SAN LEUCIO. GENIUS LOCI di Helene Blignaut – Numero 7 – Aprile 2017

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SAN LEUCIO. GENIUs         LOCI

 

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La bellezza conquista e innamora perché, oltre al fascino della superficie percepita dallo sguardo umano, nasconde e palesa una profondità, una sub-stantia che irradia valore e che chiede di non essere trattenuta, bensì diffusa a chi ne sappia godere.

Bellezza contagia bellezza e, in un luogo che riesca ad apparire nello splendore che gli viene dalla sua propria storia, ogni cosa e ogni avvenimento che vi s’inseriscano saranno belli per conseguenza e brilleranno della stessa luce, seguendo naturalmente il palinsesto prospettico generato dal mirabile contenitore.

 

Esiste  un l uogo,  nel Sud d’Italia, la cui bellezza, come in una fiaba, deve tutto alle sue stesse vicende secolari e alle opere  che  proprio  lì furono create.  Opere  che,  ancora  oggi, escono da sapienti mani artigiane per essere offerte all’intelligenza  dell’estimatore  in  tutta  la  loro  profondità  estetica  atemporale  e  che  perpetuano l’ambizione di una virtuosa  sintesi  tra  il  bello  e  il  giusto  così  come la pretese l’assoluto iniziatore, il re Ferdinando IV di Borbone. Si parla   dunque   di  San  Leucio,  frazione  della  città  di  Caserta, che,  per  volere  di  questo  re,  divenne  subito   un imprevedibile  unicum  tra  nobiltà  monumentale  affacciata  su verdi paesaggi pensosi e una comunità umana che si ritrovò privilegiata nell’apprendere l’arte della tessitura della seta e della produzione di straordinari manufatti.

 

Mentre la Real Colonia di San Leucio vedeva la luce e si avviava quieta e operosa a realizzare, giorno dopo giorno, pur nel suo esiguo limite territoriale, il regale sogno sconfinato, i cognati di Ferdinando IV lasciavano la testa sotto la lama di una cruenta rivoluzione.

 

Il nostro re aveva preso in moglie Maria Carolina d’Asburgo e Lorena, sorella dell’Autri-chienne (ndr. Chienne in francese significa cagna), così come era chiamata, dal popolo francese in rivolta, Maria Antonietta d’Austria, sposa del re Luigi XVI. Sangue e terrore la cui eco, tuttavia, non riuscì a fermare la volontà di questo visionario che, forse sopraffatto dall’eccessiva pompa della reggia di Caserta, aveva deciso di trasformare il borgo in una splendida nicchia la cui esistenza e meraviglia non restassero, però, fini a sé stesse. Nel luogo già esisteva una deliziosa antica chiesetta e lui fece costruire, nell’area del Belvedere, un casino di caccia e vi mandò a vivere alcune famiglie perché vi si dedicassero. Il re era dotato di una mentalità moderna e così pensò di dare vita a un modello sociale di assoluta novità, imponendo un armonico assetto urbano con una piazza circolare e strade a sistema radiale; promuovendo un’autonomia economica con la creazione di un opificio per la produzione di sete di eccellenza, di qualcosa che davvero mai si fosse visto prima.

   

Non solo visionario, ma anticipatore di quella uguaglianza 

che fondava la dignità del vivere sul lavoro ma anche
sulla previdenza sociale e la considerazione (ante-litteram) 

dei diritti umani con l’orario giornaliero di lavoro ridotto a undici ore anziché le quattordici in vigore nel resto d’Europa, con la parità di paga per uomini e donne, la formazione scolastica obbligatoria e gratuita

e con l’avviamento al lavoro che teneva conto delle attitudini 

dei ragazzi. 

 

Anche la casa di abitazione era gratuita e costruita con tutti i comfort possibili all’epoca. La vaccinazione per prevenire il vaiolo era obbligatoria. La gestione di questa impresa, che inoltre sapeva produrre un notevole indotto, anticipava infatti l’affermazione di diritti la cui rivendicazione avrebbe segnato in seguito la storia politica e sociale del continente. Una sorta di Fernandopoli con un Codice, i cui principi fondamentali erano: l’educazione, la buona fede e il merito e in cui non vi era spazio per distinzioni di grado e condizione. Dal patrimonio vivente dei bachi da seta che venivano coltivati nell’edificio della cuculliera, fino alla preparazione delle matasse, ai filatoi, ai telai, alla seteria meccanica, la creazione di tessuti lussuosi per l’abbigliamento e per prestigiosi arredi seppe evolvere in una straordinaria gamma di broccati di seta con oro e argento, di particolari gros de Naples e anche in un originale tessuto innovativo che venne chiamato Leucide.

   

Con l’introduzione nella prima metà dell’Ottocento del jacquard,

la tecnica di tessitura, di cui si vantava la Francia,

vennero create opere che ne nobilitavano i risultati 

e si avvicinavano più all’arte che a oggetti 

di uso comune.
 

I colori erano naturali e l’ispirazione culturale delle sfumature inusitate imponeva definizioni che già da sé evocavano emozioni e desideri: verde salice, verde di Prussia, Siviglia, Acqua del Nilo… Nomi suggestivi di stoffe per tappezzerie, arazzi, tendaggi, coperture di divani e cuscini, ma anche scialli, corsetti, fazzoletti e altri deliziosi capi d’abbigliamento. I tessuti per l’arredo affascinavano re e regine e Papi e ancora oggi impreziosiscono gli ambienti del Quirinale, del Vaticano, di Buckingham Palace, della Casa Bianca e di altri prestigiosi siti. Ancora, famosi stilisti della moda internazionale si lasciano tentare per le loro creazioni di altissima gamma. La storia scorre, il divenire del progresso produce decadenze e nuovi inizi; così, con l’avvento dell’Unità d’Italia, il sogno di Fernandopoli venne inglobato dal demanio statale. Tuttavia, la mitologia di una materia nata dalla volontà imperterrita di un re non poteva soccombere.

 

Oggi, i tessuti di San Leucio restano un patrimonio d’eccezione e,

in quelle trame, resta immutata una vitalità del fare che non ha mai smesso di nutrire sé stessa. Con l’opportuno ausilio delle nuove tecnologie,senza snaturare il lavoro artigianale, si realizzano opere

che ancora ci riportano la profondità multipla della loro bellezza,

la loro storia, la loro eredità utopica,
 

ma anche la delicatezza tattile o lo spessore cremoso di certe lavorazioni, la consistenza – che pare profumata – dei grandi disegni floreali, le tonalità sonore delle sete croccanti. Sensazioni che stimolano un’appassionata attenzione euristica per scoprirne ulteriori significati. Gli appartamenti reali e la casa del tessitore sono visibili oggi nella loro formula museale; tuttavia, il consorzio delle aziende che discendono da quelle antiche famiglie è più che mai attivo e disponibile. Le iniziative culturali richiamano visitatori da tutto il mondo: in luglio, il Leuciana Festival è un’evocazione storica in costume. In ottobre, la Festa del Vino, delle Vigne e della Seta perpetua, in maniera felicemente materiale, quella fantasticheria che animò un antico re. Nelle fabbriche e nelle botteghe tutta una ricchezza di tesori da scoprire.

 

 

 

 

 

Le foto sono state gentilmente concesse dal Complesso Monumentale di San Leucio

 

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Helene Blignaut

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MOULIN: IL PITTORE EREMITA di Pierluigi Giorgio – Numero 7 – Aprile 2017

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MOULIN:   il pittore eremita  

 

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“Qui non vi è altro che l’opera della natura selvaggia e incontaminata! Vorrei riuscire a tradurre in delicati pastelli, riflessi e trasparenze…. e in ogni sua mirabile mutevolezza, tutta, tutta la luce delle Mainarde….”

