non lavorare un giorno voleva dire la fame per la famiglia, e dove il furto in fattoria, da parte dei briganti, di un mulo o di un maiale, il primo come strumento di lavoro e il secondo come mezzo di sostentamento, era un danno gravissimo. Quanto descritto nel libro di Romano ci restituisce

una realtà complessa ancora da studiare e interpretare bene, 


perché non si è ancora trovata la verità. E il contributo dell’autore va proprio in questa direzione

 

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L’ISOLOTTO ASINELLI NELL’ENEIDE – Gemme del Sud – Numero 19 – Dicembre 2020 gennaio 2021

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L’ISOLOTTO ASINELLI NELL’ENEIDE

 

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Asinelli

 

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Di fronte alla frazione di Pizzolungo, alle porte di Trapani si trova il piccolo isolotto Asinelli. Il suo nome si deve alle sue rocce appuntite che sembravano le “lesine” dei calzolai. Da lì isola “Lesinelle”, trasformata poi nell’attuale isola Asinelli. 

Immersa in un mare cristallino, è stata nel passato base di appoggio delle reti della tonnara di Bonagia, oggi accoglie un fanale e un traliccio segnalatore per i naviganti alimentato a pannelli solari, nonché è meta di numerosi sub alla ricerca delle meraviglie marine circostanti.

 

Durante la Seconda Guerra Mondiale l’isolotto veniva spesso bombardato 

perché scambiato per un sommergibile dall’aviazione alleata. 

Infatti il suo soprannome è “isola sommergibile”.


Nel V libro dell’Eneide, Virgilio ha così descritto Asinelli: “V’è lontano nel mare uno scoglio di fronte alle rive schiumose, che spesso sommerso i gonfi flutti percuotono, quando il maestrale d’inverno nasconde le stelle; nella bonaccia tace, e si erge sull’onda immota, superficie e dimora gratissima agli smerghi amanti del sole”.   

 

Le numerose descrizioni virgiliane hanno dato vita a varie ipotesi sulla morte e tumulazione di Anchise, padre di Enea.

Secondo la storiografia, fu proprio a Pizzolungo, solo 1 miglio marino dall’isolotto, 

che approdò Enea dopo la morte di Anchise.


Lo storico siciliano Giuseppe Castronovo, riprende la tradizione virgiliana della morte di Anchise sulle spiagge ericine: «In queste spiagge perdea [Enea] il suo padre Anchise, in queste spiagge gli ergeva il tumulo, in queste spiagge l’onorava di giuochi funebri…» (Memorie storiche di Erice, p. 11). Alle porte della frazione, è presente la famosa “stele di Anchise” eretta nel 1930. 

 

Dall’isolotto Asinelli si vedono, partendo da sinistra, lo splendido monte Cofano, un gioiello di rara bellezza a picco sul mare, la tonnara e il golfo di Bonagia e, di fronte, la frazione marittima di Pizzolungo sovrastata dal monte Erice. 

 

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IL PULO DI MOLFETTA – Gemme del Sud – Numero 19 – Dicembre 2020 gennaio 2021

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IL PULO  DI MOLFETTA

 

Gemme del Sud

Molfetta

 

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Uno dei più rilevanti monumenti naturali che si trovano nell’area costiera a nord di Bari è il Pulo di Molfetta, situato a circa due chilometri dalla città da cui prende il nome. 

“Pulo” è il termine che nell’area murgiana si utilizza per indicare la dolina, cioè 

 

una cavità formatasi per la dissoluzione della roccia calcarea 

ad opera dello scorrere di acque superficiali,


esempio tipico del fenomeno del carsismo, che interessa tutta la Puglia.  

Il Pulo di Molfetta è una vasta voragine di forma ovoidale e profonda 30 metri, creatasi in seguito al crollo della volta di numerose cavità sotterranee, con pareti a strapiombo, 

all’interno delle quali si aprono molteplici grotte su differenti altezze 

e comunicanti tra loro.


La più spettacolare fra tali grotte è quella, con sviluppo su tre livelli, detta “del Pilastro”, dal pilastro calcareo presente sull’ultimo livello. 

Il cedimento della volta sembrerebbe risali+re all’epoca del Neolitico, come si deduce dagli importanti reperti archeologici ritrovati nella zona, che testimoniano anche la presenza di comunità che vivevano nei pressi della dolina. All’epoca in quell’area scorreva copiosamente l’acqua, responsabile dell’erosione della roccia e del conseguente crollo. 

Sul lato occidentale della voragine, in una posizione elevata dalla quale la si osserva molto bene, è di notevole interesse l’ex monastero dei Cappuccini, oggi di proprietà privata, costruito nel 1536 e attivo fino al 1574, successivamente convertito in Lazzaretto.

Verso la fine del Settecento, sul fondo del Pulo, grazie al fatto che le sue grotte 

erano ricche di nitrati, componenti naturali della polvere da sparo, 

i Borboni autorizzarono la realizzazione di una nitriera,


cioè una vera e propria fabbrica per l’estrazione e la lavorazione di tali minerali. Il Pulo è dunque anche un prezioso esempio di archeologia industriale. 

Estremamente importante è inoltre la biodiversità faunistica e botanica, per la presenza di piante sia autoctone, sia introdotte dall’azione umana. 

 

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GRUMENTO NOVA – Gemme del Sud – numero 19 – Dicembre 2020 gennaio 2021

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GRUMENTO NOVA

 

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Grumento Nova

 

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Da Grumentum – antica città romana – a Saponaria fino a Grumento Nova (dal1932), il Borgo conserva numerose testimonianze della sua storia più antica

 

Svetta nella piazza principale il castello Sanseverino,


testimonianza del processodi incastellamento successivo all’abbandono dell’insediamento di epoca romana; le scuderie sono i locali meglio conservati.

Di rilievo la Chiesa Collegiata di Saponara, sorta in epoca altomedievale su preesistenti strutture sacre, riferibili ad un “Tempio di Serapide”.
Da rimarcare la presenza della

 

Biblioteca Nazionale “Carlo Danio”, ospitata all’interno di Palazzo Giliberti,


recentemente restaurata ma risalente al XVI secolo. La biblioteca è una delle più ricche in territorio lucano e consta, tra l’altro, di una collezione di

oltre 2000 volumi antichi, con manoscritti, incunaboli, cinquecentine e seicentine. 

Alcuni esemplari sono stati stampati utilizzando la tecnica di Gutemberg


a caratteri mobili appena un decennio dopo questa invenzione. Il paese può contare anche su due belvederi che affacciano verso est e verso ovest, fornendo una panoramica a 360° sull’intera Val d’Agri.

 

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CLEMENTE SUSINI E LE SUE CERE – Gemme del Sud – Numero 19 – Dicembre 2020 gennaio 2021

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CLEMENTE SUSINI E  LE SUE CERE

 

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Cagliari

 

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A Cagliari, nella Cittadella dei Musei, non potete perdere le Cere Anatomiche di Clemente Susini (Firenze 1754-Firenze 1814), che le ha personalmente firmate e che

fanno parte del Patrimonio Scientifico e Tecnologico italiano.


Le 78 cere, che troverete in 23 vetrine in legno di noce e vetro, furono modellate a Firenze (Museo La Specola) dal 1803 al 1805. Il Susini, per realizzare le sue cere ha riprodotto delle vere e proprie dissezioni effettuate dall’Anatomista sardo Francesco Antonio Boi (Olzai 1767 – Cagliari 1855).

Non solo i modelli sono originali, ma la collezione è l’unica, tra quelle 

create a Firenze, a portare la firma di Clemente Susini.


Giunse a Cagliari nel 1806 dopo l’acquisto di Carlo Felice di Savoia Viceré di Sardegna; venne donata, nel 1857, all’Università di Cagliari che la pose sotto la tutela del Professore di Anatomia e numerata con criteri anatomici e numeri romani nel 1963 ad opera di Luigi Cattaneo (1925-1992), allora Direttore dell’Istituto Anatomico cagliaritano.

