CORALLIUM RUBRUM. JAN FABRE E L’AURA PARTENOPEA di Francesca Romana De Paolis numero 27 gennaio febbraio 2023 Ed Maurizio Conte

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Corallium Rubrum. Jan Fabre e l’aura Partenopea

 

Al centro di una doppia trasmutazione alchemica, per così dire – che consta della devitalizzazione dell’organico e quindi della vitalizzazione dell’inorganico, a garanzia di uno splendore imperituro, nodo di remoti commerci tra Mediterraneo e Oriente, legame tra il folklore del passato e il lusso folklorico del presente – risiede

uno dei più pregiati doni del Sud: il corallo.


È risaputo che dal 3500 a. C. l’uomo appendesse corni animali sull’uscio delle proprie caverne, gesto apotropaico. Noto che dagli scavi di Pompei ed Ercolano siano affiorati, tra i molteplici reperti, anche enigmatici cornicelli

Dall’antica Roma Plinio il Vecchio, nell’enciclopedica Naturalis Historia, descrive le spade dei Galli come decorate in oro rosso. 

E nel Medioevo pillole coralline rappresentarono un portentoso farmaco contro crisi epilettiche, incubi e malattie infantili. 

Tutti sanno infine che nel Meridione il corno di corallo è simbolo di buona sorte. Lungi da interpretazioni freudiane esso rappresenterebbe, nella forma, il fallo di Priapo, antica divinità simbolo della forza generativa maschile e della fecondità della natura.

E benché dal diario di Marco Polo – che raccontò dei corallini ornamenti indiani 

e degli amuleti nepalesi, degli utensili tibetani e degli elmi e dei copricapi mongoli 

o ottomani – affiori in sottoparlato il profilo di una via del corallo, accanto 

alla via delle spezie e a quella della seta; benché percorrendo 

la vesuviana cittadella di Torre del Greco o i vicoli partenopei, 

possiamo ancora scorgere il profilo di questa via, 

ci accorgiamo lo stesso di un rischio imminente.


Non possiamo non constatare – in questo ventunesimo secolo di humana historia – una crisi auratica dilagante, un dissolvimento cultuale della materia dalla quale perfino il sacro corallo sembra non avere scampo. Qualsivoglia oggetto di pregio, quando non davvero rituale, per non soccombere alla scadenza effimerica dell’oggi, abbisogna di un gesto salvifico in controtendenza. 

Soffermiamoci su quel sublime olio su tavola rinascimentale che è La Madonna di Senigallia di Piero della Francesca, laddove il bambino Gesù indossa un ciondolo di corallo, monito del futuro sacrificio. Soffermiamoci sulle Sette Opere di Misericordia dell’ultimo Caravaggio, che al corallo si lega non per iconografia, ma per significazione, poiché nulla di più misericordioso e caritatevole esiste del sangue versato per l’Altro. Corallium sanguinis imago. E scopriamo come un modo vi sia – offerto proprio da Napoli, città sirenica, partenopea, feconda di risorse – per ritrovare alfine l’aura del Corallium Rubrum, sopravvissuta in resilienza.

Entro la napoletana chiesa ottagonale del Pio Monte della Misericordia, 

in via dei Tribunali – fondata nel 1602 grazie a sette nobili caritatevoli 

che offrivano assistenza ogni venerdì presso l’ospedale degli Incurabili – 

si trovano, in forma permanente, dal 2019, quattro sculture realizzate 

dall’artista contemporaneo Jan Fabre (Anversa, 1958). 

In dialogo con i dipinti seicenteschi delle sette cappelle d’intorno 

e con l’opera del Merisi, posta sull’altare: si tratta di una tetragonia 

di sculture fatte interamente di corallo.


L’artista belga, amante di Caravaggio e di Napoli, che non a caso ha dato a suo figlio il nome Gennaro, è legato al concetto di Caritas e ha scelto il corallo per risvegliarne la storia a partire dalla tradizione culturale e pittorica barocca. Il filo rosso – più rosso non potrebbe dirsi – che lega le sculture fiamminghe è la presenza, in ciascuna, di grossi, guizzanti cuori anatomici. Di volta in volta associati a simbologie cristologiche. 

Nella Purezza della Misericordia, ispirata alla tela del Merisi, ove Sansone eroe biblico, beve dalla mascella di un asino, questa è la base ossea su cui si regge il cuore umano, dal quale sbocciano magnifici gigli, simbolo della purezza della Vergine Maria, cui la chiesa è dedicata. La colomba con ramo d’ulivo è il soggetto corallino de La Libertà della Compassione, dove il cuore umano è stretto fra catene. E lo stesso cuore è circondato di edere nella Rinascita della Vita, a omaggiare il ciclo di vita, morte e resurrezione. Mentre nella Liberazione della Passione il cuore di corallo si fa serratura ed accoglie le chiavi del Paradiso di San Pietro.

Perché adempia al suo compito di portare fortuna il corallo dev’essere ricevuto 

in dono, non acquistato, infatti le opere fabriane sono state donate dal fiammingo 

al Pio Monte della Misericordia, grazie al sostegno di Gianfranco D’Amato 

e Vincenzo Liverino in ricordo dei Cavalieri del Lavoro 

Salvatore D’Amato e Basilio Liverino


Questo fa del Pio Monte non soltanto un celebre luogo di culto cristiano e il custode partenopeo di una delle più complesse opere di Caravaggio, ma anche un tempio della Buona Sorte. 

Varcando la soglia della chiesa tutto ciò che il corallo taceva torna a galla. Quella storia raccontata da Ovidio, che vuole la rossa viscera splendente generarsi dalle stille di sangue della Medusa decollata da Perseo. La sollecita corsa quattrocentesca all’acquisto di gioielli corallini di Alfonso d’Aragona per soddisfare la vanitas della sua Lucrezia d’Alagno.

La fascinazione che ebbe per il corallo la moglie del re di Napoli Gioacchino Murat, Carolina Bonaparte, che regalò al fratello Napoleone una spada imperiale ornata 

di cammei torresi, una scacchiera corallina ed altri gioielli vermigli.


La moda per il Rubrum Corallium che di qui si espanse alla corte di Francia. 

Il racconto di qualche viaggiatore d’oggi, che forse si è udito senza troppa cura. Che descrive alcune casupole Polinesiane sull’isola di Huahine, povere e disadorne viste da fuori, ma che all’interno custodiscono ancora pavimenti rivestiti di corallo. E ancora, le colonie degli artigiani di Torre del Greco generatesi in Giappone quando si scoprirono risorse coralline nel Pacifico. 

