ENRICO CARUSO UN NAPOLETANO IN AMERICA di Luigi Vignali e Gaia Bay Rossi numero 26 ottobre navembre 2022 Ed. Maurizio Conte

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ENRICO CARUSO UN NAPOLETANO IN AMERICA

 

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Enrico Caruso è stato uno dei più grandi tenori di sempre e ha fatto conoscere e amare in tutto il mondo la lirica e la musica napoletana. La sua vicenda è narrata nel bel documentario “Enrico Caruso, the greatest singer in the world”, girato per i cento anni dalla morte dell’artista e prodotto dalla Direzione Generale per gli italiani all’Estero della Farnesina.

 

Caruso era di umili origini, ma sin da bambino maturò notevoli capacità musicali, tanto da suscitare l’attenzione di alcuni “maestri” dai quali prese lezioni, per quanto ancora di livello amatoriale. La dedizione che mise nello studio gli permise, nel tempo libero dal lavoro alla fonderia in cui il padre era operaio, di esibirsi presto in piccoli teatri e caffè fuori Napoli, cantando canzoni napoletane e arie d’opera. In una di queste occasioni venne notato dal baritono Edoardo Missiano che lo presentò al maestro Guglielmo Vergine, uno dei migliori maestri di canto della città. Quest’ultimo, intuendone il potenziale, accettò di dargli lezioni in cambio del 25% dei proventi che il tenore avrebbe guadagnato nei successivi cinque anni. Per il giovane venne poi la chiamata alle armi, ma la fortuna volle che un suo ufficiale, maggiore Nagliati, lo ascoltasse cantare in caserma. Rimanendo colpito dalla sua voce, non solo gli propose di andare a lezione dal suo amico barone Costa, ma fece anche in modo che il fratello di Enrico, Giovanni, lo sostituisse sotto le armi (la legge allora lo permetteva)!

 

Talento, professionalità e dedizione permisero a Caruso di debuttare nel marzo 

del 1895, di farsi conoscere in Italia e di iniziare ad apparire sui giornali


Riuscì anche ad avere un’esperienza all’estero, percependo 600 lire per un mese di lavoro al Cairo. In quel periodo Caruso ebbe modo di conoscere direttamente il Maestro Puccini, che lo invitò nella sua casa di Torre del Lago. Il compositore stesso accompagnò Caruso al pianoforte e durante la romanza di Rodolfo, esclamò la famosa frase: “Chi t’ha mandato, Dio?”. 

Fu proprio in quegli anni che iniziò una relazione con il soprano fiorentino Ada Botti Giachetti, per quanto già sposata e madre di un bambino, dalla quale ebbe poi due figli, Enrico jr. e Rodolfo. Per lei più avanti comprò Villa Bellosguardo a Lastra a Signa (presso Firenze, tuttora sede di un museo a lui dedicato). La loro unione finì undici anni dopo in tribunale, perché Ada lo lasciò per fuggire con l’autista. La coppia cercò anche di estorcere denaro al tenore.

 

Oltre all’Italia, Caruso iniziò a esibirsi all’estero con tournée in Russia, 

a Lisbona, a Londra e a Buenos Aires. Aveva preso quota,

 

erano finiti i tempi dei localini di un tempo, ora in Italia cantava alla Scala di Milano, all’Opera di Roma, al Massimo di Palermo e al San Carlo di Napoli. Fu proprio qui, secondo la leggenda, che durante l’interpretazione de L’elisir d’amore nel dicembre 1901 si fosse così emozionato da aver subito delle incertezze canore; la protesta eccessivamente severa dei suoi concittadini e le critiche sui giornali gli fecero giurare di non cantare più nella sua città: sarebbe tornato solo per “vedere la mia cara mamma e mangiare i vermicelli alle vongole”. E così fu: un giuramento che Caruso manterrà per tutta la vita. Era pronto invece a cogliere il grande successo che lo attendeva oltreoceano. 

Nel marzo del 1903, grazie al banchiere italiano residente a New York Claudio Simonelli, Caruso riuscì ad ottenere un eccezionale contratto con il Metropolitan Opera House. Simonelli, dopo lunghe trattative con il nuovo direttore Henrich Conried, era infatti riuscito a fargli accettare tutte le condizioni richieste dal tenore.

 

Il 23 novembre Caruso debuttò in un Metropolitan sfarzoso e brillante di luci. 

In cartellone la sua opera preferita, Rigoletto.

 

Il pubblico era composto da alta società e giornalisti, Caruso era pronto e perfettamente all’altezza, ma la grande emozione lo fece muovere in maniera maldestra, tanto che ruppe il ventaglio del soprano Helen Mapleson. La serata non raggiunse picchi particolari di ammirazione, ma neanche di critica e risultò una serata “media”, come tante altre. La stampa comunque fu benevola, il New York Times mise in rilievo l’espressione e la flessibilità della sua voce, così come l’intelligenza e la passione sia nel canto che nella gestualità, mentre il Sun si rallegrava di come il nuovo tenore non mostrasse traccia del “tipico belato italiano” e faceva notare che Caruso era oltretutto un uomo piacente!

 

Al Rigoletto seguirono AidaToscaBohemePagliacciLuciaTraviataElisir d’amore, per complessive 29 recite in cui Caruso era sempre intento a reggere 

e superare il confronto con Jean de Reszke, il tenore stabile del Metropolitan.


Era oltretutto un uomo affascinante e il pubblico femminile ne rimaneva ammaliato. Queste 29 serate furono le prime delle 607 realizzate per il Metropolitan, in ben diciassette stagioni. 

Le rappresentazioni divennero sempre più veri e propri trionfi, la sua voce era considerata straordinaria. Durante un’esibizione il 5 dicembre lo straordinario successo fu sottolineato anche dall’inusuale gesto del soprano Marcella Sembrich, che raccolse uno dei fiori presenti sul palco e lo porse a Caruso. 