 

Ebbene sì, sono a caccia di fantasmi dall’alba, stimolato per caso da una vecchia rivista del 1960 con un articolo a firma Maurizio Costanzo, ove si riferiva della strana vicenda di un pittore francese, vincitore di prestigiosi premi e votato ad una gloria che mai perseguì: Charles Lucien Moulin, nato a Lille nel 1869 e deceduto in Molise nel 1960, che – dando un calcio a galleristi e mercanti d’arte – scelse di vivere quasi metà della sua non breve esistenza, ritirandosi in una sorta di eremitaggio artistico e creativo, nelle alte terre del Volturno. Eccomi a rintracciare questo riflesso di Francia tra i risvolti della montagna e i vicoli del borgo per inseguirne nonostante il tempo andato, il pensiero, la filosofia di vita semplice, del tutto personale eppur così umana, significativa: maggiormente oggigiorno, in tempi di crisi identitaria e relazionale: un messaggio di pace e d’equilibrio sereno con tutte le cose, la natura, gli uomini, gli animali:

 

“Ciò che mi guida, è l’amore, il bello; ma tutte le cose hanno una ragione d’essere; “L’arte dà il segno del divino che è in te. Tu lo intuisci,
lo cerchi – se vuoi. Nella natura, nella comunione di spirito con essa,
lo vivi… Questa sola è la mia verità: l’amore per il prossimo,
la natura e tutto, tutto ciò che è bello!…”

 

“Mio zio lavorava in Francia” mi fa Mimì Coia, un anziano impettito signore, “conosceva Moulin e quando seppe che sarebbe venuto a Villa Medici per un lungo periodo, grazie alla borsa di studio vinta per i suoi meriti artistici, gli disse di fare un salto a Castelnuovo a trovare il fratello che qui in piazza aveva una rivendita di vino e generi diversi. Mio padre se lo vide arrivare a piedi un pomeriggio con una gran barba lunga e folta, addosso un vestito dimesso ed ai piedi le ciocie. Pensando che fosse un vagabondo in cerca di elemosina, o al massimo uno zampognaro di passaggio lo invitò a bere un bicchiere di vino. Il pittore gli rispose con un sorriso e con un italiano misto ad accento francese: “Tu sei Giovanni Coia, vero? Io sono Charles Moulin!”. Al mio papà per poco non gli veniva un colpo: il fratello gli aveva anticipato in una lettera l’arrivo di un “gran professore”, ma non certo così conciato!….”

 

Era persona colta, saggia, paziente, disponibile. Tra l’altro, aveva studiato presso l’Orto botanico di Parigi l’uso delle erbe medicinali
e curò gratuitamente tanta gente, beccandosi una denuncia
da parte del medico locale: nessuno andava più da lui!

 

Roberto Fiocca mi parla della sua natura artistica: Moulin nasce con l’educazione naturalistica di Lille, si perfeziona con questa alta precisione fatta di creazione di vita e di bellezza ideale. Il soggiorno a Castelnuovo al Volturno, è un approdo: egli vede quello che ha sempre sognato: la “bellezza” di Bougherau, suo insegnante d’accademia, la trova nella realtà attraverso lo studio approfondito della natura…. Non seguì nessuna corrente pittorica in particolare: possedeva la rara capacità di afferrare l’anima delle cose; di tutte le cose…. Nei suoi dipinti, vibranti di luce, nella gamma variegata dei colori, si avverte l’alito divino della sua anima… I soggetti ed i delicati paesaggi – tra armonie di tinte e sfumature di colore, luci ed ombre – hanno lo stupore, la meraviglia dell’uomo appena creato; della natura che si scopre alla sua prima alba, venerata come una dea per mostrarla agli uomini in tutta la sua divina bellezza e sacralità…

 

“Il mio metodo è di trovare la composizione che meglio permette di chiarire il sentimento di ogni soggetto; l’ora si intende come luce: passata l’ora, è passato l’incanto… Non cerco mai la stranezza nell’originalità: faccio e agisco solo secondo coscienza. Ho potuto conservare la mia libertà e non mi è costato. Ho sempre sentito di non poter diventare ricco e di non veder chiaro nei miei problemi di pittura che in solitudine e molto tardi: adesso comincio a capire il perché delle cose.

 

Se il fine della vita è l’aspirazione alla felicità, l’Arte deve, in misura dei suoi mezzi, contribuire a questo fine, seminando serena commozione e splendore di bellezza… Il principio ed il dovere dell’artista è di essere l’archetto del violino delle anime e di farle vibrare: è d’essere un germe di felicità.

 

La felicità della pittura moderna invece, consiste proprio nel non riuscire a scoprire nessun perché: essa è piena d’inquietudine e incertezze, è una pittura da sbandati, che rispecchia il male del secolo, dell’uomo moderno che cerca di salire sulle proprie spalle per non essere schiacciato nel vuoto che ha nel cuore…”.

 

Incontrando la gente tornata stanca dalla campagna, chiedeva spesso se poteva fare un ritratto: qualcuno a volte restava perplesso, sapendo che Mssiù li avrebbe fatti posare a lungo e non per una sola volta… Al termine, donava il dipinto e si condivideva quel che una misera tavola poteva offrire: una minestra, un piatto di fagioli o di patate. Non chiedeva mai nulla; si accontentava di poco…  “I Castelnuovesi sono buoni e generosi perché hanno il sole; quando il sole riscalda l’uomo non ha bisogno di lottare: la natura non dà mai cattivi consigli”.

 

M’informo sull’eremitaggio di Moulin: la baracca è lì, proprio in cima a Monte Marrone: l’ha costruita con le sue mani, pietra su pietra; lì è vissuto per qualche anno di erbe, radici, decotti e un pò di cibo offerto dai pastori, tra lupi e camosci e – come la gente del luogo narra – in compagnia di spiriti, streghe e folletti. “Qui non vi è altro che l’opera della natura selvaggia e incontaminata! E’ tutto grandezza e magnificenza!… A chi gli chiedeva se avesse mai visto l’orso, rispondeva: “Ma certo! Ogni mattina quando mi guardavo in uno specchio rotto…”. Era un convinto assertore della filosofia di Jean-Jacques Rousseau da lui tradotta in vita pratica: la civiltà, origine dei mali e le infelicità dell’uomo; la natura, invece, depositaria delle qualità positive… Un’esistenza da condurre in totale simbiosi con la natura stessa; per sentirsi parte viva di essa con animo genuinamente primitivo, con lo stupore autentico di un bambino che conserva ancora il suo spontaneo incanto.

 

“Non si deve rompere l’equilibrio con la natura, ma lasciare il mondo così come è stato creato… Il progresso porterà al regresso, alla corruzione, all’autodistruzione dell’uomo. Ma il mondo non finirà: esso si trasformerà in caos, ma nel caos ci sarà sempre la vita
e tutto risorgerà…  E poi, allo scadere del ciclo – ci saranno altri cicli,
di milioni, miliardi di anni – di nuovo e ancora il caos…”
 

 

Tina Castrataro mi accoglie nella sua casa piena di gatti: “Ero affascinata da quel vecchio, ne ero forse innamorata, in senso spirituale, come può esserlo una bambina; provavo ammirazione, tenerezza. Ricordo che parlava in modo gentile, a frasi brevi, secche, con voce bassissima ed una particolare inflessione francese. Era un uomo fantastico, mite, grande! Credeva in qualche cosa di assoluto e indirettamente credeva in Dio, poiché confidava nell’arte, nel sublimare tutto in essa, affetti, religione. “Non è per virtù mia che mi vengono le idee… è una forza, un’energia superiore che me lo manda: il mio Dio? La bellezza, la natura, l’arte, l’intelligenza… Un Creatore che chiamano Dio, Allah, Geova e altri nomi ancora… Vivere secondo i principi morali della religione, di qualsiasi religione, è per me vivere secondo natura, nel rispetto di tutte le creature, nell’accontentarmi di quanto mi è stato dato, nell’accettare la vita com’è…”

 

21 Aprile 1960: una suora lo assisteva già da tempo per le cure necessarie. Ormai novantunenne, allettato e nonostante gli acciacchi, volle ritrarla… D’un tratto, la mano scivolò sul foglio, inerte…….  Se ne andò via così Moulin, proprio quando la luce con le sue sfumature, si risveglia dal lungo sonno invernale: sì, se ne andò così… il primo giorno di primavera…

