UNA INEDITA NARRAZIONE A SUD di Giuditta Casale – Numero 19 – Dicembre 2020 gennaio 2021

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una inedita narrazione a sud

 

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La voce della classe intellettuale che l’ha segnato e disegnato è stata quasi dimenticata e sommersa dalla dicotomia tra aristocratici e cafoni, o cancellata dal ritratto di un Sud ricco di tradizioni ancestrali e lontano dalla modernità.  

 

Ed ecco che mi imbatto felicemente in 

 

due romanzi che colmano quel vuoto narrativo: Breve storia del mio silenzio (Marsilio) di Giuseppe Lupo e Sud (Bompiani) di Mario Fortunato, due scrittori indiscutibili 

e autorevoli della narrativa contemporanea italiana.


Lo sguardo intimo e privato, anche se dispiegato con un diverso respiro e ritmo narrativo, più affine al 
mémoire per Giuseppe Lupo e più legato al romanzo storico per Mario Fortunato, è l’elemento che nel libro della mia memoria ha intrecciato e intessuto tra loro i recenti romanzi di entrambi. 

Breve storia del mio silenzio è un’autobiografia intellettuale che passa attraverso l’omaggio ai genitori dello scrittore, come evidenzia la dedica: “ai miei genitori, i primi maestri, e a tutti gli altri che lo sono stati”. È il racconto della propria formazione infantile e giovanile, mediata dal padre e dalla madre, entrambi maestri elementari, aperti alla modernità che si manifesta attraverso la cultura, i libri, i giornali, le case editrici, la scuola, in un piccolo paese della Basilicata.

   

Giuseppe Lupo attraverso la figura dei genitori rappresenta una Lucania colta, 

aperta, interessata e curiosa tra gli anni Sessanta/Settanta del secolo scorso,

 

che finora non ha trovato uno spazio letterario e una narrazione romanzesca per quanto riguarda la Lucania nello specifico dello scrittore, e la narrazione del Meridione a sud di Napoli nella dimensione più generale della letteratura italiana. Breve storia del mio silenzio riempie così un vuoto nella narrazione di sé che gli scrittori lucani hanno proposto della loro terra.  

 

“La Lucania” – afferma Giuseppe Lupo – “è stata raccontata spesso attraverso alcuni stereotipi, primi fra tutti la civiltà contadina e il suo contrario. Io non ho vissuto la Lucania dei contadini. La Lucania che io ho vissuto fino a 18 anni, cioè fino a quando non sono partito per Milano, è una terra ancora premoderna, ma che ha tutto il desiderio di varcare la soglia della modernità. In più aggiungo che la Lucania vissuta e filtrata attraverso la mia famiglia ha molto a che vedere con il movimento di uomini, di libri e di idee che negli anni Sessanta e Settanta è stato particolarmente attivo. Da qui discende questo mio romanzo.

 

È sbagliato pensare che in Lucania non sia esistito un dibattito intellettuale parallelo 

al tentativo di varcare la soglia del moderno compiuto dai nostri emigranti.

 

All’interno di questo panorama si colloca la storia della mia famiglia, in particolar modo di mio padre, che è stata una presenza lucida nel dibattito e forse anche originale, avendo scommesso gran parte delle sue energie sui temi della cultura come strumento di riscatto umano e sociale. Credo che questo libro possa aggiungere un tassello all’immagine di Lucania che tra gli anni Sessanta e Settanta tenta la strada del cambiamento. L’aver dedicato ai miei genitori il libro è anche un segno attraverso cui io cerco di dichiarare che esiste una chiave di lettura concreta a chi afferma solo la civiltà contadina o a chi la nega”.

Come il protagonista di Breve storia del mio silenzio abbandona la sua terra d’origine per Milano in cui proseguire gli studi e inseguire l’impellente vocazione letteraria, mutuata inconsapevolmente dal padre, così anche il romanzo 

di Mario Fortunato, Sud, comincia con una fuga: 

 

la scelta di Valentino, seguendo l’insistito consiglio materno, di allontanarsi dal paese in cui è nato e di andare a vivere lontano di lì. Il romanzo è una saga familiare, o meglio bifamiliare perché la famiglia del Notaio si intreccia con quella del Farmacista, ma entrambe conservano le proprie specificità senza confondersi, attraversando tutto il Novecento scandito dalla Storia.

