VIA MARINA DI REGGIO CALABRIA di Giuseppe Valentino – Numero 11 – Luglio 2018

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VIA MARINA DI REGGIO CALABRIA

 

La bellezza e la suggestione di quel tratto di costa che si affaccia sullo Stretto di Reggio e Messina avrebbe potuto certamente evocare, nel poeta-soldato, l’espressione di apprezzamento che gli viene attribuita. C’è, però, un elemento che va considerato e sul quale non risulta che gli osservatori più attenti della storia di Reggio Calabria di quel periodo si siano interrogati: D’Annunzio non sarebbe mai stato a Reggio dopo la realizzazione del Lungomare. 

 

Eppure, più volte fu invitato e, certamente, lo fece l’On. Giuseppe Valentino considerato l’ideatore di quel chilometro che tanta suggestione riesce ad evocare e che si caratterizza come momento architettonico e panoramico più significativo e struggente della città calabrese.

 

La costruzione del Lungomare, così come oggi lo si può ammirare in luogo 

della struttura preesistente – l’antica Via Terme, di poco più a monte 

della vecchia Via Marina con la quale poi si confondeva,

 

è frutto dell’appassionata intuizione di Valentino che realizza così la straordinaria terrazza lunga un kilometro dalla quale si può ammirare, in tutta la sua sfolgorante bellezza, il panorama dello Stretto di Reggio e Messina: un dono di Dio alle due città che si affacciano su quel tratto di mare perché quella bellezza resti immutabile laddove gli uomini, nel corso dei secoli, si sono “sbizzarriti” per turbare le armonie della natura. E fu questo sforzo teso ad individuare la soluzione che meglio potesse valorizzare quel luogo incantevole che Giuseppe Valentino riesce ad esprimere in maniera mirabile in un libro di memorie scritto venticinque anni dopo il sisma che aveva distrutto la sua città. 

 

Qui le stesse parole di Valentino riescono a rendere in maniera palpabile e suggestiva come la sua elaborazione intelligente abbia consentito la soluzione più funzionale e più coerente con le esigenze di eleganza e grandiosità che dovevano caratterizzare quella realizzazione.

Il problema da affrontare era l’area scoscesa su cui sarebbe dovuta sorgere 

la passeggiata e, quindi, quali soluzioni adottare per attenuare le pendenze 

e nello stesso tempo dare un’idea di ampiezza che conferisse 

grande dignità al lungomare.


Val la pena riproporre testualmente alcune espressioni del libro di Valentino che in maniera semplice e suggestiva nel contempo, riescono a rendere l’idea di come lo sforzo di edificare esaltando al massimo l’opera sotto il profilo estetico venne anche alimentato dalla comparazione con luoghi d’Europa noti per la loro eleganza e bellezza. Scriveva Valentino:
«nelle ansie della ricerca mi parve di ricordare, non so bene, se nei giardini di Montecarlo od altrove, delle aiuole in pendio, (quando il mio cervello si stillava in questi problemi … estetici la città era un groviglio di macerie e la mia casetta di Via Tribunali era immersa nel buio e nello squallore!) ed allora mi balenò la soluzione: “e se dessi a tutta la zona di giardinaggio, che separa le due strade, quel dolce declivio che basti a superare il dislivello?” Eureka! Mi fermai su questa idea che mi parve una trovata, pur continuando nella mia mente a fare un confronto colla Via Marina di San Remo, coll’Ardenza di Livorno con la proménade des Anglais di Nizza, le quali sono tutte piatte, senza dislivelli, e credetti il mio ripiego della pendenza degradante sarebbe stata un’originalità presumibilmente di bello effetto, e di movimentata eleganza, sia per coloro che guardino la strada dalle varie parti della città, sia per coloro ed ancora meglio, che la guardino dalla parte del mare».

Così nacque la Via Marina: il più bel chilometro d’Italia a prescindere 

che lo abbia detto o meno d’Annunzio ovvero un incantato, 

ignoto osservatore di quella meraviglia.


Quando a distanza di anni il degrado si stava impadronendo di quell’angolo di Paradiso, Italo Falcomatà – sindaco che amava la sua città – si adoperò per recuperare questo sito incantevole e – grazie agli strumenti della modernità – riuscì a coprire l’attigua strada ferrata con la realizzazione di un tunnel che ha consentito l’ampliamento della passeggiata, incorniciata dalla splendida ringhiera disegnata da Camillo Autore che di Valentino era amico ed estimatore. 

 

Questo merito di Falcomatà è stato riconosciuto e la parte della via Marina posta a ridosso della spiaggia porta il suo nome. A Valentino che ideò il più bel chilometro d’Italia, lo realizzo tra mille difficoltà, rischiando talvolta il patrimonio avito, è dedicata soltanto una colonna romana, all’inizio del Lungomare, dove una piccola targa ne ricorda l’opera. Ma nella considerazione dei Reggini, nonostante il tempo trascorso dagli eventi che determinarono la costruzione di questa opera straordinaria, Egli resta il “Sindaco della Ricostruzione”.

La stampa ne parla ogni qualvolta v’è motivo di ricordare questi anni intensi 

ed appassionati della ricostruzione di Reggio,


nelle Università gli studenti hanno scritto tesi di laurea sulla sua opera, i paragoni si succedono fatalmente nel corso degli anni rispetto ad altri Amministratori che hanno brillato… per non aver fatto nulla in una città che, ancor oggi, ha bisogno di molto. 

 

Questo ricordo grato, che sopravvive al tempo che passa, è motivo di orgoglio e gratificazione per coloro che oggi portano il suo nome e sanno che l’impegno e l’amore per Reggio è l’irrinunciabile patrimonio morale che Egli ha lasciato..

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Così Gabriele D’Annunzio avrebbe definito la Via Marina di Reggio Calabria.

 

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UN MERIDIONE MARITTIMO? di Ferdinando Sanfelice di Monteforte – Numero 9 – Dicembre 2017

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UN MERIDIONE MARITTIMO?

 

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convinte che la loro sopravvivenza futura, nonché la speranza di mantenere il livello di benessere finora goduto dalle loro popolazioni, dipendano in parte rilevante sia dallo sfruttamento delle risorse marine, sia da un maggiore coinvolgimento nelle attività del commercio marittimo. 

La maggior parte dei governi, infatti, è giunta alla preoccupante conclusione che quanto è ricavabile dalla terra o dal sottosuolo non basta più a produrre reddito per il proprio Paese, e per questo si rivolgono al mare, come fonte di future ricchezze. Sintomatica è, a tal proposito, la dichiarazione, alcuni anni fa, da parte di un Presidente della Repubblica francese, che si meravigliava del “troppo lungo oblio della Francia sulla sua vocazione marittima”1 e aggiungeva che il Paese “doveva avere una volontà politica permanente per andare verso l’oceano, per proiettarvi un’ambizione”2

Questa corsa al mare, divenuta di recente un approccio comune 
a molti governi, inclusa la Cina, spiega perché si sia verificata un’intensificazione dei contenziosi marittimi e un riarmo navale generalizzato, che ha coinvolto, tra l’altro anche 

molte Nazioni rivierasche del Mediterraneo.

La situazione nel nostro bacino è oggettivamente difficile e, anche se non ha ancora dato luogo a conflitti aperti, non sono mancati momenti di tensione tra i vari Paesi. Basterà citare lo scontro tra un convoglio di navi turche, la Freedom Flotilla, con le forze speciali israeliane, il 31 maggio 2010 e, ancor prima, la dichiarazione del Parlamento turco, che nel 1995 approvò un documento che considerava casus belli ogni espansione delle acque territoriali greche, al di là delle 6 miglia marine.

Un tale crescente livello di contenzioso, frutto di questa maggiore attenzione alle ricchezze del mare comporta, per il nostro Paese, come e più del passato, la necessità di disporre di un “Potere Marittimo” per contenere tale conflittualità e far valere i propri diritti. Ma cosa vuol dire questo concetto? Per chi non lo ricordasse, già nel 1814 un illustre napoletano, Giulio Rocco, ne definì l’essenza, affermando che esso era “nell’ordine politico, una forza somma risultante da quella di una ben ordinata Marina Militare e di una numerosa Marina di Commercio”3.Vista con gli occhi di oggi, tale affermazione del nostro insigne conterraneo non è altro che un’applicazione all’ambiente marittimo del paradigma secondo il quale “la ricchezza è in genere necessaria per sostenere la potenza militare, così come la potenza militare è di solito necessaria per conquistare e proteggere la ricchezza”, ma possedere un “Potere Marittimo” richiede precisi requisiti, sia in campo militare, sia in quello commerciale, che non sono sempre disponibili.4

Il Meridione è la parte della penisola italiana più vicina sia alle linee 
del grande commercio marittimo internazionale, sia ai bacini alturieri 
del Mediterraneo, dove le ricchezze dei fondali marini 
sono più numerose, e pretese da molti.


È quindi necessario capire come il Meridione si collochi rispetto ai requisiti di marittimità, e cercare di stabilire quale possibilità esso abbia di sviluppare le proprie attività sul mare, che oggi, ancora più rispetto al passato, è diventato la fonte primaria di benessere per un popolo.

I requisiti che definiscono la marittimità furono analizzati, verso la fine 
del XIX secolo, da uno studioso americano, Alfred Thayer Mahan, 
il quale li chiamò “elementi del potere marittimo”. Sarà quindi 
opportuno esaminare, per ognuno di essi, come si colloca 
il nostro Meridione: 
 
Posizione geografica

 

“se una nazione è situata in modo tale da non essere costretta a difendersi sulla terra né indotta a ricercare un aumento del proprio suolo sulla terra, è per la sua stessa unità d’intenti rivolti al mare, avvantaggiata rispetto a un’altra che abbia le sue frontiere sul continente”5. Se poi questa Nazione è posizionata lungo le principali rotte commerciali, lo studioso americano notava che il suo vantaggio geografico è ancora maggiore. A proposito del Mediterraneo, Mahan aggiungeva che “le circostanze hanno fatto sì che il Mare Mediterraneo abbia giocato nella storia del mondo una parte superiore a quella di qualsiasi altra estensione di mare della stessa dimensione”6. La posizione geografica del Meridione, che, con la Sicilia, taglia il bacino in due parti, potendo controllare i transiti tra queste, è quindi particolarmente favorevole, e notevole potrebbe essere di conseguenza la possibilità di sfruttare la posizione geografica per il proprio sviluppo. Basta, inoltre, uno sguardo alla carta geografica per vedere come, dal punto di vista marittimo, il Meridione si affacci su entrambi i bacini, con la costa adriatico-jonica che guarda verso il Levante, fino al Medio Oriente, e un’altra che guarda verso il Ponente, e quindi aperta ai commerci atlantici. Non vi è un’altra regione o Paese, nel Mediterraneo, che goda di tutti questi vantaggi, dal punto di vista geografico; 

Conformazione fisica.


“La linea di costa di un Paese costituisce una delle sue frontiere e più facile è l’accesso alla regione al di là della frontiera, in questo caso il mare, maggiore sarà la tendenza di un popolo ad avere relazioni col resto del mondo per quella via. Se si potesse immaginare un Paese con una estesa linea di costa, ma interamente priva di porti, questo Paese non avrebbe, di per sé, alcun commercio marittimo, né naviglio, né Marina Militare”7. Qui sorgono alcuni problemi: il Meridione, con la sua limitata disponibilità di porti, alcuni dei quali sono ormai inadeguati a favorire il commercio, spesso per mancanza di manutenzione e di ammodernamento, è quindi fortemente svantaggiato sotto questo aspetto. La situazione dei porti turistici, i “Marina”, è in effetti migliore, anche se non ancora adeguata, per numero e capacità ad accogliere tutto il turismo marittimo che le bellezze dei nostri mari potrebbero attirare. Questo è un punto sul quale è necessario impegnarsi, se si vuole che il Meridione esca dal suo presente stato di sottosviluppo;

 

Estensione del territorio.

 

“Non è tanto il numero totale dei chilometri quadrati della superficie del Paese che deve essere considerato, quanto la lunghezza della sua linea di costa e le caratteristiche dei suoi porti. A questo riguardo occorre dire che, a parità di condizioni geografiche e fisiche, la lunghezza della linea di costa è fonte di potenza o di debolezza, a seconda che la popolazione sia più o meno numerosa”8. In teoria, quindi, con la sua costa estesa e piena di piccoli ridossi, il Meridione avrebbe tutte le caratteristiche per costituire un fattore propulsivo per incrementare la potenza economica e commerciale dell’Italia. In pratica, però, ci troviamo di fronte a un grande problema, triste retaggio della Storia, come vedremo tra breve;

 

Entità della popolazione.