I mercanti ebrei di Livorno e Genova che sovraneggiavano sul mercato corallino, messi in riga dall’ordine giuridico di Ferdinando IV di Borbone. La diaspora quattrocentesca dei fini corallari siciliani che si insediarono in Campania portando le proprie tecniche di lavorazione tra Napoli, San Giorgio a Cremano, amalgamandosi agli artigiani napoletani del corallo. 

Questo fa Napoli, città pulsante di segreti. Mischia le carte e sovrappone le storie. Dal mito alla religione, dal lusso d’Oriente, alla moda cortese fino all’arte contemporanea. E lo fa anche attraverso la storia infinita dei rami di corallo.  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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 Foto di Francesca Romana de Paolis

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JOE DI MAGGIO di Gaia Bay Rossi e Luigi Vignali numero 27 gennaio febbraio 2023 Ed. Maurizio Conte

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JOE DI MAGGIO

 

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quando delineò il dovere del Filosofo nel secondo libro de La Scienza della Legislazione, che “Se i lumi che egli sparge non sono utili pel suo secolo e per la sua patria, lo saranno sicuramente per un altro secolo e per un altro paese. 

Dopo un lungo viaggio la coppia si stabilì a Martinez, cittadina vicino a San Francisco, ebbe nove figli e fra i loro, il 25 novembre 1914, nacque Joe.

Sin da piccolo appassionato di baseball


(come i fratelli Dom e Vince, che diventeranno anch’essi giocatori professionisti), esordì a soli diciassette anni nella “minor league”, con la squadra dei San Francisco Seals. Dopo quattro stagioni venne ceduto ai New York Yankees, in cui costruirà la sua straordinaria carriera sportiva e in cui rimase fino al 1951, quando a trentasette anni si ritirò dallo sport agonistico.   

 

Joe Di Maggio fu uno dei più grandi giocatori di baseball di tutti i tempi. Vinse per tre volte il titolo di miglior giocatore dell’American League e fu chiamato nella selezione dei più forti giocatori per ben 13 volte.

 

Tifosi e giornalisti lo chiamavano Joltin’ Joe (“Joe che fa sobbalzare”) 

per la forza con cui colpiva la palla. Nell’arco della carriera Joe 

totalizzerà l’incredibile risultato di 2.214 “battute valide”.


Il giorno prima della vittoria degli Yankees contro i Red Sox, partita che chiudeva il campionato del 1949, il Corriere della Sera scrisse: il campione 
“è stato festeggiato non solo dai propri tifosi, ma anche dai giocatori e dai tifosi della squadra avversaria. Una folla di 80.000 persone lo ha acclamato per un’ora intera prima che la partita potesse cominciare: Joe è stato letteralmente coperto di doni, che andavano da un chilo di gelato alla crema ad un motoscafo da corsa di gran lusso. Quest’ultimo però non è stato portato in campo. Il sindaco di Nuova York è sceso per congratularsi con lui e per consegnargli una bicicletta per il suo figliuolo. Joe Di Maggio, il bel ragazzo sorridente ed espansivo di origine italiana […] ha consegnato al sindaco tutti i doni in denaro che aveva ricevuto perché venissero divisi tra due fondazioni: quella per ammalati di cuore e quella per le ricerche sul cancro”. 

 

Un grande sportivo, un grande italiano. Nella sua vita Joe non dimenticò mai l’Italia 

e Isola delle Femmine. Nel 1955, giunto a Roma decise di far visita al paese 

dei genitori, dove una volta arrivato fu accolto dall’allora sindaco 

suo omonimo, Francesco Di Maggio.


Tornò a Roma una seconda volta, nel 1993, come rappresentante della Federazione Italia-America, con l’intenzione di recarsi a Isola delle Femmine per ritirare la cittadinanza onoraria. A causa di un malore non poté partire: fu dunque il sindaco a venire a Roma, alla Farnesina, per la consegna della cittadinanza. Oggi a Isola delle Femmine, è possibile visitare la casa Museo Joe Di Maggio, per ricordare un campione straordinario, uno dei personaggi più amati nella storia dello sport americano. Si sposò una prima volta con l’attrice Dorothy Arnold e dal matrimonio nacque Joe Di Maggio Jr., ma i due divorziarono nel 1943, mentre Joe prestava servizio militare alle Hawaii.

 

Dopo una serie di storielle senza importanza, arrivò finalmente

il grande amore, Marilyn Monroe.


Joe perse completamente la testa, nonostante l’opposizione del fratello Dom che e soprattutto del vescovo di New York, che gli negò il divorzio dalla prima moglie e poi la possibilità di ricevere i sacramenti. 

Durante la celebrazione del matrimonio con Marilyn, di fronte a 400 persone, il giudice Peery dichiarò: “Ho dimenticato di baciare la sposa, come vuole la tradizione e, credetemi, mi dispiace”. Gli sposi partirono per il Giappone, dove Joe era stato invitato a lanciare la nuova stagione di baseball; Marilyn doveva invece esibirsi per le truppe americane di stanza in Corea: in tre giorni di tour incontrò 13.000 soldati e in ogni base militare fu accolta da enormi ovazioni.

 

Di Maggio era certo che, una volta sposati, Marilyn avrebbe lasciato la carriera 

per dedicarsi alla famiglia (al giornalista che le chiese se aveva intenzione 

di avere bambini, aveva risposto: “Certo, almeno sei”). 

 

Ma così non fu, 


la sua popolarità negli Stati Uniti era al culmine e la sua fama mondiale. Dopo un primo periodo di felicità, arrivarono discussioni e violente liti, anche se non erano note al grande pubblico. Joe seguiva le condizioni contrattuali di Marilyn con le case cinematografiche, riuscendo a ottenere migliori compensi, ma era esacerbato dalla gelosia per una donna che rappresentava il desiderio proibito per antonomasia. Forse il punto di non ritorno fu la gonna svolazzante del film
“Quando la moglie è in vacanza”, per Joe fu devastante vedere l’intera troupe a bocca aperta davanti alla scena – poi trasmessa nei cinema di tutto il mondo. Sicuramente fu l’ultima volta che i coniugi apparvero insieme in pubblico. 

Il 5 ottobre 1954, a solo nove mesi dal matrimonio, Marilyn Monroe, annunciò la decisione di separarsi dal marito. Dopo poco seguirà l’annuncio del divorzio. La causa di divorzio fu molto dura. Di Maggio si fece addirittura accompagnare da Frank Sinatra (peraltro già amante di Marilyn) a un’”imboscata” alla diva – con il risultato di una porta sfondata a una sconosciuta, cui i due dovettero risarcire 7000 $. Dopo vari anni, in cui Marilyn si era risposata una terza volta (con Arthur Miller), aveva sofferto per alcuni aborti, era diventata dipendente da farmaci e psicofarmaci, la donna si riavvicinò a Joe Di Maggio. 