Il tenore fu il primo ad incidere dei dischi sin dal 1902, e fu proprio questo supporto a contribuire alla divulgazione del mito. Oltretutto riuscì a vendere un milione di copie, diffondendo musica napoletana e operistica in tutti i continenti. E questo senza tralasciare l’impulso che le incisioni diedero all’aumento di ingaggi e cachet…

 

Nel 1910, diretto da Arturo Toscanini, Caruso cantò nella prima mondiale della Fanciulla del West di Giacomo Puccini. Era ormai diventato 

il tenore più importante e famoso al mondo.

 

L’organizzazione di stampo mafioso La Mano Nera, con ramificazioni in Sicilia, tentò di estorcergli del denaro, sotto minaccia di morte. Caruso non cedette al ricatto e si affidò al poliziotto Joe Petrosino, che riuscì a far arrestare due dei tre delinquenti (e, grazie alle indagini, qualche anno dopo, anche due importanti capi della mafia newyorkese). Il tenore, alle estorsioni preferiva la beneficenza, soprattutto se riguardava gli immigrati italiani. Diede un concerto di beneficenza anche dopo l’affondamento del Titanic, a metà aprile 1912, e durante la I Guerra mondiale tenne concerti per i soldati.

 

Fino al 1920 la vita di Caruso era organizzata in base alle stagioni al Metropolitan, 

alle incisioni discografiche, e ogni anno dalla primavera all’inizio dell’autunno 

era in Europa (almeno fino allo scoppio della guerra), 

ritagliandosi un mese estivo di vacanza italiana.

 

Durante le prove del Sansone e Dalila al Metropolitan crollò una scenografia in cartapesta, colpendo il tenore ad un fianco e fratturandogli le costole. Rimase sempre il dubbio se fosse un disgraziato evento del destino o un atto criminale. Le conseguenze dell’infortunio gli procurarono poi un’emorragia durante una rappresentazione che venne interrotta. Il 25 dicembre del 1920, mentre si trovava a Sorrento, il cantante lamentò forti dolori, che furono diagnosticati dai medici come pleurite infetta. Fu operato il giorno prima di capodanno.   

 

Tornato in America, Caruso abbandonò le scene perché le sue condizioni erano particolarmente gravi. Decise poi di voler terminare i propri giorni a Napoli e con la moglie Dorothy (sposata nell’agosto del 1918), la figlioletta Gloria e il fratello Giovanni fece rientro in Italia. 

Morì nella sua città, al Grand Hotel Vesuvio, il 2 agosto 1921.In occasione del centenario della morte, nell’abitazione dove nacque il cantante, è stato inaugurato il Museo Casa Natale Enrico Caruso.

 

Il tenore era estremamente legato a Napoli, la napoletanità rimase impressa 

nella sua indole, nel suo carattere e temperamento fino alla morte.

 

Gli piaceva avere intorno napoletani, sia che fossero amici, collaboratori o colleghi. E questo perché lui stesso si sentì sempre profondamente napoletano, anche se il rapporto con la città fu caratterizzato da un’ambivalenza di struggimento e scetticismo. 

Alcune delle canzoni napoletane incise da Caruso furono ideate e realizzate a New York, all’interno della comunità italiana, non a Napoli, come Core ‘Ngrato (scritta e musicata appositamente per lui), Tarantella sincera, Scordame, Sultanto a te, I’m’ arricordo ‘e Napule, ultima canzone incisa da Caruso nel 1920. Il 20 marzo 1916 aveva invece inciso la canzone Tiempo antico, scritta e musicata da lui stesso, una sorta di sfogo, di liberazione del suo amore per Ada perduto nel tempo. 

Caruso fu in tutto e per tutto un italiano d’America, negli atteggiamenti, nell’allegria, nella passione, che lo portarono ad essere in tutto il mondo un vero, grande mito italiano.

 

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LECCE UNA MATTINA DI AGOSTO di Gianluca Anglana numero 26 ottobre novembre 2022 Ed. Maurizio Conte

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LECCE UNA MATTINA DI AGOSTO

 

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Palazzo Giaconia

 

«Mangiami»: mi implora il pasticciotto dalla teca in cui è imprigionato. Con lui altri galeotti, nell’attesa che qualcuno li scelga e si decida a liberarli. E a divorarli. Il piccolo bar, a pochi passi dalla Chiesa Greca, brilla all’esterno di un bagliore accecante: la sua unica sala interna è fresca e buia, come l’antro di una sibilla. Il cameriere napoletano scivola svelto sulla strada, così scintillante e linda che non lo crederesti.

 

Nel caleidoscopio della vacanza, anche i luoghi familiari si ammantano di novità, si illuminano di un inedito riverbero.

La luce che piove dal cielo blu aragonite accende la pietra leccese: vicoli stretti 

come budelli, in cui sciamano turisti e lavoratori in pause furtive.


In lontananza, un violoncello e un contrabbasso piangono lacrime di musica argentina.
Pouilles, Italie: qualche sedia più in là, alle ultime propaggini del dehors, due francesi consultano la loro Lonely Planet con una pensosità così grave da sembrare assorti nella lettura di un trattato sulla pietra filosofale.   