 

“Per quanto riguarda la popolazione, non è solo il totale generale che deve essere computato, ma il numero di gente che prende il mare o, per lo meno, che è immediatamente disponibile per l’imbarco e per la costruzione di materiali navali”9. Purtroppo, nel Meridione, la specie umana nota come “homo maritimus” costituisce una netta minoranza, ancorché di rara qualità. Questo è dovuto sia ai secoli di dominazione straniera, sia alle minacce dal mare, che hanno indotto larghe fasce della nostra popolazione a emigrare verso l’interno del Paese: i bellissimi comuni, arroccati sulle montagne, che vediamo attraversando in auto il Meridione, non sono altro che una risposta a queste situazioni ingestibili, da parte di un popolo spesso lasciato indifeso, fino al XVIII secolo. Un altro grave problema, presentatosi negli ultimi decenni, è la progressiva decadenza della cantieristica meridionale, dato che in questo importante settore produttivo i responsabili delle decisioni economiche hanno a suo tempo deciso di spostare il baricentro della cantieristica al nord dell’Italia. Ciò ha reso il Meridione particolarmente debole sotto questo aspetto, facendogli perdere know-how e posti di lavoro;

 

Carattere nazionale.

 

“Se il potere marittimo è basato su un vasto e pacifico commercio, allora l’attitudine all’occupazione commerciale deve essere la caratteristica peculiare delle Nazioni che sono state, prima o poi, grandi sul mare”10. Ma il Mahan osservava anche che “le classi nobili d’Europa ereditarono dal Medioevo un arrogante disprezzo per il pacifico commercio, un disprezzo che ha esercitato un’influenza modificatrice nel progresso di queste, a seconda del carattere nazionale di questi Paesi”11. Questa osservazione si attaglia, in modo particolare, al Meridione: anche dopo la scomparsa della nobiltà come classe dirigente, le attività commerciali vengono sia sistematicamente oppresse dalla criminalità organizzata, sia considerate di livello inferiore rispetto ad altre professioni, specie quelle del terziario. Nel Meridione il senso di legalità è un patrimonio di meno della metà della popolazione e la criminalità organizzata, che prospera solo in ambienti dove l’illegalità è tollerata, può quindi opprimere le attività produttive e commerciali, impedendo lo sviluppo delle nostre terre e incrementando la disoccupazione;

 

Carattere del governo.

 

“La condotta del governo corrisponde all’esercizio di una volontà intelligente che, a seconda che sia saggia, energica e perseverante oppure no, causa successo o fallimento nella vita di un uomo o nella storia di una Nazione. (A tal proposito) i più grandi e brillanti successi si sono avuti quando vi è stato un intelligente indirizzo da parte di un governo interamente impregnato dello spirito del popolo e consapevole delle sue genuine inclinazioni”12. Quanto i governi regionali del Meridione siano determinati a far sì che il nostro Sud possa godere di uno sviluppo duraturo grazie alle attività marittime, è una domanda che è lecito porsi

 

In effetti, qualcosa è stato fatto, ma con una popolazione in gran parte lontana dal mare, com’è stata per secoli quella del Meridione, molto c’è ancora da fare per invertire la tendenza. 

 

Come si può notare dalle considerazioni finora elencate, esistono notevoli impedimenti a uno sviluppo della marittimità del Meridione, malgrado l’enorme potenziale, essenzialmente geografico, che la favorisce.

 

In buona sostanza, le azioni necessarie, per colmare il divario esistente, rispetto alle potenzialità in campo marittimo del Meridione, 

sono, in ordine di importanza: 

 

 Educare e abituare alla vita di mare una maggiore aliquota 

 della nostra popolazione.

 

Molti encomiabili sforzi sono stati fatti da parte di Associazioni, come la Lega Navale, ma è necessario che tali sforzi vengano non solo incoraggiati, ma anche integrati da un’azione ben più energica da parte delle Pubbliche Amministrazioni. Portare una popolazione verso il mare richiede anche una propaganda capillare per convincere l’opinione pubblica del Meridione che il mare non è più un pericolo, ma un’enorme opportunità;

Migliorare i porti.


Questo è un problema generale dei Paesi del Mediterraneo. Osservava, a tal proposito, l’intellettuale francese, Jacques Attali, che “i porti maggiori di questo mare sono al quarantesimo o al cinquantesimo posto nel mondo, (e) scadono annualmente in tale classifica”13. Un’azione decisa in tal senso, quindi, porterebbe al Meridione un benessere notevole, come mostra lo sviluppo di Gioia Tauro, che è diventato –
rara avis – uno dei porti maggiori del bacino;

 

Incentivare la cantieristica meridionale, la cui decadenza 

ha raggiunto un livello preoccupante.

 

Se è vero che la concorrenza dei Paesi asiatici è forte in questo campo, è altrettanto vero che le costruzioni navali di alta qualità e prestazioni sono un settore strategico, dove ben pochi Paesi possono competere con le qualità di noi meridionali in fatto di ingegno e di progettazione;

Dare un ulteriore impulso alle attività turistiche sul mare.


Chi sia andato sulla Costa Azzurra, da Nizza fino a Tolone, può vedere quanto indietro siamo noi meridionali, in questo campo. Con le coste e isole che abbiamo, potremmo più che raddoppiare le presenze di turisti e appassionati del mare. Servono più porti e più servizi, che generano indotto e occupazione. 

 

A monte di tutto, però, deve esserci una maggiore consapevolezza che non vi è sviluppo senza legalità. Proprio il settore dell’economia marittima è quello che necessita, come e più di altri, di legalità e di trasparenza.

 

Se la maggioranza della nostra popolazione non si convince 

che le attività economiche vanno protette dall’illegalità, dalla 

corruzione e dalla criminalità, nulla potrà consentire 

lo sviluppo di un “meridione Marinaro”.

 

Infatti, non ci vuole molto per perdere questa occasione di sviluppare le attività sul mare e altri Paesi, pur meno dotati del nostro Meridione, sarebbero ben felici di toglierci fette importanti di benessere in questo settore. Il rischio è quello di rassegnarci a vedere gli altri prosperare sul mare e, al massimo, “servire loro il caffè”! 

In definitiva, non ci si può limitare a vedere i futuri perni dell’economia del Meridione né nel turismo in genere né nella manifattura di prodotti di basso valore aggiunto, come si è pensato di fare. Una decisa sterzata verso l’eccellenza in campo marittimo, in tutti i settori di attività, è necessaria se si vuole stimolare uno sviluppo bilanciato e durevole del Meridione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Ferdinando-Sanfelice

1 Discorso del Presidente SARKOZY a Le Havre, 16 luglio 2009.
2 Ibid.
3 G. ROCCO. Riflessioni sul Potere Marittimo. Ed. Lega Navale Italiana, 1911, pag. 1.
4 P. KENNEDY. Ascesa e Declino delle Grandi Potenze. Ed. Garzanti, 1989, pag. 20.
5  A.T.MAHAN. L’influenza del Potere Marittimo sulla Storia. Ed. Ufficio Storico Marina Militare, 1994, pag. 64.
6 Ibid., pag. 68.
7 Ibid., pag. 70.
8 Ibid., pagg. 77-78.
9 Ibid., pag. 79.
10 Ibid., pag. 84.
11 Ibid., pag. 88.
12 Ibid., pag. 92.
13 J. ATTALI. La Méditerranée ou l’ultime utopie, in Défense Nationale et Sécurité collective, numero speciale dedicato all’Unione per il Mediterraneo, 2008.

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1 Campania
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2 Puglia
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3 Sicilia
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4 Puglia
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5 Abruzzo
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6 Basilicata
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CAMPI CITTA’ DEL LIBRO di Gianluca Anglana – Numero 9 – Dicembre 2017

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CAMPI CITTA’  DEL LIBRO

 

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da carmelo bene

Novembre 2017. 

Metti una sera in Puglia. Si sente odore di autunno: è quello dei camini accesi e della carne cotta alla brace. È già il crepuscolo e le strade brulicano ancora di vita. È la folla composta e discreta di coloro che amano i libri, di chi cerca la cultura. Capannelli di gente si formano davanti all’ingresso della Chiesa di San Giuseppe. A giudicare dalla sua facciata austera non diresti mai che, all’interno, svetta un altare centrale pregevolissimo, quasi un retablo spagnolo: un piccolo capolavoro, insomma, in cui riconoscere la firma di Giuseppe Cino, architetto tra i più insigni del barocco leccese..

santa maria
Palazzo Marchesale

“Campi città aperta”, si potrebbe dire, parafrasando Roberto Rossellini:
le vie del centro sono spalancate alla milizia del sapere.
I suoi monumenti s’illuminano a festa: accolgono
i pellegrini della conoscenza.


Si va a caccia dell’evento più attrattivo. Si sfida l’imbarazzo della scelta. Gruppi di curiosi stendono davanti agli occhi, come una mappa del metrò, il programma della Città del Libro, il festival dell’editoria giunto quest’anno alla sua ventiduesima edizione. Un bel traguardo, per Campi Salentina, il paese che se ne attesta la paternità e che lo ospita sin dal 1995. Un vanto per questa terra, vero motivo di orgoglio, per lo più snobbato dalla stampa nazionale, distratta dagli schiamazzi della politica e dal sensazionalismo della cronaca nera. L’Imam di Lecce, Saiffedine Maaroufi, al quale mi presento, si chiede, mi chiede: «dove sono i giornalisti?» Mi concede parte del suo tempo prima di tornare a Lecce. È un uomo dagli occhi sorridenti, dalla barba fitta e da quella, che mi sembra, una palpabile fiducia nel futuro. Il suo intervento è inserito nella Rassegna dal titolo I cammini dell’uomo verso un nuovo umanesimo. Si compiace dell’interesse della gente e si rammarica della scarsa attenzione dei mass media: un’assenza esecrabile, a mio modo di vedere, in un periodo storico in cui invece sarebbe più saggio investire sugli incontri, piuttosto che sui presunti scontri di civiltà. Scambiamo qualche parola: scopro che è originario della Tunisia. Commentiamo insieme il dibattito appena conclusosi tra la scrittrice Simona Toma e Sumaya Abdel Qader, blogger perugina, di origine giordana, oggi consigliera comunale della città di Milano nonché autrice del libro Porto il velo. Adoro i Queen. Molta la partecipazione, soprattutto al femminile: alcune lettrici hanno fame di conoscere, sono animate dalla curiosità e pongono alla Signora Qader domande sulla religione musulmana, sulla cultura araba e sulla condizione della donna nelle aree di fede islamica.

 

C’è una bella atmosfera a Campi, c’è voglia d’incontro, c’è il desiderio 

di capire e di capirsi, c’è la curiosità di conoscere meglio altri individui, altri popoli, altre culture, altre religiosità. C’è l’aspirazione 

a cercare elementi unificanti piuttosto che divisivi.

 

E non potrebbe essere altrimenti, visto che l’Edizione numero ventidue di Città del Libro è dedicata ad Abramo – leggo sulla pagina web del Festival letterario – «il cui nome significa ‘padre di molti popoli’» e costituirà un riferimento culturale fondamentale capace di far dialogare le letterature e i popoli che abitano l’area mediterranea e africana. Una moltitudine di nomi importanti: lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun; il Direttore Generale di Treccani, Massimo Bray; il giornalista Domenico Quirico; la giurista francese Jeannette Bougrab; la scrittrice inglese Nicolette James, solo per citarne alcuni. 

 

Dicembre 2017. È un mattino di sole. Negli uffici comunali, incontro il Sindaco di Campi Salentina, il Prof. Egidio Zacheo1, cui va l’indiscutibile merito di avere dato i natali alla Città del Libro nel 1995.

Fu l’inizio di un rinascimento: Campi, che fino ad allora saliva
alla ribalta delle cronache esclusivamente per fatti di malavita, 

cominciò a mutare volto, a credere maggiormente in se stessa – fregiandosi persino del titolo di Città grazie a un Decreto della Presidenza della Repubblica2 – e a tributare maggiore rispetto 

al suo passato sfavillante e ai suoi monumenti 

sia architettonici sia umani. 

 

Pochi sanno, ad esempio, che a Campi sorge uno dei rarissimi esempi di arte gotica nel Salento: si tratta dei resti della Cappella Maremonti, rinvenuti quasi per caso all’interno della Chiesa Principale. Pochi sanno che Campi è il luogo in cui è nato uno dei massimi artisti italiani del Novecento, Carmelo Bene, cui va il merito di avere cambiato per sempre il teatro italiano.