Le potrete vedere, in esposizione permanente, nella sala pentagonale della Cittadella dei Musei di piazza Arsenale. Buona visita!

 Bacheche anatomiche – Clemente Susini 1798

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NAPOLI VIA DEI GUANTAI NUOVI di Stefania Conti – Numero 19 – Dicenbre 2020 – Gennaio 2021

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napoli. via dei guantai nuovi

 

arriva a Parigi nel 1625, gli viene sottratta la lettera di presentazione per arruolarsi tra le Guardie del Re da tale con il quale si era battuto a duello.

L’intimazione al duello avveniva sfiorando la guancia dello sfidato con un guanto. 

Quel guanto, con ogni probabilità, era italiano


Anzi, napoletano. In tutta Europa, ma soprattutto in Francia, nel Seicento i guanti erano un accessorio indispensabile per la moda sia per gli uomini che per le donne, e non solo: erano adoperati dalle Guardie del Re, incarico al quale, appunto, d’Artagnan aspirava. 

L’arte della fabbricazione dei guanti a Napoli è antica. Già nel 1600 quelli di pelle arrivavano nelle maggiori corti europee


e così è stato nei secoli successivi, fino agli anni Sessanta del Novecento. Furono i Borbone a voler incentivare la produzione artigianale locale, in particolare quella dell’alta sartoria: dalle raffinatissime sete di San Leucio, la cui fabbrica, voluta da Ferdinando IV, oggi è patrimonio dell’Unesco, per arrivare, con il passare dei secoli, alle pregiatissime cravatte, alle camicie, ai completi da uomo di sapiente taglio. I Borbone fecero diventare la capitale partenopea “capitale della moda”.  E in questo empireo di bellezza c’erano (e ci sono tuttora, anche se in misura estremamente ridotta rispetto al passato) anche i guanti.

Il segreto era nei dettagli, eseguiti con minuziosità e fantasia,


che riuscirono a togliere il primato in tale manifattura alla Francia, fino al 1700 faro cui si guardava per essere à la page.   

 

Le prime botteghe nacquero in una strada che ancora oggi si chiama Via dei Guantai Nuovi (“nuovi” perché ai guantai era già stata intitolata una strada, distrutta però nella Seconda Guerra Mondiale), nel quartiere Sanità, noto per aver dato i natali a Totò.

Nel 1800 vi lavoravano intere famiglie che tagliavano, cucivano, ricamavano la pelle che poi veniva trasformata in guanti ed esportata in tutto il mondo.


A loro volta, queste famiglie davano lavoro anche ad altre persone di quel quartiere o di quelli limitrofi, familiari o conoscenti, e così andava avanti una vera e propria economia di scala. Perché la guanteria aveva anche un ruolo, per così dire, sociale. La miseria era veramente nera e avere un mestiere, anzi, essere abili in un mestiere era una garanzia per tutta la famiglia, anche allargata.  

 

L’arte guantaia riuscì a resistere anche all’arrivo dei Savoia. Le industrie del Regno delle Due Sicilie si trovavano, subito dopo l’Unità d’Italia, in grande difficoltà. L’immediato abbattimento delle barriere doganali messe in atto dal governo borbonico per proteggerle “fu peggiore di un terremoto per quanti erano coinvolti nelle varie attività industriali” (Gustavo Rinaldi, Il Regno delle Due Sicilie: tutta la verità). Ma i guanti no: piacevano anche ai piemontesi. Tanto che

fino al 1930 si contavano ancora ben 25.000 guantai. E negli anni Sessanta 

del secolo scorso un’intera fetta di economia campana viveva della pregiata manifattura: il 90 per cento dell’esportazione italiana dei guanti 

veniva da Napoli. 


Ad abbattere l’attività dei maestri artigiani fu il boom economico. L’Italia si industrializza, le produzioni arrivano in serie, realizzate dalle catene di montaggio, il prezzo si abbassa. Si abbassa ancora di più quando, negli anni Novanta, sul mercato arrivano i cinesi, rendendo praticamente impossibile reggere la concorrenza. E un’arte così pregiata comincia a morire. 

 

Ma non del tutto.

A Napoli ci sono ancora dei guantai.


Non sono molti, ma per resistere alla globalizzazione hanno preso una saggia decisione: specializzarsi nell’altissima gamma della moda, riproponendo lusso, raffinatezza e capacità. Sono napoletani, tanto per fare un esempio, i guanti utilizzati nel famosissimo film Titanic. Sono napoletani molti dei guanti dei più costosi marchi di moda che vediamo nelle vetrine di Parigi o New York.

  

Ancora oggi non c’è nemmeno un passaggio automatizzato


ed il mestiere si tramanda di padre in figlio, perché tutta la famiglia è ancora impegnata in questa preziosa lavorazione. C’è chi pensa al modello, chi lo lavora, chi lo cuce, chi lo rifinisce e chi lo taglia.   

 

Il guanto napoletano nasce dopo ben 25 passaggi, tutti fatti a mano con l’aiuto di macchine da cucire, quasi sempre le vecchie Singer della nonna (c’è una piccola azienda partenopea che è in perenne contatto con una ditta tedesca per la manutenzione della vetusta signora). Le pelli sono scelte con perizia perlopiù dal capofamiglia (o da chi dovrà prenderne le veci) e devono essere pregiatissime e morbidissime. La tintura viene fatta seguendo le regole stabilite dalla normativa internazionale sul controllo della qualità. Il taglio deve essere accuratissimo, perché solo se è ottimo esso garantisce la valorizzazione al meglio del pellame.

Ogni fase richiede controlli di qualità continui, con l’occhio attento 

di chi ha imparato il mestiere da bambino e la capacità 

di sentire al tatto anche la più piccola imperfezione. 


E questa capacità si ottiene solo dopo aver maneggiato pelli per decine di anni.  Anche per tale motivo, oggi non è facile trovare chi possa continuare questa tradizione.   

 

Eppure il distretto dei guanti in Italia fino al 2017 fatturava 50 milioni di euro, l’80 per cento dei quali proveniva da Napoli e dintorni. Sfogliando le Pagine Gialle, infatti, troviamo guantai a Casoria, Arzano, Mugnano, Marano, Calvizzano, San Giorgio a Cremano, Melito. 

Testardi, innamorati del loro mestiere, decisi a continuare un’arte,


proprio come si faceva ai tempi dei Borbone. Forse ha ragione lo scrittore Philip Roth, che in Pastorale americana rende loro omaggio: “Nessuno più taglia i guanti in questo modo… tranne forse in qualche fabbrichetta a gestione familiare di Napoli o Grenoble».

 

 

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1656. LA PESTE CHE «DESOLÒ» NAPOLI di Tommaso Russo – Numero 18 – Settembre-Ottobre 2020

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1656. LA PESTE che «DESOLÒ» NAPOLI

 

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Breve nota introduttiva   

 

Il libro di Salvatore De Renzi – “Napoli nell’anno 1656” – è un importante crocevia in cui confluiscono vicende legate a un momento particolare della storia del Mezzogiorno vicereale: la peste del 1656. Il volume contiene le risposte della comunità napoletana aggredita da una destrutturante pandemia nei suoi legami più profondi e nelle dinamiche demografiche.   

 

Nel ricostruirne l’andamento e nel documentare le decisioni prese dalle autorità politiche e religiose, l’autore sembra invitare i lettori di tutti i tempi a tentare un confronto. Per quanto possa sembrare assurdo e inverosimile questo suggerimento del grande patologo napoletano, esso ha dalla sua il fascino della lunga durata con l’obbligo della cautela e della prudenza per non creare un artificioso clima di similitudini, di differenze e tener conto delle novità.

 

Napoli e il Mezzogiorno vicereale

 

La pace di Cateau-Cambresis (1559) tra Francia e Spagna consacrò il dominio di questa in Italia. Los Rejnos: ducato di Milano, Genova, Sicilia, Sardegna, Stato dei Presìdi (Talamone, Orbetello…) e il Mezzogiorno entrarono a far parte del multietnico e sovranazionale impero spagnolo come sentinelle nel Mediterraneo.