 

È l’alba…. attratto da una forza irresistibile, ai piedi del monte, gli scarponi inzuppati di rugiada, fiatone in gola, passo dopo passo, m’inerpico lungo una ripido sentiero, ingoiato da un immenso bosco di faggi secolari. Un paio d’ore tutte d’un fiato per arrivare in cima… e finalmente il rifugio in pietra, tra quattro rocce e basse chiome di faggio contorte dal vento! Eccomi qui, eremita anch’io nell’antico ricovero in pietra, nello scenario dei momenti più significativi, nello spazio delle emozioni e del pensiero più segretamente intimi dell’artista…. Come posso descrivere ciò che sento? Moulin provò la prima volta le stesse emozioni che ora avverto io?…  Sì, Moulin è qui; è sempre stato qui!… Tutto è permeato della sua Energia: colma i risvolti della montagna, le variegate sfumature della luce, il canto del vento, il ciangottio del torrente, avvolge la mia stessa anima…. Sì, tutto questo è Moulin!…

 

Abbraccio tutto con lo sguardo… Su questo baratro infinito, credo di comprendere la scelta del pittore, tra impegno e abbandono, coinvolgimento e distacco, ma non fuga dal mondo, no!… La comprendo e compenetro, in uno stato di profonda empatia – quasi tra sovrapposizione, fusione e sdoppiamento: lui e me – in questa ricerca di un deliberato, intenso contatto con l’artista, con il suo pensiero, con il modo d’essere e di vivere… Nel desiderio unico di riappropriarsi, di riaccordarsi con se stessi… Nell’appagamento semplice di un richiamo, di una voce interiore; nel bisogno ritrovato di salvaguardare la meraviglia, lo stupore, l’incanto del bambino; per proteggere il patrimonio dei valori profondi che l’uomo – che ognuno di noi – ha dentro di sé; nello scrigno segreto del proprio cuore… Senza inquinamenti né contaminazione, senza disperderli nel cicaleccio del mondo; scimmiottando il mondo… Un’appartenenza a sé, che lui avrebbe perso forse tra galleristi famelici, mercanti d’arte, le luci ammalianti del successo: sì, è l’amore la sua scelta: il motivo fondamentale, la vera opera d’arte della sua vita; un amore ideale, puro, universale; un’esistenza attuata secondo coscienza… tradotta in dipinti, parole, saggezza e spiritualità: nella sublimazione totale nell’arte: proprio tutto, anche il sentimento per una donna…

 

“La donna è una creatura sublime, soggetto d’arte: io avrei dovuto scegliere o l’una
o l’altra e ho scelto l’altra; nessuna avrebbe mai potuto capire fino in fondo la mia vita
e sarebbe stato ingiusto da parte mia imporgliela. Lega tra loro due uccelli: avranno insieme quattro ali, ma non potranno mai volare…”.

 

Si racconta che in gioventù partì per l’Italia con una delusione nel cuore: Emilìe, conosciuta poco tempo prima di andare in sposa ad un altro uomo. Fu un amore reciproco, mai dichiarato, ormai non più possibile… Quel filo impalpabile tra i due non si spezzò mai; una notte, dopo svariati anni, lui la sognò: qualche tempo dopo venne a sapere che Emilìe era morta proprio nello stesso istante… Un attimo prima dell’ultimo viaggio, le anime che non hanno età, si erano incontrate per l’ultima volta: la candida anima dell’una si era accostata a quella dell’altro, per un tenero, estremo commiato…

 

M’incammino per scendere giù in paese… Non so che ora sia e cosa del futuro mi aspetti; ma non me ne importa proprio niente!…

 

Giù, dalla valle, echi di zampogna….

 

Pierluigi Giorgio è autore, attore, regista. Ha girato: “Moulin, il poeta del pastello”, film – documentario che si può richiedere contattandolo su Fb.

 

 

 

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Mi appare all’improvviso e sovrasta il paese. Castelnuovo al Volturno, in territorio d’Isernia, è incollato lì, come un presepe aggrappato alla roccia, quasi per timore di scivolar giù nelle acque del fresco torrente alle pendici del monte; e come presepe che non si smentisce, è paese di validi zampognari. “Per Monte Marrone esiste un sentiero?…” chiedo a due che incontro per strada: resto letteralmente di stucco quando uno di loro, s’informa se sto cercando la capanna di Mssiù Mulè il pittore e, nel pronunciare il nome, si fa il segno della croce come stesse parlando di un santo.

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IL BATTISTERO DELL’ANIMA. CASTEL DEL MONTE di Nicola Primo Zema – Numero 7 – Aprile 2017

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La “folgorazione” è avvenuta a cavallo delle ultime feste 2014 – 2015. Stefano Benazzo, Ambasciatore d’Italia, fotografo, scultore e modellista architettonico, che mi onora della sua amicizia, aveva allestito in Doglio, un luogo delizioso quanto mai adatto ad ospitare la bellezza, una Mostra intitolata “Dialogo” in cui venivano esposti modelli architettonici di chiese cristiane, una moschea ed una sinagoga. Tra questi luoghi esplicitamente di culto, al centro della Mostra, spiccava un modello in scala di Castel del Monte.

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IL BATTISTERO DELL’ANIMA. CASTEL         DEL MONTE

 

Si va da posizioni “negazioniste” di qualunque valore simbolico del Monumento, a derive estreme che affermano realtà esoteriche nascoste alluse da elementi simbolici: cercherò di stare nel mezzo, non tanto perché “in medio stat virtus”, quanto perché mi sembra, in definitiva, una posizione più plausibile. Divido la riflessione in tre parti: Ipotesi sulla funzione del Castello; un monumento disegnato dalle mani del Sole; percorso attraverso alcuni simboli presenti, simulando un itinerario iniziatico.

Da svariati decenni si è discusso sulla reale “funzione” del Castello: è un dibattito ancora aperto.

Il prof. Giorgio Masetti della Università di Bari, Facoltà Lettere Antiche, afferma che di tale termine esistono ben sette significati, tutti validi in funzione del contesto. Tra questi, si possono citare “lastricato” o come pavimentazione, o come lastrico solare, cioè una copertura, il che porta a considerare l’intervento come completamento di una struttura già esistente; oppure, indicante, genericamente, “materiale edilizio da costruzione”, per un’opera da completare o da iniziare, quindi, nello specifico, potrebbe indicare la costruzione ex novo del Castello. Dubito di questa ultima interpretazione, proprio sulla base del documento riportato: 

 

– Se actractus significa genericamente materiale edilizio da costruzione, allora diventa pletorica la specificazione actractum ipsum in calce lapidibus et omnibus aliis oportunis…“questo actractus con calce, pietre e tutto il necessario”…

 

– Diventa incomprensibile l’esecuzione totale di un’opera così importante affidata ad un funzionario di una giurisdizione territoriale diversa, licet de tua iurisdictione non sit “benché esso non stia nel distretto della Tua giurisdizione”; si può capire questo incarico solo con carattere di estemporaneità, per un intervento urgente e di completamento. Dunque il Castello, di cui si ignorano il nome dell’architetto, l’impegno economico e, in definitiva, il primo committente, era un fabbricato preesistente, completato da Federico II solo per un intervento marginale.

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Ipotesi sulla funzione del Castello. 

Chi ha costruito il Castello? 

Sembra una domanda oziosa dalla risposta scontata: Federico II di Svevia. Non sembra così certo.