 

Perché il Sud migliore, quello produttivo e propositivo,
fatica ancora a fare notizia?

 

«Mi meraviglierei del contrario. In tutti i campi, il Sud ha maggiori difficoltà rispetto al resto d’Italia. Molti eventi, che si tengono nel Mezzogiorno, soffrono l’indifferenza dell’informazione. È un po’ ciò che è accaduto alla Città del Libro, la quale tuttavia quest’anno ha catalizzato un’attenzione maggiore perché la formula utilizzata è stata davvero innovativa: non si poteva non tenerne conto. Il 2017 ha segnato un cambio di passo, potremmo dire un salto di qualità. La Città del Libro è stata per anni la Fiera del Libro, cioè l’incontro di autori ed editori per pubblicizzare e far vendere libri: cosa del tutto legittima e positiva, per carità, sia benvenuta ogni iniziativa volta a fare vendere più libri. Quest’anno, però, abbiamo pensato a qualcosa di diverso. La nostra rassegna non poteva più essere la Fiera del Libro: doveva avere obiettivi culturali di più ampio respiro. Abbiamo voluto un evento che avesse un ruolo strategico, che fosse uno strumento di dialogo tra le varie sponde del Mediterraneo».

 

Un ponte tra le culture e le nazioni…

 

«Noi abbiamo creato e creiamo opportunità di dialogo in una fase storica in cui invece si amplificano il contrasto, l’incomprensione, persino il timore del diverso (pensi, ad esempio, al fenomeno delle migrazioni in Europa che suscita paura e sgomento). Tutto ciò si combatte con la cultura e con il dialogo. Il nostro è un obiettivo ambizioso, che noi dobbiamo proporci di portare avanti, perché la Puglia è una regione vocata a questo compito, perché il Salento è un avamposto proiettato nel Mediterraneo, un osservatorio atto a favorire formidabili momenti di scambio. E noi abbiamo pensato di fare di Città del Libro un’occasione per intrecciare dei contatti culturali con altre genti. Abbiamo stabilito rapporti di scambio con case editrici e autori al fine di favorire la pubblicazione in Italia di opere edite nei Paesi con cui abbiamo collaborato e viceversa; è stata siglata un’intesa tra Università di Lecce, Città di Campi e alcuni Atenei del Nordafrica per un Erasmus nella direzione di quei Paesi, insomma un Erasmus verso il Sud piuttosto che un Erasmus verso il Nord3. Campi diventa lo snodo di questa intesa, che prevede iniziative di varia natura. Campi è il comune che avrà la regia di tutto questo. In questa progettualità sta la novità rispetto al passato e risultano coinvolti la Regione Puglia e l’Università di Lecce e quindi tutto il territorio. La finalità è combattere la diffidenza, i pregiudizi e la paura con il dialogo, tramite l’interazione tra culture di varia provenienza. Città del Libro aveva bisogno di trovare una sua specificità, data anche la collocazione geografica del Salento e di Campi in particolare in quanto baricentrica rispetto alle tre province4. Quest’anno, ribadisco, c’è stato il grande salto di qualità: prova ne è la partecipazione di personalità di grande rilievo e caratura».

 

Sono passati molti anni dal 1995, quando ebbe l’intuizione 

di scommettere sul suo paese e dare vita ad un festival 

dedicato ai libri. Che cosa la spinse a questa scommessa?

 

«Allora Campi era in mano alla criminalità organizzata. Ci chiedemmo: come combatterla? Scommettemmo sulla cultura: a nostro modo di vedere, la cultura poteva vincere la barbarie. I cittadini avrebbero potuto riappropriarsi della loro città (qui alle otto di sera c’era il coprifuoco!), se si fossero rammentate loro la nobiltà delle proprie radici e la ricchezza culturale della loro terra. Quell’amministrazione organizzò quindi feste, spettacoli, concerti, incontri, presentazioni di libri, mostre; costituì perfino un’orchestra comunale; esaltò il talento e la creatività e la gente cominciò a reimpossessarsi della città. E man mano che i cittadini si reimpossessavano degli spazi pubblici, arretrava la criminalità. Potemmo certo contare sul sostegno degli altri livelli istituzionali, delle forze dell’ordine, delle scuole e delle associazioni. Ma fu la cultura a dimostrarsi la carta vincente, il grimaldello con cui scardinare il meccanismo dell’illegalità. Alla fine di ogni anno scolastico, veniva donato un libro a tutti gli studenti, inondando la città di millecinquecento volumi: fu così che prese quota l’idea di Città del Libro. È stata una scommessa bella e anche difficile, perché abbiamo fatto tutto con le nostre mani. Pensi che l’anno scorso la Regione Puglia ha stanziato più di un milione di euro per la Notte della Taranta e ventunomila euro per la Città del Libro. C’è proporzione? Noi siamo riusciti a portare avanti la nostra manifestazione, perché ci abbiamo creduto e perché siamo aiutati dai cittadini e da un numero di persone straordinarie che per più di due mesi lavorano gratuitamente»

In un’intervista dello scorso Giugno, il Presidente della Fondazione della Città del Libro, Cosimo Durante, ha parlato 

di un nuovo modo di fare turismo: quello sostenibile, 

quel turismo che procede orientato dai beni e dagli interessi culturali e quindi anche da appuntamenti come Città del Libro (che vanno ad inserirsi in Puglia3655). 

Qual è la Sua idea di turismo?

 

«Consideri quello che è accaduto a Gallipoli, parlo del turismo “mordi e fuggi” e di puro intrattenimento, che nega la valorizzazione delle risorse culturali di una località. Mentre la parabola di questa forma di turismo ha toccato il suo picco massimo, a Gallipoli ha chiuso i battenti l’ultima libreria cittadina6. Ecco, noi tentiamo di muoverci nella direzione esattamente opposta. Vogliamo un turismo intelligente che valorizzi le risorse culturali, artistiche, storiche, monumentali e soprattutto umane: questa terra vanta la luce di figure straordinarie. Vede, noi abbiamo affidato l’inaugurazione dell’Edizione 2017 della Città del Libro a un concerto dell’ottima Orchestra del Salento, la quale, nella magnifica cornice della Chiesa di Santa Maria delle Grazie, ha eseguito un’opera di Carmelo Bene. Carmelo Bene, un genio salentino, ha reinterpretato il Manfred di Robert Schumann sul testo di Lord Byron7. Mi sono venuti i brividi! La nostra terra ha dialogato con le espressioni più alte della cultura universale: e Carmelo Bene era di Campi! Quella sera si capiva visivamente quante potenzialità abbiamo: e invece per Carmelo Bene, per la musica e per gli artisti e i musicisti locali abbiamo fatto ancora troppo poco». 

 

Perché mancano manifestazioni teatrali di alto livello
nella città di Carmelo Bene?

 

«Il Salento è una terra che nei confronti del suo figlio illustre ha mostrato di avere una certa smemoratezza: noi abbiamo voluto farle tornare la memoria. Come? In primo luogo, nel corso del 2017 e con bando nazionale, ha avuto luogo la prima edizione del Premio Carmelo Bene: una commissione di Docenti Universitari ha premiato due tesi di laurea e una pubblicazione sull’Opera di Carmelo Bene8. Inoltre, il Teatro di Campi è stato già intitolato a Carmelo Bene: è il primo teatro a lui dedicato in Italia e nel Mondo. In più, stiamo lavorando per tenere a Campi nei prossimi mesi, spero prima dell’estate, un convegno nazionale che si riunisca magari con cadenza biennale e che faccia un po’ il punto sugli studi su Bene. Questa è la progettualità per Carmelo Bene, per la cui radicazione occorre tempo».

 

A proposito di viaggiatori e di turisti in cammino, colpisce 

la collaborazione tra Fondazione Città del Libro e Matera 2019. 

È facile fare sistema tra realtà meridionali?

«Sia nel mondo dell’impresa sia nel mondo politico-istituzionale, non siamo educati a fare sistema: questo ci rende più deboli. Noi facciamo fatica a trovare l’appoggio o la collaborazione stabile da parte del settore imprenditoriale o bancario, salvi alcuni casi. Proprio per questo, Città del Libro è un piccolo miracolo del Sud».

 

L’edizione numero ventidue di Città del Libro si è tenuta a Campi dal 23 al 26 Novembre. Proprio il 27 Novembre il Sole 24 Ore pubblicava la consueta classifica annuale del benessere socio-economico delle province italiane. Anche quest’anno le province meridionali occupano la parte bassa della classifica. Mi colpiscono in particolare le ultime due posizioni, assegnate rispettivamente a Taranto e a Caserta, territori ricchissimi di storia e un tempo gloriosi.

Fa specie vedere così in affanno l’antica Tarentum e la città 

della Reggia. Lecce è centoquattresima su centodieci. 

Secondo Lei, cosa serve al Meridione per decollare?

 

«Più civismo. Risorsa fondamentale per la qualità della vita. Civismo vuol dire legare di più il cittadino alla dimensione pubblica. Per ragioni storiche, i nostri concittadini non sentono questo legame. Quella meridionale non è solo una questione economica, bensì anche di civismo. Il civismo comporta la valorizzazione di ciò che è di tutti. Il pubblico è cosa di tutti: la nostra mentalità tende a ritenere che ciò che è pubblico è di nessuno. Dobbiamo lavorare sulla piena valorizzazione dei nostri tesori e talenti, perché il nostro meglio entri in un sistema pubblico. Lecce è una città meravigliosa: perché affonda tanto nelle graduatorie nazionali? Perché i cittadini sentono il rapporto con la dimensione pubblica in modo debole. Potenziare il civismo significa accrescere la qualità della vita. L’illusione è che si possa stare bene restando isolati: se si resta isolati, non si sta mai bene. E se manca la dimensione pubblica è difficile essere felici».

Che cos’è per Lei il Dono del Sud?


«Il Sud è ricco di doni. La civiltà moderna è nata in queste contrade: noi siamo la terra di Federico II. Qui sono nati l’arte moderna, la cultura moderna, il diritto moderno, la scienza moderna. Come? Attraverso le contaminazioni. Ecco la “Città del Libro-ponte”: la cultura araba è stata promossa da Federico, perché ai suoi tempi quello arabo era un sapere avanzato (soprattutto sul piano scientifico e filosofico), perché ai suoi tempi il Nord dell’Europa eravamo noi. Il Sud è una terra piena di doni: ha donato molto al mondo e poi ha smarrito questo ruolo, perché non ha saputo diventare comunità. Noi abbiamo bisogno della comunità, d’istituzioni e classi dirigenti credibili, di legare il cittadino al destino comune, di fargli capire che ciò che è di tutti è di tutti e non di nessuno. Gli interventi finanziari, da soli, sono inefficaci: il divario rispetto al Nord è rimasto, perché di matrice culturale».

Se lei volesse fare uno spot per Campi Salentina, 

quale slogan utilizzerebbe?


«Mi lasci partire da un esempio. Carmelo Bene non è un prodotto casuale. Tra la fine del 400 e tutto il 600, Campi è stata una comunità molto attiva dal punto di vista artistico e specialmente teatrale. C’era un humus. Questa è una città ricca di cultura e figure straordinarie. Questo consentirebbe a Campi di entrare nel futuro con più equilibrio e sicurezza. Perciò ecco lo slogan che io conierei: grazie a una cultura antica proiettarsi verso l’avvenire. Guardi, Federico II di Svevia veniva in queste terre con Pier delle Vigne per cacciare e contemporaneamente ragionare delle Costituzioni di Melfi, promulgate nel 1231. Federico è un brand della Puglia: opere straordinarie come il castello federiciano di Brindisi o la Torre di Leverano9 andrebbero messe a sistema. Federico era puer Apuliae, sicché auspicherei un percorso prettamente salentino dei luoghi federiciani: Oria, Leverano, Campi Salentina, Lecce. Dietro questo circuito dei monumenti si nasconde un circuito intellettuale, in cui la Puglia e il Salento hanno ancora molto da dire. Abbiamo creato la ricchezza materiale: va bene. Abbiamo riempito lo stomaco: va bene. Ora, è tempo di investire in cultura. Riempiamo un po’ la testa… Riempiamo un po’ la testa…». 

