MEDITERRANEO CULLA DELLA SCIENZA di Giorgia Ippoliti – Numero 22 – Settembre ottobre 2021 – Ed. Maurizio Conte

 

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MEDITERRANEO CULLA DELLA SCIENZA 

 

«Superare le proprie limitazioni e divenire signori dell’universo».

Così Archimede di Siracusa sintetizzò quello che, sin dalla notte dei tempi, ha spinto l’Uomo a superare le barriere del reale per scoprire l’ignoto. Superando i confini del noto sapere, mettendo in discussione le proprie certezze, l’Uomo ha sempre cercato di travalicare i limiti spazio temporali per riuscire a colmare quella connaturata sete di conoscenza.

 

Ed è proprio ad Archimede, e alla città di Siracusa, che alcuni studiosi 

attribuiscono quella che può essere definita come una delle più grandi 

opere ingegneristiche mai conosciute.

 

La più bella e nobile tra le città greche – per far proprie le parole di Tito Livio – è stata foriera di un tesoro nascosto. 

Cicerone, nel De Natura Deorum, afferma «Secondo loro sarebbe stato molto più abile Archimede nel riprodurre i moti celesti con la sua sfera di quanto non lo sia stata la natura nel crearli, nonostante la maggiore perfezione di questi ultimi in più̀ di un particolare rispetto alla loro imitazione».   

 

Ma a cosa si riferiva l’illustre Oratore? 

Con molta probabilità, alla macchina di Anticitera, il più antico calcolatore meccanico conosciuto, databile intorno al 150-100 a.C.

 

Il meccanismo si racconta sia stato ritrovato intorno al 1900 grazie alla segnalazione di un gruppo di pescatori di spugne che, persa la rotta a causa di una tempesta, furono costretti a rifugiarsi sull’isoletta rocciosa di Cerigotto.

 

Al largo dell’isola, alla profondità di circa 43 metri, fu scoperto il relitto di una nave, naufragata agli inizi del I sec. a.C. e adibita al trasporto di oggetti di prestigio, tra cui statue in bronzo e marmo. 

Tra gli oggetti rinvenuti, ve ne era uno, piccolo, dal colore verdastro, dello spessore di un libro, che destò stupore e curiosità: vi erano delle incisioni, in parte abrase e corrose, in un primo momento indecifrabili.

 

Cos’era quello strano oggetto? Perché si trovava a bordo di un relitto?

 

È bastato contemplare il panorama in una notte di luna piena, per far sì che il brivido del passato riecheggiasse in una delle più antiche colonie elleniche per mostrare l’essenza di quella che può esser definita non solo culla della civiltà, ma anche della scienza.   

 

Gli archeologi e gli studiosi non potevano credere ai loro occhi: si trovavano di fronte a una macchina del cosmo.

 

Quell’eccentrico congegno, quello strabiliante coacervo di dati e incisioni, 

di meccanismi e ingranaggi, era la chiave di volta per capire l’astronomia 

e la tecnologia dell’antica Grecia e il loro ruolo 

nel contesto socioculturale grecoromano.


Era stata concepita in tarda età ellenistica sulla base di raffinate, consolidate e diffuse conoscenze meccaniche e astronomiche. Solo nel 1951 i dubbi sul misterioso meccanismo cominciarono ad essere svelati. 

Fu proprio in quell’anno che il professor Derek de Solla Price[1], come un moderno Indiana Jones alla ricerca del tesoro nascosto, cominciò a studiare il congegno, esaminando minuziosamente ogni ruota ed ogni pezzo, e riuscendo, dopo circa vent’anni di ricerca, a scoprirne il funzionamento originario.

Anni di studi, dubbi ancora in parte irrisolti e avvolti in un’alea di mistero – basti pensare che il testo delle iscrizioni decifrate non risulta essere stato ancora comunicato – consentirono di scoprire la funzionalità e il meccanismo della macchina di Anticitera.

 

 

Quella macchina del cosmo, tra le più avveniristiche nel genere delle macchine strabilianti, era stata creata per imitare la natura senza rivelare 

il proprio funzionamento.

Il meccanismo, sconosciuto ai più, diveniva fruibile ai soli soggetti più curiosi, trasformandosi in una sorta di manuale animato di divulgazione scientifica. La macchina di Anticitera risultò essere un antichissimo calcolatore per il calendario solare e lunare, le cui ruote dentate potevano riprodurre il rapporto di 254:19 necessario a ricostruire il moto della Luna in rapporto al Sole (la Luna compie 254 rivoluzioni siderali ogni 19 anni solari). 

Era, infatti, un sofisticato planetario, mosso da ruote dentate, che serviva per calcolare il sorgere del sole, le fasi lunari, i movimenti dei cinque pianeti allora conosciuti, gli equinozi, i mesi, i giorni della settimana e le date dei giochi olimpici, oltre che le lunazioni, ottenute dalla sottrazione del moto solare al moto lunare siderale.   

 

La macchina era delle dimensioni di circa 30 cm per 15 cm, dello spessore di un libro, costruita in rame e originariamente montata in una cornice in legno. Era ricoperta da oltre 2.000 caratteri di scrittura, dei quali circa il 95% è stato decifrato.

 

Il meccanismo riproduceva di fatto l’universo così come lo concepivano i Greci.


La scoperta riuscì a far emergere come nella Grecia del II secolo a.C., e nelle sue colonie, esistesse effettivamente una tradizione di altissima tecnologia. Ma come mai si riconduce la sua creazione ad Archimede, e in particolare alla città di Siracusa? 

Quel manufatto fuori dal tempo, uscito dal limbo delle semplici curiosità, riesce a render tangibile il pensiero del grande scienziato, secondo cui «coloro che pretendono di scoprire tutto ma non producono prove dello stesso possono essere confutati come se avessero effettivamente preteso di scoprire l’impossibile».   

 

È grazie ad Alexander Jones[2] che sono emersi degli ulteriori elementi che consentono di ricondurre, con sempre più probabile certezza, la costruzione della macchina a Siracusa.

 

I nomi incisi sullo strumento, in particolare dei mesi, ottenuti grazie all’opera 

di decifrazione compiuta, sono proprio quelli utilizzati nelle colonie corinzie 

e in particolare a Siracusa, in Sicilia.

 

Questa ipotesi, particolarmente affascinante, troverebbe conferma in alcuni scritti di Cicerone. L’autore latino descrive infatti alcuni strumenti realizzati dal matematico Archimede, siracusano, nel III secolo a.C, cioè due secoli prima rispetto alla costruzione del Meccanismo di Antikythera. 

Egli infatti riferisce, nel De Re Publica e nelle Tusculanae Disputationes, di planetari in bronzo costruiti da Archimede che mostravano la Terra, la Luna, il Sole, il mese lunare e le eclissi di Sole e di Luna.

 

L’antico calcolatore – oggi conservato presso il Museo Archeologico di Atene – sarebbe quindi frutto di una tradizione costruttiva legata direttamente 

agli studi del celebre matematico.

 

Ma perché è stato ritrovato sul relitto di una nave romana proveniente dal medio oriente e affondata attorno al 70 a.C.? 

Anche questo apre un nuovo filone di mistero, che rende ancora più affascinante e avvolgente la storia del meccanismo di Antikythera. 

C’è chi sostiene sia stato mandato in dono in Oriente da qualche ricco siracusano e da qui entrato a far parte di un bottino diretto a Roma; chi sostiene faccia parte dei meccanismi di Archimede portati a Roma, dopo il saccheggio di Siracusa e la morte dello stesso nel 212 a.C., dal generale romano Marco Claudio Marcello.   

 

Una cosa è certa. Passato e presente continuano ad essere facce di una stessa realtà. Gli antichi greci si avvicinarono così tanto alla nostra epoca, nel pensiero nella tecnologia scientifica, così dimostrando il fatto che «l’Uomo sia il più straordinario dei computer» (John Fitzgerald Kennedy).

 

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[1] Fisico e storico della scienza della Yale University, in uno studio pubblicato nel 1959 nella rivista Scientific American.

 

 [2] Alexander Jones, La macchina del Cosmo, Hoepli, 2019. 

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FONDAZIONE BANCO DI NAPOLI L’ARCHIVIO STORICO di Orazio Abbamonte – Numero 21 – Giugno-Luglio 2021 – Ed. Maurizio Conte

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FONDAZIONE BANCO DI NAPOLI L’ARCHIVIO STORICO

 

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Presso la sede della Fondazione Banco di Napoli, alla via Tribunali 212, è conservato l’Archivio Storico, giacimento documentario dalla straordinaria importanza. Si tratta d’una tra le raccolte più rilevanti al mondo – poco meno di 100 km lineari di carte – di documentazione relativa ad attività di imprese bancarie d’età moderna. Il più antico atto lì conservato risale all’inizio del secolo XVI; la parte più cospicua della raccolta va dalla fine di quel secolo sino all’Unità d’Italia.

 

Il corpo di maggior pregio della raccolta è costituito dal materiale attestante l’attività creditizia degli otto banchi pubblici napoletani – presso la sede della Fondazione 

era il Monte dei Poveri – istituzioni per lo più formatesi su un nucleo di finalità caritative, all’epoca affidate a congregazioni di aristocratici e religiosi. 

 

Erano principalmente questi i soggetti impegnati a svolgere la funzione solidaristica nei confronti delle fasce più deboli della popolazione, in un contesto istituzionale pubblico che all’epoca si disinteressava quasi del tutto di ciò che oggi verrebbe definita attività di sostegno alla povertà. Anche al fine di procurare la provvista di danaro necessario allo svolgimento dell’assistenza ai deboli e diseredati – ma ovviamente non solo per questo scopo – le congregazioni s’organizzarono ben presto in banchi ed avviarono una fiorente attività nel settore del credito, ideando anche le forme giuridiche e tecniche più appropriate alla circolazione della ricchezza ed al prestito di danaro.

Centrale strumento per rispondere alle necessità della nascente attività bancaria 

fu la cosiddetta ‘polizza’. 

 

Questa, altro non era che il documento con il quale il cliente del banco – colui che aveva cioè depositate a suo nome somme presso di esso, divenendone creditore – poteva disporre del danaro a lui intestato, effettuando così pagamenti e transazioni d’ogni sorta, senza che fosse necessario maneggiare direttamente moneta ed evitando così i rischi e le difficoltà connesse alla diretta gestione del numerario.

Detto in questi termini, però, non s’intenderebbe l’importanza straordinaria dell’archivio dei banchi pubblici napoletani, miniere di conoscenze d’ogni sorta 

circa la storia della Città e del Mezzogiorno in età moderna.