 

Lui, nonostante tutto, continuava a esserne innamorato. Addirittura nel 1961 

i giornali parlavano di un secondo matrimonio tra i due.

 

Poi il 5 agosto del 1962 lei morì improvvisamente, in circostanze mai del tutto chiarite, nella sua casa di Los Angeles.   

 

Di Maggio si occupò del funerale e delle spese. Invitò solo gli amici più intimi, escludendo sia le star hollywoodiane, sia le note personalità politiche che pure Marilyn frequentava. Con il figlio Joe Jr. accanto, seguì il feretro fino alla sepoltura nel cimitero di Brentwood. Prima della chiusura Joe baciò per tre volte la cassa e per tre volte le disse “Ti amo”. E ordinò di deporre un mazzo di 6 rose rosse due volte a settimana sulla sua tomba, per sempre. Quando giunse la sua ora, nel 1999 per un tumore ai polmoni, le ultime parole furono: “Finalmente riuscirò a vedere Marilyn”.  

 

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MATTIA PRETI, CAVALIERE (E ORGOGLIO) CALABRESE di Claudia Papasodaro numero 27 gennaio febbvraio 2023 Ed. Maurizio Conte

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MATTIA PRETI, CAVALIERE

E ORGOGLIO CALABRESE

 

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Molti conoscono la vicenda artistica di Mattia Preti: gli esordi romani col fratello Gregorio, anch’egli pittore, la straordinaria parentesi napoletana, la consacrazione maltese. In pochi, forse, conoscono la vicenda umana di questo artista, oggi riconosciuto come uno dei grandi protagonisti della stagione pittorica seicentesca, definito da Roberto Longhi “apocalittico, secondo solo a Caravaggio”. Pochissimi, probabilmente, sanno che 

il legame di Mattia Preti con la sua terra va ben oltre quell’appellativo 

di “Cavalier Calabrese”, che sempre lo accompagnò da quando, nel 1642, 

per volere di papa Urbano VIII, ricevette l’investitura di Cavaliere di Obbedienza Magistrale dell’Ordine di San Giovanni Gerosolimitano. E poco noto è che, 

nonostante la fama ed il prestigio di una carriera che lo tenne costantemente lontano, non dimenticò mai la sua Taverna, il piccolo borgo che gli aveva dato i natali 

e che aveva lasciato giovanissimo (come tanti altri calabresi 

ieri e ancora oggi) per cercare fortuna altrove.


Taverna, nel catanzarese, è una graziosa cittadina di poco più di 2500 abitanti, incastonata tra i monti della Sila Piccola e non lontana dallo Ionio, dove d’inverno ti inebria l’odore di legna bruciata e d’estate senti quasi il profumo del mare. Qui il sentimento di orgoglio e la riconoscenza nei confronti del Cavalier Calabrese è ancora palpabile, come dimostra la statua bronzea a lui dedicata posta nella principale Piazza del Popolo, opera dello scultore Michele Guerrisi, altra grande personalità calabrese. 

 

Mattia Preti è stato un artista estremamente prolifico, documentato con circa settecento opere, tra disegni, dipinti, affreschi e progetti architettonici, che oggi sono conservati in chiese, collezioni private e musei di tutto il mondo. 

 

E proprio Taverna può vantarsi di custodire oltre 20 opere del suo figlio più illustre – un numero davvero incredibile per un piccolo centro come questo. Come ha affermato lo storico dell’arte John Thomas Spike – uno dei maggiori studiosi dell’artista – 

“non ci sono esempi paragonabili di pittori che abbiano voluto creare la memoria 

di sé stessi nel loro luogo natale”. E questo, in effetti, 

è un fatto davvero straordinario.

 

All’apice della sua carriera nell’isola di Malta, dove trascorse gli ultimi trent’anni della sua lunga ed intensa vita al servizio dell’Ordine dei Cavalieri, elevato prima al rango di Cavaliere di Grazia e poi di Commendatore dell’Ordine Gerosolimitano, l’artista si prodigò nella realizzazione di opere da inviare alle chiese del suo borgo natale, dove volle tornare (e restare) con la sua arte. 

 

Emblematica in questo senso è la Predica di San Giovanni Battista, la monumentale tela nella chiesa di San Domenico, dove Mattia Preti, anche se lontano, volle acquistare una cappella in onore della sua famiglia. Questo gesto rappresentò un vero e proprio riscatto sociale per l’artista: una rivalsa dalla delusione subita dalla famiglia nel 1605, quando al padre Cesare fu negato lo status di nobile a causa dell’insufficiente ricchezza

Dedicò l’altare al Battista – patrono dei Cavalieri – e nella grande tela inserì 

il suo autoritratto in qualità di donatore dell’altare stesso, come a voler suggellare 

in eterno il suo legame con quel luogo,


in una sorta di testamento pittorico che, secondo Spike, fa del Preti “il primo pittore che ha voluto creare, con deliberato impegno e notevole dispendio di mezzi, un monumento permanente a sé stesso” nella sua terra natia. Si raffigurò come più amava farlo, con la veste da Cavaliere, lo sguardo fiero e nella mano destra insieme la spada e il pennello, suoi inseparabili compagni di vita. 

 

Nella stessa chiesa sono altre sei le tele del Preti che è possibile ammirare, tra cui il Cristo Fulminante che da solo vale il viaggio. 

Altre opere sono conservate nella chiesa di Santa Barbara e nel Museo Civico, 

meta ogni anno di migliaia di visitatori e divenuto, dalla sua fondazione nel 1989, 

un punto di riferimento imprescindibile per gli studiosi dell’artista 

a livello internazionale.


Un piccolo borgo diventato importante centro culturale grazie all’attaccamento di un figlio che se n’è andato senza mai però lasciarlo davvero e che, con dedizione e riconoscenza, si impegna per tenerne sempre vivo il ricordo. 

