PERCHÉ UN MUSEO? di Donatello Genovese – Numero 5 – Luglio 2016

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Ad Avigliano (comune della provincia di Potenza, sito nella parte nord-occidentale della Basilicata, a circa 800 m s.l.m.) ogni anno, nel periodo estivo, si tiene la caratteristica manifestazione dei “quadri plastici”, ossia la rappresentazione vivente d’immagini tratte da capolavori dell’arte figurativa.

La tradizione è molto antica, anche se le notizie certe disponibili, tramandate oralmente, consentono di datare le prime rappresentazioni negli anni ’20 del secolo scorso.

Gli attori, inseriti in contesti scenografici fedeli nei più minuti dettagli alle opere artistiche oggetto d’imitazione, restano immobili per qualche minuto, come statue viventi, riproducendo scene sacre, storiche, mitologiche o immaginarie, tratte dai celebri quadri pittorici.

Attualmente i quadri plastici vengono realizzati su palchi fissi, dotati di sipari, che vengono aperti più volte, per circa un minuto, al cospetto di un pubblico assai nutrito, capace di restare anche per ore in attesa del magico momento dell’esibizione.

La realizzazione delle scenografie, dei costumi, delle acconciature, degli sfondi, degli oggetti, delle luci e dei tanti dettagli esecutivi richiede un lungo ed accurato lavoro artistico preparatorio, finalizzato a rendere la scena finale perfettamente aderente al capolavoro artistico da cui è tratta.

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PERCHÉ UN MUSEO?

 

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In origine tali rappresentazioni venivano eseguite, in occasione delle festività religiose estive più importanti, su carri a traino animale, che sfilavano lungo il corso principale del paese nel corso delle processioni popolari. Su tali carri i figuranti, ad ogni sosta, assumevano le caratteristiche pose fisse delle immagini artistiche che intendevano rappresentare. Le scene, corporee e tridimensionali, davano luogo ai caratteristici quadri viventi, detti anche quadri plastici.

Per un lungo periodo la manifestazione si è svolta nel corso dei festeggiamenti della Madonna del Carmine, protettrice del paese, che si tengono ogni anno il 16 luglio. Da qualche anno, però, sotto la crescente partecipazione del pubblico, si è preferito rendere autonoma la kermesse, spostandola nel mese di agosto.
In genere, le rappresentazioni dei quadri plastici sono realizzate da due/tre gruppi di giovani artisti, prescelti dall’Associazione Pro Loco, appartenenti ad associazioni dei vari quartieri del paese, che fanno a gara nella più fedele riproduzione delle opere d’arte da essi prescelte.
Il palco, allestito nella piazza più capiente del paese, è diviso in vari box, ciascuno separato fisicamente dagli altri e dotato di un sipario, all’interno dei quali gli scenografi, i falegnami, i pittori, i truccatori, i parrucchieri, i sarti, i costumisti, i tecnici delle luci e della fotografia, ecc., nascosti alla vista del pubblico, sotto la guida di direttori artistici altamente qualificati, allestiscono le scene e preparano gli attori per l’esibizione.

La visione dei quadri plastici, resa possibile della contemporanea apertura dei sipari, più volte, per la durata di circa un minuto, avviene al buio e con suggestivi sottofondi musicali, in modo che le luci sceniche, sapientemente calibrate, restituiscano allo spettatore l’emozione di trovarsi al cospetto di meravigliosi ed imponenti quadri tridimensionali, carichi di pathos e di sublime bellezza.
Al termine della manifestazione, una giuria altamente qualificata ed imparziale proclama il gruppo vincitore, al quale viene assegnato un premio. La manifestazione ha assunto rilievo nazionale nell’aprile del 2016, quando, nel corso di un talent show mandato in onda da un importante network televisivo, un nutrito gruppo di giovani aviglianesi ha riprodotto le maestose opere del Caravaggio.

 

LA CUCINA DEI BORGHI MEDIEVALI. VICO DEL GARGANO RIVENDICA IL PRIMATO di Michele Agelicchio – Numero 5 – Luglio 2016

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apre interessanti spazi di captazione come dimostra una recente indagine “Pangea” effettuata in Spagna, Germania, Regno Unito, Italia e Francia. 
Il turista gastronomico è un attento viaggiatore che sceglie la località sulla base di precisi indicatori e diventa sostegno economico, più e meglio del turista culturale. Si prevede una considerevole crescita, a breve, intorno al 40%. Sono questi dati che hanno messo in moto il mondo della gastronomia e dei cibi di nicchia, legati al cordone ombelicale del territorio e dei piccoli borghi antichi, alla loro cucina, ricette, cibo sano.

LA CUCINA DEI BORGHI MEDIEVALI. VICO DEL GARGANO RIVENDICA IL PRIMATO

 

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Il recente viaggio di raffinati golosi, nei Borghi medievali d’Italia, alla scoperta delle antiche e gustose ricette, di antiche pietanze e vini da palati esperti, ha costruito un rosario di dieci tappe, da Nord a Sud;

interessante ma non esaustivo, soprattutto se viene saltata o dimenticata la cucina del borgo medievale per eccellenza, Vico del Gargano, nei Borghi più Belli d’Italia.
Si parte da Taggia, in provincia di Imperia, con l’oliva taggiasca, per raggiungere Cortemilia, in provincia di Cuneo, borgo della nocciola piemontese, prodotto IGP. Poco distante, per assaggiare i vini delle cantine di Nieve. Si raggiunge Arquà Petrarca, Padova, dove emana il profumo del “brodo di Giuggiole”. Ad est verso Venzone, Udine, con la “zucca di Venzone” e poi nel borgo di Bobbio, Piacenza, per la “zuppa del Pellegrino”. 
Si inizia a scendere, San Gimignano, nella Valdelsa, per lo zafferano. San Gemini e le acque. Gli stringozzi di Casperia, in provincia di Rieti e si chiude con il pane di Altamura in Puglia. Un po’ poco, per la verità.

Si inalbera l’orgoglio ferito di Vico del Gargano, il borgo antico per eccellenza, che fece innamorare Gae Aulenti, la grande archistar che lo percorse in lungo e largo.

Nel cuore e nei pensieri della Regione Puglia che l’ha voluto nei 20 comuni selezionati per il Progetto Hospitis.
A difesa dell’onore e della cucina, il borgo garganico chiama un suo illustre concittadino, Giovanni Nino Arbusti, ricercatore e studioso di enogastronomia, “Cordon d’oro” e membro dell’Accademia Gastronomica Italiana, autore del libro Cucina del Gargano, per la collana Cucine regionali, prefazione di Guido Pensato, editore Franco Muzzio:

“…Una cucina schietta e pastorale, quasi rude all’inizio come tutte le altre cucine primitive, ma poi incline alle preziosità degli aromi, della menta e dell’origano, del finocchietto selvatico, della rucola, del rosmarino, così copiosi e di fragranza unica all’interno e lungo la costa, da Rodi a Monte Pucci e da Peschici a Mattinata…”

Gli studiosi della nutrizione si azzuffano ancora oggi; non è pane, non è pizza e neanche focaccia, è tutte queste cose insieme, è la Paposcia di Vico del Gargano, semplice, comune, essenziale.

Il lievito e il fuoco vivo fanno il miracolo di gonfiarla, quando il colore raggiunge il paglierino e il vapore sbuffa dal di dentro, allora è pronta.

Questa è la Paposcia: pane nostrum che, per secoli, ha accompagnato la nutrizione e i palati semplici.
Nel 1996 nasce il primo Club della Paposcia. Chi passa per via Giovanni XXIII lo trova al numero 95. Qui ogni socio si inventa una farcia a piacere, sempre diversa, ma i canoni tradizionali della paposcia restano immutati da secoli: sale e olio extravergine di oliva; oro verde degli ulivi monumentali del Gargano; qualcuno preferisce il cacio-ricotta nostrano con una fogliolina di rucola e poi, via via, tutti i gusti della globalizzazione accompagnati da un bicchiere di rosso Zagarese o Macchiatello, due eccellenti vini delle nostre assolate colline, nella valle del Melaino.

Non c’è nulla da chiedere: segreti, tecniche, ricette, intrugli. È un processo semplice, un artigianato silenzioso, solitario, nessun mistero per gli ingredienti, le dosi, i tempi, la pazienza, i gesti, il fuoco e, poi, il profumo nell’aria.

Nelle 220 pagine di ricette ci spiega l’incontro con lagane e ceci; le seppie con gli “ntroccioli”; le manteche e i “plus”; celatelli e curatoli; taralli annaspati.
Ma ogni tappa si ferma, obbligatoriamente, davanti al profumo della Paposcia, pane nostrum, e alla sconfinata mappa degli intingoli.

Si ricava da una noce di pasta di pane lievitata, schiacciata, allungata e subito passata al fornaio per la cottura a fuoco vivo. 
Gli ultimi fornai, prima dell’arrivo dei forni elettrici, dicono che la cottura della paposcia è un’anteprima per verificare la lievitazione della pasta e la temperatura del forno a legna.

Per difendere e conservare questa prelibatezza, nel 2009, l’Amministrazione comunale del sindaco, Luigi Damiani, e il suo Assessorato all’Agricoltura e Ambiente, chiese ed ottenne il riconoscimento quale “prodotto tradizionale da forno” con denominazione “La Paposcia di Vico del Gargano”, con Decreto Ministeriale n. 8663 del 5 giugno 2009.
Un intelligente lavoro di équipe: Roberto Budrago, Assessore comunale al ramo; Enzo Russo, Assessore all’Agricoltura della Regione Puglia e Leonardo Capuozzo dell’Ispettorato all’Alimentazione hanno consacrato, e dato il via libera, certificando la prelibata Paposcia di Vico.

 

COSA VUOI DI PIÙ PER LA VITA? UN LUCANO di Maurizio Campagna – Numero 5 – Luglio 2016

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ma un vero e proprio fenomeno sociale: nell’Unione Europea nel 2013 è stato responsabile della morte di quasi 1,3 milioni di persone, più di un quarto di tutte le morti (dati Eurostat presentati nel 2016). Le malattie oncologiche impegnano moltissime risorse finanziarie tra costi diretti e indiretti: sono ben 126 i miliardi di euro spesi dai Paesi dell’Unione Europea nel 2009 a causa dei tumori. Il dato, già pubblicato nel 2013 su “The Lancet Oncology”, riporta i risultati di uno studio condotto dall’Health Economics Research Centre dell’Università di Oxford, in collaborazione con il Cancer Centre and Institute for Cancer Policy del King’s College di Londra.