 

Al Sud venne affidato anche il compito di fare da polmone finanziario 

nei conflitti in cui era impegnata la Spagna.

 

Ne è prova la decisione, presa nell’ultimo decennio della guerra dei Trent’anni, di raccogliere 8.075.965 ducati per “la difesa et conservatione dell’Istato di Milano”.   

 

In politica interna vennero aggrumandosi nodi ancora oggi oggetto di querelles storiografiche. Si tratta del significato da attribuire alla nascita della Nazione e dello Stato napoletani, al rapporto tra questo e il baronaggio e tra entrambi con la montante borghesia, al peso di Napoli rispetto alle province, al ruolo degli intellettuali, del ceto dei togati, dei forensi e delle gerarchie ecclesiastiche. A tal proposito 

nessuno studioso crede che i decreti applicativi del Concilio di Trento trovassero 

nel Mezzogiorno l’identica accettazione avuta nel Centro-Nord.


Altre cose accaddero. Si pensi solo alle chiese ricettizie. Certo ci furono le folle fanatizzate dal clero contro gli eretici ma si ebbero anche significative manifestazioni di segno diverso. E’ il caso di ricordare il lascito visionario, presso i ceti subalterni, della predicazione di Gioacchino da Fiore o la campanelliana «Città del Sole», cioè “il sogno di una società ordinata su basi comunistico-ascetiche sotto la guida tecnica, religiosa e politica di un sacerdozio iniziatico di sapienti”, come ebbe a scrivere Giorgio Spini.   

 

Profeti solitari, imbonitori, ciurmatori, picari, girarono le contrade meridionali che, in molti casi, si aprirono alla predicazione di movimenti ereticali organizzati come l’Eresia dei Fraticelli che a partire dal XIV sec. si diffuse in Abruzzo, Basilicata e Puglia.   

 

È il caso di ricordare l’insediamento dei calabro-valdesi in Val di Crati e l’esito terribile a cui andarono incontro. Nel 1561 per ordine del Viceré e dell’Arcivescovo di Napoli furono massacrati, squartati, impalati dai soldati del principe Spinelli.   

 

Sorte diversa toccò invece al cenacolo di Juan de Valdés giunto a Napoli nel 1534 e ivi morto nel 1541.Riunì intorno a sé la parte più colta e sensibile della nobiltà napoletana: Galeazzo Caracciolo, emigrato poi nella calvinista Ginevra, Marco Antonio Flaminio, le principesse Isabella Bertagna, Caterina Cybo, Giulia Gonzaga, vera animatrice del salotto, solo per fare dei nomi.

 

Nobiltà, borghesia, plebe urbana insieme respinsero per ben due volte il tentativo 

di introdurre in Napoli la pericolosa Inquisizione sul modello spagnolo.

 

Per le questioni religiose era sufficiente il Tribunale diocesano al cui interno i Domenicani si mostrarono i più spietati, come avvenne per due episodi. Nel 1577 posero fine agli scandali del Monastero di Sant’Arcangelo a Bajano, “abolito per le immoralità che vi si commettevano”. Ai primi del ‘600 soppressero la Congregazione “della carità carnale”, un misto di sensualismo e misticismo, fondata da suor Giulia De Marco e da padre Aniello Arciero.   

 

Tra l’Accademia degli Oziosi e quella di Medinaceli furono gli Investiganti, con Tommaso Cornelio, a battersi per ridimensionare il peso della Scolastica, per sviluppare l’eredità del naturalismo rinascimentale, per difendere la libertas philosophandi.

 

Accanto a questa modernità meridionale occorre aggiungere che il ‘600 europeo 

e italiano fu il secolo delle crisi e delle paure che si manifestarono su piani intrecciati.

Basti ricordare il seguito di violenze di ogni specie che accompagnò il passaggio degli eserciti mercenari impegnati nella guerra dei Trent’anni. Il costo di quell’ennesimo conflitto innescò una profonda crisi sociale, finanziaria, demografica, che si manifestò anche con sollevazioni e rivolte. Se ne ricordano alcune: quella dei contadini e dei mietitori della Catalogna (1640); Masaniello (1647); quella del cosacco Sten’ka Razin contro i boiardi russi (1670).   

 

Diversi furono i piani di proiezione delle paure e differenti le cause. Le guerre viaggiavano allora con le carestie, le pandemie, i saccheggi. La paura in questi casi afferrava i singoli, i villaggi, i paesi, le province in un crescendo di panico collettivo che destabilizzava le comunità colpite. La peste del 1656 fu un evento destrutturante al pari dei “tremuoti” che scuotevano le province meridionali.

   

«Napole scontraffatta dapò la peste»

 

Il libro di De Renzi (1800-1872), costruito con documenti d’epoca, è diviso in tre parti: eziologia del morbo; raccolta delle ordinanze emanate dal Regio Consiglio Collaterale (l’organo politico che governava il Viceregno); quadri di cronache locali. Numerosi sono i temi affrontati: la paura come sentimento diffuso nelle società di antico regime; l’immaginario collettivo, l’ignoranza scientifica sui mezzi per intervenire. De Renzi osserva tutto ciò con l’occhio dello storico della medicina, del patologo laico e deista, dell’indagatore attento al costume sociale e al peso che in esso avevano religione, magia, credenze popolari, superstizione, bisogni elementari di sopravvivenza.

 

«La peste barocca» giunse a Napoli dalla Sardegna nei primi mesi del 1656.


Nell’isola, importante anello di congiunzione militare e commerciale tra Spagna e Napoli, era arrivata con navi provenienti da Valenza dove era giunta da Algeri fin dal 1647 per diffondersi in altre regioni iberiche. Soldati e merci sbarcati a Napoli tra dicembre ’55 e gennaio ’56 furono il veicolo di contagio.

 

Nonostante i sintomi tipici della peste bubbonica, le autorità politiche 

e religiose decisero di non creare allarmismi.

 

Ben presto però si ebbe “gran numero di morte subitanee” nei quartieri popolari e ad alta densità abitativa. Due medici compresero la natura del morbo.  

 

Gerolamo Gatta intuì che si trattava di peste bubbonica,

 

come pure che alle autorità non interessava molto conoscere la verità per non turbare le attività economiche e l’ordine pubblico. Così tacque e se ne tornò al suo paese.

 

Giuseppe Bozzuto “un buon medico di quelli del popolo del Mercato”, 

a chi gli chiedeva della diffusione del morbo ricostruiva la catena del contagio:

“…si muore improvvisamente ma dopo la morte nell’Ospedale dell’Annunziata di una persona venuta di Sardegna” e via esemplificando. A quanti sostenevano la tesi dell’ira di Dio, Bozzuto rispondeva con calma: “…vi vedete la successione, la vicinanza, il contatto?” Il suo comportamento non piacque per cui fu tradotto nelle carceri della Vicaria. A fronte dell’evidenza, però, venne liberato dopo qualche mese. Riprese il suo apostolato tra le plebi urbane e morì di peste. Oltre 40 furono i medici che persero la vita.   

L’invito a ragionare non ebbe proseliti. 

 

La tacita intesa tra Viceré e Chiesa fece del castigo divino 

un potente atto di accusa politica al popolo.

 

La colpa divenne “aver osato commettere l’imperdonabile delitto di rivoltarsi contro il Re cattolico”, nel luglio del 1647, quando Masaniello guidò l’assalto al gabbiotto delle tasse al grido di “leva la gabella”, diffondendo la rivolta nel Mezzogiorno. Dunque, pur a distanza di anni, Dio non aveva dimenticato e la sua punizione arrivò inesorabile. Era questo il messaggio che doveva depositarsi nell’immaginario dei ceti subalterni: alle rivolte sociali non poteva far seguito che una pena divina.

 

L’insistenza sul divino comportò l’intensificarsi di penitenze, messe, processioni 

che “allargano vieppiù il contagio sull’affollata moltitudine”.

 

Si scatenò, altresì, fra i vari ordini religiosi (per es. Teatini contro Gesuiti) una competizione su chi avesse maggior potere di intercessione presso Dio per placare la sua ira, far scomparire il morbo, per presentarsi agli occhi dei fedeli come interlocutore forte e affidabile.