 

Mattia Preti – Cavaliere e orgoglio calabrese – con la sua storia ci racconta dell’amore e, al tempo stesso, del tormento di coloro che hanno dovuto lasciare questa terra. Un sentimento profondo e sincero, come la Calabria stessa

 

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The ceiling of Church of St Francis of Assisi, Valletta, Malta

 Nella foto: dipinto di Mattia Preti nella chiesa di San Francesco d’Assisi a la Valletta – Malta – Foto da DEPOSITPHOTOS 

 

UN INCONTRO DI GUSTO – PARTE SECONDA di Vincenzo Cardellicchio numero 27 gennaio febbraio 2023 Ed. Maurizio Conte

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UN INCONTRO di gusto

 

 Parte seconda – Parte prima

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Con la pubblicazione di questo suo ultimo e davvero prestigioso lavoro, 

dal titolo I Sanniti – Una storia negata”, il prof. De Benedittis ha finalmente aperto 

un vero varco alla ricerca ed al tentativo di ristabilire una verità storica 

sul valore di questo popolo fiero e combattivo.


Quanto all’attendibilità scientifica della ricerca, per quanti non sono pienamente addentro alla specifica materia,  gioverà qui ricordare che Il prof. De Benedittis, professore universitario presso la UNIMOL, è uno dei massimi conoscitori dell’antico Sannio, ha tenuto numerose conferenze in convegni presso molte Università italiane e straniere ed ha presenziato e diretto numerosissimi cantieri di scavo archeologico e campagne di ricerca in Campania, Molise e Puglia, organizzando una molteplicità di simposi e mostre di carattere archeologico. Ovviamente ricchissima è la sua pubblicazione di libri, di saggi ed articoli editi in riviste sia italiane che straniere ed è direttore della rivista Considerazioni di Storia ed Archeologia.   

 

Fatta questa doverosa precisazione torno alla nostra serata alla Molisana.   

 

“Il mio libro, ha continuato l’autore in questa godibilissima presentazione, intende presentare il Samnium secondo il punto di vista dei Sanniti, un popolo che, per essersi opposto al potere espansionistico di Roma, è stato relegato ai margini della storia, nel limbo di quei perdenti che hanno avuto la colpa di essere stati il primo grosso ostacolo nel percorso di Roma verso l’Impero”.

 

Una diversa interpretazione delle testimonianze storiche, 

epigrafiche, numismatiche e archeologiche,


infatti, permette di leggere secondo una nuova prospettiva una regione del Mediterraneo antico a cui la storiografia ha attribuito un’identità di primitività e rozzezza.   

 

La scoperta di una lingua propria, l’Osco, con un proprio alfabeto ed una diversa articolazione della scrittura e poi la sua definitiva decrittografia hanno già disvelato un nuovo contesto e posto seri interrogativi sulla qualità di quella antica popolazione descritta come poco più che animalesca specie se confrontata alla evoluta civiltà romana.     

 

La presenza diffusa sul territorio poi di ben quattro teatri di epoca precedente alla presenza romana, addirittura uno a Pietrabbondante realizzato in maniera del tutto originale con sedute  ergonomiche scavate nella pietra, le possenti mura megalitiche dei Pentri, le larghe strade che costituiscono un assetto viario complesso, i selciati a ciottoli del Biferno e persino le cunette di scolo per le acque piovane, gli intonaci colorati ed infine il rinvenimento di residui alimentari, per l’epoca particolarmente raffinati, come resti di conchiglie di mitili bivalve, danno del popolo Sannita una dimensione del tutto diversa.   

 

E poi c’è l’assetto sociale molto evoluto organizzato in assemblee decisionali ove ogni città inviava i propri rappresentanti nel Consiglio dove si assumevano le decisioni comuni attraverso l’esercizio del voto.

 

Eppure la storiografia ufficiale continua a definirli soltanto 

generosi combattenti e beceri pastori.


Già, pastori che senza un soldo, senza cultura e senza armi riusciranno a tener testa, sopraffare ed umiliare in battaglia in tre guerre durate centinaia di anni le potentissime armate di Roma. Davvero difficile da credere.   

 

Infine l’atto finale di una lunga guerra di aggressione, combattuta in spregio di precedenti accordi, con cui viene deliberatamente distrutta l’antica prosperità sannita che con il commercio della lana e dell’argilla intratteneva evidenti rapporti con molti paesi come testimoniano i rinvenimenti di anfore tunisine, monete provenienti dalla Dalmazia, dalla Spagna e dalla Francia e che avviene con la distruzione non solo di tutte le abitazioni ma anche di tutti gli elementi che consentivano ad essa di sopravvivere.   

 

Emblematico al riguardo il riempimento delle enormi cisterne di raccolta delle acque che vengono volutamente riempite con le macerie delle case e delle strade distrutte per giungere alla distruzione totale ed alla cancellazione rapida ed improvvisa di una intera civiltà.   

 

Certo la ferocia distruttrice del vincitore, la sopraffazione tombale del nemico e lo spietato oblio aggiunto alla vittoria non potranno essere incastonate come nuove perle alla corona imperiale romana, ma tutt’al più ricordate, come racconta l’autore, come l’ipotetica prova generale della distruzione annientatrice che subirà Cartagine qualche centinaio d’anni dopo. Ma tant’è.

 

Ne deriva quindi una lettura diversa della storia dei Sanniti, finora visti solo 

nel ruolo chiave che hanno giocato nei primi passi di Roma 

verso l’occupazione del Mediterraneo.

 

I rapporti dei Sanniti con Roma – ha aggiunto conclusivamente l’autore del libro – i loro successi e le loro sconfitte, principali argomenti delle ricerche romanocentriche, occupano in questo volume spazi assai limitati e marginali mentre è lo studio dei Sanniti del Molise, del loro mondo, della loro cultura e la raffinatezza di questa civiltà sconfitta ad essere l’obiettivo principale di questo impegno.

 

Approfondire la loro storia ed il loro modo di vivere dal VI sec. a.C., cioè prima dell’impatto che ha avuto sulla loro quotidianità lo scontro con lo strapotere di Roma e la sua ossessione espansionistica è l’oggetto principe di questo studio lungo tutta una vita.   

 

La ricerca di tracce dimenticate in innumerevoli luoghi o di oggetti malamente attribuiti, la rilettura di ambienti e testimonianze nei tanti siti di scavo ha così aperto una finestra risarcitoria di dignità all’antico popolo dei Sanniti smentendo quei luoghi comuni coniugati con la retorica del potere del vincitore che gli storici antichi ci avevano tramandato soltanto come popolo di montanari.

 

Montanari certamente sì, sconfitti pure, ma tutt’altro che rozzi.


Nel libro aneddoti, piacevoli chicche, inaspettate curiosità arricchiscono una lettura piacevole restituendo all’attività archeologica quel fascino di indagine “poliziesca” che ha fatto la fortuna di tanta cinematografia moderna e che qui volutamente si omettono per non togliere gusto al lettore di cui si spera di aver solleticato almeno la curiosità.   