 

La mia conversazione finisce con la cordialità di una stretta di mano. Esco dal Municipio ed entro nella luce abbagliante di quest’autunno che muore. Sento il vento del Nord che mi annusa il cappotto: osservo l’eleganza dell’entrata laterale della Chiesa di Santa Maria delle Grazie, che da quel vento ha preso il nome, la Porta della Tramontana. Procedo in direzione del Palazzo Marchesale e penso a Federico a caccia, nei boschi attorno a Campi: il fascino di questa terra ricca di storia mi riempie un po’ la testa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

decoro cultura
1  Il Prof. Zacheo è stato più volte sindaco di Campi (dal 24 aprile 1995 fino al 13 febbraio 2001: oggi è in carica dal 27 maggio 2014).
2 DPR 2 settembre 1998.

3 Si tratta di una Dichiarazione di intenti, siglata a Campi Salentina il 24/11/2017, da una parte, da Città del Libro, a firma del Sindaco Zacheo oltre che del Presidente della Fondazione “Città del Libro”, Cosimo Durante, e dell’Assessora all’Industria Turistica e Culturale della Regione Puglia, Loredana Capone; dall’altra, dall’Università di Lecce, dagli Atenei di El-Tarf e Annaba in Algeria e dall’Università Mohammed V di Rabat in Marocco.

4 Lecce, Brindisi e Taranto (nda).

Puglia365 è il piano strategico del turismo della Regione Puglia per il periodo 2016-2025.

6 Cfr. articolo del 14/12/2017 pubblicato su www.illibraio.it .

7 Il Manfred è uno spettacolo teatrale del 1978, diretto, interpretato e tradotto da Carmelo Bene, tratto dal poema drammatico di George Gordon Byron con musiche di Robert Schumann.

8 Qui: http://www.comune.campi-salentina.le.it/documenti/notizie/VERBALE.pdf, il Verbale della Commissione Giudicatrice.

9 La Torre Federiciana di Leverano, che si eleva per circa 28 metri nel centro abitato, fu voluta, secondo la tradizione, da Federico II di Svevia per monitorare la costa ionica. Monumento nazionale dal 1870, la torre presenta una forma parallelepipeda a base quadrata con i prospetti orientati secondo i punti cardinali ed è provvista di merli.

 

ORO DI PUGLIA: LA PIETRA LECCESE di Giusto Puri Purini – Numero 9 – Dicembre 2017

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ORO DI  PUGLIA:  LA PIETRA LECCESE

 

Giusto-Puro-Purini-storia

«Neglette, e quasi molli in ampia massa,
le pietre a Lecce crea l’alma Natura:
ma poiché son rescise, in loro passa virtute,
che le pregia, e che l’indura:
mirabili a vederle, ò se vi si lassa
scelti lavor la dedala scultura,
ò se ne fanno i dorici Architetti
gran frontespitij con superbi aspetti».

(Ascanio Grandi, I fasti sacri, 1635)

 

nella Puglia

esistenti sotto svariate forme e combinazioni chimiche, affioranti e non, dalla piana ai modesti rilievi, si è presto associata ai destini delle popolazioni quivi giunte da più parti, ma soprattutto dal Mediterraneo orientale. 

 

Furono Japigi, Messapi, fino alla conquista romana, a scavare
ed utilizzare queste pietre tagliate a misura, a seconda della durezza
ed impiegarle all’inizio, nella realizzazione di antichi simboli cosmici, quali Dolmen e Menhir, con lastre e colonne di grandi dimensioni.

 

Le parti più dure e compatte, di quelle tante varietà che il suolo offriva, trasformarono poi l’Habitat, dalle grotte alle costruzioni lignee ed infine alla pietra. Oggi quel materiale, estratto in cave di grande, media e piccola dimensione come nei piccoli appezzamenti contadini, marca definitivamente il territorio della Puglia ed in particolare del basso Salento. Lecce, mitica città del sud Italia, ne fu il centro: il suo nome nasce dalla sovrapposizione di una lupa (Lupia in latino) e dell’Ilex (il Leccio), entrambi raffigurati nello stemma della città, a simboleggiare l’uno la Civiltà romana, l’altro i grandi boschi di lecci che anticamente coprivano quelle terre. Lecce, anche il luogo dove i calcaridi affioravano nella piana, come una gigantesca vena. All’origine fu Sybar, città Messapica, diventando Lupiae dopo la conquista romana; ma fu solo dall’arrivo dei Normanni (nell’XI secolo), che vi trasferirono la capitale e la loro corte e ove nacque Tancredi, figlio di Ruggero III, a svilupparsi come grande centro, diventando nel tempo quella meravigliosa città che oggi vediamo. 

 

Il segreto fu, dunque, quell’immane blocco di Leccisu (la Pietra leccese), la parte più pura dei calcaridi, cangiante di tonalità a seconda della luce, in una infinita quantità di toni e sottotoni del giallo e soprattutto resistente al tempo ed alle intemperie. 

Il miracolo, quindi, di una pietra che, esposta all’aria e messa in opera, si compatta e solidifica. L’Oro di Puglia, affiorante in superficie, si estendeva da Lecce fino a Corigliano d’Otranto, Melpignano, Maglie e Cursi. Gli Aragonesi, durante il Regno di Napoli, ne fecero uno dei centri più importanti del Mediterraneo, costruendo Castelli, Infrastrutture, Palazzi, Masserie e Torri di difesa fortificate. Si diede libero sfogo all’uso soprattutto dei calcari, in dimensioni massicce, alternando nelle strutture portanti, realizzate con perizia e qualità artigianale, materiali compatti di varie gradazioni. Lo conferma, oggi, l’eccellente stato di conservazione di molte opere.  

 

Con gli spagnoli, iniziò anche la costruzione di molte Chiese, a fare
da contraltare alle imponenti architetture guerresche; ed è qui
che iniziò l’avventura di quel meraviglioso Barocco Leccese,

 

che ammiriamo oggi, ricco di fregi, balconi, estradossi, infradossi, volute, sculture grottesche, rosoni, significati esoterici, che l’infinita malleabilità della pietra leccese (Leccisu), permetteva a grandi artisti ed artigiani di scolpire e realizzare. Tutta Lecce, oggi, è un fluire di scorci barocchi, illuminati o spenti dal variare della luce solare e non, facendo ora risaltare quell’aggetto, ora quel timpano, o quella lesena, evidenziandone i chiaroscuri. Tra le opere più belle, la Basilica di S. Croce(1549-1695) disegnata da Gabriele Ricciardi e realizzata dagli architetti Cesare Penna e Giuseppe Zimbalo, che ristrutturò tra l’altro anche il Duomo dell’Assunta tra il 1659 ed il 1670.

 

La pietra leccese portò anche una rivoluzione nella costruzione 

delle volte,

 

in particolare le molte varianti di quelle a stella ed altre, che arricchivano i palazzi nobiliari; ma anche le semplici case dei salentini, data la perizia dei contadini muratori-architetti e voltaroli. E tutta l’area fu invasa da una miriade di piccoli Templi e Cappelle, i quali, pur in modo semplice e spoglio, segnavano comunque la magia del vivere salentino.

Ciò fu possibile grazie alla facilità di tagliare a misura i conci in leccisu per le volte, a seconda dell’ampiezza del fabbricato.


Una forma di progressione geometrica nell’avvicinarsi al centro della volta, già vista nelle pagliare, che oggi, nei progetti, date certe misure auliche molto ripetitive, fanno pensare ad un sistema contemporaneo di prefabbricazione. Ancora adesso, moderne aziende come la Pimar di Maglie, estraggono i preziosi conci in gigantesche cave a cielo aperto, esportando il leccisu in tutto il mondo, collaborando con grossi studi internazionali (Renzo Piano, Jean Nouvel ecc. …) e grandi Designer come Ugo La Pietra.

 

Gli artigiani scalpellini, nelle loro botteghe, sperimentano design di ogni tipo, scultori ed artisti ne fanno largo uso ed è vissuto come un vanto il possedere un pavimento, una rifinitura, un portale, un capitello, realizzato con l’Oro di Puglia.

 

 

 

 

 

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DE SICA: UNA LEGGENDA DAL SUD di Fernando Popoli – Numero 9 – Dicembre 2017

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DE SICA:  UNA  LEGGENDA DAL SUD

 

 

testimonianza delle arti e delle scienze, insieme con altri preziosi documenti, nell’ipotesi che altri popoli, di altri mondi, possano raccogliere, studiare e capire la genialità di noi italiani. Questo è il più importante tributo a Vittorio de Sica, regista e attore, tra i più grandi del Novecento. Pietra miliare del cinema italiano, genialità del Meridione, 

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“Napoletano de fora”, come amava definirsi, essendo nato a Sora 

nel 1901, da padre impiegato della Banca d’Italia, trasferito lì 

per qualche anno, e da madre napoletana. Sora, in quegli anni,
faceva parte della provincia di Caserta, Terra di Lavoro, 

e risentiva dell’influenza culturale del Napoletano. 

Dopo alcuni anni la famiglia tornò a Napoli, dove Vittorio adolescente crebbe, formò il suo carattere e acquisì la cultura che ha sempre caratterizzato la sua opera d’artista. “Ladri di biciclette”, scritto da Cesare Zavattini, è uno dei capolavori del Neorealismo italiano di De Sica regista, insieme a sciuscià, Miracolo a Milano, Stazione Termini e Umberto D. Il film vinse oltre cinquanta premi internazionali, compreso l’Oscar come miglior film nel 1949. E’ lo stesso De Sica, in un’intervista, ad affermare che: “Dopo alcuni film commerciali, colsi subito la proposta di Zavattini per un film che affrontasse la dura realtà del dopoguerra italiano con le sue paure, la sua povertà, la mancanza di solidarietà umana”. L’originalità della storia si esprime attraverso il dramma dell’attacchino al quale rubano la bicicletta, mezzo di trasporto indispensabile per il suo lavoro, con tutte le conseguenze che ne derivano. 

Tutto era diverso in quel film: l’ambientazione nelle strade di Roma,
gli attori presi dalla strada, il tema sociale, le facce vere della gente. Tutto era diverso dai “telefoni bianchi” che sino allora avevano addormentato le coscienze. Era uno sguardo su una realtà
ignorata che apriva nuovi scenari, nuove forme espressive
e dava spazio ai veri sentimenti dell’uomo.

Alla prima al Barberini di Roma, c’erano tutti i grandi di quegli anni: Visconti, Fellini, Amidei, Rossellini, e fu un vero trionfo. Dopo una navigazione non entusiasmante nelle sale italiane sotto il profilo economico, il film cominciò a mietere premi in tutto il mondo, uno dopo l’altro, sino a essere consacrato come un capolavoro assoluto. La rivista cinematografica britannica Sight & Sound lo considerò il più grande film di tutti i tempi. Nel 1958 fu dichiarato il secondo miglior film di sempre alla Confrontation di Bruxelles; fu classificato in quarta posizione ne I cento migliori film del cinema mondiale, dalla rivista inglese Empire. Sciuscia, Miracolo a Milano, Stazione Termini e Umberto D seguono gli stessi stilemi, i temi sociali, le problematiche di quegli anni, e furono altri riconoscimenti internazionali con premi Oscar. Charlie Chaplin, dopo aver visto Umberto D, affermò di aver pianto e singhiozzato per quindici minuti. Umberto D è considerato il miglior film di De Sica; era dedicato al padre, alla sua vita difficile, spesso al limite della povertà, ma sempre dignitosa, come lo stesso De Sica affermava: “La mia famiglia viveva in tragica e aristocratica povertà”. Anche in questo caso la risposta del pubblico fu modesta, ma ebbe successo all’estero e diventò una pagina straordinaria del Neorealismo. Mentre de Sica conquistava il mondo con i suoi film, c’era in patria chi lo denigrava, lo ostacolava e definiva il suo cinema: “Stracci, panni sporchi da lavare in famiglia”. Capitano di questa denigrazione un politico italiano, in quegli anni Sottosegretario allo Spettacolo, che faceva di tutto per ostacolare la genialità dei nostri più grandi autori: 

 

De Sica, Rossellini, Amidei, Zavattini, perché, a suo dire, rappresentavano un paese appena uscito dalla guerra
con le sue miserie, le sue povertà, i suoi bisogni,
tutte cose che quel politico voleva nascondere
e che, per fortuna, non gli riuscì di fare.