 

Il Notaio, suo figlio l’Avvocato, il Farmacista e le donne, forti e determinate, 

che li accompagnano raccontano un Sud che dal mio punto di vista di lettrice 

è ancora inedito e non del tutto esplorato. 

 

Non c’è nulla di preciso, locale o caratterizzante a specificare la natura geografica del Meridione in cui il Notaio, il Farmacista e la loro ampia discendenza vivono. Che sia la Calabria lo si evince da piccole notazioni sempre marginali e mai essenziali, come a voler sottolineare 

 

una più ampia e non regionalistica dimensione geografica: non la Calabria, 

ma il Sud, inteso come tutto ciò che si estende sotto Napoli.

 

Dal mio punto di vista di lettrice ogni narrazione che abbia il Sud nel proprio immaginario non può che avere un pizzico di realismo magico, ma quello che rende affascinanti i personaggi di Mario Fortunato è il loro vivere drammaticamente e spavaldamente nella Storia. La Storia tormentata del Novecento, che senza nessun accademismo lo scrittore ha saputo incistare nel destino dei personaggi in modo intimo e introspettivo. Personaggi che si percepiscono come familiari e indimenticabili non solo perché vivono nella Storia, ma perché vivono la Storia. Anche in questo 

 

una narrazione inedita del “Sud” che da sempre si è percepito, e dunque raccontato, come vittima della Storia, in particolare dall’Unità d’Italia, 

più che agente nella Storia del paese.

 

Sia Giuseppe Lupo che Mario Fortunato hanno lasciato il Sud in cui sono nati, e vi ritornano entrambi con una storia sul Sud che non ricalca stereotipi e cliché. La distanza probabilmente ha giocato un ruolo importante nella trasparente lucidità dello sguardo, o forse più che la distanza poté la nostalgia.  

 

“Credo sia stato il distacco” – mi risponde Mario Fortunato – “la chiave che mi ha consentito l’accesso al racconto. Erano più o meno trent’anni che sapevo che prima o poi avrei scritto questo libro. Certo, non esattamente in questa forma, e tuttavia sapevo che un giorno o l’altro avrei scritto di quel mondo mediterraneo, pieno di fascino, di mistero, di contraddizioni e di straordinaria bellezza, di cui io stesso ero stato parte. Perché non ho affrontato prima quel nodo? Non lo so di preciso,

 

I romanzi – alcuni romanzi perlomeno – hanno bisogno di tantissimo tempo 

per mettersi a fuoco.

 

In un certo senso sapevo, anche se in maniera inconsapevole, che avevo bisogno di ripulire il mio sguardo proprio da quei cliché e luoghi comuni sul Sud a cui tu ti riferisci. Per me la scommessa era di scrivere di qualcosa che mi appartiene profondamente con la felice ironia di chi si sente veramente libero, di chi insomma è un po’ straniero.”

 

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ho sempre pensato

se non dal punto di vista saggistico, critico e di storia della letteratura, certamente da quello narrativo e romanzesco. 

LA MECCATRONICA PUGLIESE di Stefania Conti – Numero 18 – Settembre-Ottobre 2020

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LA MECCATRONICA PUGLIESE 

 

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nel firmamento dell’industria meridionale, una stella lucente che per anni è stata in testa a tutte le classifiche delle esportazioni, che ha resistito alla crisi e sta resistendo al Covid.   

 

 

È il settore della meccatronica pugliese. Quello della meccatronica è un comparto relativamente recente (a livello nazionale una trentina di anni) che unisce la meccanica all’elettronica e opera quasi esclusivamente per l’auto o comunque per i veicoli a motore. Automotive in inglese e per gli addetti ai lavori. Ovvero il ramo dell’industria manifatturiera che li progetta, li costruisce, fa marketing e li vende. Grossa parte è costituita dalla componentistica, cioè quell’insieme di attività, di lavorazioni e dispositivi elettronici che messi insieme (e venduti a terzi) servono per realizzare una apparecchiatura più complessa, in questo caso i veicoli. 

Ebbene la Puglia ha creato un insieme di aziende che non hanno bisogno 

di invidiare il triangolo industriale del Nord Italia quanto 

ad export, innovazione e occupazione.


