LA PIAZZA DEI GAGA’ di Fernando Popoli Speciale Napoli aprile maggio 2022 Ed. Maurizio Conte

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ciao Cocò, ciao Fefè, tanti cari saluti a mammà…”, 

così recitava una canzone alla moda nella Napoli degli anni Cinquanta, quando Graziella Buontempo, non ancora romana, passeggiava nella piazza col marito sfoggiando il suo stile di icona napoletana del buon gusto, fermandosi per l’aperitivo al bar Cristallo. 

 

Erano gli anni in cui la città risorgeva completamente dalle brutture della guerra e la moda ritornava come esperienza essenziale di vita e di classe sociale per nobili, nuovi ricchi e borghesi emergenti, arrampicatori sociali e gigolò, un mondo variopinto che si ricomponeva come un mosaico all’insegna del buon gusto e dello stile.

Nell’adiacente Riviera di Chiaia, in un piccolo negozio di 20 metri quadri, 

c’era, e c’è ancora con il nipote, un signore ossequioso, 

gentile, affabile, con abito rigato e panciotto,


che dal cassetto del suo mobile in mogano tirava fuori gli “Square”, i tagli con i quali faceva scegliere le cravatte da confezionare su misura ai suoi clienti. Il negozio, Eugenio Marinella, era anche salotto ed occasione di piacevole passatempo per scegliere impermeabili Burberry, cappelli Lock, pullover Coxmoore e profumi Floris, tutti articoli inglesi che il figlio Gino, allora ragazzo di bottega, andava a scegliere personalmente a Londra. 

 

Nella vicina Via Filangieri imperava Bebè Rubinacci, con la sua London House, un negozio di raffinata eleganza col parquet di legno e le vetrine incorniciate di nero, dov’era possibile acquistare altri prodotti inglesi, articoli di Hermès, cravatte regimental, farsi confezionare abiti dal mitico Vincenzo Attolini e camicie rifinite a mano dalla signora Buonamassa.

Tutti capi che Bebè misurava, plasmava, aggiustava con la sua supervisione 

stilistica, per poi farli confezionare a questi artigiani a suo nome 

per clienti come Giovanni Ansaldo, Vittorio De Sica, 

Curzio Malaparte, Eduardo de Filippo 

o il principe Umberto di Savoia.

Attolini lavorava anche in proprio nella sartoria adiacente al Cinema Delle Palme e cuciva vestiti per nobili e meno nobili. Una volta fu chiamato dall’industriale tedesco Sachs von Opel, proprietario dell’omonima fabbrica di automobili, che l’ospitò nella sua villa in Costa Azzurra con tutta la sua équipe per 30 giorni, per farsi confezionare 40 vestiti, mentre un noto aristocratico si faceva cucire in continuazione nuovi capi affermando che una volta morto Attolini non sarebbe rimasto nessuno in grado di fargli quegli abiti così eleganti. 

 

La signora Buonamassa riceveva nel suo atelier in un palazzo tra Via Vittoria Colonna e Parco Margherita, a ridosso delle scale, rigorosamente per appuntamento, e l’attesa per le camicie era di qualche mese, se tutto andava bene, ma i clienti aspettavano pazienti per avere quelle camicie con i giri delle maniche ribattuti a mano ed i bottoni alti di madreperla.

I luoghi deputati per lo show e gli incontri sociali, oltre a Piazza dei Martiri, 

erano Via dei Mille, Piazza Santa Caterina da Siena, Via Carducci 

e Piazza Amedeo. Lì sfoggiavano eleganza e stile 

i rampolli delle buone famiglie e gli stessi genitori.


Per le donne c’erano l’atelier della De Finizio al numero 40 di Via dei Mille, nel palazzo con la palma al centro del cortile, e la modista Ninetta la Magna con i suoi favolosi cappelli su misura, che primeggiavano tra le tante sartorie che vestivano, in tempi precedenti al prêt-à-porter, le signore della “Napoli bene”. 

 

Nel corso degli anni l’antica tradizione del buon gusto continua, la maison Eugenio Marinella ha ampliato il negozio della Riviera di Chiaia con un appartamento nello stesso palazzo, ha poi aperto sedi a Londra, Roma, Milano e Tokyo e distribuisce le sue cravatte insieme a tanti altri articoli originali in tutto il mondo. Sono passati dalla sua sede il presidente Clinton, Enrico de Nicola, Francesco Cossiga, Pietro Barilla, il principe Carlo d’Inghilterra e tanti altri personaggi famosi.