Bisogna anche sapere che, all’epoca, ancora non era invalso il regime di ‘astrattezza’ del titolo di credito. Ciò significava che all’interno della polizza erano indicate, spesso anche con dovizia di particolari, tutte le ragioni della transazione che davano luogo al pagamento. Cosicché leggendo quei documenti, si ottengono informazioni le più varie, sulla vita di singoli e comunità, su storie di artisti, come su vicende matrimoniali, su momenti grandi e piccoli di famiglie aristocratiche come dell’alta borghesia o di semplici artigiani, commercianti, professionisti.

 

Enormi flussi informativi sono a disposizione su atti pubblici, di politica economica, 

di alleanze, guerre, corruzioni, furti, sulla storia sociale e culturale.

 

L’elenco è pressoché sterminato, quanto sterminato è evidentemente l’ambito d’attività d’una banca – in questo caso di otto banche –  la quale costituisce cuore pulsante in qualsiasi comunità, crocevia dove s’incontrano, si scontrano e si compongono gli interessi più vari. Accanto ai grandi temi, ci sono poi anche le notizie minute, di persone e personaggi, della loro vita privata come di quella pubblica, dall’acquisto di un’abitazione, alla costituzione d’una dote, al pagamento delle spese d’un banchetto, al mercanteggiamento di stoffe e vestiti.

Insomma, attraverso le carte di quell’archivio, è possibile ricostruire storie 

non altrimenti conoscibili e soprattutto avere esperienze di vite d’altri tempi,

con le loro caratteristiche, i loro sfondi originali, le loro esigenze in parte distanti dalle nostre, in parte invece espressione di quella continuità ininterrotta che è la vicenda umana, con le sue altezze e le sue bassezze, i suoi balzi, le sue rovinose cadute. 

 

Da alcuni anni, al fine di rendere i contenuti dell’Archivio sempre più ampiamente 

e variamente fruibili, sono in corso due progetti. Da una parte, attraverso l’adesione 

al programma Transkribus è in atto la digitalizzazione del materiale documentario 

e la successiva sua trasformazione in caratteri a stampa, d’agevole lettura.

 

È un processo di ‘traduzione’ che si serve di tecnologie particolarmente sofisticate ed avanzate, grazie al quale, anche eventualmente su specifica richiesta, è possibile avere un accesso enormemente semplificato a quanto si custodisce nell’Archivio: un accesso cioè consentito anche ad utenti non particolarmente edotti di diplomatica e paleografia.

Dall’altra, è attivo ormai da circa otto anni, presso la sede della Fondazione, 

un Museo della documentazione archivistica. Un museo dotato 

di ricco materiale multimediale

 

che permette al visitatore d’entrare in contatto diretto con il contenuto dei documenti, eventualmente interagendo con esso, e di rendersi conto del funzionamento dell’attività bancaria, nonché d’essere introdotto a racconti di vario contenuto ispirati dalle carte conservate nell’Archivio: e d’avere così diretta esperienza d’una varia ed estremamente suggestiva immersione nel passato, del quale potrà letteralmente avvertire il sapore, anche se in precedenza non ne aveva nemmeno il sentore.

 

In sintesi, l’obiettivo che la Fondazione Banco di Napoli s’è prefissa è stato duplice: per un verso, assicurare la conservazione e la più completa fruizione del patrimonio archivistico al novero, relativamente ristretto, degli studiosi professionali; 

per un altro, avvicinare quello stesso patrimonio 

ad un più vasto pubblico d’interessati,

 

in modo da far apprezzare il valore d’una lunga e coinvolgente storia, la storia del Mezzogiorno d’Italia, in ciò aspirando anche a diffondere sensibilità ed avvertenza per il contesto in cui si vive, condizioni non ultime per l’avanzamento della socialità e così della stessa civiltà.   

 

Di recente la Fondazione sta anche sollecitando, insieme ad altri soggetti pubblici e privati, l’intervento della Regione Campania, perché eserciti il potere di prelazione per l’acquisizione del non lontano edificio, un tempo sede del Monte di Pietà, uno degli otto banchi pubblici la cui documentazione è presente nell’Archivio. Ove l’operazione riuscisse, quella sede potrebbe andare a costituire uno dei siti di conservazione della memoria storica napoletana e del Mezzogiorno d’Italia, potenziando la vocazione del quartiere, già sede, oltre che dell’Archivio Storico, dell’Archivio di Stato, del Pio Monte della Misericordia e di vari altri luoghi culturali d’elezione.

 

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LA SICILIA ROMANA di Gaia Bay Rossi – Numero 20 – Marzo-Aprile 2021 – Ed. Maurizio Conte

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LA Sicilia romana

 

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di circa 170 chili, più larghi anteriormente e posteriormente, e con i fendenti a formare la sagoma di un tridente. Insieme alla struttura lignea della prua delle imbarcazioni, questi rostri erano micidiali armi d’attacco.

E proprio dei rostri, sia romani che cartaginesi, sono stati ritrovati a nord-ovest di Levanzo, nelle isole Egadi, tra il 2005 e il 2015. Un successo archeologico della Soprintendenza del Mare di Sebastiano Tusa, che ha permesso di localizzare l’esatta posizione della battaglia finale della Prima guerra punica, conflitto di fondamentale importanza per i destini di Roma e della Sicilia.

 

Con la battaglia delle Egadi, avvenuta il 10 marzo del 241 a.C., iniziava infatti l’inarrestabile ascesa che avrebbe portato Roma a diventare potenza egemone 

nel Mediterraneo: lo storico Polibio ci ricorda come il sentimento che muoveva 

la società romana fosse la “brama di dominio universale”, 

su ogni persona e su ogni territorio.

 

Lo scontro finale, come rilevato, avvenne a nord-ovest di Levanzo. Roma stravinse, mentre i Cartaginesi subirono una disfatta di navi e di uomini. Le prime erano appesantite dai carichi ed i secondi inadeguati nel combattimento ravvicinato, oltre che inferiori nell’esperienza e nella capacità strategica in battaglia. Alla fine di quella memorabile giornata, i Romani avevano affondato cinquanta navi, catturandone altre settanta complete di equipaggio.

 

Con la resa dei Cartaginesi, la Sicilia occidentale e gran parte di quella centrale divenivano province romane: restava invece indipendente Siracusa, 

ma sotto protettorato romano, con un territorio che comprendeva 

buona parte della zona orientale. Gaio Lutazio Catulo, console 

e comandante navale romano,

«pose fine alla contesa, dopo che furono redatti i seguenti patti: “Ci sia amicizia fra Cartaginesi e Romani a queste condizioni, se anche il popolo dei Romani dà il suo consenso. I Cartaginesi si ritirino da tutta la Sicilia e non facciano la guerra a Gerone né impugnino le armi contro i Siracusani né contro gli alleati dei Siracusani. I Cartaginesi restituiscano ai Romani senza riscatto i prigionieri. I Cartaginesi versino ai Romani in vent’anni duemiladuecento talenti euboici d’argento”». (Polibio, Storie, I, 61, 4)

 

Mentre una buona parte dell’isola si dedicava quindi alla ricostruzione delle città devastate dalla guerra

 

il regno indipendente di Siracusa, sotto Gerone II, aveva firmato con Roma 

un trattato che garantiva al regno pace ed indipendenza per un lungo periodo.

 

In realtà, la stessa Siracusa, dopo la morte di Gerone, cadde sotto i Romani nel 211. a.C., al culmine della Seconda guerra punica, divenendo poi la sede amministrativa principale della provincia.   

 

Della guerra cadde vittima anche il grande matematico Archimede, come ci racconta Livio:

«Manifestandosi molti casi di furore e molti casi di ripugnante cupidigia, si tramanda che un soldato abbia ucciso Archimede, mentre in mezzo a quella grande confusione, era intento a tracciare nella polvere alcune figure geometriche […]». (Livio, Storia di Roma, XXV, 31.9.)   

 

Marcello fu desolato per l’uccisione del matematico, fece costruire una tomba in suo onore e pose i suoi congiunti sotto protezione. La sua uccisione fu un incidente dovuto ad un maldestro legionario romano e Plutarco ci riferisce che proprio Marcello deplorò l’assassino: «Distolse lo sguardo dall’uccisore di Archimede come da un sacrilego». Se l’assedio era durato ben due anni, dal 214 al 212 a.C., fu proprio per

 

il genio eccezionale di Archimede, ideatore e costruttore di avveniristiche macchine da guerra: enormi catapulte, artigli giganteschi e micidiali specchi ustori, 

di cui oggi ancora sappiamo poco.

È rimasta celebre nei secoli l’esclamazione “èureka” (εὕρηκα – ho trovato) attribuita al matematico dopo la scoperta (Plutarco racconta che avvenne mentre si immergeva in una vasca alle terme) del principio che porta il suo nome: “Ogni corpo immerso parzialmente o completamente in un fluido riceve una spinta verticale dal basso verso l’alto, uguale per intensità al peso del fluido spostato”. Quando Marcello espugnò Siracusa dopo la lunga resistenza della città, nel 212 a.C., il console romano scoprì un vero patrimonio di splendori artistici, tra cui il famoso planetario di Archimede (di cui in seguito si persero le tracce), che portò in trionfo a Roma, facendo conoscere ai romani meravigliosi esemplari d’arte greca.   

 

A Siracusa vennero quindi edificate opere di notevole importanza, come l’Anfiteatro romano per le lotte dei gladiatori ed i giochi d’acqua, il Ginnasio romano e l’intricata rete di catacombe (la più estesa dopo quella di Roma) ed altri monumenti.

 

Importantissima per la Sicilia, come per le altre parti dell’Impero, fu l’età di Augusto, 

il primo imperatore romano: la romanizzazione culturale della Sicilia 

cominciava in maniera metodica.

 

Il sistema di governo romano sottopose la maggior parte delle città siciliane a pesanti tributi, con la “decima” dei raccolti di grano e di orzo. Per l’abbondante produzione, la Sicilia venne definita da Catone il Censore “il granaio della repubblica”. L’isola si trasformò in un enorme campo coltivato con viti, ulivi, orzo e soprattutto frumento per il mercato esterno. Il grano era sicuramente la materia prima più importante per la capitale dell’impero, che ogni anno ne importava dalla Sicilia più di 3 milioni di quintali da destinare ai suoi cittadini.   

 

Dopo la morte di Augusto la decima fu abolita ed il sistema tributario radicalmente riformato. D’altra parte, l’annessione dell’Egitto forniva una nuova fonte di approvvigionamento di grano e quello siciliano non era più indispensabile.

La civiltà romana, diversamente da quella greca, non ebbe invece un peso incisivo nella cultura siciliana e non riuscì (né tentò) di sconfiggere la “grecità” dei siciliani. Nonostante ciò, importanti testimonianze del dominio romano restano 

le costruzioni architettoniche: teatri, ginnasi, terme, anfiteatri 

ed opere idrauliche, il tutto soprattutto nella Sicilia orientale 

e nella punta occidentale.