Non lo diciamo noi, ma il report annuale di Intesa San Paolo, in cui vengono analizzati i dati sulle esportazioni dei distretti industriali italiani e che, nel 2019, ha riconosciuto alla meccatronica pugliese il maggior incremento di 
export in valore assoluto.  

 

Il segreto del successo sta tutto nella perfetta sinergia tra l’Università di Bari, una delle prime ad avere la facoltà di informatica che fornisce tecnici altamente specializzati (l’80% trova lavoro subito); il progetto Puglia Sviluppo – che utilizza i fondi europei destinati alle imprese – e la regione Puglia; il grande spazio e le grandi risorse destinate alla ricerca. E poi l’apporto delle grandi multinazionali dell’auto, da anni ormai presenti nella filiera sul territorio, filiera che ebbe il suo battesimo con le Partecipazioni Statali ed ha resistito molto bene alla loro fine.  

 

Esempi? A Valenzano (BA) e a Foggia c’è il centro ricerche FCA che studia i motori di prossima generazione. A Lecce, la Elasis lavora nel settore delle macchine per il movimento terra. A Modugno, la Bosch produce pompe ad alta pressione per i motori diesel e la GETRAG fabbrica trasmissioni manuali di auto. Sempre a Modugno, la Magneti Marelli Powertrain produce componenti elettronici per motori ibridi. A Monopoli, la MERMEC progetta e sviluppa veicoli ferroviari e sistemi avanzatissimi per il segnalamento ferroviario. Potremmo continuare, perché

 

uno studio dell’Unioncamere barese ci informa che nel 2019 

c’erano oltre 2.200 imprese con oltre 18 mila dipendenti.


Ma adesso c’è il Covid e l’economia italiana ha già subito una bella mazzata e trattiene il fiato per vedere cosa succederà ora con la seconda ondata. In Puglia però si sono rimboccati le maniche e le imprese hanno mostrato una notevole capacità di diversificazione e di flessibilità nella produzione. 20 aziende del distretto della meccatronica si sono alleate e si sono accordate con una impresa del Friuli Venezia Giulia per produrre mascherine chirurgiche e FFP2. L’azienda friulana – specializzata nell’elettrotermia – produce macchinari per sterilizzare a secco le mascherine (quindi senza agenti chimici) prima che vengano assemblate. I 20 pugliesi hanno fatto l’impianto vero e proprio, capace di produrne 144 mila al giorno. La MBL Solutions di Corato (BA) lo ha progettato in maniera del tutto robottizzata. Gli altri 19 produttori di macchine ed impianti automatizzati, di impianti elettrici, officine meccaniche di precisione, aziende di carpenteria meccanica, distributori e rivenditori di componentistica industriale di automazione, si sono subito attivati per reperire componenti nel minor tempo possibile e realizzare il macchinario chiamato “Cento.1”.  

 

Ancora, la Masmec di Bari – 30 anni di vita, 35 milioni di fatturato -, proprio a causa della pandemia, ha affiancato alla sua attività principale, cioè l’assemblaggio e il test di componenti per i veicoli a motore, quella del biomedicale, grazie alla piattaforma di liquid handling, cioè la manipolazione automatizzata dei liquidi. Si chiama sistema Omnia ed ha già 10 anni.

 

Con l’insorgere della pandemia, la Masmec si è subito messa in moto 

per l’assemblaggio delle mascherine, seguendo le indicazioni 

del Politecnico di Bari sulle caratteristiche 

che queste devono avere.


Non solo. Ha creato – attraverso la tecnologia Omnia e con l’ausilio di un nucleo di esperti – un sistema per realizzare una piattaforma che acceleri l’estrazione della molecola dai tamponi Covid, passando più rapidamente alla successiva fase di diagnosi di tale patologia. In questo modo, possono essere analizzati 24 tamponi impiegando lo stesso tempo in cui un operatore riuscirebbe ad analizzarne uno solo. Dando così una notevole mano ai laboratori diagnostici, oggi oberati fino al collo. Se la Masmec di Bari ha potuto fare tutto questo, è perché investe tra il 15 e il 20 per cento del suo fatturato nella ricerca.

E questa è un’altra caratteristica della meccatronica in Puglia. Dove la grande industria lavora insieme alle piccole e medie imprese del territorio 

e ha il suo punto di forza nella integrazione tra pubblico e privato 

per fare ricerca avanzata.