 

Prima della grande stagione del Neorealismo, c’era stato un altro De Sica, attore di un cinema da commedia piccolo borghese dei film di Mario Camerini, come Gli uomini che mascalzoni e Parlami d’amore Mariù, che gli dettero una grande notorietà, e regista poi di Maddalena zero in condotta, Teresa venerdì e I bambini ci guardano, che anticipavano la stagione successiva. Fu un lungo periodo di successo che mostrò le qualità dell’attore e del regista, ben presto diventato un beniamino del pubblico. In precedenza, una lunga gavetta aveva formato De Sica nel mestiere dell’attore, insegnandogli i segreti della recitazione. Aveva fatto parte della compagnia teatrale di Tatiana Pavlova, di Italia Almirante e di quella di Sergio Tofano e Giuditta Rissone. Negli anni Trenta diventò primo attore nella Compagnia Za-Bum di Mario Mattoli e, da lì in poi, fu un susseguirsi di successi assurgendo a una notorietà nazionale. Nel dopo guerra lavorò con Luchino Visconti e Mario Chiari, sino ad abbandonare per sempre la recitazione teatrale e a dedicarsi unicamente al cinema. Della stagione neorealista abbiamo detto, diamo uno sguardo alla sua bonomia, alla sua spiccata simpatia, alla sua inconfondibile comunicativa di attore popolare che ha rappresentato nel meglio la personalità dell’italiano. Penso sopratutto alla serie dei Pane, Amore e Fantasia di Comencini e poi di Risi. Qui il maresciallo Carotenuto è amante delle belle donne, alle prese con i pregiudizi dell’epoca e con le reprimende di un fratello prete. 

 

Al suo fianco, grandi attrici come la Lollobrigida e la Loren,
icone meravigliose dell’Italia che risorgeva dalla guerra
e vedeva realizzato nelle “maggiorate” il proprio sogno erotico. Esilarante i duetti con Tina Pica, la governante, la quale ripeteva
al maresciallo: “La gente mormora… mormora… “, mettendolo
in guardia per il suo comportamento libertino.

 

Alla serie di Pane e Amore seguirono altro straordinari successi di De Sica attore, quali Peccato che sia una canaglia, Il conte Max e Il vigile, con Alberto Sordi; memorabili le sue scene con Albertone, vigile testardo, che multa anche il proprio sindaco – De Sica. E in seguito: Il generale della Rovere, di Roberto Rossellini, nel personaggio di un truffatore che assurge a un’inaspettata dignità umana e subisce le torture dei tedeschi. Una pagina bellissima di recitazione di De Sica e di regia di Rossellini. E ancora, I due marescialli, Un italiano in America e tanti, tanti altri film ai quali dà un tocco di stile e di eleganza. E poi c’è il De Sica regista in questi anni, che consolida la sua fama internazionale ed è premiato in tutto il mondo. Basta ricordare

 

La ciociara, dal romanzo di Moravia, con Sophia Loren e Jean Paul Belmondo, ambientato nei luoghi in cui si svolsero le terribili Marocchinate, gli stupri di donne per opera dei soldati guidati
dal generale Alphonse Juin. Il film valse un Oscar
alla Loren per l’interpretazione. 

 

E quindi, Matrimonio all’italiana, con la Loren e Mastroianni, tratto dalla commedia di de Filippo Filomena Marturano, ancora un Oscar come miglior film straniero. E poi Ieri, oggi e domani, con Mastroianni e la Loren, prodotto da Carlo Ponti, con il celebre spogliarello di Sophia di fronte a un Marcello intimidito, altro premio Oscar nel 1965. Sino ad arrivare al Giardino dei Finzi Contini, dal romanzo di Bassani, Oscar nel 1972 come miglior film straniero.

 

La fama di de Sica è ormai leggendaria, il suo nome è garanzia
di successo internazionale. Il produttore Carlo Ponti ha costruito
con lui e la coppia Loren – Mastroianni un trio imbattibile nel cinema mondiale, espressione della genialità italiana e, specificamente,
del Meridione d’Italia; De Sica nativo di Sora, la Loren napoletana, Mastroianni di Fontana Liri.

 

L’ultimo progetto al quale stava lavorando insieme a Zavattini era I due vecchietti, una disamina della loro esperienza di vita e di arte; loro due, uniti negli anni da una grande amicizia, che si raccontano. Un tumore ai polmoni gli tolse la vita a seguito di un’operazione e morì all’età di 73 anni nel 1974 a Neully sur Seine, vicino a Parigi, lasciando dietro di sé una scia di leggenda. I film di Vittorio de Sica, oggi, sono studiati nelle università di tutto il mondo.

 

Il ragazzo nato a Sora, di spirito napoletano, assurse con la sua sensibilità alle vette più alte del cinema internazionale, portando
nel mondo il nome dell’Italia e consolidando
la genialità della gente del Sud.
 

 

 

 

 

 

 

 

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 Le foto sono state gentilmente concesse da Arturo e Marco Zavattini

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IL SUD AGGANCIA LA RIPRESA di Francesco Serra di Cassano – Numero 9 – Dicembre 2017

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Il Mezzogiorno è in grado agganciare la ripresa, ma il suo passo è meno sostenuto di quello del resto del Paese. Secondo le stime Svimez, a ottobre 2017 il PIL italiano risulta in crescita dell’1,5%, conseguenza del +1,6% del Centro-Nord e del +1,3% del Sud. 

 

Il quadro è in costante movimento e, tra luci e ombre,
segnala uno stato di salute in leggero miglioramento.

 

Per il 2018, Svimez prevede che le esportazioni e gli investimenti cresceranno più al Sud che al Centro-Nord (rispettivamente +5,4% e +3,1% contro +4,3% e +2,7%) e anche la domanda interna sarà superiore, ma ci sono fenomeni in controtendenza: la fuga dei cervelli (che non si arresta) e la crescita della povertà rischiano di inficiare il consolidamento del processo di sviluppo. La situazione è comunque molto articolata. Nel 2016 il PIL della Campania è salito del 2,4%, quello della Basilicata del 2,1% e quello del Molise dell’1,6. Tutte le altre regioni hanno avuto una crescita inferiore all’1% fino al risultato negativo dell’Abruzzo che ha segnato -0,2%. Tra i settori economici, nel 2016 il Sud ha superato il Centro-Nord nell’industria, nelle costruzioni e nel terziario, mentre il valore aggiunto in agricoltura è tornato a diminuire dopo il boom del 2015. Secondo Svimez, l’aumento del PIL meridionale mostra primi segni di solidità a partire dal recupero del settore manifatturiero, cresciuto del 2,2%, e poi dalla ripresa dell’edilizia (+0,5%) e dal positivo andamento dei servizi (+0,8%), soprattutto nel turismo, anche grazie alla delicata situazione geopolitica dell’area del Mediterraneo che ha dirottato flussi verso il nostro Meridione. A trascinare poi l’evoluzione positiva del PIL nel 2017 e nel 2018 sarà l’andamento della domanda interna, che al Sud registrerà, rispettivamente, +1,5% e +1,4%. 

 

Il dato più interessante del rapporto Svimez riguarda però la pubblica amministrazione, che nel Mezzogiorno sconta un forte ridimensionamento, un dato che sembra in parte sconfessare il luogo comune del Sud
quale fonte di sperpero di denaro pubblico.

 

Tra il 2011 e il 2015 si è avuta una diminuzione di dipendenti pubblici (- 21.500) superiore al Centro Nord (- 17.954) e una spesa pro capite corrente consolidata della PA pari al 71,2% di quella del Centro-Nord, con un divario assoluto di circa 3.700 euro a persona. Tuttavia, secondo il rapporto, la sfida di una maggiore efficienza della macchina pubblica al Sud “passa per una sua profonda riforma, ma anche per un suo rafforzamento attraverso l’inserimento di personale più giovane a più alta qualificazione”. Le emergenze sociali rappresentano il problema più grave del Mezzogiorno. Oltre alla crescente povertà (10 meridionali su 100 risultano in condizioni di povertà assoluta),

 

il rapporto indica come il tasso di occupazione nel Mezzogiorno sia ancora il più basso d’Europa (35% inferiore alla media UE), nonostante nei primi 8 mesi del 2017 siano stati incentivati oltre 90 mila rapporti di lavoro nell’ambito della misura denominata “Occupazione Sud”.

 

La povertà e le politiche di austerità “deprimono i consumi”, soprattutto in terre non più giovani, né tantomeno serbatoio di nascite del Paese: “si sta consolidando- dice Svimez – un drammatico dualismo generazionale, al quale si affianca un deciso incremento dei lavoratori a bassa retribuzione, conseguenza dell’occupazione di minore qualità e della riduzione d’orario, che deprime i redditi complessivi”. Il Sud, infine, a differenza delle altre aree del Paese, resta un luogo di emigrazione che non riesce ad attrarre persone da fuori. La dinamica demografica negativa del Centro-Nord è compensata dalle immigrazioni dall’estero, dallo stesso Sud e da una certa ripresa della natalità, mentre il Mezzogiorno è ancora terra d’emigrazione selettiva (specialmente di qualità), interessata da un progressivo, ulteriore calo delle nascite, due dati che segnalano una difficoltà sistemica dell’economia del Mezzogiorno.

 

 

 

 

 

IL SUD AGGANCIA LA RIPRESA

 

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PROFUMO DI PARCO di Francesco Festuccia – Numero 9 – Dicembre 2017

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PROFUMO DI
PARCO

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vicino a Pescasseroli, nel cuore abruzzese di quel Parco Nazionale incontaminato che si estende fino al Lazio e al Molise, 

 

ritrova per un attimo i profumi peculiari di quella natura unica. È una sensazione fortissima che vorrebbe portarsi appresso. Ma come?

 

Solo lì ci sono le piante che crescono per la maggior parte nell’area protetta: il maggiociondolo con la sua aria di fresco e di leggero, le bacche di ginepro, il caprifoglio, la ginestra, l’angelica selvatica, 

il giaggiolo, il muschio e infine il faggio, predominante 

nei boschi del Parco.

 

La percezione rimane. E scatta l’intuizione: condividere questa sensazione. Come farlo se non racchiudendole tutte in una fragranza? Con un socio e con l’entusiasmo dell’ente del Parco comincia l’avventura della creazione di un profumo. Viene contattato un famoso “naso”, maestro profumiere, per ricreare la magia di quegli odori. È un processo lungo e minuzioso che porterà a quaranta prove tra cui solo una, dopo un lungo consulto con amici ed esperti, finalmente viene “eletta” come vincitrice. Ma la cura non finisce alla sola sensazione olfattiva. Ci vuole molto di più. 

 

Come coniugare l’aria e l’area selvaggia e impervia del luogo
con la raffinatezza di una eau de toilette

 

Allora pensare una bottiglia, un colore. Un simbolo. Ed ecco il verde, che non può essere uno qualunque: forte e intenso, moderno ma che ricordi il passato. La scelta anche qui è arrivata dopo tante prove. Il legame con il territorio è davvero materiale: intorno al collo della bottiglia c’è un anello di pietra gentile, che viene usata dagli abitanti di Pescasseroli per costruire case e chiese e che si impregna dei profumi della terra. Poi qualcosa che evochi immediatamente il luogo, cioè l’orso, vista la sua presenza stabile nelle foreste di tanti esemplari e le non poche incursioni “cittadine”, testimoniate dai tanti divertiti e impauriti avvistamenti che hanno fatto diventare l’animale una moderna star dei social, oltre che storico simbolo abruzzese. Anche qui la scelta dell’immagine ha richiesto del tempo: la grandezza, la posizione della testa… Mille prove.

 

E così nasce l’eau de toilette “Parco 1923”, nome e numero omaggio all’anno di fondazione del Parco Nazionale d’Abruzzo.

 

Ma questo è solo l’inizio della nostra favola. Il mondo della moda si interessa al fenomeno: le riviste “Marie Claire” e “Vogue” gli dedicano un ampio spazio, i giornali ne parlano. E l’essenza comincia ad essere venduta nelle profumerie più ricercate. Ma ci voleva una casa madre. E allora il mix di cultura e ritorno alla terra d’origine dà vita a un raffinato store al centro di Pescasseroli, che, evocando Saint Moritz e Cortina, ricorda le ambientazioni montane (e mondane) più affascinanti. 

 

Una bella storia di ritorno alle origini e di amore per la propria terra
che si concretizza non solo nel portare la sua “essenza”,
nel vero termine della parola, in giro per il mondo,
ma anche in un aiuto concreto per la salvaguardia
della flora del Parco, devolvendo una quota
per ogni flacone venduto. 
 