COSA VUOI DI PIÙ PER LA VITA? UN LUCANO

 

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 Alla cronicizzazione della malattia, dovuta anche all’impiego di farmaci innovativi e al conseguente allungamento dell’aspettativa di vita, non corrisponde ancora un’adeguata risposta istituzionale per la presa in carico del malato cronico e del paziente guarito. Tale insufficienza genera costi ulteriori a carico della comunità.

Nel 2015, nel corso dell’ultimo congresso annuale dell’ASCO (l’Associazione Americana di Oncologia medica), è emerso che il costo globale dei farmaci anti-cancro aveva raggiunto, nel 2014, la cifra record di cento miliardi di dollari, facendo registrare un incremento annuale del 10%. I dati, però, sembrano già di un’epoca fa, quando, cioè, la diffusione delle nuove terapie, soprattutto di quelle di tipo immunologico, era solo dietro l’angolo.

Per quanto riguarda l’Italia, pochi dati sono sufficienti a rappresentare il fenomeno: il 30% dei decessi è causato dal cancro, la spesa per i farmaci antineoplastici nel 2014 si è collocata per la prima volta al primo posto,

seguita dai farmaci antimicrobici e dai farmaci del sistema cardiovascolare. Gli interventi chirurgici per tumore sono il 12% del totale (fonte: VIII° Rapporto F.A.V.O. sulla condizione assistenziale del malato oncologico). 
L’emergenza finanziaria sarebbe addirittura destinata a crescere se la direttiva sulla mobilità sanitaria transfrontaliera n. 24/2011/UE trovasse concreta attuazione nei Paesi membri in ragione dell’incremento dei flussi di pazienti che si spostano per ricevere cure nello spazio UE, rimborsati dal proprio Stato di affiliazione.
È infatti noto che il cancro rappresenta una delle principali determinanti della mobilità sanitaria, mobilità che costituisce sempre una scelta eccezionale dei malati che, ovviamente, preferirebbero curarsi nel luogo dove abitualmente risiedono e in un contesto familiare. Più degli altri servizi alla persona, la sanità non è un’industria che possa essere facilmente delocalizzata. Nel 2015, il sondaggio curato da Eurobarometro sull’effettivo esercizio dei diritti dei pazienti nell’Unione europea ha rilevato come le ragioni della scelta di curarsi lontano da casa sono essenzialmente due: (1) ricevere un trattamento non disponibile nel proprio paese; (2) ricevere un trattamento di migliore qualità.

È dunque la mancanza di risposte o di risposte di qualità prossime ai malati che spinge questi ultimi alla dolorosa migrazione sanitaria, anche al di fuori dello spazio nazionale.

Il Servizio sanitario nazionale, a fronte di questi numeri, dovrà elaborare una risposta decisa che garantisca non soltanto la sostenibilità economica della malattia e delle cure necessarie, ma anche la sostenibilità politica e sociale.

In Basilicata, la risposta è il Centro di Riferimento Oncologico della Basilicata in Vulture (PZ), un’eccellenza della sanità del Sud, una speranza possibile, accessibile e a portata di mano per i lucani.

Il CROB è un IRCCS (Istituto di Ricerca e Cura a Carattere Scientifico) di diritto pubblico riconosciuto con Decreto del Ministro della Salute del 10 marzo 2008 nella specializzazione oncologica. Il carattere scientifico, riconosciuto alla struttura, sulla base degli specifici requisiti stabiliti dal d.lgs. n. 288 del 2003 che ha provveduto al riordino degli IRCCS pubblici, consente alla stessa di accedere a un finanziamento statale finalizzato alla ricerca che si aggiunge a quello già erogato dalla Regione di appartenenza. Il CROB è stato confermato IRCCS con decreto del Ministro della Salute del 9 dicembre 2015. 
La struttura ha 118 posti letto per acuti e 8 posti per cure palliative/hospice. Il volume di attività fa registrare circa 5000 ricoveri in un anno. Il CROB è il polo hub della rete oncologica regionale (centro di riferimento) e dall’11 giugno 2015 è stato accreditato dall’Organizzazione Europea degli Istituti contro il Cancro (OECI) come Clinical Cancer Center. Non finisce qui.

L’Osservatorio Nazionale sulla salute della Donna (O.N.Da.) ha attribuito all’Istituto il massimo riconoscimento dei tre bollini rosa come ospedale women friendly. Da ultimo, il CROB è stato insignito di un prestigioso riconoscimento: il Premio Nazionale “Amministrazione, Cittadini, Imprese”,

assegnato ogni anno dall’Associazione per la qualità delle politiche pubbliche con il patrocinio del Ministro per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione.
Per l’anno 2016, il Premio “Amministrazione, Cittadini, Imprese” era riservato a un Presidio ospedaliero (o Azienda ospedaliera) che, nelle proprie attività ordinarie, fosse riuscito a combinare un alto livello di efficacia delle prestazioni cliniche erogate, di efficienza gestionale e di umanizzazione del rapporto con i pazienti. Pur essendo di piccole dimensioni, la struttura “è assolutamente simbolica come efficacia, impegno e risultato. Ha una significativa incidenza di ricercatori e una grande e avanzata attenzione al paziente […]”.
Il riconoscimento ottenuto dal CROB significa che l’eccellenza nell’amministrazione pubblica è possibile quando si condivide una strategia di lungo periodo che riporti di nuovo al centro la persona destinataria dei servizi. In particolare, l’eccellenza nella sanità può aversi solo se il paziente torna ad essere il perno dell’azione e quando si progettano le risposte a tutti i suoi bisogni complessi.

L’adeguata considerazione delle differenze legate all’età, al genere, alle specificità della malattia consentono una risposta, sempre più personalizzata e quindi più efficace, che permette alla struttura di essere al passo con i tempi.

La personalizzazione delle cure rappresenta un nuovo orizzonte dell’assistenza. Non a caso, tra le quattro linee di ricerca del CROB vi sono anche studi per la definizione di tailored therapies nelle emopatie neoplastiche e su nuovi target e biomarcatori per la personalizzazione dei trattamenti medici e chirurgici. 
L’Istituto, in altre parole, propone una sanità moderna e adeguata alla complessità attuale.
Il recente accreditamento da parte dell’AIRTUM (Associazione Italiana Registri Tumori) del Registro Tumori della Regione Basilicata, curato dal CROB, dimostra lo sforzo dell’Istituto per un monitoraggio costante del cancro e delle sue evoluzioni. Il Registro della Basilicata è di tipo generale e riferito a tutta la popolazione assistita e i dati sono raccolti con metodologia coerente con quella adottata per il Registro nazionale.

Il CROB, dunque, contribuisce alla conoscenza del cancro attraverso l’impegno costante per la raccolta di dati di qualità. E la corretta allocazione di risorse in sanità non può prescindere dall’informazione.

 Per un uso corretto delle risorse pubbliche, tuttavia, non è sufficiente una scelta tecnica, ma occorre un’azione etica.
Il CROB opera nella totale condivisione dei dati, dei saldi e delle cifre. In altre parole,

l’Istituto è un’amministrazione trasparente come rilevato dall’Autorità Nazionale Anticorruzione. Un altro scacco al luogo comune.

Il Centro di Riferimento Oncologico della Basilicata CROB è, dunque, un contenitore di buona amministrazione sanitaria che riesce a coniugare tutte le azioni necessarie per fornire una risposta appropriata alle nuove esigenze di salute, ma anche un modello per la preparazione necessaria a quella tempesta perfetta – come è stato efficacemente definito il prossimo futuro della sanità – che sta per abbattersi sui Servizi Sanitari Nazionali.

 

UNO ‘SPIRITO’ DEL SUD di Gaia Bay Rossi – Numero 5 – Luglio 2016

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UNO ‘SPIRITO’ DEL SUD

 

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La cosa più importante che esiste nella vita è la fortuna. Io ho avuto la fortuna di nascere a Napoli. Ora ti voglio dire come immagino la nascita. Io la immagino così: nell’alto dei cieli vedo un cestino con dentro miliardi di palline, poi vedo una mano che prende un milione di palline e le butta nel cielo. Queste cadono. Qualche pallina va su un pianeta, qualche altra pallina su un altro pianeta. Ebbene io, De Crescenzo, ho avuto la fortuna che la mia pallina è caduta proprio sulla terra; e non solo, ma anche sull’Europa; e non solo, anche su Napoli. La prima cosa che debbo aver visto nella vita sono state il mare e il Vesuvio e questa, come si chiama? Si chiama fortuna!
Ecco. Ma ho avuto altre fortune. Per esempio, quando ho conosciuto Francesca, quando Francesca mi ha lasciato, quando il Napoli vinse con l’Ambrosiana per 1 a 0 all’ultimo minuto. Ma chi era l’Ambrosiana? L’Ambrosiana era quella che oggi si chiama Inter. 
Mi ricordo di quando io presi la funicolare, perché abitavo al Vomero, per andare ad iscrivermi all’università. Entrai nella funicolare e vidi un posto libero accanto ad una bella ragazza. Allora, mi sedetti subito vicino a lei e le chiesi: “Come ti chiami?” Lei mi rispose: “Mi chiamo Francesca”; ed io: “Ciao Francesca dove vai?” E lei mi rispose: “Vado a iscrivermi all’università”. 
Io mi volevo iscrivere a filosofia perché la amavo molto come materia, ma, siccome lei mi disse che si andava ad iscrivere a matematica, le dissi: “Ah, pure io mi iscrivo a matematica”. Ed è stato così che sono diventato ingegnere. Se non avessi corso quella mattina per prendere la funicolare, io oggi non sarei ingegnere, ma professore di filosofia.

Nascere a Napoli è stata una fortuna?

 Una cosa é dire ti amo e una cosa e dire ti voglio bene. Che differenza passa tra il bene e l’amore? Che l’amore prima o poi può finire, mentre il bene invece non finisce, anzi aumenta. Quindi io consiglio a tutti quelli che mi leggono di voler bene. Nella mia vita ho voluto molto bene innanzitutto a mia figlia e poi a mia moglie. Poi, anche a un uomo che si chiamava Marotta, perché scrisse dei libri bellissimi. Mi ricordo anche di aver voluto bene al mio professore di matematica, perché grazie a lui sono diventato ingegnere.

Lei non è mai stato tentato dalla canzone napoletana?