Ai suoi tempi Gino, il figlio di Eugenio, si recava qualche giorno prima di Natale 

a Milano con un campionario di cravatte e lì, in un albergo del centro, 

incontrava Barilla ed altri facoltosi compratori che gli ordinavano 

centinaia di cravatte da regalare ad amici e clienti 

per l’imminente festività.


Il nipote Maurizio, ora alle redini dell’impresa, disegna una vasta serie di prodotti: foulards, borse, pochettes, tutti rigorosamente all’insegna dello stile e del buon gusto.

Anche Rubinacci ha messo piede a Londra:


Mariano, che ha ereditato la London House del padre, ha trasferito la sua eleganza di moda inglese nella capitale britannica e gestisce il negozio insieme al figlio Luca. Lui, napoletano, veste gli inglesi alla moda napoletana. 

 

Ed il mitico sarto Attolini ha lasciato una forte eredità: 

i nipoti, figli di Cesare Attolini, gestiscono un’importante 

fabbrica di abiti sartoriali che vendono in tutto il mondo, 

nelle boutiques raffinate di Miami, Mosca, New York, esportando la raffinatezza di un abito su taglia o su misura rifinito del tutto artigianalmente secondo l’antica tradizione sartoriale napoletana.

A Napoli, l’eleganza si perpetua e fa scuola il “Made in Naples” 

e non il Made in England in un mondo esclusivo 

che chiede sempre più raffinatezza,


dove l’eleganza, lo stile, la manualità artigianale è considerata un’autentica opera d’arte, a testimonianza di quella creatività unica che contraddistingue la città in tutti i campi.

 

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DOMENICO STARNONE. IN VIA GEMITO FINISCE IL NOVECENTO di Giuditta Casale Speciale Napoli aprile maggio 2022 ed maurizio conte

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DOMENICO STARNONE. IN VIA GEMITO FINISCE IL NOVECENTO

 

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Un fiume in piena e vigoroso, che conserva sempre fresca, genuina e chiara la sorgente.

Nel suo corso ha portato a compimento un’idea novecentesca di Letteratura, culminata in Via Gemito, pubblicato per la prima volta nel 2000 da Feltrinelli, che gli valse

Premio Strega nel 2001,


e ristampato da Einaudi nel 2020, nella collana Supercoralli, riportando in copertina il quadro paterno dei Bevitori, perduto, invano cercato e finalmente ritrovato, di grande rilevanza, nel corso della narrazione, per la relazione complicata e conflittuale tra padre e figlio, che è il fulcro centrale del romanzo: Federico, il padre, considerava il quadro l’apoteosi del suo successo, millantato e inseguito spasmodicamente, in campo pittorico; il figlio, Mimì, voce narrante del romanzo, si era prestato per ore interminabili a fargli da modello, con l’illusione che la fama del padre si sarebbe riverberata su di lui e avrebbe mutato l’indifferenza paterna nei suoi confronti, come per il resto della famiglia.

Nella mia soggettiva percezione di lettrice, Via Gemito chiude 

il Novecento letterario italiano con un significativo sbatter di porta, 

come avveniva spesso nella casa napoletana di Via Gemito

in una delle tante furiose litigate con le quali 

il padre dava sfogo alla sua irruenza.


Domenico Starnone è un fiume a delta. Il suo sfociare nel mare del nuovo Millennio è un’apertura ampia e fluida in nuove prospettive letterarie, che investono non tanto il contenuto, quanto la forma. Continuando nella metafora del fiume, se le acque delle opere più recenti conservano la stessa composizione per quello che riguarda i temi rispetto a Via Gemito – le relazioni familiari, il peso della memoria, la forza metamorfica del tempo -, pur essendo mosse e agitate da declinazioni e sfumature diverse, è nel vigore e nella capacità dello scorrere, nel fluire delle parole sulla pagina, nello stile che lo scrittore,

nato a Napoli nel 1943, riapre la porta chiusa in faccia al Novecento 

con Via Gemito su un nuovo, intenso, esaltante paesaggio letterario 

che guarda diritto negli occhi il nuovo Millennio, e scopre 

una diversa, turbolenta, cangiante dinamica relazionale.