 

Dal mio tavolino, su cui il pasticciotto evaso e un caffè salentino pazientano come una natura morta, osservo la mia bicicletta appoggiata al muro di fronte. Sarà il mio ronzino, alla scoperta di nuovi quartieri in apparenza trascurabili, sciatti, sopra i quali si distende l’ombra lunga delle sedi del potere: gli uffici giudiziari sono a portata di lancia, mulini a vento da cui guardarsi e tenersi a distanza. Il Comando provinciale della Guardia di Finanza sorveglia la piazzetta dove ho scelto di arrivare: 

 

qui è la chiesa che avrei voluto visitare. E che invece resterà chiusa 

per tutto il mese di agosto,

 

sentenzia uno sbrigativo cartiglio incollato al portale come un qualunque avviso a una bacheca comunale. Disappunto. Un nulla di fatto in cui inciampo dopo avere accolto il suggerimento di

 

una signora gentile, dai capelli rosa e da un altrettanto inatteso accento barese: 

«vada a vedere la chiesa di San Francesco da Paola, 

dentro è bella quanto Santa Croce» mi esorta, 


sorprendendomi nel ventre tortuoso del centro storico, con il naso all’insù a osservare la facciata austera di un antico monastero benedettino, e sfoggiando un sorriso complice. Un incontro casuale, un dialogo cordiale e foriero di buonumore. Dopotutto, cos’altro è la vita se non un dedalo di giravolte di un’antica città dalle radici messapiche, grani di sale che ci nevicano addosso sotto forma di imprevisti?

 

Se le porte della casa del Signore sono sbarrate, 

sono aperte quelle di Palazzo Giaconìa

 

La sua facciata sonnecchia sobria di fronte alla caserma e guarda con noncuranza al viavai dei finanzieri sulla piazza. Ha il nome di Angelo Giaconìa, vescovo di Castro, che nel 1546 iniziò a erigere per sé una dimora signorile approfittando delle nuove possibilità dischiusesi con la revisione urbanistica di Lecce nella prima metà del sedicesimo secolo.

E sì che il palazzo eredita il suo nome da un presule, ma deve i suoi fastosi giardini 

a un sindaco, Vincenzo Prioli, che lo acquistò alla fine del Cinquecento:


sua l’idea di un parco privato, che volle ingentilire con elementi decorativi, impluvi e reperti strappati alla terra negli scavi aperti a Lecce e Rudiae. Dopo la sua morte, la residenza passò di mano in mano: ai Carignani duchi di Novoli, prima; ai Lopez y Royo duchi di Taurisano, poi. Una catena interrotta solo all’alba del ventesimo secolo, quando un decreto prefettizio assegnò l’edificio a un istituto assistenziale. Della primitiva vastità del giardino, limitato dalle mura urbiche, così come della vegetazione originaria resta poco, ma quanto basta per lasciarsi accarezzare dalla brezza dei sogni.

 

Il profilo alto delle palme, che svettano come comari curiose di vedere cosa accade 

al di là della cinta muraria, dona alla villa un aspetto vagamente moresco, 

un’allure pressoché mediorientale.

 

Pareti inghiottite da rigogliosi rampicanti, cipressi, cespugli, un’antica pianta di alloro: tutti si lasciano ammirare da un camminamento rialzato, abbellito da un pergolato e da colonne seicentesche. Lungo questo breve tragitto sul ciglio delle mura, mi disfaccio della fretta, l’espressione di distaccato sospetto propria delle sentinelle e di chi diffida degli inganni della contemporaneità. Dall’alto si vede la città pulsare: il rumore del traffico si sfarina in un ronzio lontano, gli affanni si stemperano, le accuse al presente di tradimento e al futuro di latitanza precipitano giù, dall’orlo dei bastioni. Nel caleidoscopio della vacanza, quando si è più vicini al cielo di qui, i nodi si allentano, le voci di troppo tacciono.   

 

È ora di andare.

 

Uno sguardo ancora al bassorilievo che è accanto all’ingresso e che si attribuisce 

a Gabriele Riccardi, tra i massimi architetti del rinascimento salentino: 

il Trionfo di David. C’è bisogno di trionfi, dell’alloro che li celebri, 

di palme giganti da scalare per rimpicciolire il mondo, 

di segnali di ottimismo, per lo meno dall’arte, 

in un periodo come il nostro che ne è avaro.

 

Mentre sorrido a una turista americana e alla sua gioia di trovarsi lì, vado a recuperare il mio ronzino. È ora di andare. Alla scoperta di altri luoghi dimenticati, di altre fantasie da nutrire, di altre emozioni da cui lasciarsi cullare

 

 

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VOCI DEL CINEMA TRA LE SPONDE DI LISCA BIANCA di Aurora Adorno numero 26 ottobre novembre 2022 ed.maurizio conte

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VOCI DEL CINEMA 

TRA LE SPONDE 

DI LISCA BIANCA

 

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Appare in lontananza Lisca Bianca, a pochi chilometri a est di Panarea, come una donna adagiata sul mare che, beandosi dei raggi del sole e benedetta dalle acque galleggia in solitudine; distaccata da Dattilo e Bottare, è ciò che resta di antiche bocche vulcaniche prima unite in un unico scoglio.

 

Sull’isolotto cresce un tappeto grigio – verde di erbe che si estende come un vestito sul corpo di questa bella Riserva naturale; è l’Anthemis aeolica, anche detta Camomilla delle Eolie, un’erba che cresce solamente sull’isola.   

 

Vicino a Lisca Bianca nelle profondità del mare, giace sul fondo il relitto di un cargo inglese affondato nel 1885 di cui la poppa e la prua ancora intatti sono sommersi dalle acque silenziose del Mediterraneo.

 

 Non è possibile sbarcare sull’isola, se non per scopi scientifici o di ricerca, 

ma soltanto ammirarla da lontano, oppure girarci intorno con una barca.   

 

 Un’altra opzione è quella di perlustrare Lisca attraverso lo sguardo inquieto 

della macchina da presa di Antonioni: nel celebre cortometraggio del 1983 

dal titolo “Ritorno a Lisca Bianca” l’isolotto appare 

in tutta la sua selvaggia bellezza.  