Quando si nasce, ognuno di noi, può nascere con dei meriti e dei demeriti. Io purtroppo, pur essendo napoletano, non so cantare, però so scrivere. Come si fa a scrivere bene? Chi mi legge dovrebbe sapere quali sono i trucchi per scrivere bene. Innanzitutto, ogni pagina bisogna scriverla due volte e l’importante é che la seconda volta sia più corta della prima. Poi bisogna avere una fidanzata ignorante a cui far leggere la pagina: se la capisce lei, la capiscono tutti. Poi che dire…io ho fatto una cosa intelligente e una stupida: quella intelligente è stata quella di copiare il libro “Della filosofia greca”; quella più stupida è stata quella di cederla una tantum, perché poi ho saputo che è stata adottata nelle scuole e, quindi, avrei guadagnato miliardi se non avessi firmato.

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sul nostro Mezzogiorno d’Italia è chiaro e diffuso nell’etere e può essere sintetizzato nella celebre frase “si è sempre meridionali di qualcuno” (da Così parlò Bellavista). Noi di Myrrha non potevamo non incontrarlo.

Lei ha vissuto in tre città: Milano, Roma e Napoli, che differenze ci sono nelle città e nella gente?

Quando ero giovane, per andare da Milano a Napoli ci voleva quasi un giorno, perché il treno dell’epoca si fermava in ogni stazione prima di arrivare a Napoli. La più grande differenza tra i milanesi e i napoletani è che a Napoli si parla di più che non a Milano. Cioè, due persone che si incontrano e si siedono vicino, se sono napoletane parlano, se sono milanesi non parlano. 
Se sono romane? Come i napoletani, perché sono molto simili. Tutto questo perché a Milano c’è una cosa che si chiama riservatezza, a Napoli non esiste.
Una volta, a Napoli, nel mio palazzo, c’erano due persone che si odiavano. Queste due persone si chiamavano, una Bellavista e una Cazzaniga. I due presero insieme l’ascensore e, a causa di un black out, l’ascensore si bloccò. Loro rimasero per quasi mezz’ora, tutti e due, in ascensore tra il terzo e il quarto piano, e, a forza di stare insieme, parlarono e parlarono, e da che erano nemici, divennero amici. Questo fatto è realmente accaduto ed è quello che mi ha poi suggerito il libro “Così parlò Bellavista”.

Abbiamo visto la presentazione del suo nuovo libro, con un bel sottofondo di canzoni napoletane. Cosa è per lei la canzone napoletana?

Io credo che non esista nessuna città al mondo che abbia inventato più canzoni di quanto non sia stata capace Napoli. Comunque la mia preferita dovrebbe essere ‘O sole mio’. Dovrebbe…
Molti pensano che questa canzone sia stata scritta a Napoli: non è vero. ‘O sole mio fu scritta in Russia; anzi, per essere precisi, in Ucraina. D’altra parte lo si capisce anche dalle parole. Come dice la canzone: “Che bella cosa na jurnata e sole”. Questa meraviglia la si può capire solo da una persona che stava in Ucraina, perché se fosse stata a Napoli non l’avrebbe mai detta, visto che a Napoli ogni giorno c’è una giornata di sole. 
Quando ero ragazzino ho avuto la fortuna, e la sfortuna, di abitare in un cosiddetto piano ammezzato; cioè, dalle mie parti, il piano ammezzato è in un appartamento che sta a metà distanza tra la strada e il primo piano. Ma perché parlo di fortuna e di sfortuna: di sfortuna perché purtroppo sotto la mia camera da letto c’era un venditore di fiori che ogni mattina si metteva a cantare alle sei e mi svegliava. La fortuna è stata perché tutto questo é capitato a Napoli, dove sono nato.

 Il libro è intitolato Ti voglio bene. Perché questa decisione?

Le manca Pino Daniele?

Sì, io l’ho anche conosciuto ed era una brava persona. Purtroppo, per colpa sua io ho commesso uno dei sette peccati capitali, e cioè l’invidia!

Fino a che età è stato a Napoli?

Sono stato a Napoli fino a sedici anni. Poi, un giorno, Mussolini decise che anche i ragazzi di sedici anni dovessero andare in guerra. Io andai a Capodichino, mi misero la divisa, mi dettero il fucile ed io dissi al mio amico Alfonso: “Fofò, io non ammazzerò mai nessuno”; e lui: “E come fai, quelli ti hanno dato il fucile!”. E io: “Fofò, basta sparare un poco poco più in alto, per essere sicuri di non uccidere”. Proprio quel giorno, io arrivo a Capodichino e scoppia la pace. Questo sempre che si possa usare il verbo scoppiare quando si parla di pace.

Perché i giornali italiani parlano del sud sempre in maniera negativa?

Loro parlano così perché purtroppo invidiano il sud. Io ho abitato a Milano dove lavoravo alla IBM e mi ricordo ancora quando la IBM mi trasferì a Napoli, e io ringrazio… A Napoli non si dice mai “ringrazio Dio”, si dice “ringrazio la Madonna” e questo perché, secondo me, Dio non esiste, mentre esiste la Madonna. Io credo di essere religioso in maniera particolare, perché non sono credente, io sono sperante, che è qualcosa di più di essere credente. Spero che ci sia e, infatti, spero “dopo” di andare in paradiso, o meglio, forse troverei più bello il purgatorio, perché l’eternità se ha un difetto è quella di essere eterna. 
Una cosa è passare tutta l’eternità vicino a una santa, come Santa Teresa, che ti racconta tutti i giorni i suoi problemi, perché fu martire. Un’altra cosa è passare il tempo vicino a Totò. Totò non credo che sia andato subito in paradiso, perché – si dice – che lui approfittasse delle ballerine; quindi, per stare vicino a Totò, starò volentieri anche io un po’ di tempo in purgatorio.

 

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LUCANIA, OMBELICO DELLA POESIA, DELL’INFERNO, DELLA VITA di Alessandro Gaudio – Numero 5 – Luglio 2016

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da molti considerata la raccolta più importante dell’autore nato a Montemurro − in provincia di Potenza, in fondo alla Val d’Agri, tra Viggiano e Corleto Perticara, nei pressi dell’invaso del Pertusillo − nel 1908. Si tratta di versi ormai molto noti, e non soltanto tra i cultori di Sinisgalli, ma li ripropongo comunque per i lettori di «Myrrha».

Il più delle volte, si è preferito sottolineare il riferimento dei versi di Sinisgalli al tempo dell’infanzia e dell’adolescenza, a uno spazio povero, spoglio ed elementare, quasi folcloristico, tralasciando di notare che

La poesia, allora, è una reazione incontrollata, ma non indefinita, a quel cumulo di detriti, a quel mucchio di pietre, a quella strada senza uscita;5 essa non fa operazioni, né composizioni, ma reagisce ad esso, costruendo con niente un po’ di geometria

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1 Ne trascrivo il testo da una bella antologia, curata da Giuseppe Pontiggia: L. Sinisgalli, Lucania, in Id., L’ellisse. Poesie 1932-1972, Milano, Mondadori, 1974, pp. 55-56.
2 Cfr. G. Pontiggia, Le Muse di Sinisgalli, in L. Sinisgalli, L’ellisse cit., pp. 11-19.
3 L. Sinisgalli, Postilla, in Id., L’età della luna. 1956-1962, Milano, Mondadori, 1962, p. 137.
4 Dell’ENI, Sinisgalli, su invito di Enrico Mattei, assumerà nel 1959 la direzione dei servizi di pubblicità. Tra l’altro, il famoso cane a sei zampe, simbolo dell’Ente, fu ideato proprio dal poeta lucano. Sin dal 1937 anche altre notissime aziende del panorama nazionale si erano avvalse delle competenze di Sinisgalli: tra le altre, Olivetti e Pirelli. La foto che ritrae Sinisgalli a Milano Bicocca, tra i copertoni, è del 1951.
5 E senza uscita è la strada di una delle foto che Raffaele Luongo, in collaborazione con la Fondazione Leonardo Sinisgalli, ha dedicato alla Lucania di Sinisgalli, reinterpretando, in una mostra del 2015, la poesia qui discussa.
6 La strada interpoderale, dritta e semplice, che collega Tricarico alla piana delle Matine fu voluta già alla fine degli anni Quaranta da Scotellaro: la foto riproduce il suo aspetto odierno. In questa sezione si fa riferimento al dettato lessicale de La ricerca (ora in L. Sinisgalli, Infinitesimi, a cura di G. Tedeschi, prefazione di G. Pontiggia, Roma, Edizioni della cometa, 2001, p. 54).

 

LUCANIA, OMBELICO DELLA POESIA, DELL’INFERNO, DELLA VITA

è proprio sopra i cumuli di detriti, intatti per secoli ma sdrucciolevoli e malfermi, che nasce la poesia di Lucania. Nasce in questo spazio privo di fondamenta, con innocenza, senza che nessuna certezza le faccia da struttura.

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Al pellegrino che s’affaccia ai suoi valichi,
a chi scende per la stretta degli Alburni
o fa il cammino delle pecore lungo le coste della Serra,
al nibbio che rompe il filo dell’orizzonte
con un rettile negli artigli, all’emigrante, al soldato,
a chi torna dai santuari o dall’esilio, a chi dorme
negli ovili, al pastore, al mezzadro, al mercante,
la Lucania apre le sue lande,
le sue valli dove i fiumi scorrono lenti
come fiumi di polvere.

Lo spirito del silenzio sta nei luoghi
della mia dolorosa provincia. Da Elea a Metaponto,
sofistico e d’oro, problematico e sottile,
divora l’olio nelle chiese, mette il cappuccio
nelle case, fa il monaco nelle grotte, cresce
con l’erba alle soglie dei vecchi paesi franati.

Il sole sbieco sui lauri, il sole buono
con le grandi corna, l’odoroso palato,
il sole avido di bambini, eccolo per le piazze!
Ha il passo pigro del bue, e sull’erba,
sulle selci lascia le grandi chiazze
zeppe di larve.

Terra di mamme grasse, di padri scuri
e lustri come scheletri, piena di galli
e di cani, di boschi e di calcare, terra
magra dove il grano cresce a stento
(carosella, granoturco, granofino)
e il vino non è squillante (menta
dell’Agri, basilico del Basento!)
e l’uliva ha il gusto dell’oblio,
il sapore del pianto.

In un’aria vulcanica, fortemente accessibile,
gli alberi respirano con un palpito inconsueto;
le querce ingrossano i ceppi con la sostanza del cielo.
Cumuli di macerie restano intatti per secoli:
nessuno rivolta una pietra per non inorridire.
Sotto ogni pietra, dico, ha l’inferno il suo ombelico.
Solo un ragazzo può sporgersi agli orli
dell’abisso per cogliere il nettare
tra i cespi brulicanti di zanzare
e di tarantole.