All’interno di un’ideale percorso della Letteratura italiana – perché la produzione di Domenico Starnone è pienamente Letteratura -, l’importanza dello scrittore napoletano, che tale resta per ritmo della prosa e orecchiabilità della voce, nella mia prospettiva personale, è quella di portare a valle e di lasciar sedimentare il Novecento letterario in un’opera composita, soprattutto a livello stilistico e linguistico, come Via Gemito, e di proseguire il suo percorso nel mare aperto del XXI secolo, con uno stile che si è fatto essenziale, aforistico, pregnante e a livello strutturale condensato e compatto.

Prova di questo nuovo modo di narrare sono le opere recenti:


Lacci, Scherzetto
e Confidenza, tutti pubblicati da Einaudi a partire dal 2014, legati in una trilogia libera per indagare con acume e introspettiva perspicacia le relazioni sentimentali e familiari, non più sulla base della testimonianza, incerta e traballante, del figlio di Via Gemito, ma dall’interno della relazione stessa come marito e compagno in prevalenza, senza però acquisire una maggiore stabilità, ma conservando quel tratto malfermo e incerto che è una delle caratteristiche più pregnanti della voce del narratore, scelta consapevole e feconda dello scrittore; per poi confluire e trovare una sintesi, che diventa una pietra miliare a segnare non tanto il percorso fatto, quanto quello che può essere ancora percorso, in Vita mortale e immortale della bambina di Milano, edito nel 2021 da Einaudi sempre nella collana Supercoralli, ma nel divertito formato ridotto.

Quello che lega e differenzia i libri più recenti da Via Gemito 

è la domanda “sbagliata” che il lettore si ritrova a porsi nel primo

 e che gli si ripropone nei nuovi:


l’intreccio e la confusione tra narratore o protagonista con lo scrittore, tra vicende narrate e personale biografia. Questo mi appare il patto, o forse il tranello, che Domenico Starnone ha messo in campo, con sorriso sornione e accattivante, da Via Gemito e che ha ribadito con conseguenze importanti e fondative per il nuovo Millennio nella trilogia, per poi esplicare in termini pienamente poetici, nel senso di farsi del suo modo di scrivere e di strutturare il racconto, in Vita mortale e immortale della bambina di Milano, già dal titolo nell’endiadi fortemente ossimorica e nell’errore, perseverante e persistente e così incisivamente letterario, del dato anagrafico.

È questo il filo, o meglio la catena, con la quale Domenico Starnone 

ha imprigionato i suoi lettori, trascinandoli in un percorso letterario 

affabulante e innovativo,


che viene svelato senza più giochi di infingimenti, che pure sono il sale della Letturatura, in Vita mortale e immortale della bambina di Milano, dove la forza delle parole e il vigore dell’immaginazione, la dimensione sfuggente della memoria e la capacità dei ricordi di creare mondi paralleli, la dicotomia, quasi sanata dalla Letteratura quando è vera e mitopoietica, tra vita e morte, tra mortalità e immortalità diventano lampanti, visibili e vissuti, fulcro stesso della narrazione. Tema e struttura, immanenza e trascendenza dell’opera.

Domenico Starnone lo affermava già per Via Gemito in un’intervista: 

 “Non è importante che ciò che raccontiamo sia tutto realmente accaduto. 

L’essenziale è che, di ciò che è accaduto, sia riportata la vita vera, 

la vita intensa delle persone conosciute, che ci hanno amato, 

ma anche ferito, aiutato a crescere, ma anche tormentato 

e che questo miscuglio di odio, amore, 

conflitti alla fine, dalla pagina scritta, 

venga fuori.”


Leggete alla luce di questa riflessione Vita mortale e immortale della bambina di Milano e vi sarà chiaro su quale “fossa dei morti” lo scrittore vi ha condotto come ingresso nel più autentico antro della Letteratura: 

 

“La cosa migliore, mi aveva suggerito, era che restassi vivo sempre, senza distrarmi e finire per sbaglio sottoterra. Fu allora che, allo scopo di farmi capire che sottoterra non si stava bene, mi parlò per la prima volta della fossa dei morti.”

 

 

 

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Raimondo di Sangro principe di Sansevero di Gaia Bay Rossi Speciale Napoli aprile maggio 2022 Ed. Maurizio Conte

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RAIMONDO DI SANGRO PRINCIPE DI SANSEVERO

 

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La citazione dell’astronomo e direttore dell’Osservatorio di Parigi rispecchia perfettamente la figura del principe di Sansevero: uomo sapiente e versatile, vero genio del suo secolo, grande conoscitore delle lettere, delle arti e del pensiero filosofico, così come valoroso uomo d’armi, primo Gran Maestro della Massoneria napoletana, prolifico inventore e grande mecenate. Tutto questo nell’epoca creativa e feconda del primo Illuminismo europeo.