 

Nelle urla furiose delle onde che si infrangono contro gli scogli a strapiombo sul mare è nascosto un segreto, forse terribile: «Anna, Anna». Rimbalzano tra le rocce le urla di Monica Vitti nella parte di Claudia e di Gabriele Ferzetti nella parte di Sandro il fidanzato di Anna (Lea Massari), una ragazza fragile che sparisce nel niente durante una gita alle Eolie.

 

Il documentario fa capo al film “L’avventura”, diretto nel 1960 dallo stesso Antonioni 

e prima parte della trilogia “esistenziale” o “dell’incomunicabilità” 

di cui fanno parte anche il film “La notte” e “Eclisse”.


Ma Anna non si trova, è sparita, e dopo il panico tra Sandro e Claudia scoppia la passione. 

«Pochi giorni fa all’idea che Anna fosse morta, mi sentivo morire anch’io. Adesso non piango nemmeno. Ho paura che sia viva. Tutto sta diventando maledettamente facile, persino privarsi di un dolore» confida Claudia ormai infatuata di Sandro, e nei suoi occhi chiari c’è tutto lo struggimento della Vitti, una donna vulnerabile alle prese con una passione proibita, forte, tanto da toglierle il fiato. Tra Noto e Taormina continua la storia d’amore: 

Sandro: «Claudia, ci sposiamo?» 

Claudia: «Come ci sposiamo?» 

Sandro: «Ci sposiamo io e te. Rispondi!» 

Claudia: «Rispondi. Cosa ti rispondo: no, non ancora, non lo so, non ci penso nemmeno. In un momento come questo, ma perché me lo domandi?» 

Sandro: «Mi guardi come se avessi detto una cosa pazzesca». 

Claudia: «Ma sei sicuro di volermi sposare? Proprio sicuro? Di voler sposare me?» 

Sandro: «Se te lo chiedo?» 

Claudia: «Già, ma perché tutto non è semplice. Dici che voglio vedere tutto chiaro. Io vorrei essere lucida, vorrei avere le idee veramente chiare, e invece».

 

Prosegue il dialogo tra gli amanti, e va a confondersi col vento che, 

come scrisse il drammaturgo francese, in queste isole suona. 

 

Come capita in certi amori, Sandro si concede una storia con un’affascinante scrittrice. Claudia lo perdona, è pronta a tutto, anche ad accettare una relazione tormentata, passionale, come quella che aveva portato Anna a sparire nel niente tra gli scogli di Lisca. 

Il mistero chiude il film come una nuvola che, tra il vulcano e la terra ferma, oscura il cielo senza mai sparire veramente.

 

Le Eolie, quel favoloso arcipelago che Stromboli illumina come un faro, 

scriveva Dumas

 

che, proprio come molti scrittori fecero a cavallo tra l’800 e il 900, ricordò le isole in un lungo diario di viaggio, tingendo le pagine con i colori pastello del nostro Mediterraneo.

 

 

 

 

 

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Stelle al Sud

 

Con la serie “Stelle al Sud” Myrrha va alla ricerca di alcuni tra i tanti personaggi celebri la cui arte si è in qualche modo intrecciata con la natura incontaminata di un Sud selvaggio e incantatore, divenuto per essi fonte di ispirazione, talvolta dimora d’elezione.

 

 

AGNONE E L’ANTICA TRADIZIONE DEI FONDITORI DI CAMPANE – Gemme del Sud – Numero 25 – Luglio agosto 2022 – Ed. Maurizio Conte

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AGNONE E L’ANTICA TRADIZIONE DEI FONDITORI DI CAMPANE

 

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         Agnone (IS)

 

Ad Agnone, in provincia di Isernia, si tramanda ancora oggi l’antica arte di produrre campane in bronzo, con la tecnica a stampo, che affonda le radici nel Medioevo, quando la metallurgia in questo campo raggiunse alti livelli di esecuzione. 

 

L’utilizzo delle campane a fini funzionali ha una storia millenaria. Già in epoca classico-pagana se ne trovano testimonianze, ma è con il Cristianesimo che questo oggetto assunse una valenza simbolica molto forte, divenendo un elemento sacro destinato ad accompagnare la liturgia e a scandire i momenti di vita di un’intera comunità. 

 

Questa produzione sopravvive ad Agnone nella Pontificia Fonderia Marinelli che rappresenta, in territorio molisano, l’ultima fabbrica a mantenere intatta questa tradizione artigianale con prodotti che, anche nella decorazione, sono unici nel suo genere.

 

Fondata probabilmente intorno all’XI secolo, la Fonderia Marinelli è considerata 

una delle più antiche in Italia e nel mondo e, a conferma del suo valore, 

dal 1924, per volere di Papa Pio XI, può fregiarsi 

dello Stemma Pontificio. 


I Marinelli, mettendo in pratica conoscenze tramandate per generazioni, che escludono l’utilizzo di moderne tecnologie, ancora oggi danno vita ad un prodotto di altissima qualità, richiesto in tutto il mondo. Assistere alla nascita di una nuova campana, dove ogni gesto, scandito da preghiere, deve essere eseguito alla perfezione per non vanificare mesi di lavoro, è tornare indietro nel tempo, rivivere un rituale antico ed immedesimarsi nell’affascinante mestiere di fonditore.

 

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PARCO AYMERICH UN’OASI NEL CUORE DELLA SARDEGNA – Gemme del Sud – Numero 25 – Luglio agosto 2022 – Ed. Maurizio Conte

 

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PARCO AYMERICH UN’OASI NEL CUORE DELLA SARDEGNA

 

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           Laconi (OR)

 

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Il Parco Aymerich di Laconi, piccolo borgo tra Oristano e Nuoro, è il più grande parco urbano della Sardegna, un vero e proprio giardino botanico di circa 22 ettari appartenuto fino al 1990 alla famiglia Aymerich, feudatari del paese. 