A partire dalla fine del III secolo sembra diffondersi l’uso delle statue marmoree, specialmente nei santuari e negli altri edifici pubblici. Al periodo tardo-repubblicano appartengono poi esempi di mosaici e pitture parietali. L’esemplare più notevole è stato scoperto a Palermo: un emblema con “caccia al leone”, appartenente ad una casa ellenistica, di cui si presuppone però l’intervento di maestranze dall’Oriente ellenistico. Importante in questo periodo è anche la produzione di ceramiche, in particolar modo in due città, Siracusa ed Agrigento


I primi secoli dell’Impero rappresentarono, invece, il periodo meno luminoso 

per la civiltà urbana della Sicilia,

 

con la sparizione in quegli anni di numerosi centri abitati. La marginalità culturale dell’isola si accentuò nel I e soprattutto nel II secolo d.C., evidenziata dall’assenza di ville e di monumenti funerari di alto livello, chiaro indizio dell’assenza di “classi medie” municipali e della predominanza assoluta del latifondo.

 

Nella fase tardoantica si ebbe, invece, un’inversione di tendenza

 

rispetto al periodo precedente, con il ripopolamento delle campagne e dei vecchi centri abbandonati. Primo indizio fu l’apparizione di ville di lusso, anche in zone che fino ad allora erano riservate alla sola produzione agricola.

L’eccellenza è rappresentata dalla Villa del Casale di Piazza Armerina 

(dal 1997 Patrimonio Unesco), dove si trova uno degli esempi più belli 

di architettura residenziale romana.

La villa si sviluppa in 60 ambienti, dei quali 42 pavimentati con mosaici policromi, un unicum per contenuto e rarissimi per lo stato di conservazione. È senz’altro il più importante complesso di mosaici finora trovato in una singola abitazione: nel vestibolo vi sono animali incorniciati da corone d’alloro, nella palestra le corse del circo Massimo, poi la sala del ratto delle Sabine, il corridoio della Grande Caccia, le scene allegoriche di Eracle e la distruzione dei Ciclopi, la raffigurazione dell’Oriente, la lotta tra Eros e Pan. E anche una curiosità, ormai famosa: in un ambiente interno un mosaico raffigura dieci fanciulle impegnate in esercizi atletici, che indossano come costume un “bikini”, molti secoli prima che, in epoca contemporanea, fosse… reinventato!

 

Tutti questi soggetti sembrano voluti non tanto per darne un’interpretazione 

“imperiale”, quanto in funzione di un proprietario la cui qualità di “intellettuale”

 

poteva essere suggerita dal nome stesso della pars dominica (la parte abitata dal proprietario), evidentemente connessa con la statio (la stazione di sosta per i viaggiatori che percorrevano la via Catania-Agrigento): “Philosophiana”.   

 

La Sicilia rimase provincia romana molto a lungo, per 637 anni, finché non venne conquistata dal vandalo Genserico nel 440 d.C. Non dimentichiamo che i siciliani nei secoli furono greci, romani, arabi, normanni (e molto altro ancora), ma sempre parzialmente, perché in primis restarono siciliani e gli invasori contribuirono in un certo senso a migliorare la loro… sicilianità, come segnalava Ermocrate già nel 424 a.C.:

 

«Noi non siamo né Joni, né Dori, ma Siculi».

 

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UN ESPERIMENTO REPUBBLICANO NEL MEZZOGIORNO: IL 1799 di Tommaso Russo – N.20 – Marzo-Aprile 2021 – Ed. Maurizio Conte

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UN ESPERIMENTO REPUBBLICANO NEL MEZZOGIORNO: IL 1799

 

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ricostruirne le tappe, onorare i protagonisti caduti tragicamente. Vincenzo Cuoco ricordò che Eleonora de Fonseca Pimentel prima di salire sul patibolo bevve un caffè e poi pronunciò un verso virgiliano divenuto famoso: Forsan et haec olim meminisse iuvabit (Forse un giorno converrà ricordare tutto ciò).

 

Quel desiderio è giunto fino a noi (Gerardo Marotta diceva di portare ancora il lutto 

per quella tragedia), ha dato vita ad una messe di iniziative editoriali, convegni 

e pubblicazioni ed è entrato nell’odonomastica comunale 

(molti paesi hanno una loro via o piazza 10 Maggio).

 

tutto ciò è potuto accadere per due ragioni: perché la memoria culturale e l’immaginario collettivo hanno adottato quella data come un evento spartiacque, come un’identità profonda della cultura e della civiltà meridionali; perché la sua eredità riguarda l’elaborazione di un pensiero alto (la separazione tra Stato e Chiesa, assente per esempio nell’Illuminismo lombardo, la riflessione giuridica, la nascita della politica) divenuto patrimonio europeo ed italiano che fa ancora discutere.   

 

Geografie e Protagonisti

Benedetto Croce, nella sua Storia del Regno di Napoli, così descrive quel tornante cronologico: “In questo corso non pigro ma placido di discussioni, 

di proposte, di parziali riforme […] irruppe l’impetuosa corrente 

della Rivoluzione francese”. 


Nonostante la sua cautela, quegli eventi ebbero il carattere di una vera e propria diaclasi. In verità l’Illuminismo, uno dei capisaldi del 1789, era già presente nel
milieu culturale meridionale, dove si era manifestato con originalità sotto il profilo politico, filosofico, giuridico e scientifico. A Napoli da tempo erano stati sloggiati l’aristotelismo e la filosofia di “Renato Delle Carte”. In fase calante pure il platonismo di Paolo Mattia Doria, mentre Niccolò Fraggianni e Celestino Galiani presidiavano il regalismo di Pietro Giannone.

 

Chimica e medicina furono due importanti settori disciplinari 

e della seconda Domenico Cirillo era un faro.

 

La prima cattedra di economia politica in Italia fu istituita a Napoli ed affidata ad Antonio Genovesi. Fra i suoi allievi conviene ricordare quel Ferdinando Galiani che nel 1751 pubblicò il trattato Della Moneta in cui sostenne il concetto della moneta-merce (Karl Marx lo svilupperà nella formula D-M-D ossia Denaro-Merce-Denaro). 

Molti ecclesiastici fecondarono il clima culturale del secondo Settecento, un nome per tutti: Andrea Serrao, gran figura di vescovo regalista.

Dell’ala più vivace della nobiltà vanno tenuti a mente, fra gli altri, Giovanni Carafa duca di Noja e Raimondo di Sangro principe di Sansevero (sua la Cappella-Museo col Cristo velato), organizzatore delle Logge napoletane all’obbedienza della National Grand Lodge.
 

Sempre sul terreno latomistico va ricordato pure il calabrese Antonio Jerocades, 

“abate bizzarro e gran disseminatore di logge”. Nella seconda metà del 1785 

giunse a Napoli il pensoso teologo protestante Friederich Münter.

 

Apparteneva all’ordine massonico degli Illuminati di Baviera e raccolse intorno a sé tanti bei nomi, fra cui Filangieri e Pagano. Troppo egualitaria e razionalista era la sua Loggia della Philantropia, che ebbe infatti vita breve. Le Logge, oltre ad essere luogo della sociabilità cetuale e primo embrione di partito, furono altresì sede dove la politica venne tenuta a battesimo. Ne è prova il biennio delle congiure:1794-96.   

 

Nella primavera del 1800 Jacques-Louis David completa il quadro di Napoleone che valica le Alpi. Questa immagine imperiale racchiude l’intero cammino dell’età napoleonica (1796-1815), con dentro il triennio giacobino (1796-99), di cui la Repubblica napoletana fu magna pars.

Quando, il 23 gennaio 1799, le truppe francesi del generale Championnet entrarono 

in Napoli, vincendo una dura resistenza del proletariato urbano, la notizia della proclamazione della Repubblica si diffuse in tutte le province.

 

Così, da Crotone ad Altamura, da Rosarno ad Avigliano, dagli Abruzzi al Molise, a Tito e Picerno, alle province pugliesi vi fu una generale adesione al nuovo ordine delle cose. I comportamenti erano simili. Aveva luogo la piantagione dell’albero della libertà di solito vicino ad altri simboli di potere (ad Altamura venne piantato vicino alla Cattedrale federiciana, a Cosenza vicino alla sede della Regia Udienza). Intorno ad esso si liberò la fantasia popolare.

Le donne dettero vita a balli, canti, giochi e carri di carnevale, 

a scenografie con cui sovvertire le gerarchie sociali:


le popolane diventavano regine, gli uomini principi consorti. Le altre due scelte erano la costituzione della Municipalità e la formazione della Guardia Civica: tutte di grande valore simbolico. In quel torno di mesi si assistette alla nascita della Repubblica nel villaggio: tante repubbliche per quanti erano i paesi che vi aderirono (per parafrasare Maurice Agulhon).   

 

Gli entusiasmi, però, furono di breve durata. Ben presto si mosse dalla Calabria il Cardinale Fabrizio Ruffo. Finanziatori della sua Armata Cristiana e Reale (l’esercito della Santa Fede) agli inizi furono i vescovi di Melito, Policastro e Capaccio, i monaci della Certosa di Santo Stefano del Bosco e i domenicani del Convento di Soriano. Oltre ai fondi borbonici, via via si aggiunsero i finanziamenti di quelle fazioni di borghesie locali contrarie alla Repubblica ed al suo programma, in primis la redistribuzione dei demani. I più noti capibanda al servizio di Ruffo furono Nicolò Tomasi, che agì nella zona di Sant’Angelo a Fasanella, Rocco Stoduti a Policastro, Antonio Guariglia nel Cilento, Gerardo Curcio, detto “Sciarpa”, tra il Vallo del Diano e il Marmo Platano (in provincia di Salerno e Potenza).

 

Avevano dato ed avuto ordini precisi di saccheggiare e fare terra bruciata. 

La ferocia con cui l’esercito della Santa Fede si accanì 

contro i Comuni “democratizzati” è inimmaginabile.

 

Ciò rese più eroica la resistenza delle Municipalità ed il protagonismo femminile. Le donne dei nuclei subalterni ebbero un ruolo importante nell’organizzare la difesa dei propri paesi, nel parteciparvi armate, nel fare da staffetta da un quartiere all’altro e pagarono un prezzo altissimo, torturate, stuprate ed uccise. Nel massacro di Picerno operato da Sciarpa, 19 furono le donne uccise contemporaneamente a 59 uomini. Sempre Sciarpa, a Tito, fece torturare in modo inenarrabile le “cameriere” di casa Cafarelli per indurle a confessare dove si fossero rifugiati il loro padrone Scipione e sua moglie Francesca de Carolis, entrambi leader di quella Municipalità. Non tradirono.   