Un uomo così innovativo ed eclettico non poteva non far scaturire

numerosissime leggende popolari:


«Fiamme vaganti, luci infernali – diceva il popolo – passavano dietro gli enormi finestroni che danno, dal pianterreno, nel vico Sansevero […] Scomparivano le fiamme, si rifaceva il buio, ed ecco, romori sordi e prolungati suonavano là dentro […] Che seguiva, dunque, ne’ sotterranei del palazzo? Era di là che il romore partiva: lì rinserrato co’ suoi aiutanti, il principe componeva meravigliose misture, cuoceva in muffole divampanti…» 

Salvatore Di Giacomo, Un signore originale, da Celebrità napoletane, Trani 1896.   

 

Raimondo nacque nel 1710 da Antonio di Sangro duca di Torremaggiore e dalla nobildonna Cecilia Gaetani dell’Aquila d’Aragona. La madre morì pochi mesi dopo averlo messo alla luce nel castello di Torremaggiore, paese nella Capitanata, uno dei feudi della famiglia del padre. 

Il ragazzo

fu cresciuto ed educato dai nonni paterni che, dopo un primo periodo a Napoli, 

dove venne avviato allo studio della letteratura, della geografia 

e delle arti cavalleresche, lo mandarono al Seminario romano 

diretto dai padri Gesuiti, in cui rimase per dieci anni.


Lì Raimondo ebbe modo di dimostrare la sua intelligenza ed una grande curiosità, dedicandosi allo studio della filosofia, delle lingue, della storia antica, della chimica; dimostrò anche una buona predisposizione per la meccanica, nonché per la pirotecnica, le scienze naturali, l’idrostatica e l’architettura militare. Di questo periodo è la sua prima invenzione: un palco pieghevole progettato in occasione di una rappresentazione teatrale al Seminario gesuitico, che suscitò lo stupore di Nicola Michetti, architetto di corte dello zar Pietro il Grande, incaricato della costruzione.   

 

Terminati gli studi nel 1730,

visse tra Napoli e Torremaggiore fino al 1737, anno in cui si stabilì definitivamente nel Palazzo Sansevero, nel cuore della Napoli storica.


Qui si sposò nel 1736 con la cugina Carlotta Gaetani dell’Aquila d’Aragona. Per il suo matrimonio Giambattista Vico gli dedicò un sonetto (Alta stirpe d’eroi, onde famoso) e a Giovanni Battista Pergolesi fu commissionata dallo stesso principe la prima parte di un preludio scenico. Negli anni che seguirono, grazie alla stima che di lui aveva Carlo III di Borbone, il principe elevò le sue cariche ufficiali, divenendo prima gentiluomo di camera con esercizio di Sua Maestà e poi Cavaliere dell’Ordine di San Gennaro. Accrebbe anche il numero delle sue invenzioni, con un’ingegnosa “macchina idraulica”, capace di sospingere l’acqua a qualsiasi altezza ed un innovativo “archibugio” a retrocarica, in grado di sparare sia a polvere, sia ad aria compressa.

Negli anni della maturità Raimondo fu particolarmente prolifico, 

tanto che la sua fama oltrepassò i confini del Regno


realizzò un “cannone leggero” che pesava centonovanta libbre in meno degli altri modelli esistenti, ma con una gittata molto superiore; fu colonnello del Reggimento Capitanata di Carlo III di Borbone, distinguendosi nella vittoriosa battaglia di Velletri contro gli Austriaci del 1744. Da quest’ultima esperienza nacque la pubblicazione Pratica di Esercizj Militari per l’Infanteria, elogiata da Luigi XV di Francia e da Federico II di Prussia, poi adottata dalle truppe spagnole.

Già iscritto all’Accademia dei Ravvivati di Roma ed alla Sacra Accademia fiorentina, nel 1743 fu ammesso all’Accademia della Crusca con lo pseudonimo di Esercitato; l’anno successivo ottenne da Benedetto XIV il permesso di leggere… i “libri proibiti”, avendo così accesso ai libri dei filosofi francesi e degli illuministi più radicali, nonché ai testi massonici ed alchemici.


Realizzò spettacoli pirotecnici con fuochi d’artificio dai colori sfavillanti e mai visti prima di allora, in cui inserì anche il verde, noto per il suo valore simbolico ed ermetico. 