Nella programmazione 2007-2013 la Regione ha destinato 478,6 milioni di euro per ricerca e innovazione, ha chiuso 34 contratti di programma (la metà attivata con imprese multinazionali straniere) per progetti da realizzare sul territorio ed ha dato vita ad un sistema innovativo rientrante in quell’insieme di metodi e tecnologie – comunemente noto come 
Infomation Technology (IT) – che in ambito pubblico, privato o aziendale, consente di archiviare, elaborare e trasmettere dati e informazioni, utilizzando i più attuali sistemi informatici e di telecomunicazioni. Sempre la Regione Puglia ha avviato un programma di pre-appalti pubblici per mettere in atto una serie di attività di ricerca e sviluppo per prototipi di prodotti non ancora idonei all’utilizzo commerciale ma che potrebbero presto affacciarsi sul mercato una volta perfezionati e industrializzati.

 

Insomma, una vitalità e una duttilità, una voglia di fare e di riuscire che spesso 

nel racconto del Mezzogiorno non viene neanche citata.

 

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FIORELLO LA GUARDIA: INCORRUTTIBILE COME IL SOLE di Gaia Bay Rossi – Numero 18 – Settembre-Ottobre 2018

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fiorello LA.guardia: incorruttibile come il sole

 

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ci troviamo già in pieno fascismo e la Germania si sta avviando al regime nazista con l’ascesa di Hitler a Cancelliere tedesco.

 

 

Negli Stati Uniti, il Presidente Roosevelt inaugura la politica del New Deal per tentare di contrastare la Grande Depressione dovuta al crollo di Wall Street del 1929. Viene inaugurato l’Empire State Building che diventa il grattacielo più alto del mondo, viene prodotta la prima pellicola in Technicolor, appaiono sulle rispettive scene Frank Sinatra e “Via col vento”, divenendo dei cult, mentre Superman e Batman fanno il loro ingresso nel mondo dei fumetti.

 

Proprio in quegli anni un terzo supereroe appare sulla scena, 

è Fiorello La Guardia,

che nel 1933 diventa sindaco di New York e, in poco tempo, il più amato sindaco della storia degli Stati Uniti, una vera leggenda. Truman alla sua morte lo definirà “un uomo incorruttibile come il sole” e De Gasperi “il più grande italiano d’America, colui che ci ha salvato dalla fame nei giorni più drammatici della nostra storia”1.  

Figlio di Achille La Guardia, maestro di corno e compositore, proveniente 

da Cerignola (Foggia)2 e Irene Coen Luzzatto, discendente 

di una autorevole famiglia ebraica italiana di Trieste


(allora Impero austro-ungarico), è il secondo di tre figli. Fiorello ha un’infanzia e un’adolescenza vissute seguendo il lavoro del padre, direttore della banda dell’11th U.S. Infantry Regiment, tra North Dakota, Stato di New York e Arizona. Fin da giovane sente parlare di malcostume pubblico, scommesse e gangster, leggendo l’edizione domenicale del
“New York World”, che rivelava costantemente episodi di corruzione del sistema Tammany Hall (Tammany Hall era la macchina politica del Partito Democratico a New York, accusata anche di commistione con malavita e mafia)3.

 

Quella dei La Guardia è una famiglia povera ma colta che permette a Fiorello 

di imparare, grazie al padre, a suonare il banjo e il corno, mentre 

grazie alla cultura della madre apprende alcune lingue


(parlerà negli anni, oltre all’inglese e all’italiano, anche il tedesco, il francese, l’ebraico, il croato, l’ungherese e l’yiddish), ricevendo l’educazione poliglotta che caratterizzava la tradizione mitteleuropea
4. Nonostante ciò, Fiorello agli occhi della gente rimaneva sempre un italiano meridionale, figlio di immigrati, mezzo ebreo e americano, molto lontano dai WASP dell’upper class statunitense. Questo significava, per lui, essere deriso e bullizzato, ma soprattutto sentire la difficoltà di essere una parte debole. Non lo aiuta neanche il fisico, essendo basso e tarchiato (1 metro e 58 per 56 chili). Anche per questo motivo, così come per il suo nome, Fiorello, più avanti sarà soprannominato dagli americani “The Little Flower”. Ma è proprio dalle sofferenze di questi anni che nascono la sua forza e la determinazione di volersi occupare delle fasce più deboli della popolazione e la sua rabbia contro la corruzione e l’illegalità.   