 

Immancabile a fine serata la cortesia di un brindisi alla salute dello scrittore ed al suo successo editoriale, poi la firma dei volumi da parte dell’autore, che gli eredi di una storica libreria cittadina organizzano affettuosamente in distribuzione per l’occasione ed infine il gesto di cortese simpatia che usa la Proprietà lasciando in dono sulle sedie dei convenuti una elegantissima sacchetta di cotonaccio griffato contenente le ultime novità gastronomiche dell’azienda alimentare.

 

Un modo per portare a casa la memoria di un’occasione d’ incontro 

in un “salotto buono” con quella raffinata eleganza, sapiente e gustosa 

come il nostro migliore SUD sa offrire.

 

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SANTA MARIA IN FORO CLAUDIO Gemme del Sud numero 26 ottobre novembre 2022 ed. Maurizio Conte

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SANTA MARIA IN FORO CLAUDIO

 

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            Ventaroli (CE)

 

La riserva naturale del lago di Falciano, sito alle pendici del Monte Massico, in provincia di Caserta, è un luogo ameno dalla variegata flora e fauna che vale una visita, nella quale va assolutamente inclusa una sosta a Ventaroli per vedere un vero gioiello poco conosciuto: la Basilica di Santa Maria in Foro Claudio.

 

Ventaroli è una piccola frazione con meno di 200 abitanti nel comune di Carinola, conosciuta proprio per tale chiesa che fu prima episcopio, poi sede vescovile 

dal VI all’XI secolo. In epoca romana questo sito era chiamato 

Forum Claudii e vi sorgeva un tempio pagano.

 

La Basilica di Santa Maria in Foro è una piccola “perla” di età alto-medievale, molto semplice nell’impianto: tre navate divise da colonne di reimpiego. 

All’interno sono custoditi i resti di affreschi, tutti di epoche diverse, databili tra il X ed il XVI secolo. Preziosi e di influenza bizantina sono quelli dell’abside del XII secolo a tema mariano, ma 

 

in una delle navate si nasconde la parte più interessante, quella con gli affreschi raffiguranti antichi Mestieri: il calzolaio, il fabbro, il farmacista, il macellaio ed altri, 

tutti rappresentati intenti a svolgere la propria attività, designata dall’iscrizione 

che campeggia sulla parete. 

Artigiani, mercanti, professionisti si riunivano all’epoca in corporazioni, o “gilde”, associazioni il cui scopo era aiutarsi, difendersi reciprocamente e regolamentarsi. Le gilde erano chiuse ed ereditarie. Di solito ogni corporazione era posta sotto la protezione di un santo e l’autorità cittadina o la chiesa garantivano loro la necessaria tutela: nessuno poteva avviare un’attività senza essere iscritto all’ “arte”, alla corporazione. Non si conosce il motivo per cui proprio qui vennero rappresentati tali mestieri, ma senz’altro 

 

questi affreschi, databili al XV secolo, costituiscono 

un importantissimo documento storico.

 

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L’ANTICO BORGO DI CRACO Gemme del Sud numero 26 ottobre novembre 2022 ed. maurizio conte

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L’ANTICO BORGO DI CRACO

 

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               Craco (MT)

 

 

 

A circa 60 chilometri da Matera si trova l’antico borgo medievale di Craco, un paese fantasma immerso nel suggestivo territorio lucano dei calanchi, formazioni collinari di rocce argillose. Abitato probabilmente fin dall’XI secolo d.C., su presenze umane più antiche, la sua storia attraversa i secoli fino a giungere nel Novecento.

 

Sorto sia su base rocciosa che su terreno soggetto ad erosione, agli inizi 

degli anni Sessanta del secolo scorso questo paese fu colpito 

da un evento naturale che ne decretò la sorte:  

 

Luna disastrosa frana costrinse gli abitanti ad abbandonare le proprie case ed attività per trasferirsi più a valle, a Craco Peschiera, lasciando il posto al silenzio e alla natura che si è riappropriata del proprio spazio. 

Aggirandosi per i vicoli del borgo, accompagnati da guide autorizzate poiché per motivi di sicurezza è vietato l’accesso libero, si possono ammirare la torre normanna, i palazzi nobiliari, le chiese, gli scorci dei vicoli con le case addossate le une alle altre e gli affacci mozzafiato sul paesaggio dei calanchi.

 

Grazie all’impegno di cittadini e Comune, l’antico abitato è tornato a vivere, 

diventando mèta turistica, set scelto da importanti marchi pubblicitari, 

location cinematografica di registi famosi 

e luogo di manifestazioni culturali.

 

La volontà di conservare la memoria del proprio passato si esprime nel MEC, il Museo Emozionale di Craco, che ha sede nell’antico monastero di San Pietro dei Frati Minori fondato agli inizi del XVII secolo e posto ai piedi del borgo. Qui, attraverso l’impiego di tecnologie multimediali ed interattive, il visitatore può immergersi nella storia dell’insediamento e conoscerne i protagonisti, scoprendo un territorio ricco di tradizioni, arti e mestieri e al tempo stesso godere di un’oasi di tranquillità.

 

Panoramic view of Craco. Basilicata. Italy.
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 Foto da DEPOSITPHOTOS

 

LA RIVIERA DEL CORALLO Gemme del Sud mumero 26 ottobre novembre 2022 ed. maurizio conte

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LA RIVIERA DEL CORALLO

 

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Gemme del Sud

               Alghero

 

La Riviera del Corallo, si estende lungo i 90 chilometri della costa di Alghero, con una grande varietà di paesaggi tutti da scoprire: lunghe spiagge di sabbia bianca, piccole calette e meravigliose formazioni rocciose verso il promontorio di Capo Caccia, circondate dalla vegetazione della macchia mediterranea. Il nome deriva dalla cospicua presenza nei fondali di corallo rosso, che costituisce una delle principali risorse del territorio.

 

La pesca del corallo in Sardegna ha origini antichissime: da sempre usato per scopi 

di culto, nel corso dei secoli è diventata un’importante risorsa economica, 

 

oggi preservata e tutelata anche in siti speciali all’interno dell’Area Marina Protetta di Capo Caccia e del Parco Regionale di Porto Conte. In particolare il Corallium Rubrum è definito “l’oro rosso di Alghero”, a sottolineare il forte legame tra la città e la sua più preziosa risorsa, sancito già nel 1355, quando il re d’Aragona Pietro IV il Cerimonioso concede ad Alghero lo stemma rappresentante un ramo di corallo in mezzo alle onde del mare, sormontato da quattro pali rossi in campo oro, insegna reale nota come “Pali di Aragona”. 