Creò un tessuto impermeabile con cui fece confezionare due mantelle, con le quali lui ed il sovrano disquisivano, passeggiando sotto la pioggia, sotto gli occhi dei napoletani! 

Preparò alcuni farmaci che guarirono inaspettatamente da malattie gravi. 

Si dedicò ad esperimenti di idraulica e meccanica, mettendo a punto la famosa “carrozza marina” su cui si vedeva avanzare nelle acque del golfo, grazie ad un sistema di pale a forma di ruote, tra lo stupore del popolo. 

Sviluppò un metodo di stampa con caratteri policromi, utilizzando delle macchine tipografiche da lui stesso progettate. 

Creò una sostanza che era l’esatta riproduzione del sangue di San Gennaro contenuto nella Sacra Ampolla, e riusciva nella relativa liquefazione.

In questo periodo iniziò anche i lavori alla Cappella Sansevero, 

che proseguirono poi fino alla sua morte.


Ma tutto il progetto trovò fondamento nella sua appartenenza alla Massoneria, cosa che lo mise al centro di un “intrigo” che parve “il maggior del mondo”. Dopo aver costituito la loggia “Rosa d’Ordine Magno” (anagrammando il suo nome), il principe scalò tutta la gerarchia della Libera Muratoria fino a divenire Gran Maestro di tutta la Massoneria napoletana.

Di lì a poco Benedetto XIV, con la bolla Providas Romanorum Pontificum 

del 18 maggio 1751, condannava la Massoneria, proibendo ad ogni cattolico 

di farne parte. A questa seguì un Editto Regio emanato dal re Carlo III di Borbone, che vietava le attività massoniche. Il principe consegnò al re la lista degli affiliati 

e scrisse una Epistola a Benedetto XIV nella quale difese 

la fedeltà di tutti i massoni, sia al Papa, sia al Re.


Si prestò a fare un passo indietro, anche se continuò, con la dovuta riservatezza, a sovrintendere la sua loggia “Rito Egizio Tradizionale”, portando avanti, però, l’attività più spirituale ed ermetica, molto diversa da quella della Massoneria tradizionale appena abbandonata.   

 

Nonostante l’abiura, i rapporti con la Santa Sede si deteriorarono a causa della pubblicazione della Lettera Apologetica dell’Esercitato Accademico della Crusca contenente la Difesa del libro intitolato Lettere d’una Peruana per rispetto alla supposizione de’ Quipu scritta alla Duchessa di S**** e dalla medesima fatta pubblicare. Il testo verteva formalmente su un antico sistema di nodi (i quipu) degli Incas del Perù, che servivano a conservare e trasmettere informazioni; in realtà, conteneva numerose citazioni di autori eterodossi, princìpi massonici, rimandi alla cabala e – pare – anche messaggi esoterici nascosti da un codice segreto. La Lettera fu considerata “una sentina di tutte l’eresie” dall’Inquisizione romana che, nel 1752, la mise all’Indice dei libri proibiti.

A quel punto Raimondo preferì dedicarsi alle sue invenzioni 

nei sotterranei del proprio palazzo.


Fra queste, quella più nota fu un indecifrabile “lume perpetuo”, «poiché dunque non si può dubitare che esso non sia un vero lume […] e che è durato per tre mesi e qualche giorno senza alcuna diminuzione della materia che gli serviva da alimento, gli si può dare a giusto titolo il nome di perpetuo».

Con due di queste lampade eterne il principe avrebbe voluto illuminare 

il Cristo velato di Giuseppe Sanmartino, una volta posto 

nella Cavea sotterranea:


ma il progetto non venne realizzato e non si parlò più del lume perpetuo. Si continuò invece a parlare del Cristo velato, una delle opere marmoree più straordinarie al mondo, e della Cappella Sansevero, il cui progetto iconografico, esaltazione del casato e tempio alchemico, ermetico e massonico, fu ideato dal principe stesso e ricreato dagli artisti prescelti. Le dieci statue delle Virtù, tra cui la Pudicizia e il Disinganno dedicate alla madre ed al padre di Raimondo, ed il Cristo velato, il cui velo è «fatto con tanta arte da lasciare stupiti i più abili osservatori», sono gli elementi portanti di tutto il percorso simbolico che comprende il pavimento con il motivo a labirinto e, oggi, anche le misteriose “macchine anatomiche”, realizzate con due scheletri di uomo e di donna, con il sistema arterioso e venoso perfettamente integro.