 

Al divino si affiancò la tesi complottista:

 

“Nel qual tempo insorse una voce che alcune persone andavano seminando e spargendo polveri velenose”. In piazza Mercato una vecchia che cercava l’elemosina divenne il capro espiatorio di “dette polvere” e venne uccisa “in detto loco”.   

 

Saracche e baccalà individuate come veicolo di trasmissione furono gettate in mare. Cani e gatti vennero sterminati. Spostati in conventi fuori Napoli si salvarono solo i porcellini di Sant’Antonio.

 

Tra maggio e agosto la peste toccò vette altissime. Solo allora 

il Collaterale ordinò drastiche misure di isolamento:


i contagiati nei quartieri popolari venivano chiusi in casa se non si riusciva a portarli in ospedale. Trasportati su sedie o su carri i cadaveri, raccolti dalle strade, mischiati con gli agonizzanti venivano gettati in fosse comuni e ricoperti di calce viva. Fu Micco Spadaro, più di altri pittori coevi, a restituire quelle scene di orrore urbano nel famoso dipinto: “Piazza Mercatello a Napoli durante la peste del 1656”.   

 

Furono vietati gli spostamenti da Napoli verso tutte le province e gli altri Stati e viceversa. 

 

Potevano circolare solo i pochi forniti di “bolletta della salute”.

 

Il ritardo nel predisporre misure di contenimento è da ascriversi alla paura, al panico in cui caddero le autorità di fronte alla virulenza del morbo. Ci sono anche altre ragioni che spiegano il loro indugio: la necessità di non turbare i traffici per mare e per terra tra Napoli le sue province e gli altri porti del Mediterraneo; la subalternità culturale all’Arcidiocesi che subito si impossessò politicamente della pandemia per farne un cavallo di battaglia del suo piano di disciplinamento sociale e religioso.

 

È il caso di ricordare alcune ordinanze che danno il termometro di quei mesi. 

Il Collaterale ordinò l’impiego di molti rimedi

 

di cui se ne offre un campionario parziale: profumare le case “con fumo di rosmarino, bacche di lauro, di ginepro, incenso e simili”, usare “acqua teriacale”, e “pillole di Rufo contro la peste”; preparare una “mistura di fichi secchi, ruta, noce e sale”, e un intruglio di “aceto (…) con solfo, ruta aglio garofali zafferano e noci, l’uso del quale è bagnarci una fetta di pane”. A tutto ciò venne affidato un compito curativo e preventivo che però dimostra solo quanto fosse lungo il passaggio dall’alchimia alla chimica, dalla magia alla medicina.

 

Si decise della quarantena con ordinanza del 12 giugno 1656, mentre 

la libera circolazione fu autorizzata il 25 febbraio 1657.

L’11 ottobre 1657 venne ordinato “concedersi alle dette Università [così allora si chiamavano i Comuni], che hanno patito il contagio sospensione, per insino ad altro ordine, di quanto per esse si dee così alla Regia Corte, come a’ Consegnatarii”. In altri termini veniva 

 

sospesa la fiscalità

 

dalle province alla capitale.   

 

L’anno successivo il 19 giugno, per il forte aumento dei prezzi, 

 

si vietò la vendita di “dette mentovate robbe a maggior prezzo di quello 

che si vendevano prima del passato contagio”

 

con multe fino a 1000 ducati “et altre pene corporali”. A settembre vennero

 

bloccati i salari

 

di “Potatori, Vendemmiatori Zappatori” a prima del contagio. Pena: tre anni di carcere agli uomini e “frusta alle femine”. Sono, come si vede, provvedimenti antinflazione.   

 

La peste andò scemando a Napoli verso dicembre, focolai restavano in Abruzzo Citra, Basilicata, Capitanata, Calabria Ultra, Terra di Lavoro. Alla paura si sommarono incertezze sociali ed economiche. Nelle province si ebbe una recrudescenza del banditismo sociale e dei rapimenti a scopo di riscatto.

 

La riapertura totale dei traffici e commerci avrebbe dovuto rimettere 

in piedi il precedente circuito. Non fu così.

 

Lo  documenta  De  Renzi  che  fra  i  tanti  indicatori  scelti  per  calcolare  il  numero  dei morti a Napoli utilizza quello delle scorte alimentari:  grano,  vino,  olio,  farina, pane, carne salata e fresca. Il consumo urbano  egli dice  “si ridusse  a  proporzioni  infinitesime di quel che era avanti la peste”.  Vale a dire una caduta dei consumi quasi verticale a causa del tracollo demografico. 

 

A Napoli morirono tra 200 e 250mila persone.

 

Considerando un’arcata temporale tra il 1648 e il 1669 la popolazione delle province passò da circa 2.501.015 a 1.973.605 abitanti circa.   Si può infine dire che l’impatto del “pestifero morbo” nella stratigrafia della memoria collettiva fu duraturo e profondo.

 

 

 

 

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GENNARO SERRA DI CASSANO MARTIRE E PATRIOTA di Fernando Popoli – Numero 18 – Settembre-Ottobre 2020

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GENNARO SERRA DI CASSANO MARTIRE E PATRIOTA

 

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figlio del duca Luigi e di Giulia Carafa di Roccella, di nobilissima origine, che ai privilegi, ai lussi ed alla vita comoda della nobiltà preferì la lotta per l’affermazione dei principi democratici e dell’eguaglianza dei popoli, pagando con il sangue la sua scelta.

 

Studiò insieme al fratello Giuseppe in Francia, nel collegio di Sorèze, 

durante gli avvenimenti rivoluzionari e ne acquisì lo spirito repubblicano 

condividendo il motto “Liberté, Égalité, Fraternité”, che influenzò 

tutta la sua breve vita sino alla morte.

 

Aderì sul nascere alla “Società Patriottica” insieme ai primi giacobini napoletani, alcuni di origine massonica: Eleonora Fonseca Pimentel, insigne letterata e giornalista, la nobile Luisa Sanfelice, il duca Ettore Carafa, l’avvocato Nicola Fasulo, l’imprenditore della seta Domenico Piatti, l’ufficiale di Marina Giambattista de Simone, il dottor Pasquale Baffi e Filippo de Marini, marchese di Genzano. All’inizio la loro attività libertaria fu quasi tollerata dalla regina Maria Carolina, moglie del re Borbone Ferdinando IV, che vedeva nel loro agire la meta di una monarchia costituzionale, ma poi, in seguito agli avvenimenti di Francia, la sovrana mutò radicalmente il suo atteggiamento, scatenando una feroce e viscerale repressione.

 

A Parigi regnava il terrore e iniziò a lavorare alacremente la ghigliottina. 

Il 21 gennaio fu mozzata la testa del re Luigi XVI 

 

davanti ad una folla festante. Il boia Charles Henry Sanson vendette poi all’asta il suo copricapo, ciocche di capelli e frammenti del cappotto. La folla ne godette. Il 16 ottobre toccò a Maria Antonietta, sorella di Maria Carolina, prematuramente invecchiata dalla paura, con il viso pieno di rughe e i capelli imbiancati. Il suo carnefice, Henry Sanson junior, mostrò la testa mozzata in segno di trionfo, col sangue che gocciolava sul tavolato della forca. La folla fu entusiasta.

La morte violenta della sorella terrorizzò Maria Carolina che vedeva nemici dappertutto, non dormiva più nello stesso letto 

e faceva assaggiare il cibo ai servitori.

 

Scrisse su una stampa dell’esecuzione pervenuta da Parigi: “Perseguirò la mia vendetta sino alla morte”. Perquisizioni, pedinamenti, retate. I servizi segreti lavoravano quotidianamente e riferivano ai sovrani di cene patriottiche, di cospirazioni misteriose, di piani eversivi tra i cosiddetti “idealisti”, che si battevano in nome della “filosofia” e della “virtù”. La reazione dei Borboni diventò atroce, selvaggia, spietata. Il 18 ottobre del 1794, a mo’ di esempio, salirono sul patibolo al Largo Castello tre ragazzi meridionali: Emmanuele de Deo, Vincenzo Galiani e Vincenzo Vitaliani, primi martiri innocenti della libertà.