Autore dell’originale riserva naturale, a partire dal 1830, fu don Ignazio Aymerich Ripoll, senatore del Regno d’Italia e appassionato collezionista 

di piante esotiche e rare, 

 

che cominciò ad importare dai suoi numerosi viaggi. 

 

Il Parco offre suggestivi sentieri naturalistici tra boschetti di lecci, carrubi, magnolie, olivastri, pini della Corsica. Di particolare interesse è la presenza di numerose specie di orchidee e quella, imponente, di un cedro del Libano, piantato nel 1835 quando aveva pochi anni, che oggi ha raggiunto un’altezza di 25 metri e una circonferenza di 415 cm. 

 

L’acqua è tra le maggiori attrazioni del Parco: abbondante in tutte le stagioni, crea spettacoli davvero insoliti per una regione come la Sardegna, notoriamente arida. Molto bella la Cascata Maggiore con i suoi 12 metri d’altezza.

Disseminate tra la vegetazione si possono ammirare diverse grotte 

e cavità naturali, la cui importanza è legata a vicende storiche: 

 

durante la Seconda Guerra Mondiale Laconi, come molti altri paesi sardi, accolse gli sfollati cagliaritani che fuggivano dai bombardamenti delle forze alleate che si abbatterono nel 1943 sulla città e il marchese Aymerich aprì il parco per offrire loro ricovero. 

 

Di grande suggestione, poi, sono le rovine del castello medievale, costruito nel XIII secolo. L’edificio presenta una sala principale dove è possibile vedere alcune sedute in pietra ed una bellissima finestra gotica che offre un panorama meraviglioso. 

 

Dal luglio del 1990 il Parco di Laconi è di proprietà della Regione Autonoma della Sardegna che l’ha acquistato dalla famiglia Aymerich.

 

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LA CHIESETTA DI PIEDIGROTTA A PIZZO – Gemme del Sud – Numero 25 – Luglio agosto 2022 – Ed. Maurizio Conte

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LA CHIESETTA DI PIEDIGROTTA A PIZZO

 

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           Pizzo (VV)

A pochi passi dal meraviglioso centro storico di Pizzo (VV), alla base di una collinetta che si affaccia sulle acque cristalline della spiaggia di Prangi, sorge una piccola chiesa interamente scavata nella roccia, uno dei tesori più suggestivi e incantevoli di tutta la Calabria.

La storia della Chiesetta di Piedigrotta è legata ad un’affascinante leggenda, tramandata di generazione in generazione, che narra del naufragio 

di un vascello con equipaggio napoletano 

avvenuto verso la fine del 1600.


Sorpresi da una violenta tempesta, i marinai si raccolsero nella cabina del Capitano dove era custodito il quadro della Madonna di Piedigrotta e tutti insieme iniziarono a pregare facendo voto alla Vergine che, in caso di salvezza, avrebbero eretto una cappella a Lei dedicata. La nave si inabissò e i marinai superstiti riuscirono a raggiungere a nuoto la riva. Insieme a loro, si salvarono anche il quadro della Madonna di Piedigrotta e la campana di bordo datata 1632. Decisi a mantenere la promessa fatta, scavarono nella roccia una piccola cappella e vi collocarono la sacra immagine. Ci furono altre tempeste e il quadro, portato via dalla furia delle onde che arrivavano fin nella grotta, fu sempre rinvenuto nel luogo dove il veliero si era schiantato contro gli scogli. 

 

La facciata della chiesetta è molto semplice, mentre 

l’interno offre uno spettacolo davvero unico e suggestivo. Lo spazio si divide 

in tre grandi grotte, popolate di personaggi sacri 

che prendono forma dalla roccia.


Fu Angelo Barone, artista di Pizzo Calabro, a dare alla cappella il suo aspetto attuale: a partire dal 1880 dedicò tutta la sua vita a questa chiesetta, ingrandì la grotta originaria, creò le due grotte laterali e scolpì molte delle figure di Santi e delle scene sacre. Alla sua morte, nel 1917, il figlio Alfonso continuò la sua opera per altri quarant’anni. La chiesetta, deturpata da atti vandalici, venne restaurata alla fine degli anni Sessanta da un loro nipote, Giorgio, anch’egli scultore.

 

 

 

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LA CATTEDRALE DI SAN PIETRO APOSTOLO – Gemme del Sud – Numero 25 – Luglio agosto 2022 Ed. Maurizio Conte

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LA CATTEDRALE DI SAN PIETRO APOSTOLO

 

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                Isernia

 

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Vuò un luogo cristiano sorgere dalle ceneri di un tempio pagano? 

 

Sì. Lo dimostra la città di Isernia che, con una delle sue opere architettoniche più importanti, è riuscita a sintetizzare questi due elementi, facendoli divenire parte di un’unica realtà. 

 

In piazza Andrea d’Isernia, nel cuore del centro storico della città, fondata nel 264 a.C., si impone maestosa la Cattedrale di San Pietro Apostolo: di architettura neoclassica all’esterno e barocca all’interno, si erge su quel che resta del tempio dedicato dai Romani alla triade capitolina (Giove, Giunone e Minerva). 

 

Oggi, di tale tempio rimane il podio in travertino, che è il basamento della cattedrale, e la struttura della facciata, che si presenta con frontone, trabeazione e colonne in capitello ionico disposte a formare cinque campate.

Appena varcata la soglia dell’edificio, da subito si percepisce l’atmosfera del luogo, che sembra racchiudere tra le sue mura una moltitudine 

di avvenimenti susseguitisi nel tempo..