I lavori durarono fino alla fine della sua vita. Come scrisse Gian Luca Bauzano 

sulla morte di Raimondo di Sangro:


«Gli esperimenti alchemici, probabile l’uso di materiali radioattivi lo portarono alla morte. Scompare in una nuvola sulfurea, come Don Giovanni di Mozart. Quando il musicista apprende della sua morte ne resta colpito. Gli dedica una Sonata in memoriam. E forse lo eterna come Tamino nel Flauto. Ma una magia di Sangro l’ha compiuta, come la Fenice si è eternato».

 

«Non era un accademico, ma un’accademia intera».
Jérôme Lalande, Voyage d’un François en Italie, 1769

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Fonti 

 

Museo Cappella Sansevero, museosansevero.it 

Dizionario Biografico degli Italiani, voce Raimondo di Sangro 

Dizionario Biografico degli Italiani, voce Nicola Michetti 

Carteggio con Andrea Alamanni in Archivio Digitale Accademia della Crusca: adcrusca.it 

Gian Luca Bauzano, Raimondo di Sangro, il principe massone che scoprì la radioattività, in Corriere.it 

Rino Di Stefano, Raimondo di Sangro, il principe maledetto, in Il Giornale, 18 ottobre 1996, riportato in rinodistefano.com 

Vittorio Del Tufo, Il Cristo velato e la favola nera del principe, Il Mattino 20 marzo 2016, in ilcartastorie.it

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Conoscenza, Innovazione e Impresa: una prospettiva per Napoli di Antonio Lopes – Speciale Napoli – Aprile maggio 2022 Ed. Maurizio Conte

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CONOSCENZA, INNOVAZIONE E IMPRESA: UNA PROSPETTIVA PER NAPOLI 

 

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è stata interessata dal declino di interi comparti produttivi (soprattutto nei settori di base quali siderurgia, chimica, ecc.) che ha inaugurato la stagione della dismissione e, conseguentemente, della formazione di quelli che i geografi chiamano “vuoti urbani”. Infatti, il ridimensionamento delle attività produttive e le politiche di delocalizzazione e decentramento produttivo hanno stravolto gli assetti territoriali, per l’abbandono di molte aree un tempo occupate da imprese che, in molti casi, sono rimasti inutilizzate.

Tuttavia, questo processo non ha interessato solo le strutture industriali, 

ma anche numerosi complessi del terziario che hanno visto perdere 

progressivamente la propria funzionalità per la ridistribuzione 

nello spazio urbano di molte attività economiche.


Tutto ciò è avvenuto in contesto di un’economia di per sé debole; in particolare, ad essere interessate da questi fenomeni, sono state soprattutto le periferie orientale e occidentale di Napoli le quali, sin dall’età borbonica, per le favorevoli condizioni territoriali – morfologiche e di accessibilità – hanno rappresentato le aree preferenziali per la localizzazione di impianti industriali che, nei decenni successivi, sono state affiancate da molti altri stabilimenti di diversi comparti produttivi progressivamente dismessi. In assenza di una pianificazione illuminata ed innovativa, queste aree hanno finito col trasformarsi in spazi degradati, avulsi dai loro contesti territoriali, abbandonati e motivo di rischio per l’uomo e per l’ambiente

Al vuoto ed al degrado occorre reagire e, sebbene in modo stentato e talvolta contraddittorio, si sta faticosamente facendo strada la tendenza a considerare strategico, per il recupero di queste aree, puntare su settori produttivi 

caratterizzati da un maggiore contenuto di conoscenza. 

 

In altri termini, l’innovazione scientifica e tecnologica assume rilievo cruciale, così come la capacità delle imprese più dinamiche ed innovative di inserirsi in un contesto territoriale favorevole, caratterizzato dalla presenza di centri di ricerca ed università. 

 

In questa dimensione si rivalutano anche le città nelle scelte di insediamento delle imprese e si accentuano i processi di concentrazione dell’attività economica anche all’interno delle stesse regioni. Nel 2025, secondo una ricerca McKinsey, in 600 città globali il 66% della popolazione del mondo produrrà due terzi del Pil mondiale e la competizione vedrà sempre più coinvolte le grandi aree metropolitane ricche di connessioni.

Una certa narrazione vede in Napoli la città del Teatro, della Musica e delle bellezze naturali, si dimentica però che il capoluogo campano è sede della più antica università pubblica d’Europa istituita dall’Imperatore Federico II nel 1224 e che vanta una prestigiosissima tradizione nel campo della ricerca scientifica, si pensi soltanto all’istituzione della prima cattedra di genetica in Italia.