 

È una goccia, in questo caso di profumo, che va ad alimentare qualcosa che è unico e irripetibile. La favola non finisce qui, perché il cantiere è aperto e all’opera sono ancora i maestri profumieri e gli stilisti per creare altri modi per immergersi in quei profumi, come un bagno schiuma, o indossarli, come un accappatoio o un costume. L’orso naturalmente ringrazia…: ci sta volentieri ad essere annusato e portato in giro per il mondo.

ma ci piace usarlo ora per una piccola favola moderna che vede protagonisti un profumo e un parco naturale. Tutto comincia in sella ad un cavallo (questo sì come nelle vecchie favole) con una passeggiata di un noto comunicatore, milanese d’adozione, tornato per un momento nella sua terra d’origine. Lì, 

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“LA NOSTALGIA DEL BELLO” di Marta Rizzo – Numero 8 – Luglio 2017

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“LA NOSTALGIA DEL BELLO”

 

La Calabria è stata la patria di Pitagora e tutto, qui, ricorda che la Magna Grecia c’è: “La gente di questi paesi è di un tatto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui, una volta, la civiltà era greca” – scrive Cesare Pavese

 
in una lettera alla sorella Maria, durante il confino impostogli dal regime fascista, tra il 1935 e il ’36, a Brancaleone (RC). Ed è stata raggiunta anche da latini, normanni, popolazioni baltiche (sempre meno, ma esistono ancora piccole comunità che parlano il greco-albanese). I coloni achei che giunsero qui dalla Grecia chiamavano Vituli gli abitanti del luogo, il cui etimo è da riferirsi a quello di toro (molti nomi di paesi, parlano di tori: Bova, Bovalino, Taurianova, Gioia Tauro). Il nome ha origine dal greco Kalon-brion: “faccio sorgere il bene”, ma potrebbe anche derivare da Calabri: “abitanti delle zone rocciose”. Tori rocciosi, i calabresi: oltre ogni semplificazione, sono davvero così.
 
Ci sono stati passaggi importanti, in Calabria, da parte
del grande cinema italiano e non solo.

 
È l’inaspettata meraviglia di questo posto ad aver incantato grandi registi. Il cinema, in Calabria, ha raccontato cose preziose, in uno spazio prezioso: Mario Camerini (Il brigante Musolino, 1950), Pier Paolo Pasolini (Il Vangelo secondo Matteo, 1964 e Comizi d’amore, 1965), Mario Monicelli (L’armata Brancaleone, 1966), Luigi Comencini (Un ragazzo di Calabria, 1987). Tutti sono rimasti folgorati dalla violenta bellezza antica di questi spazi. Eppure, a parte questi grandi, i film girati in Calabria hanno uno sfondo piuttosto stereotipato: dai briganti di Camerini ai mafiosi, o comunque svogliati e tendenzialmente delinquenziali personaggi del Meridione di Ficarra e Picone (Il 7 e l’8, 2007), Antonio Albanese (Qualunquemente, di Giulio Manfredonia, 2011), Checco Zalone (Quo Vado?, 2016).  Da qualche tempo, però, nella regione si percepisce una cauta ma positiva rinascita, dovuta anche al nuovo assetto della Fondazione Calabria Film Commission, oggi gemellata con quella della Lucania. La Film Commission calabrese nasce nel 2006, ma, in seguito ai debiti accumulati, processi e il commissariamento, non realizza nulla di buono nei suoi primi anni di vita. 
 
La nuova generazione del cinema calabrese e la nuova, attiva,
Calabria Film Commission

 
Intanto, qui, si formano registi di grande interesse, come Fabio Mollo, di Reggio Calabria. Pur dichiarando di sentirsi profondamente calabrese, ora è cittadino del mondo e regista affermato; ma, i sui primi documentari e il suo esordio, Il sud è niente (2013), hanno espliciti riferimenti al reggino; così come Il padre d’Italia (2017), candidato ai Globi d’Oro per gli attori Isabella Ragonese e Luca Mainetti, è girato tra Rosarno, Gioia Tauro e Reggio Calabria. È un altro film, realizzato nel 2014, a segnare una nuova fase del cinema di questa regione: Anime Nere è girato in Aspromonte, con lo stile del western (che in Italia ha avuto grandi maestri e successi internazionali). Si parla di ’ndrangheta, sì, ma lo si fa fuori dagli schemi, con coraggio e forza. Il film di Francesco Munzi vince 9 David di Donatello, 2 Ciak d’Oro e altri prestigiosi premi cinematografici. Nell’agosto del 2016 si procede ancora nella messa a punto delle attività audiovisive regionali, con la nomina del nuovo presidente della Calabria Film Commission, Giuseppe Ciprigno, esercente e membro della commissione ministeriale MIBACT, e del direttore pro tempore, Paride Leporace, già direttore della Lucania Film Commission: le 2 regioni danno vita a un nuovo e positivo progetto di collaborazione, piuttosto innovativo e fecondo, il progetto Lu.Ca.    
 
Oggi, la Fondazione Calabria Film Commission dispone di 500.000 euro l’anno e adotta una linea di intervento per il sostegno di produzioni cinematografiche nazionali e internazionali che scelgono di ambientare le nuove produzioni cinematografiche sul territorio. La Film Commission calabrese partecipa ai festival di Venezia, Cannes e a tutti i principali festival nazionali ed europei, promuovendo la regione e le sue attività. Parallelamente, offre formazione professionale e sostegno per nuove produzioni, promozioni e diffusioni di film realizzati da calabresi. Come recentissimo successo territoriale e divulgativo, la Regione e la Calabria Film Commission hanno finanziato uno sceneggiato televisivo, le cui riprese sono iniziate in giugno, sulla figura di Mimmo Lucano, sindaco di Riace (RC), e sulle sue innovative politiche di accoglienza dei migranti che, con un lavoro quotidiano e per lo più sconosciuto,  testimoniano lo spirito d’ospitalità dei calabresi (il calabrese è così: lavoratore, accogliente, talmente orgoglioso da non chiedere il riconoscimento della propria fatica). Lo sceneggiato andrà in onda nel febbraio 2018, su RaiUno. È con questa mentalità positiva, che si è arrivati a vedere il bel A Ciambra: una storia struggente di incontri tra ultimi sullo sfondo della frazione di Palmi, che si chiama Ciambra appunto, nel Golfo di Gioia Tauro. Il film di Jonas Carpignano, newyorkese-romano che da 7 anni vive a Gioia Tauro, ha entusiasmato critica e pubblico alla Quinzaine di Cannes nel maggio scorso, infondendo maggiore fiducia a una terra sulla quale trionfano i luoghi comuni, ma che si rivela vitale e priva di pregiudizi.
 
I registi nati qui, come molti calabresi, sono anche cittadini del mondo
 
Poi, ci sono i registi calabresi, che sono legatissimi, come rocce, alla Calabria e contemporaneamente riescono a integrarsi ovunque. La comunità dei calabresi nel mondo (www.calabresi.net) è una tra le più grandi. Emigranti, per necessità, ma forse anche curiosi, i calabresi. I registi nati qui, sono davvero cittadini del mondo: Carlo Carlei, per esempio, ha lasciato la sua Nicastro (CZ), prima per Roma, poi per gli Usa, dove ha avuto una nomination ai Golden Globe con La corsa dell’innocente (1994), fino al più grande successo internazionale di Romeo and Juliette (2013). E poi, Massimo Scaglione, formatosi a Los Angeles, e Andrea Frezza, regista e documentarista di Laureana di Borrello (RC), che ha vissuto in California. Ultimo nome, esemplare, è quello di Gianni Amelio: raffinato, colto, penetrante. Osservatore silenzioso, attentissimo alle pieghe intime dell’individuo, alle crisi del mondo, ai dolori della società. Riservato e gentile, Gianni Amelio, calabrese di Magisano (CZ), ha sconvolto, incantato, commosso il mondo con film come Porte Aperte (1990) tratto da Leonardo Sciascia, Il ladro di bambini (1992), Lamerica (1994), La stella che non c’è (2006), Felice chi è diverso (2014), fino all’incantevole, ultimo, La tenerezza (2017).
 
Intervista a Mimmo Calopresti: Come si può essere calabresi?
 
A un regista, sceneggiatore, attore, produttore calabrese nel mondo, si è scelto di fare alcune domande riguardo il suo rapporto con la Calabria. Parafrasando Leonardo Sciascia, che iniziava la raccolta di saggi Fatti diversi di storia letteraria e civile (1989) con il capitolo intitolato: “Come si può essere siciliani?”, e anche Gian Maria Volonté, interprete del grande film del calabrese Gianni Amelio, Porte aperte (tratto anch’esso da Sciascia), che nell’evocativa scena di viaggio sul traghetto sullo Stretto di Messina, concludeva il suo intenso monologo, allo stesso modo, con la domanda: “Come si può essere siciliani?”, a Mimmo Calopresti abbiamo chiesto: “Come si può essere calabresi”?
 
Cosa ricordi della Calabria, da bambino?
 
Ho lasciato Polistena (RC), dove sono nato, a soli 2 anni: ci siamo trasferiti a Torino, come tanti migranti, mio padre faceva l’operaio. La famiglia Calopresti appartiene a quella grande parte d’Italia che è partita, amando il proprio Paese, per sopravvivere in giro nel mondo; c’è un Domenico Calopresti, mio antenato e omonimo, che è arrivato a New York come migrante, nei primi del ’900. Ma per me, la vita calabrese è stata, ed è, decisiva. L’infanzia calabrese era estiva, soprattutto, e di sole donne: donne e bambini, perché gli uomini lavoravano al nord. Come in guerra… Estati intere senza maschi adulti. Vivevamo quelle giornate bollenti tra anziani, donne e bambini. Curioso e indimenticabile, formativo e utilissimo, quel tempo. Io stavo bene.
 
Che immagine associ alla Calabria?
 
L’immagine della mia Calabria è quella di un Eden. L’ho anche criticata molto, nel tempo, ma l’idea che ne ho è quella di un Paradiso. Sono nato nella Calabria dello Stretto, tra la parte più estrema del continente e la Sicilia. La Calabria dello Stretto di Messina è profondamente greca: sente tutta la nostalgia della fine del continente Europa, si apre al Mediterraneo e ricorda la propria storia: la civiltà greca, dalla quale è nata. Parlo di Calabria dello Stretto perché esistono varie “Calabrie”, per gli stessi calabresi: i cosentini, per esempio, sono e si sentono molto diversi dai crotonesi e viceversa; come chi è nato in Sila, si sente, ed è, più parte delle montagne che del mare – Anche se la giornata, estiva intendo, del calabrese si svolge svegliandosi tra i boschi di castagni, e poi giù, soltanto un’ora di macchina per fare un tuffo al mare, mangiare cibo squisito e andare alle feste, nelle piazze – Viaggio parecchio per la Calabria, la conosco (anche se nasconde dei posti che mi stupiscono e scopro sempre qualcosa di nuovo). Soprattutto da qualche anno, ci sono molte iniziative culturali, musicali, cinematografiche, retrospettive e rassegne, festival. Un altro tratto della Calabria è la vitalità, cosa che appare inaspettata a chi non è calabrese.
 
Come sono i calabresi?
 
Non lo so, se ne sono andati tutti… Ho parlato delle estati femminili della mia infanzia perché davvero penso che sia una regione disgregata, scissa: intendo dire che la miseria e l’inquietudine qui sono così presenti e tangibili, che il calabrese è destinato ad andare via, quasi per principio, oltre che per necessità. Penso che i calabresi siano particolarmente adattabili e più accomodanti di quanto non si dica: l’orgoglio e la nostalgia  della terra, al di là di ogni retorica, spesso ci hanno difeso (e parlo anche per me) dalla diffidenza, dalle umiliazioni, dalle discriminazioni. I calabresi, in Germania, Svizzera o a Milano, sono stati fortemente discriminati, sin dall’immediato dopoguerra. E dico Milano perché lì è stata davvero dura la vita dei migranti del sud, mentre a Torino ho sentito sulla mia pelle una maggiore fiducia verso di noi, forse perché c’era un’identità collettiva più forte. Fondamentalmente, non penso che i calabresi fuori dalla Calabria abbiano meritato e meritino ancora la circospezione, a volte il sarcasmo, che invece vivono.
 
Quanto il tuo essere calabrese ha influenzato il tuo cinema?
 
C’è sempre, nei miei film, l’idea del Sud: un grande Sud, con grandi potenzialità. Non racconto solo la Calabria, ma l’intero Sud, che è il luogo dell’uomo per eccellenza. A Torino, c’era una comunità calabrese forte, ben integrata. E io stesso mi sento torinese. Ma il mio essere un uomo del Sud è più forte: è il richiamo dell’antropos, della polis, della civiltà greca. Nel mio cinema ritrovo sempre la nostalgia del bello, dell’essere del Sud, non soltanto calabrese.
 