 

La frattura tra il re, la regina e i libertari napoletani si allargò a dismisura 

e i giacobini Francesco e Gennaro Serra di Cassano, sentitisi in pericolo, 

agivano in segreto, preparando l’arrivo dei francesi.

 

I genitori, il duca Luigi e sua moglie Giulia Carafa di Roccella, condividevano le loro scelte, ma temevano per la sorte dei figli. Giuseppe Serra di Cassano venne arrestato e condotto in carcere, con lui anche Eleonora Fonseca Pimentel. Gennaro si salvò miracolosamente. 

 

Intanto i fatti precipitarono, Il generale francese Jean Étienne Championnet avanzava con le sue truppe verso la capitale, al suo seguito molti giacobini, Ettore Carafa, Carlo Lauberg, Vincenzo Russo e altri che erano esuli. L’ammiraglio Orazio Nelson era alla rada con la sua flotta. L’esercito borbonico marciò verso Roma. All’inizio sembrò una guerra facile, poi scattò la controffensiva dei francesi e Championnet li travolse sbaragliandoli. Il re, attraverso percorsi segreti, lasciò la Reggia, s’imbarcò sulla nave ammiraglia di Nelson e puntò su Palermo.   

 

Nel Regno, due delegati cercarono di controllare la piazza inutilmente. Da un lato i Lazzari che erano filo monarchici, dall’altro i giacobini che lavoravano per favorire la vittoria dei francesi. L’anarchia era al massimo, 

 

i Lazzari presero il sopravvento, ma si sentirono traditi dalla fuga del Re. 

Bruciarono le forche fatte issare dal Borbone e liberarono i prigionieri. 

Giuseppe Serra di Cassano ed Eleonora Pimentel tornarono liberi.

I Lazzari non parteggiavano per i francesi che si preparavano a combattere, ma non obbedivano ai delegati del re. Gennaro lavorava assiduamente con tutti gli altri giacobini per la battaglia decisiva, l’armata di Championnet era vicina. Si impadronirono di Forte Sant’Elmo; un gruppo di donne vestite da uomo, capeggiate da donna Eleonora Pimentel, si unirono a loro e nel cortile del Forte fu piantato l’Albero della Libertà e proclamata la Repubblica Napoletana.   

 

Championnet invase Napoli, sbaragliando i Lazzari che finirono per unirsi a lui. Fu insediato il primo governo provvisorio e Giuseppe Serra di Cassano fu tra i rappresentanti comunali, al posto del padre. Furono nominati vari ministri tra i giacobini, ma l’ultima parola spettava ai francesi.

 

Gennaro Serra di Cassano ebbe il grado di comandante in seconda 

della Guardia nazionale, con il compito di organizzare la cavalleria.

 

Per ordine del Direttorio di Parigi iniziarono le riscossioni dei tributi, le confische, nuove e vecchie gabelle, il passaggio alla Francia di tutti i beni della Corona, le banche, la Zecca, i possedimenti nelle provincie. Il popolo era scontento, i Lazzari ripresero l’offensiva lanciando pietre e vasi dai balconi, Championnet fu sostituito e al suo posto arrivò il cinico generale McDonald che mise in vendita anche gli arredi reali.

 

Intanto, con la benedizione del Papa, il cardinale Ruffo avanzava

per riconquistare il Regno con l’esercito della Santa Sede,

uccidendo, saccheggiando, stuprando, violentando, lasciando dietro di sé una scia di terrore, di sangue, di morte, di cadaveri. Un’incredibile ecatombe. Nel Regno, i governanti rivoluzionari vararono leggi giuste. Abolirono la gabella sulla farina, avviarono la stesura di una nuova Costituzione, si organizzarono per resistere all’avanzata del cardinale Ruffo. La Pimentel pubblicava il Monitore dando informazioni democratiche ai cittadini.

 

Giulia Carafa di Roccella, la madre di Gennaro, e sua sorella Maria Antonia, 

duchessa di Popoli, considerate le donne più belle di Napoli, delicate e colte, trasportavano intrepide sul molo pietre e calce per rafforzarne la difesa 

e proteggere la fragile conquista democratica, 

fianco a fianco con il popolo,

 

gomito a gomito con gli uomini, instancabili, indomite, combattive. Bussarono alle case dei ricchi per chiedere offerte per la difesa, vestiti e viveri per i più bisognosi, solidarietà per i poveri. Aiuti, donazioni, sostegni. Tutto serviva per la causa. Furono chiamate “madri della Patria” per la loro azione nobile, generosa, altruista, solidale, spinta da un ideale repubblicano che permeava il loro animo femminile. 

La regina Maria Carolina manifestò il suo sdegno per le due nobildonne che tra l’altro, scandaloso per lei, non portavano più il busto e la parrucca, ma sostenevano la rivolta.   

 

McDonald, incapace di fronteggiare Ruffo, si trasferì presso Caserta e da lì a poco si avviò verso il nord, lasciando campo libero. Il re Ferdinando ordinò a Ruffo di fare molti casicavalli, di impiccare molti nemici come i caciocavalli che vengono appesi col cappio sino alla maturazione. Il forte di Vigliena fu uno degli ultimi baluardi contro i sanfedisti. Erano duecento, comandati da Antonio Toscano, contro i mille nemici. Alzarono una bandiera con su la scritta “Vincere, vendicare, morire” e, di lì a poco, chiusi nel magazzino delle munizioni, saltarono in aria disintegrati in un botto infernale insieme a molti dei loro nemici. 

A Napoli, Gennaro Serra di Cassano difendeva con la sua colonna Capodimonte, il capitano Campana, Ponticelli. Il generale francese Basset, Foria. Furono ben presto travolti e si rifugiarono nel Maschio Angioino e in Castel dell’Ovo, in un ultimo tentativo di sottrarsi alla furia devastatrice sanfedista.

 

Nelle strade si susseguirono scene di ferocia, di violenza, di terrore. Massacri, saccheggi, incendi, stupri, scene di follia inusitata. La gente fuggiva 

inorridita, terrorizzata, sgomenta. Si era creato l’inferno.

Si scatenò una caccia all’uomo, al democratico, all’oppositore. Giulia e Maria Antonia Carafa di Roccella furono spogliate, denudate, si dice violentate. Coperte da un lenzuolo, con le carni nude, sottoposte al pubblico ludibrio, offese, vilipese, derise. Trattate come bestie, sputate in faccia. Gli Alberi della Libertà furono abbattuti e trasformati in latrine puzzolenti. I giacobini venivano trucidati sommariamente, senza alcun processo, senza possibilità di difesa. I sanfedisti si sedevano sui loro cadaveri sbudellati, sui loro corpi martoriati, con le viscere di fuori, per mangiare, bere, gozzovigliare. Alcuni abbrustolirono le loro carni e le trangugiarono avidi in un macabro banchetto. 

Altri prigionieri furono portati al Ponte della Maddalena e donne monarchiche imbestialite sputavano loro addosso, lanciavano scorze di cibo, li deridevano. In breve, anche le ultime sacche di resistenti furono spezzate via e il cardinale Ruffo prese pieno possesso di Napoli e di tutto il Regno. La Repubblica Napoletana era sconfitta. 

Memore di essere uomo di chiesa, il cardinale trattò con i capi repubblicani superstiti asserragliati nel castello e raggiunse con loro il “patto di capitolazione”. 

 

I giacobini ebbero l’onore delle armi e la possibilità di andare in esilio. 

Al suono cadenzato dei tamburi dei soldati vincitori, vinti ma a testa alta, 

lasciarono il Forte per prendere posto sulle navi in partenza per Tolone.

 

Il 24 giugno del 1799 arrivò a comando della sua poderosa flotta l’ammiraglio Orazio Nelson e affermò che il “patto” era carta straccia; il re delle Due Sicilie, il Borbone, non avrebbe mai trattato con i ribelli che non meritavano indulgenza, e così fu. 