Per ogni Castello che Federico II intendeva costruire sono documentati il luogo scelto, il nome dell’architetto e la somma di denaro destinata all’opera1. Per Castel del Monte si ha soltanto un mandato del 29 gennaio 1240 dell’Imperatore Federico II, inviato da Gubbio al giustiziere di Capitanata, Riccardo di Montefuscolo, in cui viene prescritto: «Cum pro castro, quod apud s. Mariam de Monte fieri volumus per te, licet de tua iurisdictione non sit, instanter fieri velimus actractum, fidelitati tue precipiendo mandamus, quatinus actractum ipsum in calce lapidibus et omnibus aliis oportunis fieri facias sine mora; significaturus nobis frequenter, quid inde duxeris faciendum.». «Poiché per il castello, che abbiamo intenzione di costruire vicino a Santa Maria de Monte, vogliamo che venga subito eseguito tuo tramite – benché esso non stia nel distretto della Tua giurisdizione l’actractus, ti incarichiamo, quale nostro fedele, di predisporre senza indugio questo actractus con calce, pietre e tutto il necessario, in attesa che Tu ci tenga continuamente informati di ciò che intendi fare in questa faccenda…»2

Cosa è l’actractus.

Ipotesi di studiosi che si fondano sul simbolismo esterno e sui simboli ancora visibili all’interno del fabbricato stesso, attribuiscono la originaria proprietà del Castello ai Templari: Castel del Monte, come vedremo nella seconda parte, è come disegnato dalle “mani del sole” caratteristica tipica delle costruzioni templari.

In proposito, nella terza parte, relativa ai simboli presenti, ne citerò due tipicamente templari e trarrò interessanti sviluppi su uno di essi. Il prof. Giorgio Masetti, succitato, definisce actractus in questo modo: canalis in quam aqua actrahitur “canale nel quale si attira l’acqua”. Si tratterebbe, quindi, della esecuzione di un’opera accessoria per una struttura esistente. E qui si apre il pregevole e convincente contributo di due docenti del Politecnico di Bari, Facoltà di Architettura, prof. Ubaldo Occhinegro e prof. Giuseppe Fallacara che hanno redatto un saggio: Castel del Monte: Nuove ipotesi sull’utilitas del monumento, accessibile per via informatica e che invito caldamente a leggere. Castel del Monte non è un’opera militare e questo si può chiaramente dedurre sulla base degli elementi di architettura militare e logistica non rilevabili nel Monumento. In estrema sintesi, il Castello è una costruzione per la raccolta dell’acqua piovana e di falda per il loro trattamento finalizzato alla cura del corpo e dello spirito.

Dicono i nostri Autori: “Castel del Monte è stato progettato per essere il “battistero” per la redenzione del corpo in primis, ma anche dell’anima dell’Imperatore stesso, alla strenua ricerca dell’Immortalità”.

In effetti, il Castello era impiegato per gli stessi scopi anche per ospiti importanti dell’Imperatore, siano essi alti funzionari che Cavalieri che intraprendevano come un percorso iniziatico. “In esso, concepito come ideale battistero del corpo e dell’anima, lavoravano medici ed alchimisti…”I nostri Autori espongono, in modo puntuale, l’organizzazione degli spazi interni del Castello riconducendoli alla loro funzione e ipotizzando i trattamenti che vi avvenivano leggendo le geometrie interne e segni lasciati dai residui secchi di prodotti alchemici, senza entrare, però, per onestà intellettuale, nella interpretazione dei simboli presenti di cui il castello è pieno. I percorsi sono obbligati ed indicati dalla struttura dei portali: riccamente decorati sul prospetto di entrata, nudi nella parte posteriore, come a “vietare”una via di ritorno, assimilabile ad un ripensamento di chi ha intrapreso il “viaggio”.

Si accede obbligatoriamente nel cortile ottagonale al centro del quale è testimoniata la presenza di una grande vasca anch’essa ottagonale, monolitica, di marmo, con sedile periferico interno3, riempita d’acqua e con getto centrale a mo’ di sorgente: la forma di questa vasca ricorda un “battistero”. L’inizio di un lavacro purificatore per il corpo
e per lo spirito.

I vani finemente decorati originariamente con marmi, stucchi e mosaici, fungevano da “tepidari”e “calidari”, con pavimenti più bassi, soglie di separazione delle sale più alte, rispettivi camini e servizi igienici con acqua corrente: i pavimenti, come negli hammam islamici, sarebbero invasi di acqua più o meno calda adatta alle diverse cure del corpo. L’edificio è munito di cinque cisterne pensili di raccolta di acqua piovana, di 28 m3 l’una, non a servizio diretto dei cinque servizi igienici delle torri, ma comunicano, per il troppo pieno, in altre direzioni, ma soprattutto con una cisterna posta sotto il cortile ottagonale della capacità di 250 m3; questa ultima riversa il troppo pieno entro una ultima cisterna interrata posta a 20,00 m dall’edificio. I recenti restauri, inoltre, hanno rilevato la presenza di pozzi profondi 60,00 m che raggiungono falde ricche di acqua sottostanti il castello. Chiudo questa sezione con una osservazione sintetica degli autori citati, raccomandando, ancora, di accedere al loro lavoro:

“Studiando il progetto dell’edificio, dalla planimetria generale sino ai più piccoli elementi di decoro architettonici, il castello risulta essere una enorme macchina di raccolta, smistamento ed utilizzo delle acque piovane.” E, come detto sopra: “…concepito come ideale battistero del corpo e dell’anima…”.

(Seguirà la seconda parte: Un monumento disegnato dalle mani del Sole).

1 Cfr. Aldo Tavolaro, Castel del Monte e il santo Graal, EDIZIONE GIUSEPPE LATERZA di Giuseppe Laterza, 2004, p. 30 e segg. 

Traduzione di Dankwart Leistikov , da un opuscolo AndriArte curato da R. Ruotolo – P. Petrarolo, Sveva Editrice, Andria, 1993, pagg. 33-42

Completamente demolita da vandali nella seconda metà del XIX secolo.

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ARCHITETTURE DEL SALENTO: LE TORRI DI DIFESA di Giusto Puri Purini – Numero 7 – Aprile 2017

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ARCHITETTURE DEL SALENTO: LE TORRI DI DIFESA

 

Santa Sofia diventa La “Grande Moschea” e nasce nel Mediterraneo Orientale una nuova, grande, colta ed aggressiva superba potenza, che entrerà velocemente in conflitto con la Repubblica di Venezia, la quale, fino ad allora, aveva liberamente solcato i mari dall’Adriatico all’Egeo, con i suoi flussi mercantili e le innumerevoli postazioni e domini, seminati dalla Dalmazia fino all’Asia Minore ed oltre. La Puglia, diventava un nodo strategico per le scorrerie Ottomane e,nonostante l’occupazione della penisola nel 1484 da parte dei veneziani (lo sbarco a Taviano), questi ultimi non riuscirono più, a frenarne l’impeto. L’Algerino Khaized-Din (detto il Barbarossa), nel 1537, distrusse Castro e Marittima e, sul versante ionico, l’antica Ugento. Il sistema di difesa della Puglia, ed in particolare del Salento, era impreparato e precario; tra opere risalenti prima agli antichi Romani, poi ai Bizantini (per difendersi da Longobardi ed Aragonesi), costruite nei secoli precedenti sotto forma di torri costiere e masserie fortificate, esso non era più all’altezza del compito. A questo punto, nel panorama europeo, l’aspro conflitto tra Francesco I Re di Francia, e Carlo V re di Spagna, si risolse in favore di quest’ultimo portandolo a governare una gran parte d’Europa.

La Storia del Salento è costellata da una miriade di invasioni: all’inizio, da parte di popoli divenuti stanziali, come i Messapi ed i Japigi; poi, da parte dei greci; incursioni di pirati saraceni, attacchi e saccheggi, ed ora il grande pericolo degli Ottomani, che tra l’altro cullavano l’idea di riunificare l’Impero Romano d’Oriente con Roma. Fu dunque sotto l’Impero di Carlo V che il Vicerè del Regno di Napoli, Pietro de Toledo, nel 1532, promosse un’imponente e strategica prima linea di difesa lungo le coste Adriatiche e Ioniche della Puglia, con quel vasto promontorio che si protende nel cuore del Mediterraneo. Come un’urbanista dei sistemi di difesa, fece realizzare un progetto dove ogni torre potesse vedere e segnalare alla successiva i pericoli incombenti. Come allarme si usavano i corni e le campane, o allarmi visivi, come il fumo (di giorno) ed il fuoco (la notte). Una seconda linea di difesa erano le masserie fortificate e, più all’interno, imponenti Castelli tra i quali spicca, ancora oggi, quello di Acaya. Il provvedimento del Viceré fu rafforzato nel 1563 dall’ordinanza di Don Pedro Afan de Ribera.