 

La triade capitolina ha conservato il suo spazio nonostante il susseguirsi degli eventi storici e naturali, e la cattedrale cristiana, edificata a seguito della dominazione bizantina dell’area, ha conservato la disposizione del precedente tempio, con abside a sud in corrispondenza delle naos dedicate ai tre dèi pagani. 

 

Il susseguirsi di fenomeni naturali, come gli smottamenti sismici, e umani, come i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, hanno conferito al luogo l’aspetto che ha oggi. 

 

Nel tardo Medioevo, infatti, la cattedrale è stata completamente ricostruita a causa di un crollo

L’opera fu modificata tanto che l’ingresso venne spostato nella piazza del mercato, concentrando così l’attività cittadina in un unico luogo. 

 

LNel 1769, poi, fu realizzata la cupola. Tuttavia, la forza distruttiva umana e quella naturale non hanno scalfito la sua essenza, tanto che scavi archeologici eseguiti nelle varie opere di restauro hanno consentito di «scovare un tesoro apparentemente segreto»: sono stati portati alla luce ulteriori resti dell’antico tempio pagano che, oggi, è possibile ammirare nella cattedrale attraverso la pavimentazione di vetro. A testimonianza del fatto che la sacralità riesce ad esprimere la sua essenza, e le sue molteplici forme, come parti di un’unica realtà

 

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LA TARGA FLORIO di Gaia Bay Rossi – Numero 25 – luglio agosto 2022 Ed. Maurizio Conte

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LA targa florio

 

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allineate sulla linea di partenza. La tensione era alta da giorni, tutti si rendevano conto che quella competizione, la Targa Florio, sarebbe entrata nella storia. 

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Era il 1906 e quella era una delle prime gare automobilistiche al mondo, basti pensare che la Mille Miglia sarebbe nata circa vent’anni dopo, nel 1927.   

 

La cosa più incredibile è che si disputò nella Sicilia di quegli anni, e lì si svolse anche in tutte le 60 edizioni successive. 

Ancora una volta la Sicilia, nonostante l’arretratezza dovuta ai molti fattori 

che non stiamo qui ad indagare, era in testa al mondo,


stavolta non per la ricchezza della sua arte, per la sua cultura multiforme, per la sua storia millenaria, per la sua incredibile biodiversità, ma per uno sport e per l’organizzazione di un evento che, così strutturato, in Italia non si era ancora mai visto.

Il luogo esatto erano le Madonie, una piccola catena montuosa nella parte Nord Occidentale della Sicilia che, come tutti i luoghi montani, aveva strade strette e tortuose, adatte più ai carretti che non a rombanti automobili. Solo un grande siciliano appartenente ad una famiglia fuori dal comune avrebbe potuto ideare e organizzare una simile competizione. Lui era Vincenzo Florio junior, figlio del senatore Ignazio Florio e di Giovanna d’Ondes Trigona, nonché cognato della “regina di Palermo” Franca Florio, moglie di suo fratello Ignazio jr. Ma facciamo un passo indietro e vediamo cosa stava succedendo in quegli anni a Palermo. 

La famiglia Florio, che ormai molti di voi hanno conosciuto anche grazie 

agli apprezzatissimi romanzi della trapanese Stefania Auci 

era, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, 

una delle famiglie più ricche dell’Italia 

della Belle Époque,


famosa in tutta Europa e molto oltre. Tra i loro amici vi erano capi di Stato e reali, politici di vario genere e grado, banchieri internazionali, e poi anche i rappresentanti più importanti della vita culturale dell’epoca, con pittori, artisti, musicisti, scrittori che entravano e uscivano dalle loro meravigliose case e dalle loro vite, lasciando sempre traccia di sé. 

Ad un certo punto, in mezzo all’immenso impero dei Florio,


che andava dalla Navigazione Generale Italiana (seconda più grande compagnia di navigazione del Mediterraneo), alle tonnare (con loro si ebbe per la prima volta la conservazione del tonno sott’olio con relativo inscatolamento), dalle cantine di Marsala, a Villa Igiea a Palermo (capolavoro dell’hôtellerie di lusso), dal Cantiere Navale di Palermo, nato per supportare l’attività della loro acciaieria, alle banche,

 

arrivarono anche le gare automobilistiche, che si affiancarono al resto.


Vincenzo Florio jr. poco più che adolescente, percorse la strada che tanto lo appassionava e iniziò a guidare auto sportive, partecipando a qualche piccola gara amatoriale. Nel 1905, ideò il nome di “Coppa Florio” per una gara automobilistica da lui organizzata e finanziata, che si svolgeva già dal 1900 a Brescia ma che assunse la denominazione di “Coppa” perché Vincenzo aveva deciso di istituire, oltre al premio di 50 mila lire, anche una coppa d’argento, opera di un suo amico orafo francese, alla Casa costruttrice che avesse vinto più volte nel corso di sette edizioni. Questa avventura lo catapultò definitivamente nell’idea delle gare sportive, dedicandosi con entusiasmo alla creazione di una nuova competizione da svolgersi sulle Madonie.   

 

Vincenzo disegnò il percorso a Parigi, aiutato da Henri Desgrange, direttore della famosa rivista francese “L’Auto”. Il percorso, come dicevamo, era molto complesso e difficile, poiché si snodava in quelle strade montane piene di curve che collegavano i vari Comuni della dorsale per 146 km e 900 metri. Vincenzo.

Florio stava dando vita ad una competizione che, proprio per queste difficoltà 

di tracciato, era destinata ad entrare nell’immaginario collettivo 

e a divenire leggenda.