Come racconti la Calabria nei tuoi film?
 
La racconto con parsimonia, nel senso che c’è, ma cerco di non abusare di quel richiamo, di quella nostalgia, che rischia di diventare retorica. Cerco di inserirla in un contesto generale, in racconti altri, che non riguardino esclusivamente quei posti. Perché, se i calabresi sono davvero cittadini del mondo, è la Calabria, come luogo e come idea del luogo, che stenta a diventare parte del mondo. Resta chiusa nei luoghi comuni, nella diffidenza da parte di chi non è calabrese, e questo è confermato dal fatto che chi va in Calabria per la prima volta, regolarmente, si stupisce della sua unicità, bellezza, accoglienza, allegria. Quando ho raccontato la Calabria, in Preferisco il rumore del mare o L’Abbuffata, ho cercato di aprirla ai fatti, alle storie di altri posti, di altre persone, non solo della Calabria...
 
Come vedi la Calabria, oggi?
 
Sono stato ovunque nel mondo e ho trovato calabresi ovunque nel mondo: dal Brasile, alla Russia, all’Europa tutta, all’America. E così, ho capito che dappertutto c’è la presenza dell’uomo, del luogo dell’uomo, del Sud. Nel mondo, cioè, circola ancora l’idea della Magna Grecia, della civiltà, di qualcosa di profondamente strutturato e forte, che arriva da lontano. E quest’idea è portata anche dai calabresi. Il punto è che la Calabria si deve aprire. Come ho detto, tutti quelli che scoprono la Calabria la amano e ci ritornano, perché è selvaggia, richiama l’ancestrale, i luoghi della memoria nascosta. Attualmente, poi, succedono cose nuove, positive, culturalmente parlando. Recentemente, ho letto sul New York Times che tra i primi 7 posti dove si mangia meglio al mondo, c’è la Calabria. E non è scritto su un giornale locale, ma su uno dei più importanti quotidiani del pianeta e si parla dei primi 7 posti al mondo dove gustare cibo: bello, no? I sapori calabresi, forti, delicati e potenti, sorprendono molto e sono radicati nella cultura calabrese. Ma c’è dell’altro, in Calabria. Forse, anche grazie a chi arriva qui scappando da guerre, fame, morte, la Calabria sta trovando, paradossalmente, nuova vita. Questi nuovi cittadini vengono accolti e spesso ripopolano interi paesi che erano quasi abbandonati; credo che questa nuova vita porti con sé un nuovo fermento. La parte sana e attiva della Calabria sta raccontando le storie di nuove persone e tutto questo fa nascere un nuovo punto d’osservazione, una riflessione superiore anche sulla propria cultura, che non può che arricchirsi e maturare insieme a quella altrui. Ecco, ora credo che la Calabria stia trovando la strada per essere davvero parte del mondo, in modo positivo e tangibile. 
 
Recentemente, per la Calabria, hai realizzato un progetto: Bella come un film. Di cosa si tratta?
 
È una specie di documentario, lo abbiamo fatto pochi mesi fa. Sono convinto che i calabresi, per far conoscere la Calabria migliore, debbano auto-raccontarsi. Così, da un’idea nata nell’Associazione Calabresi Creativi, con la Regione e la Calabria Film Commission, abbiamo lanciato un’iniziativa sui social networks – uso i social e ci lavoro: sono i nuovi luoghi dell’immagine in movimento, ma non ne abuso – Abbiamo chiesto ai calabresi di inviare su Instagram filmati girati da loro stessi, su quello che succede in Calabria: il mare, la montagna, i riti religiosi, le feste paesane, il cibo, la musica… Ne abbiamo ricevuti moltissimi, tutti interessanti e ne abbiamo premiati 5-6. Poi, ci è venuto in mente di montarli e farne un unico lavoro, sulla Calabria, fatto da calabresi. Mi è stato chiesto che lo montassi io ed è nato Bella come un film. Il presidente della Regione era entusiasta: è successo qualcosa di comunicativamente importante con quella cosa, in modo naturale. Lì ho davvero capito che, per aprirsi al mondo, la Calabria deve auto-raccontarsi, lo ripeto: è la migliore promozione che possa fare per se stessa. 
 
Per concludere, come vive tua figlia la Calabria?
 
Mia figlia ha 8 anni ed è curiosissima della Calabria. Io ci tengo molto che la conosca. Le racconto fatti, luoghi, storie di persone e lei vuole sapere tutto, mi fa un sacco di domande. Ma soprattutto, Clio nuota moltissimo, in Calabria.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

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Fabbricare, fabbricare, fabbricare
preferisco il rumore del mare
che dice fabbricare fare e disfare.
Fare e disfare è tutto un lavorare.
Ecco quello che so fare.
(Dino Campana)

 

la sua spettacolare natura sta lì per l’uomo. C’è tutto in Calabria: il mare, i laghi, la Sila e l’Aspromonte; cibo sorprendente nella sua complessa povertà gustativa; c’è odore di mare, di sole, argilla e finocchio selvatico; di castagni, querce, ulivi, funghi; ci sono feste paesane e riti pagani, religiosi, di grande valore antropologico, come ha insegnato Luigi Lombardi Satriani.

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SU ANTICHE ROTAIE: VIAGGIO AL SUD di Alberto Sgarbi – Numero 8 – Luglio 2017

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SU ANTICHE ROTAIE: VIAGGIO   AL SUD

 

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Salire su questi treni fa un po’ lo stesso effetto di prendere un aereo: alla stazione di partenza il mezzo ingloba il viaggiatore come in un guscio e lo restituisce, fresco e riposato, a quella di arrivo,
quando il viaggio è concluso.


Si è guadagnato moltissimo in termini di comfort e tempi di percorrenza, ma si è persa quasi del tutto la dimensione del viaggio come esperienza di attraversamento, lettura dei “paesaggi” e dei territori, intesi sia nella loro dimensione naturale che in quella antropica. Anziché guardare fuori dal finestrino, gran parte dei passeggeri delle “frecce” ha lo sguardo rivolto a portatili, tablet e smartphone, perdendo così quella capacità di osservare i contesti attraversati che ha contraddistinto per secoli l’uomo “viaggiatore”. Anche se è assodato che ormai la tecnologia domina le nostre vite, rimane in tutti noi una componente “umana” che cerca sempre di riemergere.

 

Ecco allora che tante persone cercano di uscire, in senso metaforico, dalle strade già tracciate, andando alla ricerca di qualcosa che permetta loro di riappropriarsi di ciò che si ritiene perduto, dimenticato o sepolto, di quella parte più vicina all’essenza della vita. 


Si cercano allora i paesaggi dove ancora la presenza umana e la natura riescono a fondersi armoniosamente: cittadine e piccoli borghi dove la vita sembra essere maggiormente a misura d’uomo, dove gustare cibi con i sapori genuini delle tradizioni e condividere momenti di socialità. Tutto questo trova una sua declinazione anche nel mondo dei trasporti su rotaia che, proprio nell’era dell’alta velocità, va riscoprendo antichi tracciati in alcune zone particolarmente caratteristiche del nostro paese, soprattutto concentrati nel Centro e Sud Italia. Si tratta di antiche linee ferroviarie che hanno perso, o sensibilmente ridimensionato l’originario ruolo di vie di comunicazione per il quale esse erano nate, tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900. Questo fatto è comune a tutti i paesi maggiormente sviluppati d’Europa e del mondo e, in quasi tutti,

 

si è sviluppato – a partire dagli anni ’50 e ’60 – un movimento di gruppi, associazioni e cittadini che hanno avviato azioni per impedire 

la distruzione di molte ferrovie minori, riadattandole 

ad un nuovo ruolo: la ferrovia turistica. 


Giusto per dare conto di cosa significhino le ferrovie turistiche in Europa, è bene sapere che i numeri sono di tutto rispetto: i passeggeri trasportati sono 20 milioni, il giro d’affari è di circa 500 milioni di euro, i km di linee turistiche sono oltre 5.000 e i dipendenti di tali ferrovie sono circa 3.700 (col supporto di migliaia di volontari), dimostrando che si tratta di un’attività che può creare lavoro e ricchezza. Ma non basta: quasi sempre la ferrovia turistica vede un esercizio svolto con materiale rotabile storico, ossia treni formati da antiche carrozze con sedili in legno (o con i velluti rossi se di prima classe…), spesso trainate da locomotive a vapore, ma anche elettriche o diesel, la cui costruzione va dai primi del ‘900, fino al 1970 circa, rappresentando molti decenni di storia industriale.

 

Il salire su questi antichi convogli è, già di per sé, un’esperienza che ha un fascino particolare, alla quale si aggiunge quella di godere

la visione di incantevoli paesaggi, ancor più apprezzabili
per la bassa velocità del treno e per il fatto che si può stare
affacciati al finestrino, assaporando profumi e odori
di brezze che sanno di bosco, di prato e di mare.


In Italia, a causa del basso livello di cultura scientifico/tecnologica e, più in generale, di condizioni socio-economiche diverse, il fenomeno delle ferrovie turistiche è arrivato con circa trent’anni di ritardo rispetto al resto d’Europa. Ci sono però dei segnali estremamente positivi e incoraggianti, che fanno sperare che il nostro paese possa rapidamente colmare il suo ritardo e valorizzare, come meritano, ferrovie storiche e relativi territori. In generale, si può notare un salto di consapevolezza inimmaginabile solo una decina di anni or sono: dal 1995, esiste la Federazione Italiana delle Ferrovie Turistiche e Museali; un organismo che raccoglie le associazioni di appassionati ed amatori di treni e ferrovie, che per anni non arrivava alle 10 unità federate, mentre ora ha raggiunto il ragguardevole numero di 24 associazioni rappresentate. Ma la cosa più rilevante l’ha realizzata il gruppo FS, creando, nel 2013, un organismo espressamente dedicato alla conservazione della cultura storica aziendale (che, a dirla tutta, è un patrimonio di tutta la nazione): si tratta della Fondazione delle Ferrovie dello Stato Italiane che, fra le altre cose, si occupa dello sviluppo delle ferrovie turistiche.

 

La Fondazione FS è diretta da un giovane e dinamico ingegnere, Luigi Cantamessa, che ha messo a frutto un patrimonio creato nei decenni scorsi dai rapporti, quasi sempre informali, che il mondo associativo teneva con alcuni funzionari “illuminati” delle Ferrovie dello Stato, facendo segnalazioni e sollecitando coloro che potevano intervenire, per non disperdere testimonianze storiche che oggi si rivelano fondamentali per lo sviluppo del turismo ferroviario.

 

In questo quadro, il Sud gioca un ruolo di primo piano, ancora più significativo perché, storicamente, la passione per i treni e le ferrovie è molto più “giovane” rispetto al Nord, dove già negli anni ’70 vi erano gruppi di appassionati forti e strutturati. Si è sempre pensato che la cultura legata alla tecnologia fosse carente al Sud, mentre ora assistiamo ad una rimonta che nessuno si sarebbe aspettato. I soci delle Associazioni di amici delle ferrovie del Sud, sono quasi tutti giovani, fortemente motivati e animati da una grandissima passione, sia per i treni sia per le loro bellissime terre: un mix vincente che sta portando a risultati estremamente fruttuosi. Fra le tante realtà associative ne vogliamo citare tre, i cui progetti sono di sicuro rilievo: l’Associazione Le Rotaie-Molise, l’Associazione Ionico Salentina Amici delle Ferrovie, col suo ramo “operativo” Rotaie di Puglia e l’Associazione Ferrovie in Calabria.

 

L’Associazione Le Rotaie-Molise è operativa dal 2002 e ha realizzato uno dei più spettacolari progetti: quello dalla salvaguardia della ferrovia Sulmona-Carpinone, denominata “Transiberiana d’Italia”, per le bellezze e varietà dei paesaggi tra i parchid’Abruzzo e della Maiella.


Un capolavoro di ingegneria, per una linea inaugurata nel 1892, il cui culmine è la stazione di Rivisondoli-Pescocostanzo, a 1268 metri sul livello del mare. Dopo una prima fase embrionale, lo sviluppo di questo progetto è avvenuto quando vi è stato l’interessamento della Fondazione FS, che ha fatto sì che la linea fosse mantenuta percorribile dai treni anche dopo la sua chiusura al traffico ordinario e mettendo a disposizione uno splendido treno storico, che percorre la linea, partendo da località diverse, con un programma di ben 28 viaggi per il 2017. Per dare un’idea dei numeri, sulla Transiberiana d’Italia hanno viaggiato circa 9.000 passeggeri nel 2015, balzati a 14.000 nel 2016!