Quest’Italia, protesa e bagnata dalle acque quasi in ogni punto del suo periplo, “offriva” e fungeva da attrazione e calamita per altre popolazioni.

Oggi l’esodo biblico che milioni di genti compiono quotidianamente in questi ultimi anni, rimette in moto antichi rancori, paure e disequilibri, e deve nascere una coscienza nuova che induca i grandi Stati (colonizzatori) a sviluppare nei luoghi di origine lavoro e sviluppo, per riportare il nostro mare ad essere, come da sempre, luogo di mercanti, di scambi economico-finanziari, di cultura, direligione, di pensiero e di lavoro.

Nel 1529, dopo altri conflitti e finalmente l’intesa con il Papa Clemente VII, Carlo V ottenne il riconoscimento dei suoi “ambìti” possedimenti in Italia, tra i quali il Regno di Napoli, che includeva l’amata Puglia (dove tra l’altro non arrivò mai).

Il costo economico di tale impresa era diventato così alto che, attraverso bandi di concorso, si conferivano titoli a chi s’incaricava di costruire torri, assegnandogli il titolo di “Capitano di Torre”, il quale, oltre a segnalare scorrerie ed ad approntare difese con cannoni ed archibugi, poteva anche riscuotere dazi. Agli insolventi veniva “duramente” negato il diritto di difesa.

Le Torri, in seguito, serviranno anche per contrastare il contrabbando, in parte tollerato, per impedire il commercio abusivo del sale molto in voga in quei tempi, data la povertà delle popolazioni contadine, e ad intercettare il traffico degli schiavi. Quelle edificate da Carlo V, costruite con conci di tufo regolari, sono generalmente a pianta quadrata o circolare, con il basamento scarpato; all’interno, ambienti normalmente su 2 livelli ed un terrazzo merlato di copertura; feritoie e caditoie completano la facciata. Le Torri sono fornite di una cisterna sotterranea per raccogliere l’acqua piovana. In certi casi, oggi, sono delle Capitanerie di Porto ancora efficienti; molte sono solo ruderi (purtroppo) ed altre sono state restaurate. Come dice Mario Muscari Tomajoli “La costruzione di Osservazioni fortificate è riportata fin da Plutarco (125-50 a.C.) e fu realizzata anche dai Romani, il cui commercio venne messo in crisi dai pirati sino al 67 a. c., quando la legge Gabinia consentì a Pompeo di armare una flotta contro i predoni e rendere tranquillo il Mare Nostrum”.

Ma questo sistema di difesa non esiste solo in Puglia e nel basso Salento, bensì in tutte le nostre ed in tante altre coste del Mediterraneo, e segna, come un’immane punteggiatura nelle mappe, il rapporto di amore e di paura che il grande mare portava con sé.

Il primato della civiltà, della storia, della fertilità della natura, del costume, le imponeva anche sistemi di autodifesa, ed ecco che, oggi, queste mirabili costruzioni, nel ritmico fluire dei paesaggi, diventano segni indelebili della storia.

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TRANI – LA BELLA ADDORMENTATA SUL MARE di Giannicola Sinisi – Numero 7 – Aprile 2017

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TRANI
LA BELLA ADDORMENTATA SUL MARE

 

 

 

Negli Stati Uniti d’America, Walt Disney ha materializzato questo binomio realizzando, dal nulla, luoghi incantati, costruendo parchi di divertimento nei quali la magia immaginaria delle fiabe diventava una realtà possibile.

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 In Italia e, più in particolare in alcune città del Sud, una millenaria attitudine alla bellezza, ed una ricca sovrapposizione di vicende epiche,
sono state artefici della costruzione, 
quasi come se fosse opera
di un unico grande architetto senza tempo,
di luoghi egualmente fantastici, 

ma assai meno noti.

 

 

La città di Trani ne è un esempio, adagiata sul mare con architetture realizzate dalla mano dell’uomo che, viste dal mare, competono con la bellezza e la grandezza della natura. Ma la stessa umanità che ha lanciato questa sfida al Creato, non ha saputo mettere il suo genio al servizio dei bisogni di questo tempo, e non è stata capace, fino ad ora, di trasformare questo grandioso patrimonio collettivo in benessere al servizio di tutti. Alcuni dei suoi monumenti potrebbero essere alla base di una nuova economia, se le timide iniziative di oggi potranno diventare un’impresa sfacciata come quella del principe che baciò la bella addormentata, destandola dal suo lungo sonno. 

  

La Cattedrale di trani. Un piccolo gruppo di imprenditori turistici di Trani
si sta organizzando per ottenere, con il consenso della Curia,
il riconoscimento della Cattedrale di Trani quale
“patrimonio UNESCO dell’umanità”.

 

Nel Mediterraneo, e probabilmente nel mondo intero, non esiste un’altra Cattedrale medievale edificata sul mare. Nel XII secolo dovette sembrare quanto meno azzardato costruire un imponente edificio religioso sul mare. Il mare, infatti, in quell’epoca costituiva più una fonte di pericolo per le invasioni e le guerre, che le religioni ispiravano ed alimentavano, piuttosto che un’opportunità di pace e di coesione tra i popoli. Eppure quella sfida coraggiosa, ed in qualche misura fondata sulla capacità della sua gente di costruire legami attraverso il mare, piuttosto che conflitti, ha retto per quasi un millennio ed oggi rappresenta un esempio meraviglioso di purezza di stile, oltre che un inimitabile simbolo di pace. Oggi che il mare Mediterraneo assiste ad una nuova epopea di migranti, armati solo della loro disperazione, muovendo da terre attraversate da mille conflitti, e dove le religioni vengono ancora prese a pretesto per saziare l’avidità di potere di qualcuno, la Cattedrale di Trani, che su quel mare si affaccia, può essere una testimonianza viva di come questo mare, il nostro mare, ci consente di prosperare solo se siamo capaci di vederlo come una ricchezza, e non come una minaccia.

 

Il Polo MusealeNella stessa piazza della Cattedrale, all’interno di palazzo Lodispoto (sec. XVIII), è stata realizzata la sede del Polo Museale di Trani. Già l’edificio, per l’eleganza della sua architettura e la spettacolarità
del suo affaccio sulla piazza e sul mare,
è un’inaspettata sorpresa.

 

Un’accorta trasformazione dei suoi spazi interni ha consentito di realizzare una struttura efficiente che ospita il museo della macchina da scrivere ed il museo diocesano, oltre a degli efficienti e moderni servizi per conferenze e convegni. È una rara quanto apprezzabile sinergia tra un privato collezionista e la diocesi di Trani, proprietaria dello stabile. Lì si trovano esposti il patrimonio capitolare ed i reperti lapidei di cui è titolare la diocesi, ed una rara collezione di 400 macchine da scrivere appartenenti ad un imprenditore locale, che ha costituito la fondazione SE.CA. che gestisce questa interessante impresa culturale. Va apprezzata non solo l’originalità del progetto, ma anche la straordinaria qualità espositiva, in teche e supporti ben realizzati, che formano percorsi culturali di grande effetto.

 

Il Monastero di Colonna. Su un altro promontorio della città di Trani,
a poca distanza, si erge, anch’esso affacciato sul mare, un monastero
dell’XI secolo che ospitò i benedettini fino al XV secolo
ed i francescani fino al XIX secolo.