 

Francesco Lomonaco, nel suo pamphlet Rapporto al cittadino Carnot (1800) è il primo cronista di quella tragedia e nelle pagine sfilano i nomi degli afforcati a Piazza Mercato. Forse la figura più toccante è quella del “Notar Libero Serafini sindaco di Agnone nel Molise” che Giustino Fortunato tratteggia in maniera struggente nel suo I giustiziati di Napoli. Quest’uomo “d’avanzata età”, prigioniero di un “picchetto di Calabresi”, alla domanda sulla sua identità con fierezza rispose: “Io sono il Presidente della Municipalità d’Agnone […] Viva la Repubblica Francese e Napoletana”.   

 

Epilogo   

 

In quei mesi fece la sua comparsa la funzione sociale del mito e dei simboli come strumento di lotta politica: l’albero della libertà, le coccarde, le bandiere, i canti, il senso di appartenenza. 

La formazione di un gruppo di uomini nuovi che volle proporsi quale classe dirigente troverà nel Decennio francese una sua occasione per sperimentarsi. L’esigenza di una più equa distribuzione dei demani, croce e delizia per i repubblicani, venne affrontata in ritardo, ossia ad aprile. Il 10 Maggio cadevano le ultime roccaforti giacobine.

 

Il semestre repubblicano rappresenta per il Mezzogiorno il passaggio politicamente 

più ardito da una società di antico regime alla modernità.

 

 Prologo

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NORD-SUD: MOBILITA’ E SVILUPPO UNA NUOVA OCCASIONE PER IL MEZZOGIORNO di Agostino Picicco – N. 20 – Marzo-Aprile 2021 – Ed. Maurizio Conte

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NORD-SUD: MOBILITÀ E SVILUPPO UNA NUOVA OCCASIONE PER IL MEZZOGIORNO

 

si potrebbe sintetizzare così il dibattito sul mondo del lavoro, che spesso porta alla ribalta della cronaca il nostro Sud, sintetizzabile nello slogan: “il problema in Italia non è quello di portare i lavoratori al Nord, ma il lavoro al Sud”.

A questo proposito varie sono state le chiavi di lettura offerte sulla mobilità geografica dei lavoratori in Italia. Per certi versi

 

è auspicabile una maggiore mobilità al fine di mitigare 

gli impatti della mancanza di occupazione,

 

azzerando i precari lavori in nero, e di accrescere la professionalità e la competenza tecnica e tecnologica. In questo senso gli strumenti della flessibilità contrattuale (al primo posto il lavoro interinale) stanno svolgendo un ruolo promozionale non indifferente. Pur se il Nord è avvantaggiato nell’impiegare tale manodopera per la vicinanza ai grandi mercati europei e per le maggiori infrastrutture di cui è dotato, non si può sottacere che a lungo andare massicce e persistenti migrazioni interne indebolirebbero le regioni povere, contrastandone le dinamiche di sviluppo. Infatti si priverebbe il Sud di capitale umano qualificato composto da tecnici e possibili imprenditori.

Ritornano con profetica drammaticità le parole del meridionalista molfettese 

Gaetano Salvemini, secondo cui “la ricchezza del Nord 

è sostanzialmente prodotta dalla miseria del Sud”.


Occorre tener presente anche lo scenario delle soluzioni alternative costituite dall’impiego – per le lavorazioni meno qualificate – di una manodopera d’immigrazione con miti pretese in termini di salari e di diritti, e dal trasferimento di attività produttive nei paesi dell’Est. A questo proposito sembra doveroso far riferimento alle indicazioni e alle politiche dell’Unione Europea. Proprio qui è stato delineato – e ratificato anche in documenti ufficiali – un interesse collettivo ad un assetto economico-territoriale più bilanciato. Infatti

 

la questione territoriale viene indicata come la questione chiave 

dello sviluppo economico italiano.

 

Il forte squilibrio infatti non giova alle aree deboli, ma può diventare costoso e pericoloso per le aree forti, accrescendo i costi di congestione, aumentando squilibri interni, impoverendo la qualità della vita.
Per affrontare la questione territoriale dello sviluppo italiano occorre considerare uno sviluppo territorialmente più equilibrato e un interesse collettivo dell’intero Paese.
Non si tratta di rimettere in moto un’ondata migratoria come quella degli anni Cinquanta ingigantita dal passaggio dell’Italia da un’economia agricola a quella industriale. Del resto 

 

non esistono i presupposti perché si verifichi un tale fenomeno 

di spostamento di massa dal Sud al Nord.


Infatti non si può non tacere una certa renitenza dei disoccupati meridionali a lasciare i propri paesi a causa di convenienze consolidate. Il Mezzogiorno oggi non è più costituito da persone disposte a far fagotto per terre lontane con l’unica pretesa di sfamarsi. Oggi, in un’economia familiare di sussistenza, i giovani disoccupati sono spesso in grado di studiare e di sopravvivere.

 

Il Nord non appare più un miraggio seducente, ma realisticamente è considerato 

un luogo che, se da un lato offre lavoro, dall’altro si riprende 

quanto ha dato con canoni d’affitto e costi di vita elevati.


Risolvere questo problema è arduo. I buoni per la casa o le defiscalizzazioni mirate sono incentivi positivi per tradurre l’attuale fabbisogno di manodopera del Nord in un’opportunità per l’intero Paese. 

Occorre che, soprattutto i giovani, non perdano questa occasione, oltre all’opportunità di dimostrare quanto siano seri e volenterosi, tanto da far venire voglia a qualche imprenditore del Nord di intraprendere nuove attività nel Mezzogiorno. Del resto sono proprio le esperienze lavorative che accrescono il peso contrattuale verso le imprese nonché la futura “occupabilità” sul mercato del lavoro. Forse proprio nella terra d’origine, per un’emigrazione di ritorno che sia produttiva per tutti. 

 

 

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IL MEDITERRANEO AFFASCINA E CORROMPE di Gaia Bay Rossi – Numero 19 – Dicembre 2020 gennaio 2021

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IL MEDITERRANEO AFFASCINA E CORROMPE

 

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che affascina e che corrompe”. 

Ad affermarlo è stato Sebastiano Tusa, prima della tragedia aerea che lo ha portato via nel 2019, in Etiopia. Palermitano, archeologo, docente di archeologia subacquea all’Università tedesca di Marburg e di Paleontologia alla Scuola Suor Orsola Benincasa di Napoli, Tusa è stato, in primis, lo straordinario Soprintendente del Mare della Regione siciliana.

 

La Soprintendenza del Mare venne istituita nel 2004

 

con il fine di tutelare e valorizzare i beni culturali, ambientali e le risorse archeologiche sottomarine, con compiti di ricerca, censimento, tutela, vigilanza, valorizzazione e fruizione del patrimonio archeologico subacqueo, storico, naturalistico e demo-antropologico dei mari siciliani e delle sue isole minori.   

 

Ma torniamo a Tusa ed al suo Mediterraneo “che corrompe”.

 

Corrompe perché impone a chi abita le sue coste una notevole capacità 

di adattamento alle diverse morfologie esistenti; e perché la facilità 

con cui permette gli scambi e le relazioni provoca contaminazioni, 

“corruzioni” in senso positivo e talvolta anche negativo.

Tra le scoperte più importanti di Sebastiano Tusa, l’esatta localizzazione della battaglia delle Egadi, lo scontro navale con i Cartaginesi che concluse la prima guerra punica a favore dei Romani, il 10 marzo del 241 a.C.. Per una sorta di strano scherzo del destino, proprio il 10 marzo l’incidente mortale ci ha privati per sempre del nostro archeologo del Mediterraneo,

 

un mare “esso stesso un museo, il Mare Nostrum”, come usava dire.

 

Già. Il Mare Nostrum, come lo chiamavano i Romani, è da sempre “culla di civiltà”, sin dalle prime forme di sedentarietà nelle culture pre-neolitiche (come quella natufita in Palestina) e poi con i progressi successivi verso società più evolute.   

 

Oggi come allora il Mediterraneo, “mare tra le terre”, crogiuolo di colori e di costumi, è il punto d’incontro di Europa, Asia e Africa. Sulle sue coste si possono trovare oltre venti fra Paesi e territori, che parlano più di venti lingue e credono nelle tre grandi religioni monoteiste (cristianesimo, ebraismo ed islamismo).

 

Queste civiltà che si sono succedute nel Mediterraneo hanno lasciato vestigia 

che fanno parte del patrimonio culturale mondiale e vanno assolutamente preservate, nella consapevolezza del fondamentale valore della varietà e molteplicità culturale.


Pensiamo alla Libia, dove si trova uno dei più grandi centri romani del Mediterraneo, Leptis Magna, o al suo corrispondente greco, a Cirene. Ma anche alla Turchia, al Marocco, passando per Siria, Giordania, Israele, Libano, Egitto, Tunisia ed Algeria. I Paesi della sponda Sud-orientale del Mediterraneo sono custodi di testimonianze uniche di millenni di storia che, insieme a quelle inestimabili nei Paesi della sponda Nord, formano il maggior giacimento culturale del mondo.

 

Non a caso, i Paesi mediterranei raccolgono oltre la metà 

dei siti dichiarati“patrimonio dell’umanità” dall’Unesco.

 

Un capitale artistico, storico e culturale che, oltre a costituire idealmente un’identità comune, può diventare anche un fattore aggregante e determinante per lo sviluppo, in un prossimo futuro, di tutta l’area.

La protezione del passato, oltre al valore “archivistico” e conservativo, 

diventa quindi la premessa per costruire un futuro migliore. 


È questo uno degli aspetti della cooperazione internazionale che l’UNESCO ha promosso in tutto il mondo, con l’aiuto di organizzazioni intergovernative tra cui spicca l’ICCROM (Centro internazionale di studi per la conservazione ed il restauro dei beni culturali), organismo per la conservazione e la protezione del patrimonio culturale mondiale. L’ICCROM è stato creato dopo la Seconda Guerra Mondiale, a seguito dei bombardamenti che avevano distrutto un’impressionante quantità di beni culturali. I suoi obiettivi principali erano quindi rappresentati dalla conservazione, dalla salvaguardia e dal restauro di quanto la tragedia bellica aveva distrutto.

 

Oggi lo sguardo dell’ICCROM sul futuro è simbolizzato anche 

da un programma che riguarda le fondamentali questioni 

di conservazione preventiva e gestione del rischio.

 

Un tema, questo, particolarmente sentito poiché le guerre purtroppo non accennano a fermarsi e le stesse calamità naturali tendono ad aumentare. Pensiamo al terremoto che ha sconvolto L’Aquila, città d’arte per eccellenza, o al bombardamento di una città patrimonio culturale del mondo come Dubrovnik, o ancora al traffico illegale di reperti e beni artistici dell’isola divisa di Cipro. Esiste una lista di patrimoni dell’umanità in pericolo, compilata dall’UNESCO, per instabilità politica, guerre o calamità naturali, che lo scorso anno vedeva Stati come la Libia, la Siria, l’Egitto e la Palestina (considerando solo quelli dell’area mediterranea) con molti dei loro siti sotto minaccia.   