Io tornerò vivo sotto le tue piogge rosse
tornerò senza colpe a battere il tamburo,
a legare il mulo alla porta,
a raccogliere lumache negli orti.
Vedrò fumare le stoppie, le sterpaie,
le fosse, udrò il merlo cantare
sotto i letti, udrò la gatta
cantare sui sepolcri?1

Quel cumulo di detriti, a ogni buon conto, è il punto verso cui tutta la poesia converge; è anzi, il polo, diceva Giuseppe Pontiggia, del medesimo esistere.2 Sinisgalli, dal canto suo, sosterrà che è situata lì la forma «introvabile»,3 il cuore della poesia (poesia che non è voluttà espressiva, perla nel pattume; è, piuttosto, quello stesso pattume): allineata, cresciuta su frammenti, ossa, escrementi, senza un disegno preventivo, un progetto: asimmetricamente, se si vuole, allo stesso modo di un paese, allo stesso modo di Montemurro.
In quel cumulo di non-poesia (oppure, ma non è poi così diverso, di antimonio) c’è lo spreco, la dissipazione, sulla quale la poesia − come lo stesso Sinisgalli ammetterà sempre nell’Età della luna − fulmineamente sorge e prospera; vita che muore cui la poesia attinge. Il poeta, dunque, non esce indenne da quell’ammasso di macerie: è lì, nella Lucania che sta per essere devastata dai vulcanici succhielli e dalle piogge rosse dell’ENI, che il poeta lascia le penne;4 è lì, all’interno dei suoi confini, che i versi di Sinisgalli ripiegano. Nelle sue viscere trova la strada difforme della poesia, abbandonando per sempre quella del formalismo (la forza, quindi, più che la sua forma), perdendo di vista, nello sforzo vano, nel pianto e nell’oblio, il soggetto, la coscienza.

(che poi non è, con ogni evidenza, che la semplice geometria della strada che Scotellaro, segnando a suo modo il percorso obbligato del progetto di cambiamento, aveva fatto costruire a Tricarico), una fedele chimica interiore.6 Il poeta di Montemurro, per non cadere, si siede su quel mucchio di detriti e tossisce e sputa e rifà i calcoli, all’infinito, nelle distanze incommensurabili di spazio e di memoria e nel tempo infinitesimale di un soffio. Non è forse, quel cumulo di scorie, il luogo stesso in cui ciascuno di noi resta sepolto? Non è forse esso il risultato dell’accumulo giornaliero di tutti i frammenti della nostra esistenza? E non è forse proprio quello che, giornalmente, continuiamo a ricercare? Risiede in questa ricerca, fatta della realtà che il poeta distrugge, di piccole aberrazioni millesimali, di nessi, congiunzioni, particole, spezzoni, tacche del linguaggio, nodi, l’esercizio, talvolta fastidioso, della poesia e, di conseguenza, della vita.

 

SANTA CATERINA D’ALESSANDRIA A GALATINA di Sergio Spatola e Gianluca Anglana – Numero 5 – Luglio 2016

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A presentare “lo scrigno che gelosamente custodisce le memorie sacre e profane dell’umile terra” è Padre Adiuto Putignani1, che, già nel 1948, comprese che “chi l’ha vista una volta la vuol rivedere; chi l’ha amata non la dimenticherà più mai”.

È la Basilica di Santa Caterina d’Alessandria di cui oggi Myrrha riscrive2 perché, come ha detto Padre Putignani,

, “questo grande amore per la più bella chiesa del mezzogiorno d’Italia mi ha spinto a parlare di essa, a scrivere le sue glorie, a violare il silenzio geloso dei secoli. Perché mai? Perché altri la possano conoscere bene e meglio, e conoscendola amarla, e amandola custodirla e vegliare perché non si sfrondi la sua gloria, non si deturpi la sua bellezza”.

Quando Maria d’Enghien decise, nei primi decenni del Quattrocento, di (ri)affrescare gli interni della Basilica, certamente non poté ignorare gli esiti della rivoluzione di Giotto di Bondone, quella rivoluzione deflagrante, una sorta di big bang che generò la nascita dell’arte moderna in Occidente e che travalicò ben presto le Alpi. 
Altrettanto sicura è però anche la presenza di maestranze artistiche borgognone e fiamminghe: come alcuni studiosi sostengono, infatti, è plausibile che, al seguito dello spostamento dei popoli che in precedenza dal Nord si erano riversati verso il Sud dell’Italia, vi fossero artigiani ed artisti caratterizzati dal gusto dei Paesi di provenienza.
Si può dire, dunque, che Galatina abbia giocato, sebbene su scala limitata dal punto di vista regionale, un ruolo assai simile a quello assunto dalle scuole pittoriche di Assisi. Non per questo, però, si può escludere una sorprendente osmosi culturale europea in atto, sul finire del ‘300, nel Tacco d’Italia.
Ecco spiegato perché

la Basilica di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina costituisca un unicum nel panorama artistico meridionale: è una sintesi di culture (massimamente di quella italiana e francese), un linguaggio totalmente innovativo e sperimentale, un guanto di sfida al passato e uno sguardo su un futuro da scoprire.

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1 In P.Adiuto Putignani, Il Tempio di Santa Caterina in Galatina, Introduzione
2 Tantissimi i contributi scientifici sulla storia, l’architettura ed il ciclo pittorico all’interno della Basilica nonché sul contesto storico-socio-politico in cui fu eretta. 
3 Il nome di una via è venuto in soccorso degli storici tanto quanto i documenti scritti in senso stretto: l’onomastica stradale ha permesso a città troppo protese verso il futuro di non dimenticare il proprio glorioso passato.
4 La parola “Balzo” è l’italianizzazione del nome di un feudo provenzale: Baux.
5 Maria emanò una serie di bandi e capitoli che ancora oggi destano interesse. Era convinta che “in tutte le città bone se vuole vivere con ordine et boni statuti in tutte cause” (cfr. Can. Pietro Serio, Attraverso dieci secoli di storia patria, p. 86).

SANTA CATERINA D’ALESSANDRIA A GALATINA

 

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Più si approfondisce la storia di questo splendido esempio di commistione di stili (romanico e gotico), più se ne è rapiti. Innanzitutto perché, essa stessa,

è la rappresentazione dell’unione di tre terre affacciate nel mediterraneo: la Terra Santa, la nostra Italia e la Francia.
Cosa esattamente accomuni le tre terre lo si scopre approfondendo: un mito, una terra e una donna straordinaria.

Se esistesse una psicologia del profondo applicata alle masse, essa probabilmente spiegherebbe le ragioni dell’appeal che, da qualche anno a questa parte, il Salento esercita nei confronti di un numero sempre crescente di visitatori provenienti dalla Francia e da altre aree di lingua francese del Vecchio Continente. È capitato a qualunque salentino di incrociare, soprattutto in primavera o in estate, gruppi di visitatori d’Oltralpe o di imbattersi sui social network in articoli di encomio della Terra d’Otranto, scritti nella lingua di Stendhal. 
Non sappiamo se, così come gli individui, anche i popoli dispongano di una sorta di io profondo, una qualche memoria a lungo termine che affonda le proprie radici in un’infanzia ormai lontana o scomparsa. Sta di fatto però che, a cavallo tra il XIII e il XIV secolo, le province più meridionali di Puglia furono occupate da genti provenienti dal nascente Regno di Francia o dalla Vallonia: di questa invasione si trovano tuttora numerose tracce, a partire dalla toponomastica salentina3.
Nel Comune di Lecce, ad esempio, non è infrequente accorgersi di una o più vie intestate a personaggi illustri di chiara origine francese: si pensi, ad esempio, a Via Orsini del Balzo4 oppure a Via Maria d’Enghien, strada cittadina dedicata ad una sorta di “Wonder Woman ante litteram”.
Per un soffio Maria mancò l’obiettivo di conquistare la corona del ricchissimo Regno di Napoli, un reame ormai saldamente in mani francesi, ponte di collegamento tra lo Stivale e i territori dell’Anjou o della Borgogna: lei, abile amministratrice5 dotata di un notevole fiuto politico, perse il duello che la vide opporsi a Giovanna d’Angiò per la scalata al potere partenopeo.
Ed è proprio Maria il comune denominatore delle tre terre del Mediterraneo.
Enghien è il nome di una cittadina del Belgio (o, per essere più precisi, di quella Vallonia che potremmo definire le Fiandre di idioma francese). In realtà, Maria poté fregiarsi di origini più luminose di una cittadina vallone: era nipote di Isabella di Brienne nonché figlia di Giovanni d’Enghien, conte di Lecce, e di Sancia (Bianca) del Balzo.

Maria, come di consueto per quei tempi, fu data in moglie a Raimondello Orsini del Balzo – tipo tosto ed estremamente spregiudicato – dietro consiglio di Luigi I d’Angiò.
Raimondello aveva anche fama di essere un tipo alquanto macabro. Ed è qui che la leggenda unisce la Puglia alla Terra Santa:

 pare che, nel corso di un pellegrinaggio alla salma di Santa Caterina d’Alessandria sul Monte Sinai, Raimondello strappò con un morso un dito della reliquia che venne, dunque, portato in Puglia. In omaggio alla tradizione delle Cattedrali gotiche, soprattutto francesi, Raimondello si risolse a dedicare alla Santa quella Basilica che avrebbe dovuto ospitarne la falange e che, a ragione, può essere considerata la Cappella degli Scrovegni del Mezzogiorno italiano.
La Basilica (eretta tra il 1369 e il 1391), austera all’esterno, quasi una fortezza, colpisce, all’interno, per il mirabile ciclo di affreschi: questi ultimi non sono soltanto opere pittoriche di eccezionale fattura, ma una testimonianza rarissima di un inedito intreccio di culture. Sì, perché il Salento era stato, anche dal punto di vista artistico, saldamente in pugno dei Bizantini, cioè di quella élite greca che era presente da secoli in Apulia e che era arroccata su un modo di intendere l’arte ormai in fase di definitivo superamento.
La Puglia meridionale è, soprattutto, ricca di preziosissimi monumenti di radice orientale: si pensi ad esempio, alle chiese di impronta basilica in terra di Brindisi o a taluni edifici di memoria greca sparsi sul territorio della provincia leccese. Questo passato, glorioso e ingombrante, è stato raramente scalfito nella sua granitica esistenza.