 

 

Oggi è di proprietà del comune di Trani che ha in animo di realizzarvi un museo archeologico, sotto l’egida della competente soprintendenza, per ospitare i reperti frutto dei ritrovamenti della civiltà dei Iapigi che abitarono questi luoghi sin dall’età del ferro. Una consistente opera di restauro, appena terminata, ha consentito all’ente locale di deliberare un indirizzo per un bando di gara che ne stabilisce la destinazione come museo archeologico, prevendendone la concessione in gestione da parte di privati, che potranno realizzare delle economie non solo dai biglietti d’ingresso, ma anche da ogni altra forma di utilizzo compatibile.

 

 

La città gode di innumerevoli ulteriori risorse artistiche, storiche, culturali, che possono essere al centro di una nuova economia, aperta verso flussi di viaggiatori che cercano la bellezza, ed amano la storia

 

 

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LE MINNUZZE DI SANT’AGATA di Hilde Ponti – Numero 7 – Aprile 2017

LE MINNUZZE DI SANT’AGATA

 

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È indiscusso il coraggio dimostrato dalla giovane Agata – nata a Catania nei primi decenni del III secolo – che, eludendo ogni lusinga del prefetto romano Quinziano, non si concede, fedele ai suoi convincimenti, e viene, quindi, torturata nelle parti negate, fino a staccarle i seni, per, infine, perire, martire annoverata del cristianesimo primitivo.

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Il suo è un esempio unico che ci perviene da fonti storiche, intrecciate a una forte tradizione popolare. Tuttavia, la dedizione per la strenua fanciulla – eletta più tardi patrona di Catania –  si è espressa quasi subito. Prova ne danno gli Atti dei Martiri.

   

Quinziano, respinto, ordina di far rotolare Agata nuda, su lapilli incandescenti. Proprio in quell’istante un violento terremoto
scuote la città. La popolazione, convinta che il sisma fosse punizione divina, si precipita inferocita al pretorio,
costringendo Quinziano a sospendere l’esecuzione. 

Ad Agata sono rimaste solo poche ore.

 

“Sant’Aita, Sant’Aituzza bedda”, presero a invocarla subito, in quell’idioma musicale, i suoi concittadini: a tutt’oggi, più che mai, presente nella memoria collettiva di Catania e della Sicilia; supplicata, persino, dai Giudei e da altre confessioni. I miracoli attribuiti per Sua intercessione sono davvero tanti: il primo si verifica a un anno dalla sua morte, il 5 febbraio 252 d.C. L’Etna, l’imponente vulcano che circonfonde Catania e la pianura sottostante, emette una forte eruzione. 

   

Gli abitanti – sapendo che l’avanzare della lava significa sempre distruzione – tentano il tutto, invano, e, non rassegnati, si avviano incontro a quell’inferno con il Velo della Santa: e il prodigio avviene. La colata, molto vicina alla città, si arresta
solo davanti all’antico cimelio di Agata.

 

Da questo evento, ha inizio l’inestinguibile devozione di Catania verso la sua Santuzza. E così, dalla storia –leggenda testé evocata, l’Etna, Sant’Agata, Catania e i suoi cittadini si sono accomunati in parallelo per sempre. Tanto che, per ricordarla, hanno istituito due feste annuali: una di tre giorni in febbraio, l’altra in agosto. Nel 2002, l’Unesco ha dichiarato queste festività “Patrimonio dell’umanità”.

 

Inoltre, proprio per non smarrire l’umano senso del possesso, 

i siciliani hanno arricchito il loro pregevole valore gastronomico con un dolce ormai classico, proprio in onore della loro beniamina: le cassatelle di Sant’Agata (Minne di vergine).

 

Per delineare verità remote e leggenda ci rifaremo ai racconti degli storici: l’eruzione del 1669. Lava e lapilli incandescenti erodevano i fianchi della montagna, devastando ogni dove: migliaia senzatetto. La colata arrivò, via via, fino alla città: Catania si spopolò. Eppure, anche allora, avvenne qualcosa di straordinario: la lava, arrivando nei pressi della Cattedrale, scansò luoghi ritenuti tappe del martirio di Agata. Dopodiché, il magma raggiunse il mare, proseguendo la corsa per altri tre chilometri. Anche oggi è visibile quel reperto pietrificato dai secoli: va da Catania a Acireale, ed è chiamato La Costa dei Ciclopi, riferendosi al litorale descritto svariati secoli prima da Omero nell’Odissea.
 

Altra cronaca riguardante Sant’Agata, evocata nel tempo per via orale, narra quando Papa Innocenzo III nominò re di Sicilia l’imperatore di Germania, Federico II e buona parte 

degli isolani non si trovò d’accordo.

 

Allorché lo svevo ne venne a conoscenza, decise di stabilire, in qualsiasi modo, la sua sovranità. Com’era solito fare – stupor mundi: voleva stupire sempre – prima di passare ai fatti meditava. Capitando in una chiesa a Catania, diede inizio alla sua riflessione pubblica, e, in barba alla prosopopea, dovette lui meravigliarsi: all’istante, sotto i suoi occhi, vide materializzarsi alcune lettere: N.O.P.A.Q.V.I.E. – frase in latino, il cui acronimo riferiva “Noli offendere Patriam Agathae quia ultria iniuriarum est” (non offendere il paese di Agata, perché vendicatrice di ogni ingiustizia). L’episodio fece desistere Federico II dal vendicarsi. A tutt’oggi, sulla facciata barocca della cattedrale, nella finestra ovale – lato sinistro di chi guarda – si può leggere l’acronimo in una formella, mentre alla destra se ne trova un altro oggetto di culto, menzionato negli Atti del Martirio.
 

Ma i segni barocchi di Catania sono sparsi un po’ ovunque.

 

Seguendo, per esempio, il tracciato delle mura, si arriva a Palazzo Biscari: come non ci si può soffermare davanti alla fastosa facciata? Essa è movimentata da decorazioni: putti, cariatidi grottesche e altri fregi inneggianti al barocco. Palazzo Biscari si affaccia anche su via Museo Biscari, da cui si accede a Palazzo Platamone: i cortili all’interno sono teatro di luoghi magici, illustrano magistralmente le varie stratificazioni storico-architettoniche di Catania, dove la tradizione riconosce, nei resti sotterranei di domus romane, la casa natale di Sant’Agata, della quale, sulla via adiacente, un’edicola settecentesca rievoca proprio il culto. Il palazzo, in epoca Medievale e Rinascimentale, era residenza dell’importante famiglia Platamone, che – in età aragonese e fino a Carlo V – ricoprì importanti incarichi politici. Distrutto dal terremoto del 1693, venne ricostruito nel ‘700 da architetti che facevano rivivere la città rappresentando rari esempi di barocco. E poi il castello Ursino, fatto edificare da Federico II, su un magnifico promontorio circondato dal mare, simbolo della città. Obbligatorio non tralasciare la visita al magnifico quartiere liberty, un po’ dismesso, testimone di splendori epocali. 
 

Edifici monumentali, vestigia storiche, attestanti culture 

di varie età, ma anche devozione per Sant’Agata 

della sua città e della Sicilia, condivisa anche 

dalle nuove generazioni.

 

E fa davvero meraviglia, pur non trovando motivazione unica: curiosità? Tradizione? Folclore? Fede? Diventa per tutti un collante quando  si tratta di gusto e squisitezze. La preparazione dalle forme morbide – gonfie di ricotta di pecora, zucchero, gocce di cioccolato miste a canditi profumatissimi – incanta.
 

E l’accostarsi alle Cassatelle di Sant’Agata 

(Minne di vergine) è, per tradizione, l’interloquire tacito trasformato in realtà, Epifania per i fedeli 

e i cultori del gusto.