Vecchie navi da trasporto funsero da prigione. I prigionieri furono legati ai ferri, esposti al sole, con poca acqua e con poco cibo disgustoso, dormivano su un giaciglio di sabbia ed evacuavano a turno su pochi buglioli schifosi e maleodoranti. La loro vita si era trasformata in un inferno. 

Le ultime sacche di resistenza furono travolte. Un pescivendolo, si dice, tagliò, come se fossero pesci da pulire, molte teste di giacobini superstiti e i sanfedisti le fecero rotolare lungo la strada, giocandoci come se fossero palloni.

 

Gennaro Serra di Cassano si rifiutò di chiedere clemenza al cardinale Ruffo, 

per orgoglio e per diffidenza. Secondo la leggenda, travestito da marinaio, 

tentò di riparare nel suo palazzo al Monte di Dio, 

ma fu visto da un libraio che lo tradì.

Condotto nelle carceri comuni, da dove forse non si era mai mosso, aspettò con dignità che si compisse il suo destino di uomo libero. La Giunta di Stato, implacabile, emise la sentenza di condanna alla ghigliottina. Sarebbe stato giustiziato insieme ad altri sette cospiratori.   

 

Il 20 agosto del 1799, la Piazza Mercato, palcoscenico storico delle esecuzioni, fu invasa da una folla di tutti i ceti sociali, assettata di sangue e di violenza. Sadicamente eccitata per lo spettacolo che si stava per rappresentare, si agitava come un branco di lupi famelici, vogliosa di scene raccapriccianti, di morte, di terrore. Intorno, imponenti misure di sicurezza, soldati armati, cannoni puntati, armigeri pronti. Gennaro aprì la macabra danza della morte. Aveva chiesto di avere l’oppio per placare l’angoscia dell’attesa, ma gli fu negato. Per il suo titolo doveva essere accompagnato da servitori, ma gli fu proibito. Doveva avere un palco addobbato di drappi neri, ma non gli fu concesso.

 

Salito sul patibolo, guardò davanti a sé quel mare di facce in attesa, 

quella moltitudine di uomini e donne compiacenti, quegli sguardi sadici, 

e disse al frate che gli era accanto: “Ho sempre lottato per il loro bene 

e ora li vedo festeggiare per la mia morte”.

 

Offrì la sua testa al boia e la lama gliela recise di netto, un colpo solo e rotolò in terra. Aveva ventisei anni, era giovane, ricco, nobile di animo e di censo. Morì per perseguire i suoi ideali sotto gli occhi festanti del suo popolo, ingrato e inconsapevole.   

 

Seguirono le altre esecuzioni: Domenico Piatti, Vincenzo Lupo, Nicola Pacifico, Michele Natale, Antonio Piatti e, ultima, la passionaria della rivoluzione, Eleonora Fonseca Pimentel. A lei le guardie strapparono le mutande in segno di disprezzo. Lei disse in latino: “Un giorno sarà utile ricordare tutto questo”. 

Il suo corpo penzoloni, con il cappio al collo, oscillò sul patibolo spinto dal vento. La folla soddisfatta se ne compiacque: la signora aveva smesso di fare l’eroina.

 

Il duca Luigi Serra di Cassano, addolorato, chiuse il portone del suo palazzo 

di fronte alla Reggia e per due secoli questo ingresso 

è rimasto sbarrato in segno di lutto e di protesta.

 

Maria Antonia Carafa si suicidò dopo qualche anno gettandosi in un pozzo. Giulia Carafa visse a lungo tormentandosi nei ricordi e finì per impazzire. La morte di Gennaro Serra di Cassano non fu inutile, il suo sacrificio resterà per sempre a testimonianza di una vita “illuminata”.

 

 

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PER SCOPELLITI GRANDE MAGISTRATO DEL SUD di Francesco Antonio Genovese – Numero 18 – Settembre-Ottobre 2020

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per scopelliti grande magistrato del sud

 

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In fondo, il libro di Clara Mazzanti [Venga con noi. Dagli attentati del ’69 a Piazza Fontana, con prefazione di Paolo Morando (pp. 9-11), Ed. Colibrì, Milano, 2019, pp. 317, con il pregio di possedere – oltre ad un interessante corredo fotografico – anche un indice analitico, alle pp. 311-313], partito con un durissimo (ma non del tutto ingiustificato) attacco agli apparati investigativi milanesi [assai severa la stroncatura anche di Luigi Calabresi, alle pp. 28-30, 219-220 e passim; del tutto irrecuperabile il giudizio su Antonio Amati (1912), il giudice istruttore del processo agli anarchici nel quale rimase coinvolta, come imputata dei reati di concorso in alcuni attentati con uso di esplosivi, registrati nella prima parte del 1969, anche la Mazzanti: si vedano, in particolare, le pp. 149-151, ma anche passim],

 

costruisce un vero e proprio monumento celebrativo di un altro 

magistrato, addirittura (incredibile auditu) di un pubblico ministero: 

AntoninoScopelliti (19351991), destinato a entrare nel Pantheon

della Magistratura italiana per il suo tragico omicidio ad opera 

delle mafie più potenti di questo Paese.


Il PM di quel processo, nella fase istruttoria, era stato invero Roberto Petrosino (1924), il quale aveva chiesto il rinvio a giudizio di tutti gli imputati, ma non per questo è su di lui che s’appuntano gli strali dell’A. (quasi come se l’A. desse per scontato che il PM inquirente possa avanzare ogni sorta di richiesta), quanto sul Giudice della fase istruttoria (che, invece, avrebbe avuto l’obbligo di approfondire e di verificare ogni sorta di elemento senza procedere  oltre, sic et simpliciter, sulla base di idee già confezionate, in massima parte dagli investigatori), dopo un’analisi attenta anche degli atti processuali (ben 12 faldoni ora consultabili liberamente: v. p. 284), rivisitati e consultati dalla vittima di quelle indagini in sede archivistica, con il rovello e il dolore di chi ha trascorso circa un anno e mezzo in detenzione preventiva, durissima, nel carcere di San Vittore (sulle cui sofferenze, espedienti di vita e umanità il libro costituisce un resoconto non comune e che varrebbe la pena di leggere anche se solo per questa ragione). 

 

Ma è il PM della fase dibattimentale che emerge imponente, non certo per una sorta di trombonesca apparizione, di fronte alla Corte d’assise di Milano, presieduta da Paolo Curatolo (1914) e composta dal giudice a latere, Roberto Danzi (1929) oltre che dai giudici popolari; e si tratta di Antonino Scopelliti,

 

«Me lo ero immaginato di aspetto truce. Pronto a darci guerra, a distruggerci, 

a coprirci di fango. Invece, quando alzò gli occhi dalle sue carte e guardò dritto 

verso di me, vidi un volto dall’espressione straordinariamente umana e mite, 

che fece con la testa un impercettibile movimento, quasi un saluto» (p. 180).

 

Scopelliti ha di fronte un gruppo di avvocati di grande levatura, alcuni dei quali – se già non lo sono – diventeranno presto assai celebri: Giuliano Spazzali (per Pulsinelli), Sandro Canestrini e Vittorio D’Aiello (per Giangiacomo Feltrinelli e Sibilla Melega), Francesco Piscopo, Luca Boneschi e Alberto Malagugini (per Braschi): l’ultimo di lì a poco eletto giudice costituzionale, nel 1977. Ma Egli, il nostro PM, è del tutto a suo agio di fronte a quelle eccellenze forensi e, finanche, non pregiudizialmente contrario alle richieste che quelli avanzeranno, ma anzi appare disposto all’esame ragionato di quelle istanze. 

 

All’imputata, il PM di udienza appare avvinto da «una irriducibile ed evidente volontà di ricercare il vero» (p. 197), perciò non ostile alla verificazione dibattimentale dell’ipotesi accusatoria, alla cui formulazione – come si è detto – Egli, in verità, non aveva neppure partecipato (essendo di altri l’ipotesi di accusa formulata contro quegli arrestati).

 

Di più. In Lui emergeva una caratteristica davvero insolita: «non urlava. Mai. 