 

La Guardia, dall’età di 16 anni, quando diventa reporter per il “St. Louis Post-Dispatch”, non smette più di lavorare e crescere umanamente e professionalmente: 

 

alla morte del padre, diventa addetto consolare a Belgrado e poi a Fiume. 

Tornato a NYC nel 1906, lavora come interprete nel centro accoglienza 

immigrazione di Ellis Island. Di notte studia legge ai corsi serali 

della New York University, dove si laurea nel 1910.

 

L’ultimo anno capisce come tutta la situazione degli immigrati sia in realtà un ennesimo giro d’affari per oliare determinati ingranaggi che girano intorno a polizia, avvocati e giudici, tutti al servizio dei politici corrotti della Tammany Hall5

 

Fiorello La Guardia è già deputato al Congresso per il Partito Repubblicano, quando gli Stati Uniti entrano nella Grande Guerra nel 1917. Lui, per limiti di altezza, decide di presentarsi volontario come aviatore. In brevissimo tempo diventa comandante dei piloti statunitensi a Foggia, terra paterna, dove si reca per l’addestramento dei suoi uomini sugli aerei Caproni.

 

Con Pietro Negrotto attraversa il cielo straniero, colpendo 

le linee nemiche austriache. Questa impresa finisce sulla stampa 

e il nostro diventa famoso in tutta Italia.

 

Il Re d’Italia lo invita a un ricevimento dove incontra anche Gabriele D’Annunzio6Vittorio Emanuele III si sente chiamare Manny (diminutivo di Emanuel) da Fiorello e ascolta anche affermare che “la monarchia aveva i giorni contati”7.    

 

Alla fine della guerra, rientra a New York e viene rieletto al Congresso per altri cinque mandati. Tra le altre cose, si oppone in maniera decisa al Volstead Act del 1919 con cui si era aperto il Proibizionismo. Si vietavano la fabbricazione, la vendita e l’importazione di prodotti alcolici, con il risultato di far prosperare e crescere i capi clan mafiosi che vivevano di contrabbando, come Al Capone e molti altri gangster. 

 

Nel 1926, per dimostrare l’inutilità della legge, Fiorello invita i giornalisti 

all’interno degli uffici della Camera perché fossero testimoni di come 

miscelava e poi beveva un drink illegale, combinando due liquidi legali 

e aggiungendo estratto di malto e birra analcolica.

 

Il risultato di questo intruglio aveva una gradazione alcolica illegale. Nessuno pensa di arrestarlo e lui dichiara che “la gente si sta avvelenando, i distillatori clandestini si arricchiscono e i funzionari del governo si fanno corrompere”.

 

Nel 1933 diventa sindaco di New York. In quel ruolo La Guardia 

rimarrà sino al 1945, divenendo una vera icona della città.

 

Si era presentato alle elezioni a capo di una lista di coalizione in aperta opposizione a Tammany Hall per “una limpida, onesta, efficiente amministrazione municipale”. Con la sua vittoria, finiscono la corruzione, i favoritismi, il clientelismo e finisce tutto ciò che lui aveva sempre combattuto: ai suoi sostenitori egli dice di non aspettarsi un lavoro, perché “avrebbe assunto soltanto il migliore in assoluto per ogni incarico, anche se quella persona non avesse votato per lui”8.

 

Fiorello La Guardia governa con estremo vigore, licenziando dirigenti e impiegati inutili e incapaci di ogni schieramento,

 

riuscendo inoltre a far arrestare Lucky Luciano che, in una autobiografia 

scrive: “Io semplicemente non riesco a capirlo. Gli abbiamo offerto 

di diventare ricco, ma non ha neanche voluto ascoltarci”. 

 

La Guardia mette poi al bando le slot machine, il principale business della malavita, ma da personaggio istrionico e colorito qual era, e avendo capito perfettamente l’importanza dell’uso dei media, si fa fotografare in piazza mentre prende a martellate decine di macchinette.   