Santa Caterina d’Alessandria a Galatina segna, dunque, un improvviso cambio di passo, perché importa in Terra d’Otranto un linguaggio artistico inedito, una summa di stili interpretativi che attingono ispirazione alla cultura francese e fiamminga oltre che alla ormai inarrestabile lezione di Giotto.

 

QUANDO GOETHE INCONTRÒ LA MOZZARELLA di Francesco Festuccia – Numero 5 – Luglio 2016

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questo “cibo” assolutamente unico che sembra caduto sulla terra da un altro mondo e da un altro tempo. Forse è proprio così se pensiamo a quell’animale che è alla base di tutta la vera mozzarella di bufala. Perché è una storia che ha radici lontanissime guardando questa specie di sopravvissuto al mammut, bovino dal profilo ingobbito, ma assai meno fesso della mucca, un po’ spaventevole per quella sua vaga aria preistorica, sfortunato anche nel nome visto che l’appellativo di “bufala” è chissà perché sinonimo di cosa inventata.

QUANDO GOETHE INCONTRÒ LA MOZZARELLA.

 

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Per raccontare la storia della mozzarella si deve andare indietro fino al Settecento. Da qui partono le tracce sicure della presenza del bufalo (e della bufala…) in alcune zone italiane e, quindi, delle mozzarelle

nei primi diari di viaggio di chi – da tutta Europa – veniva per il Grand tour in Italia, addentrandosi con grande coraggio e spirito d’avventura alla ricerca delle rovine della Magna Grecia dalle parti di Battipaglia.

Ai lati di queste, nient’affatto agevoli, strade si rischiava pure di trovare agguerriti briganti, ma, soprattutto, poveri e macilenti bufalari che tenevano sotto controllo le loro bestie cercando di vendere al viaggiatore la “provatura” del formaggio di bufala e sbarcare faticosamente il lunario.

Due singolari circostanze, come suggerito da uno studio di Oreste Mottola – uno dei pochi circostanziati – favoriranno la conoscenza della mozzarella in quel periodo, della passione venatoria di Carlo III di Borbone e di suo figlio Ferdinando IV e poi del “pellegrinaggio culturale” a Paestum.

E qui, l’orografia e le strade del tempo cambiarono il senso della storia di questo particolare tipo di alimento. Fu così che tante persone delle più diverse condizioni di tutta Europa assaggiarono, innamorandosene, questo prodotto mai assaporato prima, dalle caratteristiche peculiari perché il latte proveniva da un animale che non suda e, per questo, il suo sapore è leggermente acidulo con un vago accenno di muschio. Insomma, la chiave di tutto erano le bufale e le zone dove erano diffuse. 
Una parte, dove era alta la presenza di bufala, veniva evitata dai viaggiatori, perché c’era forse qualcosa di inquietante nei territori capuano e mondragronese. La strada proveniente da Roma passava solo da/per Sessa, Cascano, Speranise, Capua: chi voleva spingersi fino a Paestum doveva obbligatoriamente percorrere la piana ebolitana e pestana, con avventure leggermente orrorifiche, come ha descritto Goethe che arrivò lì nel 1787 “attraversando canali e ruscelli e incontrando bufali dall’aspetto di ippopotami e dagli occhi iniettati di sangue…”

Il sapore affascinante della mozzarella di bufala si scontrava con il luogo impervio e l’aspetto stesso dell’animale.

Stavo facendo proprio questa considerazione vedendo un gruppo di bufale allo stato brado, in una tenuta nel basso Lazio, ancor oggi spesso ricoperte di fango e dal caracollare diverso da qualsiasi altro animale. Mi chiedevo quale tipo di impressione o quale tipo di paura devono aver fatto a un viaggiatore, anche se erudito, come Goethe, nel Settecento. 
Il bufalo della mozzarella, bubalus bubalis, è infatti un bovino di origine asiatica abituato, proprio per difendersi dal caldo e dal sole, a rotolarsi nel fango delle zone paludose.
Ma torniamo proprio al prodotto del latte di quell’animale: la mozzarella.

Il termine nella storiografia sembra posizionarsi addirittura prima di questi eruditi del Grand Tour settecentesco, citato, per la prima volta, in un libro di cucina pubblicato nel 1570 da Bartolomeo Scappi,

che, come cuoco della corte papale, era abituato a una cucina che oggi si potrebbe definire da cuoco stellato e dove giungevano specialità da ogni parte dell’Italia e dell’Europa. E allora scrive: “…capo di latte butirro fresco, ricotte fiorite, mozzarelle fresche et neve di latte” e poi parla di “mozzarelle fresche” (incomprensibile oggi perché le mozzarelle sono per forza fresche…). 
Quindi, la parola mozzarella è collegata, nell’origine del termine, alla mozza che altro non è se non la provata, ovvero la provola. Negli annuali contratti per l’appalto del prodotto della Reale industria della Pagliara delle bufale a Carditello si stabiliva che la mozzarella doveva restare nella salsa 24 ore, mentre la provola 48; la successiva affumicazione, cui generalmente era sottoposta, era un espediente per una più lunga conservazione in vista del trasporto che, certo visti i mezzi e le strade del periodo, non erano veloci. I documenti d’archivio ci dicono che la pratica dell’affumicazione era stata in precedenza uno strumento molto utilizzato per cercare di conservare il più a lungo possibile dei prodotti che andavano velocemente a male.

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E nel XVII secolo, nel mercato capuano, arrivano, accanto alle mozzarelle fresche, provole e mozzarelle affumicate.

Se tutte le fonti sono concordi a far risalire al grande cuoco Scappi la primogenitura della parola mozzarella, ci sono tracce incerte o quasi certe anche prima. Tracce di una storia vaga che spesso si autoalimentano in curiosi e incrociati rimandi.
Anche un altro indizio ci deve far pensare che il prodotto mozzarella fosse all’epoca poco conosciuto, perché sembra totalmente assente nell’iconografia, anche in quella così particolare del presepe napoletano, che è spesso una interessante spia degli usi e costumi popolari. Nel presepe, casomai, si vede la provola. Ricordate? C’è spesso il classico contadino a cui pendono due provole dal collo legate da una corda. Certo con la provola, la mozzarella è strettamente collegata: non solo perché fatta con lo stesso latte di bufala (la provola rispetto alla mozzarella rappresenta un’ulteriore fase della lavorazione) ma perché il nome stesso della mozzarella deriva da quello della provola; anzi, da una denominazione di questa caduta in disuso e mettendo in campo anche il fatto che, all’inizio, proprio per la sua poca conservabilità, la mozzarella era fatta con gli avanzi del latte. Quello che non era potuto diventare altro, alla fine diventava mozzarella.

Ed è una storia tutta da scoprire, per uno dei simboli del cibo italiano, così amato e imitato nel mondo, così misconosciuto nelle sue origini.

 

INDIETRO NEL FUTURO di Tamara Triffez – Numero 6 – Ottobre 2016

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Myrrha è impegnata, come rivista, nel racconto di un sud positivo, e spesso questo avviene tramite il lavoro di piccole realtà imprenditoriali, coraggiose e con Idee chiare. Certo il fronte dell’incompetenza non facilita queste micro – realtà.

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INDIETRO

NEL FUTURO

 

 Mi alzo a metà luglio nel tepore del primo sole, per raggiungere 

e seguire il lavoro della mietitura:

 

Salvatore Agostinello, allevatore e agricoltore, oltre che piccolo produttore di derivati del grano come pasta, frise, farine bio, oggi ha organizzato, nelle campagne di Specchia, bellissimo Borgo medioevale, che ospita ogni anno la rassegna ”Il cinema del reale”, la giornata della mietitura dei campi di grano “Senatore Cappelli”, una raccolta gioiosa e divulgativa, per difendere la produzione di un grano d’eccellenza, con i campi protetti da pesticidi e concime. Salvatore segue un’avventura non facile insieme al suo amico Enzo Scarcia, attuando una difesa dei principi di sostenibilità. Non solo perché hanno una certificazione, ma per la forza dell’impegno, per produrre, difendere e informare sui prodotti e sul rilancio delle antiche semenze.

 

 

 Per ispirare in ognuno di noi la voglia di Pasta e Pani esenti da pesticidi e da mutazioni genetiche, oggi attuate con i raggi gamma al cobalto, sorte che tocca a tutte le farine della grande distribuzione, così salvando, dalla scomparsa sul territorio Salentino, l’antico grano “Senatore Cappelli”.
 

Questo grano ha proprietà a basso tenore di glutine, e un’alta percentuale di proteine e amminoacidi, rispetto al grano moderno, oltre a contenere la parte nobile del chicco, che non c‘è nella pasta dei supermercati, perché più conveniente venderlo all’industria cosmetica. Fare questo, per Salvatore ed Enzo, vuol dire confrontarsi con i giochi al ribasso praticati dal mercato. Un quintale di “Grano Cappelli”, per iniziare un’attività di semina, è costoso: 150 euro al quintale, a fronte del normale prezzo di vendita stagionale della produzione, che è di 40 euro per quintale, cifra destinata ad abbassarsi ulteriormente, con l’arrivo a Bari di navi provenienti da paesi esteri, che a loro volta vendono a 20 euro. Battaglia impari, così hanno deciso di diventare produttori di paste e derivati delle farine. Salvatore e Enzo affittano i loro campi al Comune, che li aveva abbandonati, non sono proprietari, investono su macchinari e attrezzature costosissime: una trebbiatrice nuova costa 400 mila euro, la loro ha 40 anni e funziona bene. Enzo gestisce la macina, il Mulino, dove sta per realizzare il ripristino di un Mulino a pietra, in modo da migliorare ulteriormente i loro prodotti. Enzo pianta orzo con semenze originarie del Salento, rigorosamente bio; inoltre macina farro, grano, orzo decorticato e perlato, caffè per le aziende locali. Si occupa anche di ricercare, per produrle, farine a noi sconosciute: la pianta Moringa oleifera, originaria dell’India, potente antiossidante con 97 proprietà nutritive, vitamina C, potassio, regolatrice dei livelli ormonali. Se ne ottengono farina, tisane, olii essenziali, insalate a foglia. Salvatore produce 148 quintali di Farina di “Grano Cappelli” e 78 di farro.

 

Per evitare di dimenticare, l’unica via è la trasformazione legata all’informazione, in maniera tale da stimolare il desiderio di un ritorno alle cose buone e sane, riscoprendo quei piccoli gesti semplici ma genuini, come fare il pane in casa. Questi terreni, davvero bistrattati da secoli e spesso lasciati a se stessi da autorità e governi, sono purtroppo uno dei problemi del Sud.