Calmo e gentile, dava l’impressione di essere alla ricerca dei fatti che potessero 

non accusare, ma scagionare l’imputato, come e più di un difensore» (p. 197).

Non usava artifici o stereotipi, come le compagne di detenzione avevano detto all’A. a proposito dei PM incontrati sul loro cammino sventurato; magistrati che avevano usato anche «cattiveria… ferocia… sarcasmo … in presenza di figli e genitori, di parenti e conoscenti. A Scopelliti non piaceva giocare con il fango. Era di un rango moralmente superiore, lui» (p. 197). 

 

Si tratta di parole importanti, meditate, uscite come un distillato da tutto il (sicuramente doloroso) riesame (scavato nei ricordi, certo; ma anche nelle carte processuali) di quel processo che Altri (Paolo Morando, Prima di Piazza Fontana. La prova generale, Laterza, Bari-Roma, 2019, pp. 368: un vero e proprio tomo scritto sulle carte, puntuale e implacabile nel racconto), con metodo storico, ha ricostruito (e smontato nella sua impostazione panaccusatoria) con risultati apprezzati dalla critica storiografica.

 

Il processo, in estrema sintesi, ruoterà attorno alla credibilità di una testimone chiave, colei che era stata ospitata per un bel periodo di tempo dalla narrante

 

(allora giovanissima: era nata nel 1947) e dal suo convivente, ma che poi si era rivelata come l’accusatrice, la vera “carta vincente” della pubblica accusa (aveva asserito di aver visto la Mazzanti e il suo compagno di vita, ossia coloro che l’avevano generosamente ospitata, preparare in casa un ordigno servendosi di un tubo metallico; ma l’istruttoria dibattimentale accerterà che in nessuno degli attentati posti sotto il focus dell’investigazione c’erano stati frammenti di metallo).

 

Peccato, che nel corso del dibattimento, dopo un primo round in cui l’accusatrice (un’insegnante, innamorata – senza essere corrisposta – di uno degli accusati, dotata di una apprezzabile parlantina e capace anche di una certa favorevole impressione sul pubblico degli ascoltatori) era sembrata un solido pilastro della pubblica accusa (cfr. p. 207; lo scriverà allora anche il cronista giudiziario de La Nazione di Firenze, quello più apprezzato dalla stessa A.: nientemeno che Enzo Tortora, prima del successo televisivo e della tragedia che di lì a qualche anno l’avrebbe travolto) 

  

ma ben presto si rivelerà una testimone del tutto screditata. La difesa degli imputati, infatti raccoglierà le prove della sua non nuova e né inedita capacità di condurre 

una campagna denigratoria, portata avanti in diversi momenti della sua vita,

 

nel corso della quale aveva diffuso anonimi calunniosi contro una pluralità di destinatari (un prete, i ragazzi di un oratorio, un collega insegnante) e sempre con la fissa dei rapporti sessuali anomali (si era nel 1969!). La teste aveva ricevuto, proprio per questo, alcune denunce per calunnia da parte dei carabinieri, ma nessuno degli inquirenti aveva considerato questo fatto né vi aveva fatto cenno nel corso delle indagini ai (ignari, è da credere) PPMM. Così il processo non tardò molto a registrare alcuni round negativi per la teste, come osservò il sempre attentissimo cronista giudiziario Tortora che, al momento della scarcerazione della Mazzanti, vorrà persino festeggiarla in pizzeria (e così resocontare i suoi lettori di tutto l’accaduto: nel processo e fuori, alla sua conclusione), avendo maturato l’identica conclusione della Corte giudicante.

 

L’imputata (su conforme richiesta del PM) venne, infatti, assolta nel maggio 1971; 

ma solo con la formula dubitativa e, per Lei, fu necessario l’appello per ottenere, 

dopo ancora qualche patimento, la formula piena assolutoria. Ma ciò nonostante, 

la stima per quel PM di udienza non s’incrinò. Anzi.

 

Lo seguirà in TV, qualche anno dopo, nel 1978, in una puntata della fortunata trasmissione di Maurizio Costanzo Bontà Loro (peraltro ancora reperibile on-line con una ricerca mirata), nel corso della quale ascolterà il suo PM in una memorabile lezione sulla figura del magistrato e sulle sue qualità, tratteggiate come in un decalogo che meriterebbe di avere un’illustrazione separata (qui basti solo richiamare, per punti, ciò che l’A. ha riportato delle dichiarazioni dell’illustre magistrato: l’essere disposto ad accettare, nel suo lavoro, anche l’impopolarità; la centralità del compimento del proprio dovere; l’aver coscienza di tale dovere come traguardo massimo della professione; la capacità di cambiare la strada percorsa, ove ci si avveda che essa non è affatto quella giusta; 

 

l’avere umiltà, come dote fondamentale nella professione; l’avere – e non rifiutare – 

un rapporto umano con l’imputato; il vivere senza cercare altre soddisfazioni;

 

la “politicità” del proprio mestiere intesa come consapevolezza del suo esercizio nel tempo proprio; la centralità del dibattimento nel processo, proprio come era accaduto nel processo agli anarchici milanesi: cfr. le pp. 163-4). E Scopelliti risponderà proprio ad una domanda di Costanzo, a proposito del processo agli anarchici, spiegando che il dibattimento aveva fatto emergere fatti che non erano stati raccolti in fase istruttoria (o non potevano esserlo: ma questa era una difesa d’ufficio dei suoi colleghi che forse non lo meritavano) e che gli episodi erano diversi tra loro (e questo era vero, come è stato dimostrato dal lavoro di Paolo Morando, che ho citato sopra). 

 

In verità, l’approdo alle conclusioni assolutorie (ma non verso tutti, perché taluni degli imputati – e cioè tre di loro – vennero condannati in primo grado come responsabili di alcuni degli episodi, tra i tanti loro ascritti: p. 250) trovò, con il tempo, un’ampia conferma. Ad esempio, già agli atti dell’istruttoria di Treviso, condotta da Giancarlo Stiz fin dal gennaio 1971 (cfr. Gianni Barbacetto, Piazza Fontana. Il primo atto dell’ultima guerra italiana, Garzanti, Milano 2019, p. 28 e ss.), era emersa, nell’agosto 1971 – dall’interrogatorio di Ruggero Pan, studente padovano vicino al gruppo di Franco Giorgio Freda –, la responsabilità di quest’ultimo, personalmente, nell’organizzazione e nell’esecuzione dell’attentato alla Fiera di Milano, il 25 aprile 1969, per il quale erano stati condannati invece i tre anarchici anzidetti (Barbacetto, cit., p. 28), dalla Corte d’assise.

 

L’A. rimarrà, perciò, profondamente scossa e commossa il 9 agosto 1991, 

come lo siamo stati tutti noi, e come lo è stata l’Italia intera, alla notizia 

del vile agguato che venne teso al Grande Magistrato su quella strada

 

percorsa chissà quante volte, la provinciale tra Villa San Giovanni e Campo Calabro, il paese del profondo Sud dove Egli era nato. 

 

Un’anarchica, insomma, si era riconciliata con lo Stato, grazie a Lui e ne darà ampio e motivato attestato, anche a tutti noi, che non dovremo dimenticarlo mai, per il sacrificio di sangue a cui è andato incontro per difendere la sua purezza d’investigatore e di parte imparziale (come pochi) del processo penale italiano contemporaneo.

 

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UN PAESE LA SCUOLA LA MERICA di Tommaso Russo – Numero 18 – Settembre – Ottobre 2020

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Da questo ricco giacimento sono emerse fra le tante testimonianze della vita scolastica del tempo anche le tracce di alcuni temi, dettati, problemi.

Nell’anno scolastico 1897-98 nella scuola elementare di Filiano


che allora era una frazione del Comune di Avigliano, a fine anno vennero proposte queste due tracce di temi:  

 

Testo: Che cosa avvenne a Paoluccio che andò a rubare ciliegie. 