 

Fiorello, in quegli anni di Grande Depressione, promuove la ripresa economica, collaborando con il Presidente Roosevelt. Nel frattempo si occupa di politica sociale e di servizi ai cittadini: crea strade, parchi, ponti, case popolari, trasformando New York in una metropoli moderna ed efficiente. 

 

Una volta eliminata la corruzione e la malavita, passa al sistema sanitario, 

alla pubblica istruzione e alla polizia, riorganizzando 

completamente le rispettive strutture.

 

Organizza una fiera mondiale, dedicata al futuro: “Building the World of Tomorrow”, che viene visitata da 44 milioni di persone in due anni9; crea un Centro per la musica, il balletto e il teatro che sia alla pari delle altre capitali europee, che sia accessibile anche alla working class10. Pensa a scuole speciali adatte ai ragazzi di talento e riesce con molti sforzi a far sì che New York abbia due aeroporti internazionali (il secondo di questi, pochi mesi prima della sua morte gli sarà intitolato, non solo per il suo eccellente ruolo di sindaco ma anche per il suo valore come aviatore).

 

Riesce infine anche a contenere i dissidi razziali ed etnici in tutta la città.

 

“The Little Flower” i suoi concittadini se lo ritrovano un po’ ovunque: mentre dirige un’orchestra al Metropolitan, mentre gioca a baseball o a bowling per beneficenza, mentre guida aerei, treni o metropolitane; lo sentono alla radio che legge Dick Tracy ai bambini durante lo sciopero dei giornali. Ama mangiare pizza o spaghetti in mezzo agli italiani, ma la sua passione più grande sono i Vigili del fuoco: fa installare sulla sua macchina la radio a onde corte sintonizzata sulla banda dei pompieri per poterli raggiungere quando avesse voluto. E spesso lo vuole, accorrendo per ogni tipo di emergenza, dagli incendi al crollo di edifici ai guasti degli impianti idrici. Sembra che, in quei frangenti, una battuta molto diffusa fosse: “Qualcuno vuole tirare il sindaco fuori da lì?” 

 

Questi sono gli anni che precedono e che attraversano la Seconda Guerra Mondiale. 

Il suo rapporto con il nazi-fascismo è molto critico, e quando i nazisti parlano 

di lui come “il sindaco ebreo di New York”, lui risponde candidamente: 

“Non avevo mai creduto di avere abbastanza sangue ebraico 

nelle vene da giustificare il fatto di potermene vantare”. 

 

La Guardia detesta i nazisti tedeschi ed è molto preoccupato per il proliferare dei simpatizzanti americani. Così non può non apprezzare la copertina di Captain America che da un pugno dritto in faccia a Hitler, pubblicato prima che gli Stati Uniti entrino nella Seconda Guerra Mondiale e ritenuto inaccettabile dai simpatizzanti nazisti americani11. Alcuni di questi sono molto arrabbiati con gli autori dell’immagine e inviano loro lettere minatorie. I due ricevono ben presto una telefonata del sindaco: “Voi ragazzi laggiù state facendo un buon lavoro,” dice la sua caratteristica voce. “La città di New York farà in modo che non vi venga fatto alcun male.”   

 

Durante la Seconda Guerra mondiale, a partire dal 18 gennaio 1942, mentre i newyorkesi possono sintonizzare la radio sulla WNYC e ascoltare “Talks to the people”, gli italiani, sulle onde corte, potevano ascoltare settimanalmente “Sindaco La Guardia chiama Roma”. Il programma inizia sempre con: “È il vostro amico La Guardia che vi parla”, e racconta loro la storia di Roma sin dall’Impero Romano, esortando gli ascoltatori ad opporsi a Hitler e a battersi per la loro dignità.   Alla fine della guerra l’Italia è allo stremo delle forze, mancano i viveri a partire dal pane.

 

Alcide De Gasperi si rivolge a Fiorello La Guardia, in quel momento 

direttore generale dell’UNRRA, per chiedere aiuti.


E questi arrivano velocemente perché, diceva Fiorello: “I popoli hanno fame, al diavolo i protocolli”
12: 60mila tonnellate di cereali e 450 milioni di dollari in altre derrate alimentari che sbarcheranno da quattro navi ogni mese fino al 194713.   