 

E proprio ad Alghero sorge 

 

il MACOR, un museo interamente dedicato al corallo, che offre un percorso 

alla scoperta della tradizione, della cultura e dell’identità 

di questa parte di Sardegna

 

attraverso aspetti storici, scientifici, economici e curiosità attorno al pregiato materiale, oltre alle opere d’arte che gli artigiani algheresi hanno creato e creano ancora oggi col corallo. Il museo, inoltre, è ospitato all’interno dell’elegante villa Costantino, unico edificio liberty visitabile in città, che conserva ancora la divisione interna degli ambienti come residenza familiare e gli elementi decorativi originali, motivo in più per andare a visitarlo.

 

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L’INCENDIO DEL CASTELLO SVEVO DI TERMOLI Gemme del Sud numro 26 ottobre novembre 2022 ed. Maurizio Conte

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L’INCENDIO DEL CASTELLO SVEVO DI TERMOLI

 

 Gemme del Sud
                    Termoli (CB)

 

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Il Castello Svevo di Termoli, situato nel Borgo Antico, è il simbolo di questa bella cittadina molisana in provincia di Campobasso affacciata sul mare. Costruito probabilmente in epoca normanna, ristrutturato nel 1247 da Federico II (da qui l’appellativo di “Svevo”),

 

ogni anno, la notte del 15 di agosto, diventa il protagonista di una manifestazione davvero unica e suggestiva: l’Incendio del Castello 

 

Si tratta di una rappresentazione storico-popolare che rievoca l’assalto da parte delle truppe di Pialj Pascià: sbarcati con circa 200 galee, il 2 agosto 1566, gli Ottomani strinsero d’assedio il vecchio borgo marinaro distruggendo abitazioni e appiccando incendi. Ma un’eroica resistenza fu opposta dalla popolazione nelle campagne tra Termoli e Guglionesi dove, grazie alla tenacia ed al coraggio, si riuscì ad arrestare l’invasione nemica. E proprio da quelle parti, già dal 1545, sorgeva un santuario dedicato alla Madonna della Vittoria, oggi nota come Madonna a Lungo. Qui per anni fu ricordato l’episodio con rappresentazioni popolari eseguite dalla gente comune che orgogliosa tramandava la vittoria storica dei propri avi.
Dal 2001 la decisione di rievocare l’avvenimento storico attraverso una grande manifestazione che negli anni è diventata, insieme alla festa del patrono San Basso, l’evento più atteso della città. Si comincia già dal pomeriggio con una sfilata di giovani del posto travestiti da saraceni. In serata,

 

alcune Paranze si avvicinano in mare verso le mura del Borgo Antico 

rievocando l’ingresso degli invasori e con suggestivi combattimenti 

danno inizio all’Incendio del Castello, uno spettacolo mozzafiato,

 

una vera e propria esplosione di luci e fuochi pirotecnici che infiamma i cieli di Termoli e lascia a bocca aperta i tantissimi visitatori che ogni anno si recano nella cittadina per partecipare a questo emozionante evento.

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UN INCONTRO di GUSTO. Parte prima di Vincenzo Cardellicchio numero 26 ottobre novembre 2022 ed. maurizioconte

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UN INCONTRO di gusto

 

 Parte prima – Parte seconda

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Anche la cronaca di un evento, nel caso di specie la presentazione di un gran bel libro, già di per sé un momento di particolare interesse, può ancor più arricchirsi fino a trasformarsi in un’occasione per una riflessione sul meridione d’Italia, sul nostro SUD, sui suoi valori, sulle sue tante storie e sulla ricchezza emotiva che da sempre ha espresso, esprime ed in prospettiva potrà ancora garantire al nostro Paese rendendolo così unico e straordinario   

 

“Campagna letteraria” è un’iniziativa cui il Pastificio La Molisana ha dato avvio da qualche storico tempo a favore della Città di Campobasso che ospita l’azienda che con il suo marchio è da anni presente sulle tavole degli Italiani, famoso nel mondo e leader della buona cucina.

 

Nata in sordina, con quella discrezione un po’ ritrosa che è una cifra connotativa 

del carattere di questa popolazione, l’idea ha ben presto preso corpo e vigore

 

di vero progetto per l’attenzione che ad essa ha dedicato l’Azienda e per il successo che i fruitori le hanno da subito tributato.   

 

Uno spazio culturale elegante e raffinato, che, ben contestualizzato in ambientazioni tipiche dell’architettura industriale, ha saputo valorizzare le opere che sempre più incisivamente andavano ad essere scelte e lì presentate.   

 

La sistematica, preziosa e accogliente presenza della proprietà è stata rappresentata in questa occasione dal capostipite della famiglia Vincenzo Ferro che ha assunto il ruolo di conduttore dialogante, competente ed appassionato e da sua figlia Rossella, direttamente impegnata nella conduzione aziendale e protagonista in questa magnifica iniziativa, affiancata come spesso è accaduto anche dal fratello Giuseppe anch’egli primario artefice del successo di questa bella azienda del nostro meridione.    

Un’occasione che ha confermato come l’indissolubile miscela di successo, cultura e sentimento partecipativo riesca nel nostro Paese a produrre esempi di qualità straordinaria.

 

Le poche righe che mi accingo a scrivere, lungi da voler sfiorare l’idea di una critica letteraria, vuole essere soltanto la cronaca di un evento nel quale riconoscere 

il perché di una comunità, la qualità di uno stare insieme 

e l’affetto per la propria Terra e le proprie origini. 


“Vae victis” con questa locuzione latina, che tradotta letteralmente significa “guai ai vinti” lo scrittore Gianfranco De Benedittis ha iniziato a raccontare il suo libro.   

 

Quell’incipit, ha proseguito l’autore, è una espressione proverbiale usata come sorta di sopraffazione nei confronti di un avversario che non è più in grado di difendersi e nello stesso tempo esaltare il potere e la forza dei vincitori, relegando così gli sconfitti ad un ruolo marginale, sminuendone le capacità e l’intelligenza e la stessa legittimazione storica.   

 

Ed in questo pomeriggio l’autore ci vuole condurre, con il suo libro frutto di una sua decennale ricerca documentale, in una archeologia del pensiero storico ricostruttivo, in una indagine socio economica di un passato sepolto dalla polvere del tempo ma non così nei cuori di quanti, seppur eredi di una terribile sconfitta, non hanno mai rinnegato le loro origini anzi ne menano ancora vanto ed oggi, in questa sala, il nostro autore ne diventa nuovo condottiero.