Racconto (Svolgimento). Paoluccio fanciullo di anni nove che frequentava la terza classe elementare, era buono, obbidiente, ed un giorno andò a rubare ciliegie, mentre stava per salire sopra l’albero cadde e si fratturò la testa che dovette guardar [rimanere]parecchi giorni il letto. Il fanciullo da quel giorno poi si castigò da quel brutto vizio. Donato Bochicchio.

 

Testo: Scrivete una letterina a un fratello soldato dandogli notizie della famiglia, dello stato della campagna e della raccolta del frumento. 

 

Racconto (Svolgimento). Caro fratello ti voglio far conoscere che il babbo, la mamma, la sorella, il fratello ti aspettiamo noi tutti stiamo bene in salute. Lo stato della campagna è che tutte le frutte e di più il grano turco che vuole la pioggia e i contadini fanno la processione. Il grano è molto squisito per fare il pane. Ti bacio il tuo fratello Nicola Carriero.

 

 Ciò che viene fuori è il mondo delle campagne con i suoi piccoli e grandi drammi cioè il servizio militare, la lontananza, gli affetti familiari; ma anche il tentativo 

di avere una lingua comune, l’insegnante che fa usare al bambino 

il termine italiano babbo al posto del più popolare tata

 

Poi c’è il dolore collettivo vale a dire la siccità. Contro di essa i contadini potevano implorare solo l’intervento della Madonna e lo facevano con una processione tutta particolare cioè a dire quella delle vergini. Dietro la statua si disponevano in fila per due le preadolescenti e le ragazze non ancora sposate tutte rigorosamente vestite in abito bianco simbolo della loro purezza e tutti salmodiando e pregando, al suono della banda dell’Ospizio, si dirigevano al santuario della Madonna del Carmine sperando nel miracolo. 

 

In occasione degli esami di proscioglimento della classe terza elementare maschile nella scuola di Avigliano centro, nell’anno scolastico 1899-1900,


vennero date queste prove di cui però non si è trovato lo svolgimento. 

 

Tema: Lettera al fratello in Napoli per chiedere notizie di sua salute e per mandargli denaro e biancheria. 

 

Dettato: il nido della rondine pare una barchetta per metà incastrata nel muro, e composta al di fuori di creta, presa lungo i rigagnoli, impastata con pagliuzze, vimini ed altro. Questo prezioso animaluccio ama le abitazioni degli uomini e ci libera da una infinità di insetti. Crudeli si addimostrarono quei fanciulli che senza pietà ne rovinarono i nidi. 

 

Problema: Una donna comprò un pezzo di tela di m. 58,9 che pagò L. 0.97 al metro. Con quella tela confezionò 38 camicie. Quanto costa ogni camicia ?  

 

Nella terza elementare femminile, sempre ad Avigliano centro, 

e nel medesimo anno scolastico, vennero date le seguenti prove 

all’esame di proscioglimento. 

Tema: Tuo fratello è soldato; da più settimane non scrive alla famiglia. Il babbo, la mamma sono in pensiero. Lettera di dolce rimprovero procurando a dar subito notizie. 

 

Dettato: Siamo in luglio, si dovrebbe mietere, ma la stagione fredda ha ritardato quest’anno il raccolto del frumento. Guardo nei campi ed osservo un immenso mare di spighe ondeggiare tutte al vento. Esse ci promettono pane per tutto l’anno. Tutto ciò è dono di Dio. Oh grande bontà! Che hai a fare tu per lui ? Ringrazialo e benedicilo e sii buono con lui. 

 

Problema: In una famiglia il padre guadagna annualmente 1000 lire e il primo figlio 260, il secondo 145,20. Quanto guadagnano in tutto ? Quanto possono spendere al giorno ? 

 

Anche in questi compiti ci sono argomenti realistici e comuni

 

come la religiosità, l’incerto andamento dei raccolti stagionali, la partenza per il servizio militare la cui ferma triennale sconvolgeva le famiglie, la permanenza dei giovani a Napoli per perfezionarsi nel mestiere scelto. Il problema dà subito il senso del salario di una famiglia di lavoratori 1405 lire e 20 centesimi l’anno pari a circa tre lire e ottantasei centesimi al giorno. Non è però chiaro quale fosse il costo della vita in paese nell’ultimo decennio dell’800. Nei dettati spesso si nascondevano molta retorica, un po’ di estro poetico degli insegnanti e qualche pia maestra. Se leggiamo con i nostri occhi il dettato sul nido della rondine si possono fare interessanti scoperte. Pe esempio l’attenzione alla natura, agli uccelli e alla necessità di proteggerli nasce dal considerarli agenti di una importante catena biologica. E inoltre quella rondine pone un importante interrogativo. Sappiamo ancora oggi che gli architetti, gli ingegneri i geometri posseggono un sapere scientifico che li accompagna e guida nel progettare i lavori delle costruzioni. Ma la rondine, le api quando costruiscono i loro nidi o i loro alveari sempre uguali, precisi, a cosa ubbidiscono? Quali conoscenze posseggono?

  

Un altro argomento fece compagnia alla attività didattica degli insegnanti, 

alla vita dei bimbi e delle bimbe e in generale del paese. 

Si trattava dell’emigrazione

che in quel decennio ebbe proporzioni grandissime e drammi profondi, in tutto il Mezzogiorno, come l’abbandono della scuola da parte dei piccoli alunni, costretti a partire per la Merica, o la separazione dei genitori o il padre che a un certo punto non dava più notizie di sé. Il suo silenzio non significava solo l’interruzione delle rimesse ma anche la comparsa di un triste fenomeno che riguardò le donne sposate definite vedove bianche. La lontananza del marito toccò la trama degli affetti, investì il loro corpo, la loro sessualità e le obbligò a riposizionarsi nella rete delle relazioni umane e sociali. In proposito la tradizione orale aviglianese è ricca di aneddoti, poesie e canti che riflettono quel dramma.  

 

Ne presentiamo solo due per il tono di ironia, di giocosità, di fantasia 

con cui raccontano quella sciagura. 

 

Si narra che un padrino si recasse tutte le sere a trovare la mamma del bambino che aveva battezzato. Portava loro del cibo, dava qualche piccolo prestito, offriva conforto, speranza e conversazione. Col passar del tempo però finì con l’innamorarsi della donna. Dopo lunga riflessione pensò di dichiararsi in questo modo:  

 

Comare mia se ti dico che ti voglio…anche bene potresti rispondermi che tu non me ne vuoi. Se non ti dico niente potresti pensare che sono uno sciocco (nu’ quazzon’) a non essermi accorto di te.  

 

Lei lo guardò fisso negli occhi, gli sorrise, gli prese le mani fra le sue e gli rispose così: Compare mio mi hai così ben richiesta che ti dono il mio amore e accetto il tuo. Nasceva così un prototipo di famiglia allargata. Per quei tempi. 

 

Il secondo è un canto che fin dalla prima strofa ne riassume il dramma: 

Mariteme églia a la Merica e nun me scrive (Mio marito è andato in America e non mi scrive). Nelle strofe successive la donna si chiede quale sgarbo (na manganza) possa aver commesso. Riflettendo le viene in mente un unico fatto. Avevano insieme tre figli i quali si sono trovati ad avere un quarto fratello. Anni addietro ricorda di aver partecipato a una sacra funzione nel locale convento dei monaci e di essere rimasta benedetta (ié stata na benerezione a lu cummende). Un fatto simile non poteva scandalizzare la laica opinione pubblica aviglianese che sulla castità dei ministri della Chiesa non faceva molto affidamento. Inoltre per consolazione la moglie invita il marito a non preoccuparsi per quel bambino non suo. Crescerà bene, avrà ciò che desidera e quando diventerà adulto andrà pure a Napoli all’università. 

 

Per un figlio dell’emigrazione era gran vantaggio potersi laureare. 

TOMMASO_RUSSO

UN PAESE, LA SCUOLA, LA MERICA 

ancora oggi si trovano, atti, documenti, registri, relazioni, statistiche, che conservano memoria di quel lontano e faticoso processo di conquista dell’alfabeto da parte dei bambini e delle bambine aviglianesi.

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 Parte II

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