Torniamo quindi a quel 6 maggio del 1906 con le automobili rombanti sul nastro di partenza di un circuito che avrebbero dovuto ripetere tre volte. Gli equipaggi erano: cinque Itala, una Fiat, due Bayard-Clement, una Berliet e una Hotchkiss. Di queste riuscirono a tagliare il traguardo solamente sette, tenendo conto che le auto dei due francesi furono bloccate da un incredibile errore della loro squadra: al rifornimento, il pieno fatto fu d’acqua e non di carburante. 

Vinse il torinese Alessandro Cagno su una Itala e, per coprire l’intero percorso, impiegò circa 9 ore e mezza ad una media di 46,8 km orari, distaccando di oltre mezz’ora il secondo classificato. Il premio in palio fu, oltre alla cifra di trentamila franchi in oro, una targa in oro massiccio in stile Liberty, creata per la gara da René Lalique e consegnata al vincitore direttamente dalle mani di donna Franca, la cui presenza all’evento, già da sola catturava l’attenzione degli spettatori e di tutto il bel mondo presente. 

Lalique firmò anche la targa dell’anno successivo e poi altri artisti firmarono 

i premi di successive edizioni: come Duilio Cambellotti, autore della targa del 1908 

e poi anche le illustrazioni di Terzi, Dudovich, Marinetti, De Maria, Gregorietti.


Il quartier generale della manifestazione era a Termini Imerese al Grand Hotel delle Terme, costruito a fine Ottocento in stile neoclassico dal noto architetto Giuseppe Damiani Almejda, che aveva appena terminato il teatro Politeama di Palermo. Lì vi alloggiavano sia i piloti con le Case costruttrici, sia la Palermo bene, e tutti insieme prima della gara impegnavano il tempo organizzando lussuose feste.

Migliaia di persone raggiungevano Termini Imerese con ogni mezzo a disposizione, dalle automobili alle carrozze, dai carretti siciliani ai numerosissimi treni speciali 

che partivano dalla stazione di Palermo.


Una delle gare automobilistiche più antiche del mondo era nata in Sicilia e il successo che seguì fu un successo per entrambi, per Vincenzo Florio e per la Sicilia stessa e la sua promozione turistica. Inoltre, 

grazie all’idea del giovane Florio venne fondato l’Automobile Club di Sicilia, 

il Giro d’Italia decise di includere nelle sue tappe anche la Sicilia, 

e a Palermo fu inaugurato il primo cinema.


Vincenzo morì il 6 gennaio del 1959, senza figli nonostante avesse avuto due mogli. La sua unica vera “figlia” riconosciuta fu così la Targa Florio, di cui disse: “Continuate la mia opera, perché l’ho creata per sfidare il tempo”. La Targa Florio classica si disputò dal 1906 al 1977 come gara automobilistica di durata, divenendo in seguito una gara rallistica con il nome di “Rally Targa Florio”, ma questa è un’altra storia.

Nel 1955 e nel lasso di tempo dal ‘58 al ’73, ha fatto parte del gruppo 

di gare titolate ai fini dei “Campionati Internazionali o Mondiali riservati 

alle vetture Sport o Gran Turismo”, ottenendo sempre maggior popolarità 

e ospitando piloti di fama e importanti Case costruttrici.

Incontriamo Giuseppe Calvaruso, un’appassionato ed entusiasta spettatore della Targa Florio dal 1970 al 1977, che ci racconta cosa volesse dire in quegli anni “vivere” questo evento: 

“I miei primi ricordi della Targa Florio risalgono al 1970 quando, quattordicenne con gli zii andammo a vedere la mitica competizione, e poi ci tornai ogni anno fino alla definitiva chiusura. Gli occhi del nostro narratore brillano, mentre mi racconta delle centinaia e centinaia di curve che le automobili dovevano affrontare in “un circuito di circa 72 Km. da fare 11 volte, che toccava vari paesi nel pieno della campagna siciliana, sfiancante per i piloti e stressante per i bolidi da corsa, e il più delle volte solo la metà dei partecipanti riusciva a tagliare il traguardo”.  Con l’entusiasmo di chi si sente un privilegiato, ci spiega che 

“la corsa, anzi “a cursa” come veniva chiamata dai siciliani, era valida 

per il Campionato Mondiale Marche che annoverava gare come 

la 24 Ore di Le Mans o la 12 Ore di Daytona e richiamava 

oltre 500.000 spettatori che arrivavano da ogni dove.


Il Campionato Mondiale Marche era importante come la Formula 1. Immaginatevi per noi Siciliani il piacere e l’orgoglio di vedere correre sulle nostre strade piloti famosi come Hill, Rodriquez, Bandini, Siffert, Redman, Elford, Stommelen, ecc. e ancora negli anni piloti mitici come Nuvolari, Achille Varzi, Taruffi, lo stesso Enzo Ferrari, Giunti, Merzario, De Adamich. Il giorno della gara ti rendevi conto dell’interesse che suscitava, centinaia di auto dell’epoca (le fiat 127, le Cinquecento, le 850) sparse lungo i bordi del percorso. E poi le storie e gli aneddoti che venivano raccontate da chi c’era già stato negli anni precedenti, e noi a bocca aperta ad ascoltare le storie e le gesta dei piloti più famosi. Che festa in quelle campagne, quanta gente con tanta passione per quei prototipi che, dal rumore in lontananza, già avvertivano chi stava arrivando:
“Chista (questa) è la Ferrari di Vaccarella, no è una Alfa Romeo 33, no è la Porsche di Siffert. Negli anni ’70 la Targa Florio mi vide sempre presente fino al 1977, per l’ultima volta.” 

Infatti, Nonostante fosse una gara abbastanza sicura, tanto che, per questo, 

Vincenzo Florio ai suoi tempi l’aveva definita “la gara più lenta del mondo”, 

anch’essa vide presentarsi il conto di morti e feriti, 

sia tra i piloti che tra il pubblico.