 

Rimarchevole anche il grande lavoro dell’Associazione Ionico Salentina Amici delle Ferrovie, che ha dato un contributo determinante per la costituzione del Museo Ferroviario di Lecce 

e del treno storico Salento Express,


gestito per diversi anni assieme all’amministrazione delle Ferrovie del Sud-Est, ora purtroppo fermo, a causa dei noti eventi negativi, che hanno visto il fallimento della precedente gestione e l’acquisizione del gruppo da parte di Ferrovie delle Stato Italiane. In ogni caso il treno storico Salento Express è conservato in buono stato e si spera che possa ripartire presto per solcare gli incredibili paesaggi pugliesi, fra cui il particolarissimo raccordo ferroviario che giunge alla fermata di Gallipoli Porto, collegando l’isola della città vecchia con la terraferma, proprio come a Venezia!

 

La sezione “turistica” di AISAF, denominata Rotaie di Puglia,

è impegnata nello sviluppo di altri itinerari regionali, col treno storico Murgia Express, dell’amministrazione delle Ferrovie Appulo Lucane,
le cui linee collegano le città di Bari, Altamura, Matera e Potenza.


Infine la giovanissima (in tutti i sensi: dalla data di costituzione all’età media dei membri) Associazione Ferrovie in Calabria, che ha lavorato duramente per convincere gli Enti Locali e l’amministrazione delle Ferrovie della Calabria a ripristinare una tratta della bellissima ferrovia “Silana” con il treno storico a vapore, che ha ottenuto un successo superiore a ogni aspettativa.

 

La ferrovia che da Cosenza porta a San Giovanni in Fiore, attraversa l’altopiano della Sila ed è, anch’essa, un capolavoro di ingegneria 

che nulla ha da invidiare alle famose ferrovie svizzere.


Si pensi che, in 67 km, passa dai 202 metri sul livello del mare di Cosenza ai 1404 metri della stazione di San Nicola – Silvana Mansio, stazione ferroviaria più alta d’Italia! Ora la ferrovia è agibile solo parzialmente, ma, essendo il tracciato ancora sostanzialmente integro, si auspica che venga reso percorribile nella sua interezza in tempi ragionevoli.

 

Il Sud non si limita però ai soli casi illustrati, perché altre realtà sono operative o stanno emergendo, come la ferrovia dei “Templi”

da Agrigento a Porto Empedocle, o la ferrovia dell’Irpinia,
da Avellino a Rocchetta S. Antonio, entrambe gestite
con i treni della Fondazione FS.
 


Concludo con l’auspicio che tutto questo possa trovare una stabilità e un assetto definitivi anche grazie ad una proposta di legge la cui prima firmataria è la deputata siciliana Maria Iacono, a dimostrazione della voglia di riscatto e della progettualità che vengono dal Sud. Il nome della proposta di legge è: “Disposizioni per l’istituzione di ferrovie turistiche mediante il reimpiego di linee in disuso o in corso di dismissione situate in aree di particolare pregio naturalistico o archeologico” ed è stata approvata lo scorso 24 gennaio alla Camera con una votazione all’unanimità. Come Federazione delle Ferrovie Turistiche e Museali abbiamo dato il nostro contributo in termini di proposte e sensibilizzando diversi parlamentari sul tema a noi caro, confidando in una rapida approvazione anche al Senato, per aprire una nuova stagione che dia all’Italia, e al Sud in particolare, il rilievo che essi meritano nel panorama del turismo ferroviario mondiale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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BIOECONOMIA: UNA SFIDA PER IL MEZZOGIORNO di Piergiuseppe Morone e Francesca Govoni – Numero 8 – Luglio 2017

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Come converrebbe la maggior parte degli storici, la prima fondamentale transizione si è verificata più di 10 mila anni fa quando l’Homo sapiens si è trasformato da cacciatore-raccoglitore in agricoltore e il genere umano ha imparato a coltivare e ad addomesticare gli animali. Questo è stato lo sviluppo più significativo nella storia dell’umanità, sviluppo che ha rappresentato uno spartiacque tra il Paleolitico e il Neolitico – spianando la strada ad una nuova era, a partire dalla quale la relazione umana con le risorse naturali sarebbe cambiata per sempre.

 

Da allora, molte altre rivoluzioni si sono verificate nella storia dell’umanità
e le grandi innovazioni, spesso insieme a nuovi modi di sfruttare
le risorse naturali, hanno indirizzato il cambiamento.

 

Passando dall’età del legno a quella del carbone, siamo entrati – quasi un secolo fa – nell’età del petrolio. Tale era, caratterizzata da un forte aumento in termini di ricchezza e di opportunità e da modelli di produzione e di consumo di massa, sta probabilmente volgendo al termine: la sostenibilità di questo modello, infatti, risulta fortemente minacciata dalle grandi sfide del nostro secolo.Più nello specifico, la popolazione mondiale, attualmente pari a circa 7,5 miliardi di persone, è destinata ad aumentare di quasi un miliardo entro il prossimo decennio e raggiungere i 9,6 miliardi entro il 2050. Al contempo, le grandi economie in rapida crescita (come Cina e India) diventeranno sempre più ricche e la classe media mondiale arriverà a triplicarsi entro il 2030 (la maggior parte di questa crescita sarà concentrata nei paesi in via di sviluppo). Per mettere questi trend in prospettiva, entro il 2030 i paesi asiatici rappresenteranno oltre il 65% della classe media mondiale, rispetto all’attuale 35%.Un effetto importante che scaturisce da questi trend è

 

l’aumento del consumo e della domanda di generi alimentari, di beni manufatti e delle fonti di energia. Tali circostanze determineranno
un aumento della pressione sul sistema economico e ambientale
mondiale attraverso almeno tre canali:

 

(1) le emissioni di gas a effetto serra (GHG), (2) la sostenibilità degli elementi chimici presenti sul nostro pianeta e (3) la gestione dei rifiuti prodotti dall’uomo.

 

In primo luogo, l’aumento in termini numerici della popolazione condurrà ad una maggiore richiesta di energia

 

(necessaria, tra le altre cose, per sostenere la crescente domanda nei settori dei trasporti, del manifatturiero e del settore agroalimentare), con conseguente incremento delle emissioni prodotte dall’impiego di combustibili fossili. Un ulteriore effetto negativo del trend in esame passa attraverso l’impiego delle aree verdi naturali: l’aumento della domanda di generi alimentari determinerà, infatti, uno sfruttamento sempre maggiore di tali aree, con conseguente intensificazione della deforestazione.

 

L’accelerazione prevista nella crescita della domanda mondiale comporta, inoltre, un’altra necessità: preservare la sostenibilità degli elementi chimici presenti sul nostro pianeta

 

al fine di garantire alle generazioni future le stesse opportunità di sviluppo dell’attuale generazione. Sebbene l’effetto più immediato dell’esaurimento di tali elementi sarebbe quello di una riduzione dei beni potenzialmente producibili, tale fenomeno ha delle rilevanti ricadute anche sul ciclo del carbonio, poiché molte tecnologie verdi (ad esempio le tecnologie legate allo sfruttamento dell’energia solare) utilizzano proprio questi elementi a rischio esaurimento.

 

Infine, l’aumento generalizzato dei consumi è associato ad un forte aumento della produzione di rifiuti.

 

Questa potrebbe raddoppiare entro il 2025 e, nonostante lo sforzo intrapreso dalla maggior parte dei Paesi OCSE, il volume dei rifiuti potrebbe aumentare ancora fino al 2050 a causa del cambiamento nella composizione della popolazione mondiale legato al progressivo fenomeno di urbanizzazione.Va a ciò poi aggiunto come i pur significativi sforzi intrapresi da molti Paesi ad alto reddito, rivolti a ridurre la produzione dei rifiuti, siano spesso in gran parte vanificati dalle tendenze esistenti nell’Asia Orientale (la regione a crescita più rapida del mondo per rifiuti). Basti pensare alla produzione di rifiuti solidi in Cina, destinata a passare da 520/550 tonnellate al giorno nel 2005 a 1,4 milioni di tonnellate al giorno nel 2025.

 

Alla luce di queste considerazioni, appare necessario intraprendere un percorso di cambiamento che si inserisca nel solco di una necessaria quanto opportuna transizione da una società basata sul consumo di massa, sulla produzione incontrollata di rifiuti e sullo sfruttamento dei combustibili fossili, ad una società caratterizzata, invece, dalla riduzione e valorizzazione 

dei rifiuti e da nuovi modelli di produzione e consumo.

 

Questo cambiamento tocca le corde più sensibili del nostro il tessuto sociale ed istituzionale e va oltre il mero cambiamento tecnologico. Di conseguenza, la questione da affrontare è se questa transizione sia realizzabile nel prossimo futuro e quali passi possono essere efficacemente intrapresi per portare tale transizione a compimento.

 

Come evidenziano gli studiosi della transizione, tre condizioni devono essere soddisfatte simultaneamente affinché possano realizzarsi grandi cambiamenti:

 

(1) le nuove tecnologie che sostituiranno le tecnologie preesistenti devono aver raggiunto un adeguato livello di maturazione e devono essere economicamente vantaggiose; (2) un numero significativo di attori (produttori, consumatori, policy makers, opinion leaders, etc.) devono condividere alte aspettative sul futuro della nuova tecnologia e sulla transizione in atto; (3) i principali stakeholders operanti nella società civile devono attivamente esercitare pressioni per il cambiamento. La coesistenza di queste tre condizioni rende possibili i cambiamenti di paradigma. Ma dove si inserisce l’Italia ed il Mezzogiorno in questa traiettoria del cambiamento? Il processo di transizione rappresenta senz’altro una sfida stimolante per l’Italia, dove è stata proprio l’industria, attraverso i suoi principali players (tra i quali Novamont, Mossi Ghisolfi, ENI-Versalis, ed il connesso indotto popolato da imprese di piccola e media dimensione attive nel settore dei biopolimeri e dei chemicals), a guidare il cambiamento portando avanti una tradizione di collaborazione con il mondo della ricerca. Basti pensare al caso di Matrica, una joint venture paritetica costituita proprio da ENI-Versalis e Novamont al fine di 

 

riconvertire lo stabilimento petrolchimico di Porto Torres in una bioraffineria integrata nel territorio per la produzione di prodotti ad alto valore aggiunto utilizzando anche feedstock di seconda generazione.

 

Un progetto, questo, dal grande impatto non solo ambientale, ma anche economico e sociale. La riconversione di siti petrolchimici ormai dismessi in bioraffinerie è la strada che si è seguita anche a Marghera e che si vuole seguire a Gela.

 

In questo contesto il Mezzogiorno può trovare nuovi stimoli alla crescita
che si concilino con la sostenibilità ambientale, economica e sociale. 

 

Proprio a Gela, la crisi del settore della raffineria tradizionale si è riversata sul territorio locale, con conseguenze pesanti a livello di occupazione che hanno accentuato gli effetti della grave recessione economica mondiale. 

 

Ripartire dalla bioeconomia è una concreta possibilità: con il Protocollo d’Intesa siglato nel 2014, Eni ha avviato un processo di trasformazione 

del sito industriale in una green refinery,  

 

dove dovrebbero essere prodotti biocarburanti utilizzando non solo olio di palma grezzo di importazione, ma anche oli esausti di cottura e grassi animali. E’ inoltre auspicabile, nel processo di transizione di cui si tratta, l’annunciata realizzazione di un impianto pilota per la trasformazione della frazione organica dei rifiuti solidi urbani del territorio in bio-olio. In questo modo, non solo si avrà a disposizione una quantità maggiore di feedstock da trasformare in bio-olio, ma si fornirà un supporto concreto alla valorizzazione del food waste locale. Tutti questi virtuosi processi di conversione lasciano presagire un’accelerazione nel settore della bioeconomia, che potrebbe essere ulteriormente facilitata da interventi mirati dei policy makers nella politica industriale, con ricadute positive sulle economie locali e su di un tessuto sociale altrimenti avviato ad una pericolosa disgregazione. 

 

La bioeconomia, dunque, può divenire un nuovo driver di sviluppo 

del Mezzogiorno: un’opportunità, questa, che i policy makers 

non possono sprecare.

 

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BIOECONOMIA: UNA SFIDA PER IL MEZZOGIORNO

 

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