La presenza di un forte polo universitario – ben cinque atenei – in campo scientifico è condizione necessaria per consentire anche la nascita ed il rafforzamento di imprese ad alta tecnologia.

 

In questi ultimi anni si possono segnalare varie iniziative

che vedono il coinvolgimento – faticoso – di soggetti pubblici e privati che si muovono in questa direzione tanto nella periferia ovest che in quella ad est della città partenopea. Sul versante occidentale, nel quartiere di Bagnoli, ai margini dell’area ex-industriale dell’Italsider, due consorzi di imprese sono impegnati nella realizzazione di un Polo Tecnologico per ospitare uffici e laboratori di ricerca e sviluppo, sia per le proprie aziende, sia per le altre che gradualmente vorranno insediarsi in un comprensorio con grandi potenzialità.

 

Si prevede di costruire Laboratori ed uffici per ospitare fino a 3000 tecnici e ricercatori. Oltre ad uffici e laboratori sono previsti parcheggi interrati ed esterni, ampi spazi verdi ed aree per ospitare eventi, show-room, sale riunioni, servizi di ristorazione, commerciali, ricettivi e per la logistica.

 

La realizzazione di un luogo fisico per aggregare le competenze risulta strategico e consentirà di sviluppare collaborazioni tra le imprese e con enti di ricerca. La condivisione delle conoscenze e delle esperienze realizzative sarà caratterizzata da un elevato livello di innovazione già con gli impianti previsti con la costruzione del Polo Tecnologico. 

 

Con più di 30 imprese ed enti di ricerca, il progetto si presenta con un rilevante programma di investimenti che si svilupperà costituendo un aggregato di personale con alta qualificazione professionale. Il Polo accoglierà centinaia di persone anche dall’estero, che troveranno a Bagnoli uno spazio dove lavorare, soggiornare e trascorrere il tempo libero tra le tante attività ricreative disponibili. Verrà a crearsi così un indotto economico e sociale con ricadute positive sull’intero territorio circostante.

Nel Polo Tecnologico saranno applicate le migliori tecnologie e realizzati servizi innovativi, alcuni in forma sperimentale ed altri già industrializzati,


che potranno essere mostrati e valutati fisicamente, come una grande show-area con possibili ed auspicate estensioni nella circostante e riqualificata area ex-industriale di Bagnoli. 

 

L’intero progetto, come si diceva, nasce dalla collaborazione di due consorzi di aziende, chiamati rispettivamente Polo Tecnologico Ambiente (PTA) e Polo Tecnologico di Bagnoli (PTBagnoli). Questi consorzi riuniscono numerose aziende attive nel campo dell’innovazione, decise a valorizzare insieme il territorio locale attraverso l’eccellenza che dimostrano nelle più avanzate tecnologie. Tra queste Bit4id, Gematica, Graded, IBI, IDI, IPmotive, Itatech, Protom, Sea Costruzioni, e molte altre.

 

Le competenze delle imprese del Polo Tecnologico sono 

di assoluto valore anche a livello internazionale

 

ed includono, tra l’altro: Valutazione e riduzione dell’impatto dei rischi ambientali da cause naturali e antropiche, Sistemi e servizi di sicurezza informatica, Smart-City: gestione ambiente e infrastrutture, Bonifica di siti contaminati, Tecnologie e materiali ecocompatibili, Energie alternative e gestione integrata dei rifiuti. 

 

Ogni azienda darà vita ad un centro di eccellenza tecnologica, detto anche “TEC – Tecnology Excellence Center”, in cui portare avanti le proprie attività di ricerca applicata e sviluppo. La presenza di tante diverse realtà all’interno del Polo Tecnologico porterà ad un fruttuoso scambio di competenze e know-how. 

 

Il Polo Tecnologico avrà un ruolo fondamentale nei processi di sviluppo economico e sociale del territorio.

 

Per raggiungere questo importante obiettivo si ispira all’eccellenza già raggiunta 

a livello locale in tre diversi ambiti, dove tutti i fattori cooperano, 

si influenzano e si arricchiscono vicendevolmente.


A Napoli Est si annovera già la presenza di importanti multinazionali quali la Apple, Cisco, Deloitte, Merck, Accenture, IBM, NTT Data, che operano in collaborazione con le università Federico II e Parthenope in percorsi di formazione ed Academy per giovani e laureati. In particolare, il Digital Innovation Hub promosso da Confindustria opera per facilitare le relazioni tra Industrie, Centri di Ricerca ed altri attori istituzionali. Il Polo Tecnologico di Bagnoli offrirà nuovi spazi per ampliare le presenze qualificate nell’area di Napoli con nuovi centri di eccellenza tecnologica.