E, dopo alcuni incidenti più o meno gravi, nel 1977 durante la 61esima edizione, si replicò l’incidente avvenuto venti anni prima nella Mille Miglia.   

 

In un tratto subito successivo ad un rettilineo, gli spettatori furono travolti dalla macchina di Gabriele Ciuti, uscita di pista: due morti e tre feriti gravi. La gara fu sospesa e il risultato conteggiato al termine del quarto giro, sugli otto totali. Così finiva la Targa Florio.

 

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GARGANO POTENZIALITA’ E PROPOSITI di Luigi Ianzano – Numero 25 – luglio agosto 2022 – Ed. Maurizio Conte

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GARGANO POTENZIALITA’ E PROPOSITI

 

Il Gargano, come altre province meridionali, è territorio culturalmente fertile.Per sua natura, condivide con esse anche una certa fatica nel crederci, nel prendere coscienza delle proprie potenzialità, della propria identità caratterizzante. Stenta, perciò, al decollo.  

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Un esame attento della realtà lascia trapelare, in sostanza, accanto ad aspetti positivi e promettenti, solitudini operative, sclerotizzazione di spazi culturali, logiche municipalistiche, che convivono con considerazioni spesso anacronistiche, visioni banalizzanti, immagini da cartolina, narrazioni fosche, presagi di abbandono o morte certa di un territorio che, però, può offrire più di quanto si possa immaginare.

 

Eppure fino a un passato non troppo remoto, le eccellenze umane hanno prodotto non pochi lavori di conoscenza e di divulgazione di un patrimonio paesaggistico, botanico, archeologico e naturalistico di ragguardevole rilevanza. 

Fin dagli albori delle scienze naturali l’interesse per questo prezioso sperone d’Italia 

è stato premiato da scoperte notevoli.


Nomi noti e meno noti, come Andrea Mattioli, Luigi Anguillara, lo stesso, famosissimo Linneo, hanno contribuito a far conoscere rarità, endemismi, gemme presenti solo o soprattutto sul Gargano.   

 

Tutta questa fioritura di interesse e di conoscenze è proseguita nell’ottocento e durata fino alla prima metà del novecento con studiosi, naturalisti e ricercatori nati e vissuti in loco, come Michelangelo Manicone e Giuseppe del Viscio, quest’ultimo il primo a far conoscere la presenza sul Monte Pucci di una necropoli paleocristiana dall’architettura originale e sofisticata e ricca di sepolture che solo con le odierne campagne di scavi oggi stanno rivelando tesori antropologici e paleontologici di enorme interesse storico e culturale. Sono la testimonianza di una insospettata vita comunitaria ricchissima nell’area sviluppatasi soprattutto dopo la caduta dell’Impero Romano. 

Dopo la seconda guerra mondiale la stasi, con rare eccezioni, come i saggi di Michele Vocino, e gli studi di Filippo Fiorentino, docente e umanista, che alla divulgazione dei tesori paesaggistici e culturali del Gargano dedicò gran parte della sua vita, non soltanto professionale, avversando la riduzione a pubblicità da depliant della storia e della prorompente bellezza paesaggistica della Montagna del Sole.

Tante e più che mai impellenti, oggi, le poste in gioco: dalla biodiversità 

agli ecosistemi, dallo sviluppo sostenibile ai modelli innovativi di impresa e consumo, dai sistemi di comunicazione ai modelli educativi, dal turismo sostenibile alla qualità della vita, dall’economia circolare al cambiamento climatico, all’alimentazione, 

allo spreco, alla tutela dei beni storici, artistici, religiosi, archeologici, 

alla conservazione del patrimonio linguistico.


Una complessità che può essere efficacemente e realisticamente fronteggiata solo con una convinta e partecipata opera di integrazione dei saperi, attraverso le lenti della ricerca scientifica e della riflessione umanistica, con spirito di apertura, arricchimento, accettazione delle diversità, approccio integrato agli studi. 

Per questa via si può tracciare un percorso comune ai vari approcci 

della conoscenza e perseguire una conoscenza olistica, 

dove il capitale umano assurga a ricchezza da preservare 

e le eccellenze del territorio divengano forze attive,


capaci di coniugare i valori fondanti dell’umanesimo con le nuove visioni e le sfide del mondo contemporaneo.   

 

In questo frangente, una proposta di ritrovo e confronto tra professionisti dei vari campi del sapere (scientifico, tecnico, umanistico, giuridico, economico e sociale) fa ben sperare, con interessanti e promettenti percorsi di condivisione, studio e ricerca finalizzati alla conservazione e allo sviluppo delle conoscenze caratterizzanti (culturali, sociali, storiche e scientifiche). 

Un progetto tanto necessario quanto ambizioso lanciato lo scorso giugno 

nella baia Calenella, nota località del comune di Vico del Gargano, 

dove sono confluite numerose personalità di ogni ramo 

del sapere scientifico ed umanistico.


Si è sottoscritta una carta di intenti e dato allo stesso sodalizio il nome di ‘Carta di Calenella’. L’obiettivo, certo ambizioso, è ben fondato: non disperdere le intelligenze che possono cogliere i fermenti di cui la provincia meridionale ha bisogno, attraverso un’offerta culturale (convegni, seminari, pubblicazioni, premi, borse di studio) nella quale ognuno possa farsi protagonista in rapporto alle personali professionalità ed esperienze, con i giusti propositi di dialogo con le istituzioni e la saggia apertura alle giovani voci emergenti dal territorio.   

 

Un fronte comune che promette bene, a considerare le primissime occasioni di incontro e condivisione. Un’impresa edificante che sa di efficace rilancio, che lascia aperte le porte di un favorevole riscatto.

 

 

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