 

Qui l’agricoltura tradizionale è stata imbrigliata e quasi cancellata, per favorire le monocolture su ampia scala, ulivi, viti, fino agli anni ’70, tabacco. Per fortuna il disprezzo per la terra, dura da lavorare e poco redditizia, è un’attitudine in via di cambiamento, grazie a tanta gioventù che ha voglia di dare il proprio contributo alla biodiversità. Non mancano, tuttavia, le difficoltà, come la grande fatica per consorziarsi, per creare cooperative, per lavorare in modo associativo, con lo scopo di difendere le eccellenze, sebbene al Sud questa cultura fatichi a radicare. Quella stessa cultura che ha reso l’Emilia Romagna potente, ricca e riconosciuta a livello internazionale. Per cercare di sfondare il muro di questa diffidenza verso l’idea di consorzio, Salvatore ha aperto un negoziato nel centro storico di Specchia, dando forma al progetto “Quattro Solchi”, bio a km zero, incentrato sulla salvaguardia della biodiversità: il progetto punta a favorire le aziende del territorio e si impegna per la riduzione dei livelli di inquinamento dei terreni. Ai “Quattro Solchi” si trovano, oltre ai prodotti derivati dello loro farine, legumi secchi, ceci, fave, fagioli, lenticchie, passate bio, marmellate varie, tra le quali quella di fico d’India, vini bio con l’involucro del tappo a cera, come un tempo, sottolio, miele, tonno, sapone, profumi, creme derivate dall’olio d’oliva, succhi di mele, belle ceste realizzate con rami di ulivo. Parlando con Salvatore mentre andiamo a trovare sua madre Sara, gli chiedo se le manifestazioni della Coldiretti, pensando alla manifestazione nazionale e regionale di quest’estate, potranno essere di aiuto: “Ma cosa vuoi che facciano contro le multinazionali!” mi dice.Vado a trovare Sara, signora giovanile, incontrata nel campo durante la mietitura: lavorava per offrire bellissime fascine di grano alla festosa giornata del raccolto. In quell’occasione mi raccontava dei tempi passati, prima della meccanizzazione,

 

quando il Salento era terra abbandonata, era terra di dolore, e non certo paradiso turistico come oggi, da dove si emigrava verso le miniere
ed i cantieri del nord Europa. Terra dura rossa argillosa e piena
di pietre, dove coltivare voleva dire piegare la schiena.
 

 

Nelle tante mitologie il grano era benedizione, eucarestia, e Sara mi racconta, facendo scorrere i mesi, cosa significava lavorare il grano e le varie fasi della sua produzione.Agosto: era il momento dei solchi spessi dell’aratro, dopo che il campo era stato bruciato per eliminare la paglia rimanente, dove poi si raccoglieva il frutto delle spighe disperse e si otteneva il grano arso, oggi pregiatissimo, allora parte del ciclo della sopravvivenza.Ottobre: si arava nuovamente, solchi leggeri, e si passava con il piccolo sacco di sementi, sminuzzandoli con cura, l’oro Giallo; poi si passava con la traia, livella di legno grosso, tirato da uomini e donne.Dopo la Candelora, perciò a Febbraio, le donne andavano a sarchiare, per eliminare le piante infestanti, raccogliendo in quel momento le foglie delle giovani piantine di papavero, con le quali si preparava la paparina, piatto ancora in voga, come i corsi per imparare a riconoscere le “misticanze selvatiche”, fatti dai ragazzi delle varie associazioni esistenti sul territorio.Aprile: era il momento della macinatura, quando si estirpava ancora l’erba cattiva, tra cui grosse margherite gialle e bianche, i soliti papaveri, stavolta alti alti, e la calendula, arancione; una volta raccolte, venivano date alle mucche, felici mucche di altri tempi. Ma Salvatore, da allevatore,mantiene anche queste tradizioni di buon cibo agli animali, carrubo ai cavalli, fieno di grano bio, margherite e papaveri. 

 

 

 Dopo la festa di Sant’Antonio, fine Giugno – inizio Luglio: si raccoglieva
il grano, falce e falcetti entravano nel campo e, con il raccolto,
si facevano mazzi di grano medio – piccoli, che venivano
messi insieme con un metodo particolare, per evitare
che si bagnassero le fascine con le piogge.

 

 

Essi venivano legati insieme con le spighe, se ne accatastavano 150, in retro-verso, una di qua – una di là, fino a formare una piccola piramide. Si chiamava il “manucchio”, e il lavoro veniva definito “manucchiare”. Quei giorni avevano anche un sapore di dolore, perché, nella raccolta, le spighe tagliavano e insanguinavano le gambe, ferendo le donne, che però non osavano portare pantaloni, pur di non essere additate come masculari, “e parevano tutte il povero Cristo”, dice Sara. Solo sua sorella Lucia usava il pantalone, lavorava come due uomini, era alta come te, mi dice Sara, ma più robusta.
Agosto: è passato un mese, il grano è asciutto, adesso è il turno dei carri tirati dai cavalli, caricavano le Manucchiare, si dirigevano verso l’aia, o aiera in dialetto; lì incontravano le mucche che tiravano la pizzara, una grande pietra possibilmente con fossili marini che risultavano più efficaci, e il grano veniva strusciato, così da separare la puglia dal chicco, insieme al forcone di legno. Questa paglia rimanente andava alle galline, non si buttava nulla, tutto era parte del vivere, degli uni, degli altri.
Tutto questo grande e lungo lavoro veniva salutato e festeggiato, a fine mattinata, dopo aver riempito due sacchi di grano a testa, con un grande piatto di coccio, con sagna al pomodoro. Le saghe sono un ricciolo di pasta di grano, ottenute dalla farina prodotta macinando in casa, e questa volta col maglio di legno, quei chicchi caduti a terra quando venivano raccolte le manucchie. Anche il momento di festa è frutto di una preparazione laboriosa.

 

Per avere pane buono c’è sempre stata la fatica degli uomini
e delle donne, sangue, sudore, schiene piegate.

  

Oggi e ieri non sono così distanti, le difficoltà non sono ovviamente le stesse, ma continuano ad esistere; oggi, per i Cavalieri della Sostenibilità che decidono di salvaguardare la purezza dell’oro giallo, si chiamano solitudine, affanno, ostacoli amministrativi… Fatica era, fatica rimane, ma le utopie hanno ancora le gambe, e questo è un bel pensare, un bel fare.

 

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LE RINASCITE DELLA FENICE di Gianluca Anglana – Numero 6 – Ottobre 2016

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«Non c’è nulla di più fragile dell’equilibrio dei bei luoghi».

Nelle Memorie di Adriano, Marguerite Yourcenar lancia un monito al mondo, perché abbia a cuore l’armonia che sovente s’intreccia tra il paesaggio e le opere dell’uomo, un rapporto talvolta indissolubile, come di radici che impugnano saldamente le zolle di terra.
Eppure, altrettanto spesso, l’essere umano dimentica, deturpa, offende la bellezza: l’insipienza è uno sfregio all’arte, la noncuranza sa stendere per secoli il suo velo di nebbia su veri e propri capolavori.
Oblio e violenza. Questa è stata, a lungo, la condanna inflitta ad uno tra i più significativi complessi architettonici di Puglia.
Nell’agro di Squinzano, a pochi chilometri dalla costa adriatica salentina, sorge Santa Maria di Cerrate. Si tratta di un’abbazia di notevole interesse storico-artistico, perfettamente coniugata al fascino delle campagne leccesi. Oggi, Cerrate è avvolta da un manto di vegetazione tipica mediterranea: querce, pini marittimi e cipressi, così come gli ulivi monumentali, sono una legione di guardiani silenziosi, un esercito di guerrieri incaricato di difendere un tesoro.

La leggenda narra che Tancredi d’Altavilla, durante una battuta di caccia, sia rimasto impietrito davanti all’immagine della Vergine, comparsa tra le corna di una cerva: nel luogo del miracolo, il nobile normanno avrebbe fatto elevare un tempio in onore di Maria. Le tradizioni esigono dunque che il nome di Cerrate derivi da Cervate e prima ancora, appunto, da cerva.

Fu allora che la fulgida traiettoria dell’esistenza dell’Abbazia parve avere una definitiva conclusione. 
E invece no. La fenice si ricompose tra le ceneri e i tizzoni in cui il fuoco delle razzie ne avevano disarticolato il corpo.
Nel 1531 tutte le proprietà e le ricchezze, che appartennero ai sacerdoti bizantini, passarono all’Ospedale degli Incurabili di Napoli.

Il buio della memoria cessò solo nella seconda metà del Novecento con l’intervento della Provincia di Lecce ed un primo ciclo di restauri. Oggi Santa Maria è ancora una volta risorta dalle ceneri del disdoro: dal 2012 è affidata alle cure del FAI.

Il modulo lessicale in cui si articola il monumento nel suo complesso potrebbe per certi versi rammentare gli enclos parroissiaux bretoni: attorno al nucleo centrale del luogo di culto vero e proprio si dipana una serie di edifici ancillari. A differenza però dei recinti parrocchiali di Bretagna, i manufatti “laici” di Cerrate (ovvero la Casa del Massaro, il pozzetto cinquecentesco, il frantoio ipogeo o gli alloggi per i mezzadri) non si qualificano come coevi alla Chiesa, ma le si sono sedimentati attorno lungo l’arco dei secoli.
L’Abbazia, romanica, è di eccezionale fattura: l’esterno, con facciata a capanna tripartito, è sobrio ed elegante. Il portale, ad arco, è impreziosito da un’edicola sorretta da colonne, a loro volta sormontate da suini. L’arcata narra il ciclo della Natività di Cristo e ospita vari personaggi (delizioso il gruppo dei tre Magi, vestiti alla maniera di pope ortodosso; così teneramente convincente Santa Elisabetta, nell’atto di poggiare il capo sulla spalla di Maria, in un gesto di sororale intimità).
Il portico offre al visitatore l’occasione di indugiare su elementi figurativi splendidamente eseguiti e commoventi. Tra i capitelli della loggia spuntano cespugli di pietra, racconti fantastici e bestiari dal sapore squisitamente medievale, si affollano sirene, arpie, grifi, draghi e centauri: particolarmente pregevole è la raffigurazione del monaco in lotta con dei ramarri, a loro volta sopraffatti da aquile.
L’interno dell’Abbazia, a tre navate, corre fino all’altare centrale sotto un ciborio duecentesco e contiene un prezioso ciclo di affreschi due e trecenteschi raffiguranti quegli stessi santi guerrieri (San Giorgio e San Demetrio), che guidarono le potenze crociate contro i Turchi e consentirono l’espugnazione di Antiochia: la propaganda normanna aveva forse preteso un dazio, piegando a sé il talento degli artisti di scuola bizantina.