 

Fiorello La Guardia muore di tumore al pancreas alle 8.06 di sabato 20 settembre 1947. La campana del dipartimento antincendio di New York batte i tradizionali quattro rintocchi, cui straordinariamente seguono le sirene dei Vigili del fuoco e poi quelle delle ambulanze, dei taxi e di tantissime auto di New York, creando un concerto assordante e lamentoso:

 

gli abitanti della città intera partecipano in massa al saluto all’uomo che, 

come ha scritto la Yale University motivando la sua laurea honoris causa, 

“ha strappato la democrazia ai politici e l’ha ridata al popolo”14.

 

 

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[1] Cfr. Luca Martera, Si può essere italiani, politici e onesti? Sì, se il tuo nome è Fiorello La Guardia, lucamarterablogspot.com, 31 gennaio 2013 

[2] Alcuni sostengono che fosse proprio di Foggia, cfr. Maurizio De Tullio, Il padre di Fiorello La Guardia era foggiano. Ed ecco perché, letteremeridiane.org, 1 novembre 2015. 

[3] Cfr. Ronald H. Bayor, Fiorello La Guardia Ethnicity, Reform, and Urban Developement, John Wiley & Son, 2017, p.6 

[4] Ronald H. Bayor, cit., p.

[5] Cfr. H. Paul Jeffers, Fiorello La Guardia. Un imperatore a New York, cit. pp.36 e ss. 

[6] Cfr. Cfr. Gigi Speroni, Fiorello La Guardia, Il più grande italiano d’America, Rusconi 1993, p.103; cfr. anche Piotr Podemski, Un D’Annunzio italoamericano in guerra. Mito bellico e success story nell’autobiografia di Fiorello La Guardia, in “In guerra con le parole. Il primo conflitto mondiale dalle testimonianze scritte alla memoria multimediale”, Fondazione Museo Storico del Trentino, 2018, p.581 

[7] Cfr. H. Paul Jeffers, Fiorello La Guardia. Un imperatore a New York, cit. p.97; cfr. anche Gigi Speroni, Fiorello La Guardia, cit. p. 104

[8] H. Paul Jeffers, Fiorello La Guardia. Un imperatore a New York, cit. p.174 

[9] AA.VV., Viaggi fantasmagorici: l’odeporica delle esposizioni universali (1851-1940), Franco Angeli 2019, p. 140 

[10] Jennifer Homans, Apollo’s Angels: A History of Ballet, Random House Publishing, 2010, cap.11

[11] New York City Mayor Fiorello La Guardia Loved Comics So Much, in gizmodo.com 

[12] Cfr. Servizio TG1 Impariamo l’italiano youtu.be/YWUUhNmXUxrU 

[13] Cfr. Giuseppe Audisio, Alberto Chiara, I fondatori dell’Europa unita secondo il progetto di Jean Monnet: Robert Schuman, Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi, Effatà Editrice 1999, p.71 

[14] Cfr. Gigi Speroni, Fiorello La Guardia, cit., Rusconi 1993 p.236-237

 

 

SEGNALI POSITIVI DAL MONDO DEL LAVORO MERIDIONALE di Agostino Picicco – Numero 18 – Ottobre 2020

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SEGNALI POSITIVI DAL MONDO DEL LAVORO MERIDIONALE

 

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in una immutabile summa di disagi sociali. Oggi tutti sono concordi nel dire che è tempo di affrontare il dramma del Mezzogiorno depresso e disoccupato. Ma tanta concordia quanto meno stimola la curiosità di verificare se davvero la disoccupazione meridionale abbia raggiunto punte tanto elevate.   

 

Il Sud si rivela un laboratorio dinamico, produttivo e industrioso di tenacia, invenzione e flessibilità, pronto a percorrere la via dello sviluppo, dimostrando che anche al Sud si possono mietere successi per chi ha voglia di farsi intraprendente.

 

A questo proposito c’è chi ha parlato di utilizzo 

non di “mano d’opera”, ma di “mente d’opera”

 

considerando che il processo di produzione si basa su staff di lavoro che non solo producono, ma inventano tecnologie e realizzano quella cooperazione tra scuola, università e imprenditori vissuta con spirito pionieristico, flessibilità e sinergie, ma anche con buona volontà e sacrificio. L’attendismo meridionale sta diventando un ricordo del passato, poiché sta maturando la coscienza che è proprio degli uomini liberi fabbricarsi il futuro con le loro mani, al contrario dei sudditi che, aspettando interventi dall’alto, atrofizzano le proprie capacità.   