 

Diventano dunque  

  

sempre più attuali i temi trattati sin dal Forum sulla “Protezione e conservazione 

del patrimonio culturale nel Mediterraneo”, promosso nel 2012 

dall’Ordine di Malta, dall’isola di Cipro, dall’UNESCO 

e dalla Commissione Europea,


che hanno dedicato una riflessione importante proprio all’impatto delle catastrofi naturali e dei conflitti sul patrimonio culturale. Il Mediterraneo, quindi, non solo quale giacimento di ricordi carichi di valore, ma anche luogo da progettare per il futuro, per tutelare un patrimonio culturale che è anche risorsa economica da preservare e valorizzare: un “Mediterraneo culturale” davvero idem sentire

In un’epoca in cui deboli sono le economie dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, solo un fronte unico, con consapevolezza e valori comuni, può rendere

 

il Mediterraneo àncora come nel mondo antico, vero baricentro 

dello sviluppo culturale internazionale.

 

Al tempo stesso, come richiesto dall’Ordine di Malta, occorre comprendere in questo programma comune anche il rispetto per la dignità umana, la democrazia, il ruolo del diritto, la solidarietà, la giustizia e la tolleranza. E la libertà religiosa, una delle chiavi principali per consentire a tutte le altre libertà di esistere.   

 

È in questi valori che si deve cercare una nuova coesione. L’uomo mediterraneo, cui dobbiamo l’ineguagliata scuola universale della Grecia antica o dell’Italia rinascimentale, con il suo individualismo non è riuscito finora a unificare l’impegno verso una prospettiva comune, ma ha anzi portato un fattore di debolezza. Si deve invece ripartire da un Mediterraneo comune, per costruire una base del nostro futuro e non solo rimpiangere il nostro passato.   

 

Un mare, eccezionalmente raccontato da Fernand Braudel nella sua opera fondamentale La Méditerranée, mentre era prigioniero in un campo di detenzione durante la Seconda Guerra Mondiale: “Che cosa è il Mediterraneo? Mille cose insieme.

Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi 

di mari. Non una civiltà, ma molte civiltà, disseminate le une sulle altre… 

un crocevia antichissimo.

 

Da millenni tutto vi confluisce, complicandone e arricchendone la storia: bestie da soma, vetture, merci, navi, idee, religioni, modi di vivere. E piante.” E oltre a questo, è il più ricco, di storia, cultura, dinamismo e fascino, di tutti i mari della terra.   

 

È da qui che tutti Paesi del Mediterraneo debbono ripartire per tornare a casa, tra mythos e logos, come novelli Ulisse che cercano la via del ritorno, del nostos. Anche se stanno affrontando continue tragedie, solo Paesi uniti saranno in grado di superare le Scilla e Cariddi del nostro tempo, per ritrovare alla fine il loro mitico, antico mare. Perché, citando nuovamente Braudel: “Essere stati è una condizione per essere”.

 

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MATERA DALLA GROTTA AL BED AND BREAKFAST di Pietro Dell’Aquila – Numero 19 – Dicembre 2020 gennaio 2021

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con la fine del 2019 e appena in tempo prima dello slittamento nell’annus horribilis della pandemia da Covid-19, l’ex borgo rurale trasformatosi in primo polo del terziario meridionale, più o meno avanzato, a trazione turistica si trova a fare i conti con un incerto avvenire. 

Dal rapporto della Banca d’Italia n.17 del giugno 2019 sull’economia regionale lucana risulta che

 

per l’evento le presenze nazionali e internazionali nella città si sono quintuplicate:

 

attestandosi a oltre 124.000 unità provenienti da Stati Uniti, Regno Unito e Francia e più di 320.000 dalle altre regioni italiane come la Lombardia, il Piemonte e il Lazio. Senza contare quelle arrivate dalle zone limitrofe come la Puglia, la Campania e l’interland regionale che, non avvalendosi di pernottamenti, sono di più difficile apprezzamento. Si calcola che le presenze negli esercizi alberghieri si sono triplicate e nelle strutture extra alberghiere sono aumentate a dismisura. L’incremento dei posti letto è salito del 90%. Per non dire del volume d’affari di ristoranti, trattorie e degli altri locali di ristorazione. Ovviamente il mercato edilizio, l’andamento dei prezzi al consumo e in generale il costo della vita hanno avuto una forte impennata.  

 

Rifuggendo il ruolo di succursali dell’Ente Turismo, non vale la pena soffermarsi sulle qualità attrattive del sito, peraltro ampiamente promosse dalla televisione con feste di Capodanno, sceneggiati e documentari, nonché da riviste patinate e ogni genere di altri mezzi pubblicitari, ma piuttosto

 

pare opportuno avviare una riflessione sugli esiti 

di quest’operazione di marketing territoriale 

 

ripercorrendo, sia pure sinteticamente, le tappe della trasformazione del sito materano.  

 

É appena il caso di ricordare che quest’abitato affonda le proprie radici, al pari di Petra, nel lontano Paleolitico, come risulta dalle emergenze archeologiche ritrovate, raccolte e conservate da uomini illustri come Domenico Ridola, cui è intitolato il Museo cittadino.

Per secoli un popolo di pastori e di agricoltori ha vissuto in grotte traforate, 

scolpite e scavate nel tufo di entrambi i lati dei declivi della Gravina 

e realizzato cunicoli, cisterne, chiese, ambienti ed elaborati 

complessi sotterranei, convivendo in simbiosi 

con gli animali domestici, silenti supporti 

della loro fatica.

 

Così il borgo risulta un aggregato di grotte, con andamento verticale, risalente lungo gironi degradanti sui bordi scoscesi del canion del torrente dove la comunità si ritrovava in “vicinati”; un modello esemplare di organizzazione sociale con rapporti a volte aspri e, forse, più spesso solidali per far fronte alle difficoltà dell’esistenza.   

 

Come scrive l’architetto e urbanista Americo Restucci nel suo libro “Matera, i Sassi”,

 

la Cattedrale dovette essere la prima costruzione in stile romanico pugliese 

eretta sullo sperone più alto del sito che divide il Sasso Caveoso da quello Barisano. Solamente più tardi, agli inizi del ‘500, il Conte Giovan Carlo Tramontano, sulla collina di Lapillo al confine della Civita che si andava formando lungo il bordo 

del promontorio e sulle rovine di una precedente struttura normanna, avviò la costruzione di un Castello con due torri che ancora porta il suo nome.


Il feudatario era stato fatto Conte di Matera da Ferdinando II nel 1496, nonostante la promessa fatta da quest’ultimo al popolo di lasciarlo libero avendone ricevuto la somma del riscatto. Il Tramontano si rese inviso ai materani per le imposte che pretendeva di riscuotere, per i suoi debiti e per i lavori della costruzione, tanto da indurli a una cospirazione che sfociò nel suo omicidio il 29 dicembre 1514 all’uscita dalla Cattedrale e in una viuzza adiacente che da allora prese il significativo nome di Via del Riscatto. Un altro episodio di sangue si consumò a Matera l’8 agosto del 1860, tra i primi della reazione antiunitaria sfociata nel brigantaggio lucano, quando una folla inferocita uccise il patrizio Conte Gattini a colpi di falce, insieme al suo segretario Francesco Laurent, ritenuto usurpatore dei demani.

 

Nel 1700 erano stati i fratelli Duni – il padre Francesco era stato Direttore 

della Cappella Musicale della Madonna della Bruna per oltre 

un quarantennio – ad illustrare coi loro talenti,

 

di giurista Emanuele e di musicista Egidio Romualdo, la cittadina. In particolare, come hanno messo in luce Giovanni Caserta che ne ha ricostruito la biografia e Luigi Pentasuglia che ha ritrovato, pubblicato e musicato sonetti e sinfonie, Egidio Romualdo Duni riportò prima in Francia e poi in Inghilterra i frutti della sua geniale capacità artistica. 

Ed è in questo periodo, tra il XVII e il XVIII secolo, che con il declino economico del modello agro-pastorale si va strutturando l’attuale Centro Storico con le espansioni sul piano a ridosso dei Sassi. Le costruzioni amplieranno il confine dell’abitato tra il XIX e il XX secolo.  

 

Il Fascismo lasciò la propria magniloquente impronta architettonica sui palazzi del Corso e nei casermoni delle case popolari. Nel 1926, con un semplice telegramma, il Duce elevò la cittadina al rango di Provincia ma il regime dovette rimanere sostanzialmente estraneo al mondo contadino mentre coinvolse più da vicino le classi impiegatizie. Fatto sta che il 21 settembre 1943, in seguito ad un alterco tra militari italiani e tedeschi, a Matera, prima città in Italia, si ebbe l’avvio degli scontri per la cacciata dei nazifascisti con un eccidio di 26 persone di cui 18 civili.

Com’è noto il primo scopritore della particolare identità di Matera, 

nella sua dolente bellezza, fu Carlo Levi 


che la visitò durante il suo periodo di confino nel 1936 e che la fece conoscere al mondo nelle pagine del 
Cristo si è fermato a Eboli, pubblicato da Einaudi nel 1945: 

“Arrivai ad una strada che da un solo lato era fiancheggiata da vecchie case e dall’altro costeggiava un precipizio. In quel precipizio è Matera… Di faccia c’era un monte pelato e brullo, di un brutto color grigiastro, senza segno di coltivazioni né un solo albero: soltanto terra e pietre battute dal sole. In fondo… un torrentaccio, la Gravina, con poca acqua sporca ed impaludata tra i sassi del greto…

 

La forma di quel burrone era strana: come quella di due mezzi imbuti affiancati, separati da un piccolo sperone e riuniti in basso da un apice comune, 

dove si vedeva, di lassù, una chiesa bianca: S.Maria de Idris, 

che pareva ficcata nella terra. 

 

Questi coni rovesciati, questi imbuti si chiamano Sassi, Sasso Caveoso e Sasso Barisano. Hanno la forma con cui a scuola immaginavo l’inferno di Dante… La stradetta strettissima passava sui tetti delle case, se quelle così si possono chiamare. Sono grotte scavate nella parete di argilla indurita del burrone… Le strade sono insieme pavimenti per chi esce dalle abitazioni di sopra e tetti per quelli di sotto… Le porte erano aperte per il caldo, Io guardavo passando: e vedevo l’interno delle grottesche non prendono altra luce ed aria se non dalla porta. Alcune non hanno neppure quella: si entra dall’alto, attraverso botole e scalette.”

 

Fu, forse, per questo che Togliatti volle andarvi nel 1948 e, preso atto delle condizioni di estrema miseria in cui versavano gli abitanti di quelle grotte, ne parlò come di una “vergogna nazionale” cui occorreva porre rimedio 

nel più breve tempo possibile.