Durante recenti lavori di restauro, sul fianco della navata destra e nella cornice di un altare barocco, è emerso un affresco, eseguito da maestranze resesi permeabili alla lezione giottesca. Si tratta della rappresentazione di uno spazio architettonico in prospettiva. Ciò che colpisce sono l’abiura del registro stilistico bizantino e il chiaro rimando a nuovi linguaggi figurativi. Lì accanto, sulla sinistra, un altro dipinto di matrice occidentale fissa il momento esatto in cui un santo, avvolto in un piviale scuro e assisi su un trono così maestoso da sembrare esso stesso una cappella, indica all’osservatore, nei testi sacri, l’unica via per la salvezza.
Cerrate è un vaso di Pandora al contrario, un gorgo delle ere, in cui sono stati tumultuosamente risucchiati miti, battaglie, leggende, racconti, potere, violenze, vite umane, Oriente, Occidente, il male, il bene.
Cerrate sembra dare voce al lento scorrere del tempo, sembra dare un senso alle stagioni, massimamente all’euforia dell’estate o alle incipienti vanità della primavera. Qui tutto è in equilibrio: il tempo e lo spazio, le opere dell’uomo e quelle della natura, la flora, la fauna. Qui si assapora la storia. Qui si degustano i frutti dell’arte, nel turchese cielo salentino e nel silenzio metafisico, rotto solo dal frinire delle cicale.

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1 Sulla vita di Boemondo cfr. UTET, 1967, p. 222. 2 Pietro Serio, Appunti per una storia di Campi Salentina, 1963, pp 53-54. 3 Gli storici evidenziano che quello di “basiliano” è un vocabolo solo convenzionale, non essendo di fatto mai esistito un ordine monacale con questo nome. 4 Lara Leovino, Bell’Italia n. 360, Ed. Aprile 2016. 5 Teodoro Pellegrino, Santa Maria a Cerrate, Capone Editore (2004), p. 21. 6 Teodoro Pellegrino, Santa Maria a Cerrate, Capone Editore (2004), p. 21. Notevole importanza per gli scambi commerciali della zona ebbe la fiera che, per cinque giorni (dal 20 al 25 Aprile di ogni anno), animava gli atrii dell’Abbazia. Preciso che l’istituzione ufficiale della fiera avvenne per volontà di Giovanni Antonio Del Balzo Orsini, con decreto del 20 Dicembre 1452. 7Teodoro Pellegrino, Santa Maria a Cerrate, Capone Editore (2004), p. 26-27: è appurato che lo scrittorio di Cerrate avesse rapporti con quello celeberrimo di Casole, nei pressi di Otranto.

LE RINASCITE DELLA FENICE

 

La storia obietta che la paternità del sito sia da ascrivere ad un altro membro della casata, ovvero a Boemondo d’Altavilla1, padrone di feudi tra Oria e Otranto2. L’edificazione del complesso abbaziale fu dunque decretata nel XII secolo con l’intento di ospitare una comunità di monaci basiliani3, provenienti dall’Oriente per sfuggire alle persecuzioni iconoclaste4. Questa seconda teoria, giudicata più attendibile anche se meno accattivante della prima, ipotizza che il nome di Cerrate discenda piuttosto dalla nutrita popolazione di cerri (alberi simili alle querce) presenti nella zona.
Boemondo fu figlio di Roberto il Guiscardo, duca di Puglia e di Calabria. Era quindi un normanno, entrato più volte, invero quasi mai pacificamente, in contatto con la superpotenza greca di Bisanzio. Di lui traccia un profilo Anna Comnena, figlia dell’imperatore bizantino,

nella sua Alessiade: «Ora [Boemondo] era uno, per dirla in breve, di cui non s’era visto prima uguale nella terra dei Romani, fosse barbaro o Greco (perché egli, agli occhi dello spettatore, era una meraviglia, e la sua reputazione era terrorizzante). (…) Era così fatto di intelligenza e corporeità che coraggio e passione innalzavano le loro creste nel suo intimo ed entrambi lo rendevano incline alla guerra. Il suo ingegno era multiforme, scaltro e capace di trovare una via di fuga in ogni emergenza».

Anna ci consegna un ritratto assai lusinghiero di Boemondo: uomo bellicoso, di bell’aspetto e dalla fervida intelligenza, egli era un condottiero valoroso e tenace, sapeva ben destreggiarsi nelle arti militari. Si distinse in particolare nell’assedio di Antiochia, che strappò ai Turchi Selgiuchidi nel 1098 e dove fondò un regno destinato a durare, di sovrano in sovrano, ben 190 anni. Egli stesso assunse il titolo di Principe della città siriana e diede vita al ramo antiocheno degli Altavilla. La gloria di questo leggendario clan normanno avvampò con inusitata rapidità, mentre il mito di quella battaglia assunse presto le sembianze della propaganda autocelebrativa. In tutta Europa, deflagrò la leggenda che gli eserciti cristiani, nella loro crociata contro gli infedeli, fossero stati affiancati e sostenuti persino da tre santi militari: San Giorgio, San Demetrio e San Maurizio.
La fama di Boemondo, come abile stratega e principe sagace, brillò, si allargò presto, da Oriente a Occidente, come incendio nella foresta.
Fu probabilmente il suo acume a indurlo a fiutare il prestigio e le potenzialità di arricchimento che sarebbero potute piovere sulle sue terre italiane dalla concessione di un rifugio sicuro ai transfughi.
Costoro abitarono stabilmente a Cerrate, in prossimità della Via Traiana Calabra che collegava Brindisi con Lecce ed Otranto, dalla metà del XII secolo, epoca in cui le fonti testimoniano della vivace attività di una biblioteca e di uno scriptorium. I loro alloggi erano disposti all’interno della casa monacale, che tuttora si erge nella sua massiccia austerità.
La convivenza dei Basiliani era disciplinata da una precisa gerarchia, in cima alla quale era l’Igumeno «che osservava e faceva osservare rigorosamente le regole della comunità e puniva con penitenze, a volte gravi e severe, le infrazioni ad esse»5. Il superiore era assistito nelle sue mansioni da altre figure sacerdotali, quali gli Ieromonaci o ancora l’Ebdomadario, colui cui era demandata, con turni a rotazione settimanale, la celebrazione della liturgia sacra.
Generazioni di calògeri diedero impulso e slancio all’economia6.
Oltre che alla contemplazione e alla preghiera, i monaci si dedicavano anche alla trascrizione di opere della letteratura cristiana, ma soprattutto allo studio dei classici greci7. Ai Basiliani quindi si deve la conservazione e la diffusione, in gran parte della penisola salentina, della più nobile cultura greca. Essi stessi divennero cultura greca, al punto che, quando decisero di darsi ad un nuovo esilio perché prostrati dalle continue scorrerie saracene, la loro Schola greca perse di linfa vitale, appassì e si estinse.

L’Abbazia parve riaccendersi di rinnovato splendore e prosperò lungamente, fino al 1711, quando cadde in declino a causa di una violentissima incursione da parte dei pirati turchi. Cerrate, con le campagne circostanti, venne, di nuovo, abbandonata.
In seguito essa divenne una masseria: i salentini ricordano tuttora che la chiesa fu degradata a pollaio e il suo sagrato ad aia. Alcuni capitelli furono strappati alle loro colonne, il pavimento sfondato, alcuni affreschi irreparabilmente danneggiati. I giorni dell’abbandono divennero mesi, anni, secoli.

Quegli stessi artisti cui dobbiamo un’altra meraviglia, oggi conservata nel piccolo museo attiguo alla chiesa: la Dormitio Virginis. Maria, agonizzante, è vegliata da una schiera di Angeli e di Santi, mentre Cristo si mostra all’interno di una mandorla ed attira a sé l’anima della genitrice in un turbinoso vortice di colori e creature celesti. La Madre ha generato il Figlio nella vita terrena, il Figlio accoglie a sé la Madre nella vita eterna.

Qui ci si lascia ammaliare dalle suggestioni di un Medioevo che ritorna come magma dolce dalle profondità dei secoli; ci si attarda su ogni dettaglio, su ogni singolo animale (reale o immaginario) sapientemente evocato sui capitelli di ciascuna delle colonnine del portico, sul fantasma di scomparse comunità di monaci, sul tramestio dei loro passi sul selciato o sul suono ormai perduto dei loro canti. Qui riecheggia ancora il nome della rosa, che, nel susseguirsi d’iscrizioni in greco, arabo e latino, tra le navate abbaziali, riemerge dal passato.

 

MUSICA DI GUARIGIONE di Ruggiero Inchingolo – Numero 6 – Ottobre 2016

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Nel 1984 frequentavo l’Università di Bologna (DAMS) ed ero allievo di Roberto Leydi (considerato, con Diego Carpitella, il fondatore dell’Etnomusicologia moderna in Italia).

Questi, accortosi della mia passione per il violino della tradizione popolare, in quanto già da tempo studiavo questo strumento, mi esorta a conoscere le musiche eseguite dal violinista Luigi Stifani (1914-2000) per scrivere una tesi di laurea su di lui. Perché Stifani? Perché è stato l’ultimo e più importante musicista terapeuta che più d’ogni altro ci ha permesso di capire i rituali legati al tarantismo salentino (uno dei fenomeni più rilevanti della demo-antropologia italiana).