 

 

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TARTUFI E RICERCA ALL’UNIVERSITÀ DELL’AQUILA Di Giovanni Pacioni – Anna Maria Ragnelli – Numero 7 – Aprile 2017

Confezioni di tartufo bianco trattato con film edibile

Tartufi
e ricerca
all’università
dell’aquila

 

 

Tomografia del suolo effettuata con uno speciale georadar.
Tartufi bianchetti, Tuber borchii, nel loro habitat naturale
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giovannipacioni
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I tartufi sono i corpi fruttiferi sotterranei di alcune specie di funghi appartenenti al genere Tuber (Ascomiceti) che vivono in simbiosi con gli apparati radicali di piante ospiti, principalmente alberi quali noccioli, querce, carpini. Tale simbiosi è detta “micorriza” (dal greco mico= fungo e riza= radice) ed è fondamentale per la sopravvivenza della quasi totalità delle piante. Dal punto di vista biologico, i corpi fruttiferi dei funghi sono strutture deputate ad assicurare la sopravvivenza e la diffusione della specie tramite la produzione di spore, un po’ come i semi per le piante 

 Sviluppandosi tuttavia in maniera sotterranea, i tartufi sono impossibilitati a disperdere nell’aria le loro spore, 

come fanno la maggior parte dei funghi. 

Nel corso della loro evoluzione – che dovrebbe 

esser durata oltre cento milioni di anni – hanno però sviluppato complessi meccanismi per relazionarsi con l’ambiente 

ed anche risolvere il problema della dispersione 

delle spore.

I tartufi, infatti, producono moltissime sostanze volatili (VOCs, Volatile Organic Compounds) che regolano la loro vita sociale nei confronti dei microrganismi del suolo e delle piante, ed alcune di queste sostanze, che noi percepiamo come odore, svolgono il compito di attirare animali (insetti e mammiferi) per farsi mangiare e, in questa maniera, poter disperdere le spore. Esse, infatti, sono estremamente resistenti e possono attraversare indenni gli apparati digerenti degli animali, che in questa operazione vengono ricompensati, oltre che da cibo, da uno stato di grande benessere dovuto a sostanze, biologicamente attive, prodotte dai tartufi stessi: questi, dunque, sono nati per essere mangiati e perciò non ne esistono, di per sé, di velenosi. La raccolta del prodotto naturale è affiancata dalla coltivazione di piante arboree con gli apparati radicali opportunamente infettati dal tartufo. Diverse specie, infatti, sono coltivabili e ciò ha esteso la produzione delle specie europee in altri continenti nelle aree con clima mediterraneo, ovvero con inverni miti e primavera ed autunni piovosi. Non a caso, oggi, accanto a Italia, Francia e Spagna, abbiamo l’Australia come quarto produttore mondiale.

È noto che alcuni tartufi, come il bianco Tuber magnatum 

od il nero pregiato Tuber melanosporum, sono tra gli alimenti più costosi al mondo.

Le loro qualità risiedono nella emissione, a piena maturità, di un complesso di sostanze volatili che vengono prodotte in condizioni di microaerobiosi, ovvero di scarsa presenza di ossigeno data la crescita sotterranea, ed alla loro produzione partecipa anche la microflora (batteri e funghi lievitiformi e filamentosi), estremamente ricca ed abbondante, che vive in maniera asintomatica al loro interno. La cultura gastronomica del tartufo ha una storia millenaria ed è strettamente legata all’Italia, dalla quale è passata in Francia per diffondersi a livello planetario.

Per molti secoli, fino al Novecento, L’Aquila, insieme a Norcia, è stata la capitale del tartufo nero, il centro di raccolta e di una rete commerciale che nel Rinascimento arrivava sino in Germania. 

Oggi, la sua Università ospita uno dei gruppi di ricerca sulla biologia del tartufo maggiormente apprezzati a livello internazionale. Attivo dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso, ha iniziato ad occuparsi della biologia dei tartufi in maniera totale, dalla ecologia, biochimica, fisiologia fino alle attuali scienze “omiche”, una neonascente classe di discipline legate alla biologia molecolare e alla genetica, nell’ambito delle quali a L’Aquila si studiano la genomica, la trascrittomica ed a breve la metabolomica. 

È stato il primo laboratorio nel mondo, a studiare: 

– la composizione dell’odore di diverse specie dei tartufi neri e la composizione dei prodotti aromatizzati al tartufo; –  gli effetti delle sostanze volatili sulla flora microbica del suolo, sulla germinazione dei semi delle piante erbacee e sulla attrazione degli animali deputati alla dispersione delle spore; 

 –  il processo di melanizzazione e di morte cellulare programmata durante lo sviluppo dei corpi fruttiferi; 

 – a seguire le fasi di sviluppo dei tartufi nel suolo attraverso uno speciale georadar; 

 – ad evidenziare la presenza di una ricca microflora batterica e fungina (microbioma) all’interno dei tartufi sani; 

 – ad ottenere la prima fase embrionale della formazione del tartufo; 

 – a scoprire che i tartufi maturi contengono cannabinoidi, tra i quali l’anandamide, il cosiddetto “ormone della felicità”. Ha, inoltre, fatto parte del consorzio internazionale che ha sequenziato il genoma di Tuber melanosporum, pubblicato nel 2010 su Nature, ed ha organizzato nel 1992 un Congresso Internazionale sul Tartufo, presso il Forte spagnolo della città, che ha visto la presenza di oltre 650 partecipanti provenienti da tutti i continenti.

Nel corso della sua attività ha ottenuto tre brevetti, due dei quali sulla produzione vivaistica di piante micorrizate che danno lavoro da più di venti anni ad una cooperativa, ed uno per la conservazione dei tartufi freschi, che è stato oggetto di ripetute presentazioni nel corso dell’EXPO2015 ed ha permesso la nascita di una start-up di successo sul territorio aquilano.

L’interesse suscitato da quest’ultima ricerca risiede nell’aver superato le difficoltà finora incontrate in campo scientifico nel migliorare la qualità e la conservazione del prodotto fresco. Numerosi sono, infatti, i problemi che si rilevano in proposito, ascrivibili a molteplici fattori: brevi periodi di maturazione per le diverse specie commerciali; stagionalità della produzione; limitata possibilità di conservazione; perdita della capacità di produrre gli aromi in conseguenza dei cambiamenti metabolici; perdita di acqua e di peso; controllo della microflora ospite all’interno del tartufo; differenziazione della conservazione a seconda della pezzatura e dell’integrità del corpo fruttifero. 

A L’Aquila, abbiamo sviluppato un sistema di conservazione basato su un film edibile specificatamente realizzato per questi scopi.

“Film edibile” significa che il tartufo viene rivestito con un sottilissimo strato continuo di materiale, composto da sostanze commestibili, e che quindi può essere consumato così com’è. Nel nostro caso, si è ricorsi ad una proteina vegetale purissima, alla quale sono state aggiunte diverse altre sostanze, che hanno permesso di ottenere un prodotto, invisibile e insapore, estremamente efficace per ovviare a tutti i problemi sopra esposti. Una volta estratti dal suolo, infatti, i tartufi subiscono un cambiamento di condizioni (aria ed ossigeno) che porta ad una perdita progressiva della capacità di produrre VOCs e ad un cambiamento della stessa composizione dell’aroma, data la presenza di ossigeno e la diminuzione dell’attività metabolica. Gli aromi dei tartufi vengono infatti prodotti solo da esemplari vivi e mantenuti quanto più possibile nelle condizioni originarie. Le diverse forme di condizionamento (inscatolamento o surgelazione) uccidono il tartufo ed alterano completamente le sue qualità organolettiche. Chiudendoli in contenitori, il loro ricchissimo microbioma non è più sotto controllo ed i batteri e funghi ospiti innescano fenomeni putrefattivi. Accanto ai metodi tradizionali ed empirici per prolungare la vitalità dei tartufi, negli anni più recenti sono stati proposti diversi sistemi innovativi, oggetto anche di alcuni brevetti, come immersione in olio, irradiazione, rivestimenti plastici o atmosfera controllata, ma che non rispondono pienamente agli obiettivi. 

La globalizzazione imperante, che non ha risparmiato neanche la produzione tartuficola, ha imposto una riflessione ancor più attenta sul problema della conservazione del prodotto fresco, quanto mai sentito al giorno d’oggi anche per l’uso del tartufo nella cucina internazionale. Ed il nostro film edibile sembra attualmente rappresentare la soluzione più idonea.