Due anni dopo, il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi arrivò a Matera, accompagnato dal giovane sottosegretario Emilio Colombo, il 23 luglio 1950. Altrettanto colpito dal disagio degli abitanti dei Sassi incaricò Colombo di approntare una Legge per risolvere il problema. Sarebbe poi tornato nel 1953, dopo il varo della Legge n.619 del 1952, per inaugurare il Borgo La Martella e consegnare le prime case agli sfrattati de Sassi, assicurando che “Lo Stato assume a suo carico la spesa per il risanamento dei quartieri Sasso Caveoso e Sasso Barisano dell’abitato di Matera e per la costruzione di case popolari particolarmente adatte per contadini, operai ed artigiani, in sostituzione di quelle attualmente esistenti in detti quartieri che saranno dichiarate inabitabili ed abbattute”.  

 

La presenza delle autorità sarà immortalata da Domenico Notarangelo in una sequenza d’immagini di grande impatto emotivo. È in questo momento che la grave questione sociale a Matera si tramuta da problema delle campagne in questione urbana e che,

per la strana e inspiegabile determinazione del caso, incontra da una parte 

il tentativo olivettiano di verificare in un contesto agricolo il modello  urbanistico sperimentato a Ivrea in ambito industriale e dall’altra 

la politica di sviluppo edilizio propugnata da Fanfani col Piano Casa 

(Legge del 29 febbraio 1949) utilizzando i fondi del Piano Marshall.


Di Olivetti a Matera e della costruzione del villaggio La Martella ha già detto Tommaso Russo nel n.14 di questa Rivista, per cui qui vale di più ricordare lo studio promosso dall’UNRRA – Casas che si protrasse dal 1951 al 1955, impegnando un qualificato gruppo di specialisti (Musatti, Friedmann, Isnardi, Nitti, Tentori, Gorio, Quaroni, Mazzarone, Orlando, De Rita, Marselli e Bracco) coadiuvati da valenti studiosi locali che daranno poi vita al Circolo “La Scaletta” e alla battagliera Rivista “Basilicata”. Le risultanze del lavoro, ora raccolte nel volume Matera 55, portarono all’ipotesi di distinguere l’agglomerato dei Sassi in una triplice categoria: una da sfollare per l’impossibilità d’interventi migliorativi, una recuperabile e una di qualità a ridosso della Città Nuova.

 

La proposta, che tendeva a un recupero graduale della zona evitando 

lo svuotamento, presentata a Emilio Colombo, non fu presa in considerazione 

per la volontà politica di procedere allo sfollamento totale, che fu attuato 

con lo spostamento di oltre 17.000 persone, per venire incontro 

ai drammatici bisogni occupazionali di quegli anni. 

 

C’è da aggiungere che nello stesso periodo era stato chiamato a redigere il Piano Regolatore della città Luigi Piccinato, che operò per la sistemazione delle abitazioni e dei servizi del Borgo Venusio e del Quartiere Serra Venerdì tra il 1951 e il 1954. Lo svuotamento dei Sassi che ne seguì ebbe però come risvolto l’abbandono al degrado di tutto l’agglomerato, attivando il dibattito culturale e l’azione amministrativa del successivo ventennio.  

 

A riaccendere l’interesse per la questione, nel 1970, la Giunta DC-PSI affidò incarico al Gruppo “Il Politecnico” diretto dal sociologo Aldo Musacchio di redigere un “Rapporto socio economico” connesso alla variante generale del piano regolatore che fu adottato nel corso del mandato amministrativo anche in relazione alla Legge 1043 del 15.12.1971 che, di fatto, superava i limiti della precedente L.126 del 1967. Per Musacchio, reduce dall’elaborazione del Piano Regolatore di Tricarico, in netta contrapposizione con le valutazioni estetizzanti della borghesia materana post-sessantottina che tentava di rivalutare l’agglomerato come reperto di una più recente archeologia urbana esaltandone “il fascino del degrado”,

 

i Sassi erano “la testimonianza del dolore del mondo” e il più grande 

monumento che la cultura contadina aveva saputo realizzare 

per raccontare la propria condizione.


Da ciò la necessità di un loro recupero in funzione produttiva riattandoli e riutilizzandoli come laboratori artigianali, locali commerciali e sedi di funzioni pubbliche. Nonostante la dichiarata e sostanziale impostazione di sinistra, il Rapporto incontrò forti ostilità fino all’accusa di “colonizzazione” dell’impianto e della proposta. Va da se che l’immeritata accoglienza del documento, unitamente alla contrapposizione col governo regionale, che gli aveva affidato il compito di redigere il Piano di Sviluppo nascondendogli le trattative in corso per l’insediamento della Liquichimica nel metapontino, amareggiò profondamente Musacchio che abbandonò la Basilicata per non farvi più ritorno.     

 

Nonostante il Concorso Internazionale del 1976, cinque piani di recupero approvati dal Comune agli inizi degli anni ottanta, cinque leggi speciali, tra cui la 771 del 1986 per la conservazione e il recupero dei Sassi di Matera,

 

la “questione Sassi” era destinata a durare nel tempo accentuando 

il degrado delle parti più antiche e più a rischio. 

 

Intanto la Città nuova viveva di edilizia e di complessi apparati burocratici che ne legittimavano la nomea di “città assistita”.

 

Soltanto negli anni novanta, per merito dell’architetto Pietro Laureano, 

la città ottenne l’iscrizione nella lista del “patrimonio dell’Umanità” 

da parte dell’UNESCO e, a seguire, la candidatura e il riconoscimento 

di Capitale della Cultura per l’anno 2019.


E ora quale futuro per questo capoluogo in un mondo senza più contadini, senza industrie dopo il crac della costruzione dei salotti e dei mobili, con strutture turistiche in disarmo o comunque in forte contrazione, esaurito l’exploit dell’afflusso del 2019, e senza più giovani che ormai emigrano per cercare altrove una risposta ai loro problemi?  

 

A volte passeggiando davanti alla sede di Palazzo Lanfranchi mi pare di rivedere la figura dello scomparso pittore Luigi Guerricchio, che più di ogni altro ha saputo comprendere e rappresentare lo spirito della sua città e della sua gente, mentre appoggiato al portone, antistante il suo laboratorio, con il suo sguardo sornione di persona scanzonata e buona, sembra riflettere sui destini di questo luogo di ragionieri che, come usava dire con grazia ironica, compravano i suoi quadri, veri capolavori dell’arte italiana, per nascondere il buco dei contatori nelle loro case. 

 

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 Foto di Giuseppe Soldo 

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matera, dalla grotta al bed and breakfast

 

 

IL BRIGANTAGGIO MERIDIONALE di Agostino Picicco – Numero 19 – Dicembre 2020 gennaio 2020

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IL BRIGANTAGGIO MERIDIONALE

 

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Al di là dei favoleggiati tesori nascosti dai briganti in antiche torri, le cui storie avventurose e romantiche si raccontano ancora oggi, magari con meno fascino di un tempo,

il fenomeno del brigantaggio meridionale postunitario è progressivamente 

disvelato nei suoi aspetti più prosaici.


Contribuisce a quest’opera di verità la recente pubblicazione dello studioso Valentino Romano, autore di vari volumi sul tema, con particolare attenzione alle radici sociali del fenomeno. Nel volume “Un popolo alla sbarra” (Secop Edizioni), Romano porta alla luce

gli atti processuali relativi alla lotta al brigantaggio attuata 

dal Generale marchese Emilio Pallavicini, 


inviato a debellare definitivamente il fenomeno, con poteri speciali rispetto alla giustizia e ai compiti di polizia ordinari.  

Il Generale è già noto alla storia perché il 29 agosto 1862 aveva guidato la colonna che all’Aspromonte aveva fermato la spedizione che Garibaldi conduceva dalla Sicilia per la conquista di Roma e aveva ordinato l’attacco durante il quale lo stesso Garibaldi fu ferito. Superata la resistenza opposta dai volontari garibaldini,

Pallavicini ottenne la resa di Garibaldi.


Tra il 1863 ed il 1864, riuscì a sgominare le bande dei briganti, facendo pagare un grande prezzo in vite umane. Pallavicini e la sua “Colonna Mobile”, comprendente vari reparti dell’Esercito,

fu infatti inviato dallo Stato a sedare le rivolte,


settore in cui era militarmente esperto, e lo fece in modo spregiudicato pur di raggiungere gli obiettivi che si era posto, senza tenere conto del valore della vita umana e delle istanze sociali del popolo. E così riuscì a sconfiggere e distruggere nella zona murgiana della Puglia le bande di Ninco Nanco, Carmine Crocco, Ciucciariello (Riccardo Colasuonno). Ecco allora che –

esaminando le carte dell’epoca – emergono i tanti casi di briganti fucilati 

durante i trasferimenti, mentre tentano la fuga 

(così dicono i rapporti della scorta), 

e non si tratta di casi isolati.


É fondato il sospetto che si tratti di un modo per liberarsi di loro evitando pastoie burocratiche e procedure garantiste.  

Il libro di Romano rivela, grazie all’esame dei documenti processuali e di polizia, tutta una casistica, anche umana, con storie di paese, drammatiche e talvolta ironiche, di un mondo di povertà in cui si incontrano soldati, grassatori, manutengoli, pubblici amministratori che facevano a “scaricabarile” delle loro incombenze. 

Il brigantaggio, che è sempre tema attuale di studio, diventa la feritoia per esaminare la storia post unitaria, al di là degli stereotipi e delle posizioni ideologiche.  

L’esame approfondito delle sentenze, proposto dall’autore, denuncia il pressapochismo spesso doloso della giustizia militare, in qualche caso rimediato dalla magistratura ordinaria.

Essere parenti di un brigante era in sé una colpa, lo stesso incrociare per caso

i briganti per strada, portare una pagnotta in più in tasca (fosse anche per i figli) 

voleva dire voler rifornire di viveri i briganti.


Tante ingiustizie furono evitate, a prezzo di discredito e di numerosi mesi in carcere, che non prevedevano risarcimenti di alcun genere. 