 

La storia è, infatti, sempre raccontata dai vincitori ma non sempre la ricostruzione 

è stata obiettiva e assolutamente veritiera almeno in ogni suo capitolo.

 

E’il caso del popolo Sannita primo grande oppositore all’espansione e allo strapotere romano, che già lo storico Tito Livio definì “rozzi montanari”.       

 

Lo disse lui, lo ripeterono in tanti e per tanto tempo, tutto senza uno straccio di riprova o una ricerca del contrario; insomma senza difesa alcuna per i vinti.   

 

Un popolo, quello Sannita, che ebbe la “colpa” di aver umiliato la grandezza di Roma. Un affronto che tutti i narratori del I secolo hanno volutamente veicolato nell’oblio, tant’è che nella storia della letteratura romana, cioè tutta, dei Sanniti non è sopravvissuto quasi nulla.   

 

Ma oggi, in virtù di questa poderosa ricerca e dell’opera letteraria che ne è il frutto, si è voluto cercare di restituire al popolo Sannita quel ruolo fondamentale che competeva loro e che la “storia romana”, qui si sostiene, a torto aveva cancellato.

 

Quella operata dal professore De Benedittis è, infatti, una sistematica e documentata rilettura delle fonti e delle testimonianze che ha così dipanato 

i tanti dubbi e le contraddizioni


che lo storico ha fatto emergere nel suo incessante lavoro di scavo archeologico nel sito di Monte Vairano alle porte della città di Campobasso ed in altri numerosissimi insediamenti sparsi in tutto il Molise.   

 

Un territorio, quello molisano, falcidiato da un’emigrazione secolare, mai interrotta ed ancora feroce, isolato da una viabilità che ancora oggi lo vede incredibilmente e deliberatamente escluso dai pur modesti progetti di sviluppo ferroviario e marginalizzato anche da quelli autostradali, che resta comunque non lontano dai grandi centri attrattivi di Roma, Napoli e Bari; ed è così che gli eredi dei Sanniti, nonostante tutto appena possono tornano a casa per partecipare a ricorrenze e manifestazioni che tra sentimenti religiosi e riti pagani rievocano ancestrali usanze.   

 

Insomma, una popolazione sempre fiera del proprio passato nascosto in antichi racconti ed in tradizioni che hanno a che fare con il fuoco ed il ferro e con uno spirito che ancora esalta nei racconti riservati ai bimbi la forza ed il coraggio di chi nei secoli ha dovuto battersi con i lupi e di quelle pelli si copriva in guerra.

 

Una Terra per dirla come scrisse F. Jovine che “è per me un sogno. Un mito tramandatomi dai padri e rimasto nel mio sangue e nella mia fantasia.”

 

Quella Regione che qualche cattivo scolaro ancora stenta geograficamente collocare sulla cartina politica “muta” dell’Italia che pur abbiamo avuto tutti tra le mani nella scuola dell’obbligo e che persino il servizio televisivo delle previsioni del tempo ancor oggi fatica a collocare tra il sud del centro ed il nord del sud.   

 

Ma al di là del gioco sul “Molise che non esiste”, ormai utilizzato proprio per decantarne la straordinaria bellezza naturistica, le incontaminate realtà civiche e le preziosità salutistiche di aria ed acqua, oggi, con questa ricerca scientifica, sono state poste in discussione e persino cassate anche certe finora indiscusse connotazioni sulle sue origini ed in particolare sulla qualità delle società che quei territori avevano abitato nel passato remoto.

 

 

(segue)

 

 

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ENRICO CARUSO UN NAPOLETANO IN AMERICA di Luigi Vignali e Gaia Bay Rossi numero 26 ottobre navembre 2022 Ed. Maurizio Conte

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ENRICO CARUSO UN NAPOLETANO IN AMERICA

 

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Enrico Caruso è stato uno dei più grandi tenori di sempre e ha fatto conoscere e amare in tutto il mondo la lirica e la musica napoletana. La sua vicenda è narrata nel bel documentario “Enrico Caruso, the greatest singer in the world”, girato per i cento anni dalla morte dell’artista e prodotto dalla Direzione Generale per gli italiani all’Estero della Farnesina.

 

Caruso era di umili origini, ma sin da bambino maturò notevoli capacità musicali, tanto da suscitare l’attenzione di alcuni “maestri” dai quali prese lezioni, per quanto ancora di livello amatoriale. La dedizione che mise nello studio gli permise, nel tempo libero dal lavoro alla fonderia in cui il padre era operaio, di esibirsi presto in piccoli teatri e caffè fuori Napoli, cantando canzoni napoletane e arie d’opera. In una di queste occasioni venne notato dal baritono Edoardo Missiano che lo presentò al maestro Guglielmo Vergine, uno dei migliori maestri di canto della città. Quest’ultimo, intuendone il potenziale, accettò di dargli lezioni in cambio del 25% dei proventi che il tenore avrebbe guadagnato nei successivi cinque anni. Per il giovane venne poi la chiamata alle armi, ma la fortuna volle che un suo ufficiale, maggiore Nagliati, lo ascoltasse cantare in caserma. Rimanendo colpito dalla sua voce, non solo gli propose di andare a lezione dal suo amico barone Costa, ma fece anche in modo che il fratello di Enrico, Giovanni, lo sostituisse sotto le armi (la legge allora lo permetteva)!

 

Talento, professionalità e dedizione permisero a Caruso di debuttare nel marzo 

del 1895, di farsi conoscere in Italia e di iniziare ad apparire sui giornali


Riuscì anche ad avere un’esperienza all’estero, percependo 600 lire per un mese di lavoro al Cairo. In quel periodo Caruso ebbe modo di conoscere direttamente il Maestro Puccini, che lo invitò nella sua casa di Torre del Lago. Il compositore stesso accompagnò Caruso al pianoforte e durante la romanza di Rodolfo, esclamò la famosa frase: “Chi t’ha mandato, Dio?”. 

Fu proprio in quegli anni che iniziò una relazione con il soprano fiorentino Ada Botti Giachetti, per quanto già sposata e madre di un bambino, dalla quale ebbe poi due figli, Enrico jr. e Rodolfo. Per lei più avanti comprò Villa Bellosguardo a Lastra a Signa (presso Firenze, tuttora sede di un museo a lui dedicato). La loro unione finì undici anni dopo in tribunale, perché Ada lo lasciò per fuggire con l’autista. La coppia cercò anche di estorcere denaro al tenore.