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LA FABBRICA SALERNITANA DELL’INNOVAZIONE: di Maurizio Campagna – Numero 7 – Aprile 2017

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Il settore farmaceutico costituisce un motore trainante dell’economia nazionale: nel 2015 l’Italia è stata il secondo produttore nell’area UE, preceduta di misura soltanto dalla Germania e staccando la Francia per oltre 6 miliardi di euro nel valore della produzione totale. Quest’ultima ha superato i 30 miliardi. Secondo la Banca d’Italia, dopo la doppia recessione, il settore farmaceutico è l’unico ad aver aumentato la propria capacità produttiva1. Gli addetti superano le 63.000 unità alle quali devono essere aggiunti i 66.000 lavoratori dell’indotto.

LA FABBRICA SALERNITANA DELL’INNOVAZIONE

 

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Nel periodo compreso tra il 2010 e il 2015 l’export italiano del settore ha fatto registrare una crescita del 57% a fronte del valore medio UE del +33%. Anche il Sud fa la sua parte. L’industria farmaceutica, infatti, è presente in modo significativo anche nelle regioni meridionali: in Abruzzo, Campania, Puglia e Sicilia si contano complessivamente più di 13.000 unità tra addetti diretti e nell’indotto. In alcuni distretti, come ad esempio a Bari, Brindisi e Catania, l’industria farmaceutica copre un’elevatissima percentuale dell’exportcomplessivo. Tra le ragioni di questo “miracolo italiano”, un ruolo di primo piano deve essere riconosciuto agli investimenti in ricerca e sviluppo (R&S) che, negli ultimi due anni, sono aumentati del 15%.

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Lo sviluppo e la crescita del settore pharma, infatti, favoriscono virtuose sinergie tra comparti produttivi: si pensi, infatti, alle ricadute positive, anche in termini occupazionali, principalmente nell’ambito della meccanica o del packaging.

L’industria del farmaco è terza per spesa totale in R&S,

dopo quella dei trasporti e quella meccanica, e prima per volume di investimenti in rapporto agli addetti. Le domande di brevetto sono cresciute del 54% e sono più di 300 i prodotti biotech in sviluppo. Il settore farmaceutico ben rappresenta, dunque, quel modello di produzione che, da più parti, è indicato come l’unico in grado di traghettare la stanca economia italiana, al di fuori delle secche di una crisi ormai duratura. Si tratta, infatti, di una crescita economica basata sull’elevata professionalità dei lavoratori: il 53% del totale degli addetti nel settore è costituito, infatti, da personale laureato2. Il pharma, inoltre, più di altri comparti della produzione, vive e si alimenta di ricerca e innovazione. Il buon rapporto con l’Università è quindi cruciale, non soltanto perché gli atenei formano i professionisti che saranno impiegati nelle diverse realtà aziendali del Paese, ma anche perché l’innovazione farmaceutica non può fare a meno della collaborazione con l’industria se si vuole assicurare l’immediata trasferibilità dei risultati della ricerca sul mercato.

In questo contesto si inseriscono le attività del Dipartimento di Farmacia dell’Università degli Studi di Salerno (DIFARMA).

Istituito nel 2010 in applicazione della riforma universitaria Gelmini (l. n. 240 del 2010) che, come è noto, ha sostituito le Facoltà con i Dipartimenti, il DIFARMA riunisce l’esperienza e il lavoro della Facoltà di Farmacia e del Dipartimento di Scienze Farmaceutiche e Biomediche, oggi disattivati, e costituisce la sola struttura scientifica e didattica di riferimento sul “Farmaco”nell’Università di Salerno. Il Dipartimento può contare su una dotazione strutturale e strumentale competitiva e all’avanguardia: 3000 mq di laboratori e attrezzature per un valore superiore agli 8 milioni di euro. Per il completamento della ricerca biologica, farmacologica, medica e farmaceutica è stato creato un moderno stabulario per il mantenimento e l’utilizzazione degli animali da laboratorio per la ricerca in vivo. Il suo funzionamento risponde ai criteri della Good Laboratory Practice e le attività di ricerca al suo interno sono condotte nel rispetto delle disposizioni recate dal d.lgs. n. 116 del 1992 di attuazione della direttiva (CEE) n. 609/86 in materia di protezione degli animali utilizzati a fini sperimentali o ad altri fini scientifici.

Le attività di ricerca del DIFARMA non sono limitate al farmaco, ma si estendono anche ai medicinali di origine biotecnologica e ad altri prodotti salutistici.

Istituito Gli oggetti degli studi condotti dai ricercatori salernitani spaziano dai meccanismi fisiopatologici alla base della malattie acute e croniche, alla loro epidemiologia e prevenzione; dai meccanismi di azione dei farmaci, alle nuove metodologie di valutazione dei medicinali. La ricerca, tuttavia, non è volta soltanto ai prodotti, ma anche all’innovazione dei processi tecnologici di produzione dei medicinali nonché alla scoperta di nuovi metodi intelligenti di somministrazione dei farmaci. Di assoluto rilievo è la produzione di pubblicazioni scientifiche che ha permesso al DIFARMA di ottenere un’ottima valutazione da parte dell’Agenzia Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR).

L’innovazione e la sperimentazione investono anche la formazione: di recente è stato proposto e attivato un nuovissimo Corso di Laurea di primo livello in Gestione e Valorizzazione delle Risorse agrarie e delle aree protette.

Si tratta di un’offerta formativa multidisciplinare che si avvale della collaborazione di altre strutture dell’Ateneo salernitano che fornisce “strumenti tecnico-scientifici tesi a massimizzare l’efficienza delle agrotecniche, migliorare e valorizzare la qualità delle produzioni ottimizzando i costi, intervenire nella compatibilità ambientale delle produzioni e dell’agrosistema, con riduzione degli sprechi e dell’impatto ambientale”. Il nuovo Corso di Laurea è stato pensato e costruito in un’ottica di sviluppo del territorio locale mediante l’inserimento di professionisti agronomi dotati di competenze tecnico-scientifiche, ma anche gestionali e, per questo, in grado di valorizzare le ricchezze paesaggistiche e agricole. L’attenzione al mondo del lavoro e al futuro placement dei neolauereati è testimoniata dal lunghissimo elenco di aziende convenzionate con il DIFARMA per il tirocinio pree post lauream. L’eccellenza nella formazione e nella ricerca rappresentano la via d’uscita da una crisi ormai di lungo corso. L’elevata preparazione dei lavoratori di domani è la soluzione concreta alla fine del lavoro e al lento declino di un sistema di produzione superato e obsoleto. Il DIFARMA rappresenta un esempio di come l’università possa cambiare e adeguarsi alle esigenze del nostro tempo. Il successo di questa realtà, però, sta anche e soprattutto nei valori che ne ispirano l’attività. Il Dipartimento si presenta al pubblico come idealmente collegato alla Scuola Medica Salernitana di cui condivide i principi ispiratori, moderni e attuali:

il laicismo, la tolleranza e l’internazionalità, la collocazione non solo geografica, ma anche culturale, al centro del Mediterraneo, la tutela della salute dell’uomo intesa anche come promozione di uno stile di vita sano, la centralità dell’insegnamento e del rapporto tra docenti e studenti, la tutela delle pari opportunità.

Come non vedere in questo manifesto dei valori non solo una ricetta valida per un Dipartimento universitario, bensì il programma per il rilancio di una società stanca e afflitta dalle sue paure che proprio nella conoscenza potrebbe trovare la sua salvezza?

1 Cfr., L. Monforte, G. Zevi, Un’indagine sulla capacità manifatturiera in Italia dopo la doppia recessione, Questioni di economia e finanza, Occasional Papers, 302, Banca d’Italia, 2016 

2 La fonte dei dati riportati nel testo è il Rapporto Annuale curato dal Centro Studi di Farmindustria Indicatori Farmaceutici, giugno 2016, consultabile al sito www.farmindustria.it

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Bottles of medications and a bowls of weights. Manufacture of me

 

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