Il contesto è quello di una società poverissima, dove non lavorare un giorno voleva dire la fame per la famiglia, e dove il furto in fattoria, da parte dei briganti, di un mulo o di un maiale, il primo come strumento di lavoro e il secondo come mezzo di sostentamento, era un danno gravissimo. Quanto descritto nel libro di Romano ci restituisce

una realtà complessa ancora da studiare e interpretare bene, 


perché non si è ancora trovata la verità. E il contributo dell’autore va proprio in questa direzione

 

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NOBILI INTELLETTI PER GLI INTERESSI DEL SUD di Tommaso Russo – Numero 19 – Dicembre 2020 – Gennaio 2021

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NOBILI INTELLETTI PER GLI INTERESSI DEL SUD

  L’ASSOCIAZIONE NAZIONALE PER gLI INTERESSI DEL MEZZOGIORNO D’ITALIA: ANIMI  

 

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Le origini 

 

 

Nel dicembre 1908 un violento terremoto distrusse Messina e Reggio. Si costituirono subito Comitati di solidarietà in molte città d’Italia per far fronte ai danni. Il vicentino Giovanni Malvezzi (1887-1972), componente del board del Credito italiano, vicedirettore dell’IRI, arrestato per partecipazione alla Resistenza, fu uno dei primi manager-filantropi a concretizzare il suo impegno per il Mezzogiorno. All’indomani del sisma, con Umberto Zanotti Bianco (1889-1963) prese a girare l’Aspromonte occidentale per un’inchiesta sui Comuni disastrati. Al termine del lavoro, mentre facevano rientro a casa, nella stazione di Pizzo i due si imbatterono in Padre Giovanni Semeria. Accusato di modernismo e perciò costretto da Pio X ad andare all’estero, il “prestigioso barnabita” li ascoltò attentamente: “Non esaurite la vostra azione con qualche bel racconto;” – disse – “bisogna agire, seriamente agire se volete ottenere qualcosa in questa disgraziata terra”. 

 

Quell’invito, innestandosi sull’entusiasmo di entrambi, avrebbe dato vita, di lì a poco, all’ “unica forza finora organizzata in Italia per il risveglio delle provincie meridionali”, come disse Giustino Fortunato. 

 

Avevano pensato a lui, o a Leopoldo Franchetti, o a Sidney Sonnino come a padri nobili per il loro progetto di “risveglio”. Dopo una prima riunione a Oria di Valsolda, nella villa di Antonio Fogazzaro, e dopo un secondo incontro a Oreno, nella villa del conte Fulco Tommaso Gallarati Scotti, Malvezzi, Zanotti Bianco, il nobile lombardo e altri partecipanti individuarono in Franchetti la persona adatta per quello scopo. Andarono a trovarlo a Firenze, a Villa Wolkonsky. Dopo un’appassionata discussione, accettò di essere il primo presidente effettivo dell’Associazione.

 

Il 9 marzo 1910, in Senato, presidente onorario Pasquale Villari, Franchetti 

e vice Luigi Bodio (il padre della statistica italiana), si costituiva l’ANIMI. 

 

Nel quinquennio 1910-1915 tra i primi finanziatori si ricordano alcuni ministeri (Interno, Pubblica Istruzione, Grazia e Giustizia, Tesoro) e tre istituti bancari (Bankitalia, Banco di Napoli, Cassa di Risparmio di Torino). Dal 1918 Bonaldo Stringher con l’industriale milanese Ettore Rusconi formerà la coppia di vicepresidenti.   

 

Dopo il 1918 si amplia il fronte dei finanziatori. Accanto a Banca Commerciale 

e Banco Italiano di Sconto si collocano numerose industrie, 

 

fra cui Ansaldo, Breda, Ilva, Ferriere Piemontesi, Pirelli. Nel secondo dopoguerra la platea si allarga ancor più: Banco di Santo Spirito, MPS, Credit e poi tante imprese, fra cui: Chatillon, IBM, Istituto Romano di Beni Stabili, Montecatini.  Il governatore Donato Menichella era il vice di Ivanoe Bonomi. 

 

La costruzione della fitta rete di finanziamenti, di rapporti sociali e istituzionali va attribuita senz’altro a Zanotti Bianco, che la tenne in vita anche in momenti difficili.  

 

In giro con l’ANIMI per il Mezzogiorno 

 

A favorire la realizzazione dei progetti ANIMI, di cui qui se ne offre una sintesi, fu l’idea che solo la divulgazione dei saperi e delle conoscenze applicate alla vita e al lavoro quotidiani potesse sollevare le sorti del Sud.     

 

In mezzo secolo (1910-1960) furono creati asili infantili, scuole diurne, serali 

e festive, biblioteche, ricreatori, cicli di conferenze dalla storia del Risorgimento 

alla necessità dell’igiene individuale e collettiva negli asili e nelle scuole. 

Vennero organizzati a Gerace e a Taranto corsi di formazione per maestri sui temi dell’igiene scolastica e domestica, su tracoma, malaria, Tbc, alcolismo. Nel 1912-1913 a Taranto venne aperta una scuola di disegno per gli operai dell’Arsenale. Visto il successo, se ne aprì a Reggio una di arte applicata all’industria. 

 

Nell’asilo infantile di Melicuccà furono selezionate “le prime maestre laiche con patente per scuole materne” e conoscenza del metodo Montessori. Altri asili, nel 1920, vennero aperti in Calabria, Campania e Puglia. Nel primo anno di vita si aprirono biblioteche a Bernalda, Castrovillari, Lauria, Metaponto, Palmi, Reggio, Roccella, Taranto e Villa San Giovanni.    

 

Furono costituite cooperative di pescatori, istituite “cattedre ambulanti 

per la previdenza e la mutualità”, istituti diagnostici “per le malattie 

del sangue, del petto, dello stomaco, nervose”. 

 

Il terremoto del 1914 nella Sicilia occidentale e quello del 1915 nella Marsica videro l’ANIMI impegnata con tutti i suoi mezzi e risorse.Alla fine del conflitto si costruirono in Calabria laboratori di tessitura e scuole di taglio e cucito per ragazze. 

 

Durante il fascismo la realizzazione dei progetti si fece complicata a causa dell’autonomia che l’ANIMI volle sempre conservare. Tuttavia continuò, per esempio, l’apertura di biblioteche dell’Associazione che via via si fusero con le popolari, dando vita “a biblioteche di cultura con comuni sale di studio”.  

 

Con la Collezione di studi meridionali passata da Vallecchi a Lacaita, con la pubblicazione annuale dell’Archivio storico per la Calabria e Lucania, con la Società Magna Grecia e col suo periodico Atti e Memorie della Magna Grecia, con la Biblioteca Giustino Fortunato, la più specializzata sui temi del meridionalismo con i suoi quarantamila volumi,

 

l’ANIMI oggi può essere considerata un prestigioso centro 

di ricerche e studi sul Mezzogiorno. 

Nota finale 

 

Mette conto sottolineare che l’ANIMI nasce negli anni centrali dell’età liberale, del riformismo giolittiano e si avvale del clima di entusiasmo e ottimismo che pervadeva quel decennio.  

  

Chi furono i protagonisti di quell’avventura e quali 

le ragioni che la resero importante?

 

Agli incontri nelle ville parteciparono esponenti di quel cattolicesimo tormentato ma aperto al nuovo (Fogazzaro), desideroso di misurarsi dal di dentro con l’eresia del Novecento: il modernismo. Infatti Antonio Aiace Alfieri (primo direttore in Calabria seguito da Alessandro Marcucci), Alessandro Casati e Gallarati-Scotti nel 1907 fondarono la rivista Rinnovamento che di quella corrente cattolica per breve tempo fu autorevole espressione. 

 

Quel milieu culturale inoltre era segnato dalla presenza, in parte, di un capitalismo finanziario moderno e razionale; dal costume filantropico di settori della borghesia e della nobiltà lombarde attente nel suscitare e guidare processi di cambiamento; dalle coordinate teoriche del miglior liberalismo del primo Novecento.

 

Infine, la ragione principale per i risultati ottenuti in un ambiente difficile 

è da ricercarsi nella forte carica di eticità presente nell’azione 

di ogni singolo componente di quel gruppo. 

Senza enfasi, si può affermare che quel manipolo di uomini dette vita ad una stagione del meridionalismo mai più veduta in Italia.  

 

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Piccola bibliografia 

 

Alatri Giovanna, Una vita per educare tra arte e socialità: Alessandro Marcucci (1876-1968), Milano, Unicopli, 2006. 

 

L’ANIMI nei suoi primi cinquant’anni di vita, Collezione di studi meridionali, Roma, 1960. 

 

Calbi Mimmo, Un violento companatico. Umberto Zanotti Bianco e la Basilicata, Bari, Palomar, 1992. 

 

La divina droga. Chinino e lotta alla malaria in Italia all’alba del Novecento, Milano, La Vita Felice, 2015. 

 

Galante Garrone Alessandro, Zanotti-Bianco e Salvemini. Carteggio, Napoli, Guida, 1983. 

 

Per una storia dell’ANIMI (1910-2000). I Presidenti, Manduria, Pietro Lacaita, 2000. 

 

Russo Tommaso, Istruzione e sociabilità in Basilicata 1900-1921, Milano, Franco Angeli, 2004. 

 

Semeria Giovanni, Lettere pellegrine, Venosa, Osanna,1991. 

 

Zanotti-Bianco Umberto, La Basilicata. Storia di una regione del Mezzogiorno dal 1861 ai primi decenni del 1900, Venosa, Osanna,1989. 

 

ERBE SELVATICHE TRADIZIONE ALIMENTARE IN PUGLIA di Nello Biscotti – Numero 19 – Dicembre 2020 gennaio 2021

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ERBE SELVATICHE TRADIZIONE ALIMENTARE          IN PUGLIA

 

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Esplorare il mondo dei saperi in cui occupano un ruolo alimentare foglie, steli, fiori di piante selvatiche è quasi un viaggio tra memorie e esperienze dirette.  

Un ruolo che ha origine nello stretto rapporto con la terra, gli ambienti, la Natura, per cui con questa tradizione che ha coinvolto le comunità umane a scala di Pianeta, si entra in una conoscenza che abbraccia più ambiti disciplinari (botanica, sociologia, ecologia, storia del territorio, antropologia culturale). 

 

In questi ultimi cinquant’anni, però, ovunque questa tradizione è stata abbandonata (benessere, cambiamenti stili di vita);

in gran parte dell’Europa settentrionale e orientale queste pratiche si limitano oggi 

a frutti e funghi; ancora forte è soltanto la tradizione di raccolta di piante medicinali. Essa sopravvive, invece, in molti paesi del Mediterraneo


e in alcuni paesi dell’est (Croazia, Estonia, Bielorussia); per ciò che riguarda in generale l’Europa si possono documentare oggi utilizzi alimentari di piante spontanee in Polonia, Francia, Austria, Spagna, Portogallo, Grecia, Bosnia-Erzegovina, Slovacchia, ed ovviamente in Italia e nell’intera area mediterranea. La raccolta di vegetali spontanei, pertanto, è stata praticata da sempre, ha costituito l’attività quotidiana delle comunità umane, anche se dalla repertazione preistorica (Paleolitica e Neolitica) sembra prevalere (raffigurazioni, materiali litici) l’immagine dell’uomo cacciatore. 

Il libro “Vie erbose. Le erbe selvatiche nelle bioculture alimentari mediterranee” affronta su basi scientifiche la tradizione, quella su cibi selvatici,

 

partendo da ricerche etnobotaniche condotte in Puglia, contestualizzate nel panorama della letteratura italiana ed europea. 