 

Tutto questo si inserisce in un territorio rinomato in tutto il mondo per la sua varietà 

e per la sua ricchezza, ed il patrimonio ambientale, culturale e monumentale 

di Napoli e dell’intera regione non smette mai di stupire.

Oltre ad essere una continua fonte di ispirazione, la bellezza del territorio è un solido pilastro dell’economia locale che può fungere anche da attrattore turistico. 

 

Spostiamoci ora verso la periferia orientale, dove è stato inaugurato, nel Polo Tecnologico Aerospaziale di via Gianturco a Napoli, il laboratorio “Fabbrica dell’Innovazione” per le attività di ricerca in condizioni di microgravità: una struttura di oltre 1000 mq. E’ stato sottoscritto il contratto tra l’Agenzia Spaziale Italiana (Asi) e la società Ali (Aerospace Laboratory for Innovative Components) per la realizzazione di due Space Box contenenti altrettanti esperimenti di life science che saranno inviati sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS). Gli Space Box sono laboratori miniaturizzati realizzati dalla società Ali e già qualificati per le attività nello Spazio lo scorso agosto 2021 che consentiranno la totale automatizzazione degli esperimenti.

 

All’interno del Polo tecnologico Aerospaziale è stato sviluppato 

il progetto READI-FP, finanziato dalla Regione Campania,

 

che nell’ultimo anno ha conseguito risultati davvero significativi con la certificazione del Mini Lab, strumento innovativo per “incubare” esperimenti al servizio della ricerca aerospaziale. 

 

Una fabbrica dell’innovazione in una struttura che in passato ha ospitato una grande fabbrica metalmeccanica, la Mecfond, segna una continuità che è paradigmatica delle potenzialità che questa storica area della città può ancora esprimere al servizio della rinascita di Napoli.

 

Va anche detto che l’apertura dei nuovi spazi della Fabbrica dell’Innovazione costituiscono un ulteriore elemento di rafforzamento 

del Distretto Aerospaziale della Campania.

Quest’ultimo rappresenta ormai una realtà consolidata che si occupa della cura e gestione delle collaborazioni e dello scambio di know-how in ambito internazionale, nonché della promozione di partnership tra mondo imprenditoriale, istituzioni, università e centri di ricerca che favoriscano processi di cross-fertilization a supporto della creazione di nuove tecnologie, della loro diffusione e del loro trasferimento nel settore aerospaziale.

 

Il modello del distretto si è rivelato a 10 anni dalla sua costituzione una struttura efficiente poiché supera la logica della relazione occasionale tra il mondo della ricerca ed il mondo delle imprese e favorisce una relazione costante fatta di sinergie per condividere le visioni di medio e lungo termine. In Campania siamo forti più nel settore della ricerca che in quello industriale.

 

Tra i nuovi progetti vanno segnalati la Urban Air Mobility, cioè la possibilità 

di alleggerire il traffico e contrastare l’inquinamento

 

mettendo a disposizione degli aerotaxi che si muoveranno ad esempio tra gli aeroporti principali della Campania, come Capodichino e Pontecagnano, raggiungendo le mete senza intasare il traffico della città. Vi è poi il forte contributo alla svolta green nella ricerca della limitazione dell’inquinamento, soprattutto quello acustico, non solo le emissioni di carbonio, utilizzando materiali e processi di lavorazione riciclabili che richiedano poca energia. 

 

In Campania la Tecnam ha avanzato un progetto di un aereo a propulsione elettrica, ma c’è anche grande interesse per il volo ipersonico, che coprirebbe la tratta Napoli – New York in un’ora e mezza.

 

Il distretto costituisce un luogo di discussione e di condivisione 

che produce conoscenza di elevato impatto.


Purtroppo una parte troppo piccola di questa conoscenza si trasforma in innovazione a favore delle imprese e genera lavoro in maniera ampia a causa della ridotta dimensione delle imprese potenziali destinatarie. Si ritorna così al punto da cui si era partiti: la conoscenza è condizione necessaria per la crescita aziendale, ma non è sufficiente se non è integrata da un intervento pubblico efficiente e da una politica industriale attenta alle ragioni dello sviluppo di un territorio dalle notevoli potenzialità.

 

 

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