Di professione barbiere, localmente conosciuto come Maestro Gigi, Stifani ha svolto un’intensa attività musicale non soltanto nell’ambito dei rituali di guarigione dei tarantati (coloro che, secondo la tradizione, si consideravano morsi dal ragno e si liberavano dal suo veleno attraverso il ballo),

Il violinista-barbiere permise all’etnologo di conoscere quel mondo difficilmente raggiungibile da un intellettuale estraneo, diventando il personaggio chiave dell’opera citata “La terra del rimorso”. Le teorie del maestro Stifani sul tarantismo danno un contributo indispensabile all’indagine di De Martino, svelando pertanto il volto di una cultura popolare millenaria. Finalmente, nel 1989, discuto con lo stesso Roberto Leydi, la mia tesi di laurea dal titolo Biografia di un suonatore popolare: Luigi Stifani di Nardò. In questo lavoro ho analizzato i suoi manoscritti e il modo in cui vengono suonati gli strumenti musicali. Inoltre, ho trascritto e analizzato le musiche eseguite durante i rituali terapeutici di tarantismo. In seguito, dalle trascrizioni, ho ricavato le strutture melodiche dei brani. Durante gli anni della ricerca e anche dopo la laurea, attraverso i successivi incontri con il maestro Stifani, ho imparato i moduli ritmico-melodici della pizzica cosiddetta tarantata, oltre al modo di suonarla. 
Dal ‘93 in poi, inizia la mia esperienza sul campo a stretto contatto con importanti esecutori depositari della tradizione. Apprendo le modalità esecutive del tamburello, dell’organetto e della chitarra, gli stessi strumenti che venivano usati per la terapia. Nel 1995 come violinista – guida del gruppo salentino Officina Zoè ho partecipato a prestigiosi Festival nazionali ed esteri: le pizziche di Stifani, dopo essere state da me trascritte, vengono rieseguite oltre i confini regionali e nazionali. Il ritmo iterato e i suoni più acuti del violino vanno dritto al cuore e riescono a sedurre, a trainare i tamburelli fino al parossismo. Nella melodia del mio violino si scorge lo stile esecutivo più rappresentativo di quest’ultimo periodo di riproposta della pizzica salentina, a cui tanti giovani violinisti si sono ispirati.

 

Il libro, dopo un decennio fortunato, è stato ristampato dalla stessa casa editrice, con un ampliamento dell’introduzione scritta da Eugenio Imbriani (docente di Antropologia culturale dell’Università di Lecce) e con una nuova postfazione curata dall’etnomusicologo e storico Salvatore Villani. Nel 2007 le registrazioni delle musiche suonate da Stifani e il suo gruppo vengono raccolte in un CD dal titolo: “Le pizziche tarantate di Luigi Stifani” (Il Giardino dei Suoni). Nel 2009 esce il film documentario “Latrodectus, che morde di nascosto” di J.Bassét e I.Gurrado (Les Films du Lierre). Il film si impernia sui ricordi di casi di tarantismo salentino raccontati da Giovanna, figlia del maestro Stifani e mostra interessanti interpretazioni rilasciate dagli esperti più qualificati di vari ambiti disciplinari che si sono interessati al fenomeno del tarantismo1. Sempre nel 2007, Sergio Torsello, direttore artistico del Festival “La notte della Taranta” mi invita come ospite al concertone finale del Festival (con il maestro concertatore Mauro Pagani) per rappresentare Luigi Stifani con una delle pizziche tarantate più rappresentative del suo repertorio, la pizzica indiavolata. Seguiranno, negli anni successivi, altri concerti realizzati nell’ambito del Festival itinerante della popolare kermesse. Dopo la morte di Luigi Stifani ho continuato a frequentare Giovanna, figlia del maestro e testimone del ricco patrimonio di conoscenze tramandate dal padre. Con lei e con l’aiuto volontario di altri collaboratori, organizziamo un grande evento in suo ricordo, ormai giunto alla XVI edizione, che si svolge in due giorni a S. Maria al Bagno (LE). Si tratta di un Memoriale seguito da un Festival Concorso dedicato al maestro Stifani.

 

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1 Lo storico della scienza Gino Dimitri; il decano dell’analisi istituzionale nonché psicosociologo George Lapassade dell’Università di Parigi VIII; lo scrivente etnomusicologo, autore delle musiche del film (che dal maestro Stifani ha ereditato il modo di suonare) in cui illustro, in breve, la funzione dei due strumenti fondamentali nella cura domiciliare del tarantismo, il violino e il tamburello; l’aracnologo Roberto Pepe.

 

MUSICA DI GUARIGIONE

 

ma anche come musicista per il ballo e l’intrattenimento. Oltre che violinista, è stato anche un abile suonatore di vari altri strumenti. Per il mio lavoro di ricerca, trattandosi di una tesi sperimentale, era indispensabile incontrarlo. Arrivai nella sua bottega a Nardò (Le) nel 1985 e, sin dai primi incontri, rimasi affascinato dai suoi ricordi che illustravano gli episodi più importanti di tarantismo da lui curati dal 1928 al 1972. 
La curiosità verso questo mondo ai confini tra la realtà e il mistero aumentava sempre di più al punto che non vedevo l’ora di fissare l’incontro successivo per conoscere nuovi intriganti racconti.

Uno dei dettagli che più mi colpì, riguardava il concetto del termine pizzico del violino che, citando le sue parole, «iccita la parte dell’ammalato. Sicché se non gli va il suono, l’ammalato dice ‘non mi piace’».

Col passar degli anni avrei fatto le mie valutazioni sull’espressione “pizzico” (cfr. Inchingolo Ruggiero, Il pizzico prodigioso del violino di Stifani, in Melissi, n. 10-11, Nardò, Besa, 2005) che, solo in misura minima, si riferirebbe all’effetto provocato dallo sfregamento dell’arco sulle corde. Il più delle volte, invece, il termine indicava il modo di suonare rapido e molto ritmato.
Il maestro Gigi con la sua orchestrina (tra cui ricordiamo l’abile suonatrice di tamburello, Salvatora Marzo), oltre a curare molte tarantate con il pizzico del suo violino, annotava sulla sua rubrica tutti i casi di tarantismo che gli si presentavano.

Infine, grazie alla sua abilità di terapeuta, riusciva a somministrare al paziente le tarantelle neretine, chiamate anche pizziche tarantate (se considerate dal punto di vista coreutico), o, a volte, anche altre musiche, più idonee al caso. Questo tipo di tarantelle suonate durante i rituali terapeutici si differenziavano da quelle suonate nella pizzica pizzica (ballo di coppia che fa parte della famiglia delle danze meridionali denominate tarantelle) proprio per gli strumenti musicali adoperati, tra cui emergevano il violino e il tamburello e per le diverse modalità esecutive dettate dal contesto terapeutico in atto. Il violino (per via del timbro più penetrante e incisivo) assumeva il ruolo di strumento melodico principale che, insieme al ritmo del tamburello, determinava il buon esito della terapia. Gli altri due strumenti usati nelle cure domiciliari di Stifani (e che completavano l’organico strumentale) erano l’organetto e la chitarra.

 

Il tamburello smuove il corpo e trascina al movimento, il violino comunica alla mente poiché, secondo la tradizione, è proprio nella melodia che la tarantata si identifica e si concilia con la taranta che la possiede.

 

 

Il suonatore a partire da un limitato numero di melodie “generatrici”, riesce a inventare (improvvisare) continue varianti. Questo procedimento è comune nelle musiche di tradizione orale dove l’improvvisazione diventa un tratto distintivo. La bravura di Stifani consisteva proprio nella capacità di variare le melodie di volta in volta, a seconda dei casi che gli si presentavano, proprio per non creare quella sensazione di noia, determinata invece, dalla pura e identica ripetizione di una melodia. E’ doveroso sottolineare che

 

 

Le stesse musiche associate ad altri contesti culturali perderebbero la loro efficacia regolatrice e di controllo. E’ ormai noto che la bottega di Luigi Stifani, alla fine degli anni ’50, è stata meta di tanti ricercatori di varie discipline, tra questi l’etnologo Ernesto De Martino che, nel 1959, durante la sua ricerca etnografica – condotta con una équipe multidisciplinare per studiare il tarantismo salentino -, si fece accompagnare dal maestro Stifani. Le sue ricerche confluiranno in seguito nel suo celebre saggio “La terra del rimorso”, in cui arrivò, in sintesi, a scontrarsi con l’interpretazione medica (casi di aracnidismo o disordini della sfera psichica) a favore, invece, di una interpretazione storico-culturale e religiosa del fenomeno.

 

 

Questo intenso sodalizio con il gruppo si concluderà nel 2000, con la partecipazione come attore e musicista al film Sangue vivo di Edoardo Winspeare. Nel 2003, il frutto di una esperienza di ricerca quasi ventennale, confluiranno nella mia prima pubblicazione dal titolo: “Luigi Stifani e la pizzica tarantata. Studio sugli strumenti musicali, sulla musica “numerica” e sulle musiche eseguite dal gruppo di Luigi Stifani durante le cure rituali del morso della mitica taranta” (Besa Editrice). Sergio Torsello (1965-2015), giornalista e ricercatore, autore di numerosi articoli, saggi e volumi sul tarantismo, così si espresse in una sua recensione sul quotidiano di Lecce, del 18 ottobre 2003:

 

 

 

Prima di dare inizio alla terapia,secondo Stifani, bisognava effettuare una diagnosi sul sofferente, per verificare che effettivamente si trattasse di tarantismo. Subito dopo, Stifani osservava il paziente e mediante una esplorazione musicale, cercava di aprire un canale di comunicazione, di provocare attivazioni senso-motorie, basandosi anche sull’atteggiamento e l’indole del paziente.

La musica eseguita dai quattro strumenti aveva la funzione di regolare e controllare il movimento del corpo e le emozioni degli individui all’interno del rito, oltre che di ordinare ritualmente le crisi dei tarantati in cicli coreutici regolari

I due strumenti producono l’iterazione ossessiva. Una è quella determinata dall’ostinato ritmico prodotto dai sonagli e scandito dalla botta sulla pelle del tamburello. L’altra ,invece, è quella che viene prodotta dal violino.

gli effetti terapeutici delle musiche eseguite durante le cure domiciliari sono comprensibili solo all’interno di questa formazione o credenza simbolico-religiosa, socialmente accettata e condivisa, che ha lo scopo di rendere più facile il processo di reintegrazione dell’individuo nella comunità.

Una forma di protezione sociale per uomini e donne che hanno avuto un problema esistenziale, individuale o collettivo, e che proprio attraverso un rituale caratterizzato dal simbolismo della taranta che morde e della musica, della danza, dei colori, si riesce a liberare da questo “morso avvelenato“.

La folla, trascinata e rapita da questi suoni, si esalta, applaude e allo stesso tempo balla, irretita dal magico ritmo ossessivo della pizzica tarantata.

<< …quello di Inchingolo è un saggio che scava nel duplice solco di una singolare vicenda biografica da un lato e dall’altro nella concreta prassi esecutiva e nel sistema di notazione musicale (la musica”numerica”) elaborati da maestro […]. Inchingolo evidenzia la presenza di rilevanti microvariazioni all’interno degli stessi brani […].Un libro importante per comprendere meglio la singolare personalità di Stifani.>>