 

Ovunque con le erbe selvatiche la povera gente, e non solo, ha fronteggiato carestie, periodi di guerre sempre più devastanti. Le erbe selvatiche hanno rappresentato cibo prezioso durante le guerre mondiali, anche in quelle che abbiamo imparato a vedere in diretta in televisione (Bosnia-Erzegovina, 1992-1995). Erbe selvatiche hanno mangiato in Siria gli abitanti di Aleppo assediati per oltre un anno, come si è potuto ascoltare nei servizi televisivi di qualche anno fa.

Si tratta di una tradizione mai scritta perché da sempre trasmessa per via orale, 

di qui la crescente attività di ricerca che in Italia, ha portato a documentare 

fino ad oggi circa 800 specie;

 

ne risultano coinvolte tutte le regioni, ognuna con proprie caratterizzazioni in termini di specie e preparazioni culinarie. Ma è questa solo una rappresentazione parziale di questa tradizione, il dato, infatti, viene da indagini frammentate, condotte in tempi diversi oltre che con logiche diverse. Mancano dati soprattutto a scala di regioni

La ricerca in Puglia, oltre a darci un quadro più aggiornato 

(604 specie escludendo frutti e aromatiche) fornisce per la prima volta in Italia 

dati etnobotanici per una intera regione, ancora più preziosi per il contesto mediterraneo ove la raccolta delle erbe selvatiche 

conserva una evidente importanza.

 

Proprio nella mediterranea Puglia emerge con più forza che nell’uso popolare di cibi selvatici non vi è un confine netto tra cibo e medicina, la tossicità è un concetto del tutto relativo come quello della stessa edibilità. Evidentemente la tematica è realmente complessa e non è una questione solo biologica, o chimica. Vi è un’altra biodiversità che le stesse esprimono nel loro uso, da conoscere, salvare, ed è quella bioculturale (fattori biologici e culturali che influenzano il comportamento umano), altrettanto importante perché interconnessa con quella naturale. 

Le bioculture sono tante, diversissime, poiché si sono sviluppate in luoghi 

e in condizioni diverse, per cui salvando le bioculture salveremo forse 

anche la Natura e viceversa.


La diversità di conoscenze può essere una chiave per la sostenibilità e la resilienza dell’umanità. Le continue perdite di biodiversità con cui ci misuriamo sono anche il vero problema per la conservazione della natura, che è stata sempre perseguita separatamente dal patrimonio culturale che include anche le tradizioni orali ereditate dai nostri antenati. Nell’uso popolare di queste piante in Puglia sono emerse, inoltre, consapevolezze di alimenti che “fanno bene” al corpo, alla salute.

Cibo o medicina allora? Altra questione complessa che l’etnobotanica configura

 

in “cibi-medicina” e che trovano conferme scientifiche per la presenza di importanti di principi nutraceutici (polifenoli, antiossidanti e vitamine) alla ricerca dei quali siamo ormai tutti coinvolti. 

 

Ma questi cibi possono raccontarci altro: l’uso crudo di apici e germogli di piante diverse, che ancora oggi caratterizza la tradizione pugliese, può essere visto come un’importante traccia dell’antica e prolungata attività pastorale che ha contraddistinto questa regione o l’Italia meridionale in generale.

Con questa tradizione pertanto si possono ripercorrere le fasi ancestrali 

del rapporto dell’uomo con il cibo, a partire dalle difficoltà nello scegliere 

le piante, alle prime elaborazioni “culturali” su come e dove trovarle; 

e poi il modo di utilizzarle,

 

dalle forme crude (germogli, frutti, steli) agli arrosti (bulbi, steli) che in tutte le società sono state le prime forme di cottura, quelle più vicine all’ordine naturale ma che si sono mantenute nel tempo. 

 

La cultura sul cibo selvatico era molto diffusa nel basso Medioevo ed era frutto di esperienze legate alla conoscenza del territorio e agli insegnamenti che potevano venire solo da pastori, cacciatori e boscaioli, le uniche figure che vivevano intimamente il territorio. Parliamo di un tempo in cui il confine tra selvatico e domestico è molto labile. 

Le piante cibo erano tali, al di là se crescevano allo stato spontaneo o coltivato, una visione di cibo ancora diffusa tra i raccoglitori di erbe della Puglia oggi, quando attribuiscono ad un’erba selvatica il valore di verdura.

 

È solo nel XI secolo che in Italia le cose si fanno più chiare, perché è già avviata una massiccia colonizzazione fondiaria e agraria a spese di pascoli e boschi: in Puglia continua a dominare il pascolo e la maggior parte della gente non ha niente, perché privata di praticare l’attività fondamentale di coltivare la terra, che invece deve servire agli allevamenti bradi, per i quali servono superfici ampie, prive di alberi (gli stessi boschi si trasformano in pascoli) e incolte, per riuscire a foraggiare gli animali di erbaggi spontanei. 

In questo scenario nasce il Terrazzano (in altre terre di Puglia 

assumerà nomi diversi) capace di costruirsi la propria esistenza 

sulla raccolta dei prodotti spontanei,

 

ma obbligandolo a vagare quotidianamente “per le immense pianure pascolative – scrive Lo Re in “Capitanata triste (1902) – aiutato in ciò dalle donne…; vendendo il supero su la piazza o per le vie”. Ciò li pone in una condizione di assoluta autonomia di sostentamento, e non saranno mai loro a “domandar il pane” o “assaltare forni e panetterie” nelle ripetute carestie che attanagliano il Tavoliere delle Puglie. 

Cosa può trovare in una immensa pianura di terre incolte delle quali gli è impedito l’uso? Sterpi, spini, rami e frutti di perastri, ferule, asfodeli, funghi, cicoriette, 

cardi, nocchi, asparagi selvatici, lumache, rane.

 

Aspetto di grande interesse antropologico è che i Terrazzani in Puglia non si sono estinti, continuano a trovare occasioni di reddito dalla raccolta di erbe selvatiche (oltre a lumache, origano, funghi) e a suscitare interesse per le loro competenze di esperti conoscitori di questo mondo; in molti continuano a vendere le loro erbe spontanee nei mercati, ai margini di strada su bancarelle improvvisate in quasi tutti i comuni pugliesi; sono cercati dall’impiegato al notabile, nella consapevolezza di cibo “naturale”, garanzia di genuinità, sicurezza alimentare e soprattutto certezza di sapori. 

Ancora oggi almeno 34 specie sono stagionalmente vendute come comuni 

verdure e dunque una tradizione capace anche di produrre reddito,

 

non poca cosa nella prospettiva di salvaguardare culture e economie locali e non con le note rappresentazioni o spettacolarizzazioni delle tradizioni a fini turistici. 

 

Le piante selvatiche che si raccolgono ancora oggi sono strettamente imparentate (progenitrici) con le verdure coltivate, di qui probabilmente anche la ragione di fondo che fa della Puglia la prima regione italiana per la produzione di verdure e ortaggi. 

 

Le erbe selvatiche hanno in questa regione una stretta relazione con il cibo convenzionale (carne, pesce, pasta). In generale lo sostituiscono ma spesso sono complementari o costituiscono un elemento di diversificazione, sul piano gustativo (cibo sfizioso), del pasto quotidiano che si esalta nel piatto con la pasta, o con i legumi (fave). 

In queste logiche l’erba selvatica entra a pieno titolo nel costume 

alimentare della Puglia, arricchendolo e rafforzandolo 

nel suo impianto vegetariano di dieta mediterranea.

 

Nella piramide alimentare che può̀ rappresentarla trovano ancora posto i blocchi classici (cibo vegetale, ridotto consumi di carni e dolci), ma alla base sempre meno vi sono le attività̀ fisiche (quello che una volta era il lavoro nei campi), il riposo adeguato, la convivialità̀ e la stessa attività̀ culinaria, che impegnava non poco, dalla raccolta alla produzione e alla preparazione del cibo. 

 

Le indagini dimostrano il peso rilevante che ha ancora oggi il verdume selvatico nella dieta mediterranea pugliese, ovviamente nella sua formula di gastronomia tradizionale contribuendo, senza ombra di dubbio, ai benefici salutistici di questa dieta. 

Tra gli stili di vita della dieta mediterranea rimane oggi in Puglia la raccolta 

e la preparazione culinaria delle erbe selvatiche, pratica che ha “resistito” come condizione di vita del “fare” intorno al cibo (raccogliere, pulire, preparare) 

che è un fondamento di base di questa dieta.

 

E il fare è tanto, poiché bisogna uscire, andar per campi, e soprattutto scegliere quale pianta raccogliere e come prepararla. Nel libro, sono raccolte in un repertorio le specie documentate (206), un numero che pone la Puglia tra le regioni italiane a più alta diversità di specie utilizzate. Di ogni specie si forniscono i dati etnobotanici fondamentali che vanno dall’inquadramento botanico, ai nomi dialettali, alle parti utilizzate, e alle modalità di preparazione culinaria che si può spendere oggi anche sul piano dell’offerta gastronomica. Questo quadro descrittivo “olistico” conferisce all’opera una caratura particolare che arricchisce ulteriormente il valore didattico e divulgativo del saggio. 

 

È nella diversità culturale che si struttura questa tradizione in Puglia, nelle specie e nelle parti utilizzate, nelle preparazioni culinarie. 

A dare forza a queste identità culturali vi sono poi gli aspetti etnolinguistici; 

con i “Marasciuoli” siamo in Capitanata, con “Cristalli e “Sivoni” 

nella Terra di Bari, “Cecoria restu” e “Paparine” 

ci proiettano nel Salento.

 

Non si tratta solo di suoni o di cadenze dialettali, ma di strutture lessicali, etniche, tipiche di una lingua, che proprio i fitonimi popolari, forse più di altri, riescono a esprimere quanto resta di bioculture oggi. 

 

Salvare queste bioculture è strategico per difendere la sovranità alimentare delle comunità locali, innescare dinamiche di recupero delle economie locali, fondamenti teorici ma anche pratici, di sviluppi sostenibili di cui da anni si sente parlare. Nelle bioculture si gioca il futuro dell’Italia dei paesi e dei borghi. 

 

Ma le narrazioni sulle erbe selvatiche sono altre nelle tendenze “green”: mercati delle erbe, cucinare con i fiori, simboli di “mangiar selvatico”, “mangiare spontaneo”. Nuove bioculture? O semplicemente mode? Il libro nato nel solco della ricerca etnobotanica vuole essere un contributo divulgativo di approcci scientifici su quanto abbiamo banalizzato come tradizione.

 

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Campagna con anziana
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Il libro

 

 “Vie erbose. Le erbe selvatiche nelle bioculture alimentari mediterranee” di Nello Biscotti e Daniele Bonsanto Ed. Centro Grafico Foggia 560 pagine che strutturano: introduzione, 

13 capitoli, integrati di 58 foto (contesti, piante, personaggi), grafici, 25 figure.