 

Oltre all’Italia, Caruso iniziò a esibirsi all’estero con tournée in Russia, 

a Lisbona, a Londra e a Buenos Aires. Aveva preso quota,

 

erano finiti i tempi dei localini di un tempo, ora in Italia cantava alla Scala di Milano, all’Opera di Roma, al Massimo di Palermo e al San Carlo di Napoli. Fu proprio qui, secondo la leggenda, che durante l’interpretazione de L’elisir d’amore nel dicembre 1901 si fosse così emozionato da aver subito delle incertezze canore; la protesta eccessivamente severa dei suoi concittadini e le critiche sui giornali gli fecero giurare di non cantare più nella sua città: sarebbe tornato solo per “vedere la mia cara mamma e mangiare i vermicelli alle vongole”. E così fu: un giuramento che Caruso manterrà per tutta la vita. Era pronto invece a cogliere il grande successo che lo attendeva oltreoceano. 

Nel marzo del 1903, grazie al banchiere italiano residente a New York Claudio Simonelli, Caruso riuscì ad ottenere un eccezionale contratto con il Metropolitan Opera House. Simonelli, dopo lunghe trattative con il nuovo direttore Henrich Conried, era infatti riuscito a fargli accettare tutte le condizioni richieste dal tenore.

 

Il 23 novembre Caruso debuttò in un Metropolitan sfarzoso e brillante di luci. 

In cartellone la sua opera preferita, Rigoletto.

 

Il pubblico era composto da alta società e giornalisti, Caruso era pronto e perfettamente all’altezza, ma la grande emozione lo fece muovere in maniera maldestra, tanto che ruppe il ventaglio del soprano Helen Mapleson. La serata non raggiunse picchi particolari di ammirazione, ma neanche di critica e risultò una serata “media”, come tante altre. La stampa comunque fu benevola, il New York Times mise in rilievo l’espressione e la flessibilità della sua voce, così come l’intelligenza e la passione sia nel canto che nella gestualità, mentre il Sun si rallegrava di come il nuovo tenore non mostrasse traccia del “tipico belato italiano” e faceva notare che Caruso era oltretutto un uomo piacente!

 

Al Rigoletto seguirono AidaToscaBohemePagliacciLuciaTraviataElisir d’amore, per complessive 29 recite in cui Caruso era sempre intento a reggere 

e superare il confronto con Jean de Reszke, il tenore stabile del Metropolitan.


Era oltretutto un uomo affascinante e il pubblico femminile ne rimaneva ammaliato. Queste 29 serate furono le prime delle 607 realizzate per il Metropolitan, in ben diciassette stagioni. 

Le rappresentazioni divennero sempre più veri e propri trionfi, la sua voce era considerata straordinaria. Durante un’esibizione il 5 dicembre lo straordinario successo fu sottolineato anche dall’inusuale gesto del soprano Marcella Sembrich, che raccolse uno dei fiori presenti sul palco e lo porse a Caruso. 

Il tenore fu il primo ad incidere dei dischi sin dal 1902, e fu proprio questo supporto a contribuire alla divulgazione del mito. Oltretutto riuscì a vendere un milione di copie, diffondendo musica napoletana e operistica in tutti i continenti. E questo senza tralasciare l’impulso che le incisioni diedero all’aumento di ingaggi e cachet…

 

Nel 1910, diretto da Arturo Toscanini, Caruso cantò nella prima mondiale della Fanciulla del West di Giacomo Puccini. Era ormai diventato 

il tenore più importante e famoso al mondo.

 

L’organizzazione di stampo mafioso La Mano Nera, con ramificazioni in Sicilia, tentò di estorcergli del denaro, sotto minaccia di morte. Caruso non cedette al ricatto e si affidò al poliziotto Joe Petrosino, che riuscì a far arrestare due dei tre delinquenti (e, grazie alle indagini, qualche anno dopo, anche due importanti capi della mafia newyorkese). Il tenore, alle estorsioni preferiva la beneficenza, soprattutto se riguardava gli immigrati italiani. Diede un concerto di beneficenza anche dopo l’affondamento del Titanic, a metà aprile 1912, e durante la I Guerra mondiale tenne concerti per i soldati.

 

Fino al 1920 la vita di Caruso era organizzata in base alle stagioni al Metropolitan, 

alle incisioni discografiche, e ogni anno dalla primavera all’inizio dell’autunno 

era in Europa (almeno fino allo scoppio della guerra), 

ritagliandosi un mese estivo di vacanza italiana.

 

Durante le prove del Sansone e Dalila al Metropolitan crollò una scenografia in cartapesta, colpendo il tenore ad un fianco e fratturandogli le costole. Rimase sempre il dubbio se fosse un disgraziato evento del destino o un atto criminale. Le conseguenze dell’infortunio gli procurarono poi un’emorragia durante una rappresentazione che venne interrotta. Il 25 dicembre del 1920, mentre si trovava a Sorrento, il cantante lamentò forti dolori, che furono diagnosticati dai medici come pleurite infetta. Fu operato il giorno prima di capodanno.   

 

Tornato in America, Caruso abbandonò le scene perché le sue condizioni erano particolarmente gravi. Decise poi di voler terminare i propri giorni a Napoli e con la moglie Dorothy (sposata nell’agosto del 1918), la figlioletta Gloria e il fratello Giovanni fece rientro in Italia. 

Morì nella sua città, al Grand Hotel Vesuvio, il 2 agosto 1921.In occasione del centenario della morte, nell’abitazione dove nacque il cantante, è stato inaugurato il Museo Casa Natale Enrico Caruso.

 

Il tenore era estremamente legato a Napoli, la napoletanità rimase impressa 

nella sua indole, nel suo carattere e temperamento fino alla morte.

 

Gli piaceva avere intorno napoletani, sia che fossero amici, collaboratori o colleghi. E questo perché lui stesso si sentì sempre profondamente napoletano, anche se il rapporto con la città fu caratterizzato da un’ambivalenza di struggimento e scetticismo. 

Alcune delle canzoni napoletane incise da Caruso furono ideate e realizzate a New York, all’interno della comunità italiana, non a Napoli, come Core ‘Ngrato (scritta e musicata appositamente per lui), Tarantella sincera, Scordame, Sultanto a te, I’m’ arricordo ‘e Napule, ultima canzone incisa da Caruso nel 1920. Il 20 marzo 1916 aveva invece inciso la canzone Tiempo antico, scritta e musicata da lui stesso, una sorta di sfogo, di liberazione del suo amore per Ada perduto nel tempo. 

Caruso fu in tutto e per tutto un italiano d’America, negli atteggiamenti, nell’allegria, nella passione, che lo portarono ad essere in tutto il mondo un vero, grande mito italiano.

 

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