 

Il riscatto del Sud è già iniziato e pare che anche le imprese del Nord ne stiano prendendo atto, come dimostrano i casi dei protocolli di gemellaggio tra le imprese del Nord con quelle del Sud.

Del resto, affrontando il problema della lotta alla disoccupazione, 

il Mezzogiorno è oggi un grande serbatoio di potenzialità di crescita, 

affidato, oltre che all’impegno del governo, anche agli imprenditori del Sud 

e alla valorizzazione dei giovani grazie al loro potenziale imprenditoriale 

e alle loro capacità.

 

Il Sud non deve essere visto solo come mercato o come occasione di contributi o incentivi, ma come elemento attivo di un processo di sviluppo del Paese in quanto “area di crescita accelerata della base produttiva”. In tal senso

si sta sviluppando un incontro di energie ed esperienze 

tra sindacati, imprenditori ed enti locali,

 

per mettere a punto modalità di collaborazione coordinata che regolarizzino il lavoro nero al fine di garantire l’occupazione e le persone, e per favorire la stabilità sociale, dato che gestire attività fuori regole significa esporsi ai condizionamenti della malavita. 

In tal modo, senza fermarsi ai miracoli del sommerso e alle promesse vane, ripensando il lavoro nell’interazione tra soggetti e processi in vista di un miglioramento della società e lavorando con competenza e creatività, mi pare che

si stiano proponendo obiettivi di progresso e di modernizzazione generanti 

una circolarità virtuosa capace di coniugare risanamento, competitività, 

crescita economica e sviluppo dell’occupazione,

 

offrendoci le ragioni per nutrire un moderato ottimismo. Un esempio ne sono le start-up che vedono protagonisti i nostri giovani, attenti ad usufruire di appositi bandi regionali. 

Se per lunghi anni il Mezzogiorno è stato visto come questione essenzialmente criminale alimentando l’opinione che non c’era niente da fare e delegando ogni cosa alla magistratura e alle forze dell’ordine, poi il Sud è diventato soprattutto questione sociale per via dell’elevato tasso di disoccupazione, specie giovanile, e per quelle tensioni che rendevano impossibile ogni strategia di sviluppo, diffondendo il pensiero che il Sud doveva essere abbandonato al suo destino.

Eppure proprio in questo Sud cresce la domanda di speranza, 

non più di “cavarsela” ma di farcela. 

 

 

 

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LIBERI DI ESSERE LIBERI di Giorgia Ippoliti – Numero 18 – Settembre – Ottobre 2020

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LIBERI DI ESSERE LIBERI 

 

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si spostano da un quartiere all’altro e soprattutto non danno nell’occhio»1

Scriveva così un giovane cronista per descrivere quello che oggi può sembrare riferirsi a qualcosa di invisibile, quasi «non umano». 

E invece no.

È con queste parole che egli descriveva il destino di una gioventù

a cui veniva sottratta la sua gemma più preziosa: il futuro.

 

Per riappropriarsi di questa gemma, il giovane decise di «intraprendere» la sua missione di giornalista.  

Un ragazzo. Poco più che ventenne. Un cronista.  

«Non ha paura di scrivere certe cose?». «A volte sì». «E allora perché lo fa?». «Perché è il mio lavoro, perché l’ho scelto. E non è che mi senta particolarmente coraggioso nel farlo bene (…) Le persone per scegliere devono sapere, devono conoscere i fatti. Allora quello che un giornalista dovrebbe fare è questo: informare»2.

Un amante della Sua terra. Il Sud. Napoli. Quella Napoli 

che voleva libera. In mano, la sua forza più grande: 

l’energia e la spavalderia della gioventù.   

 

Una gioventù spensierata ma cosciente, che decide di dare il suo contributo al mondo, sfidando persino le paure più recondite per raggiungere un obiettivo.  

Dare alle persone la possibilità di conoscere. E quindi di scegliere.  

Un comico, di recente, ha deciso di prendere «in prestito» il suo cognome3 per rendere omaggio al coraggio di un uomo. 

Ma soprattutto per far sì che tutti potessero conoscere la sua storia. La storia di uno come tanti che come tanti non sarà.  

La storia di un ragazzo semplice che decide di compiere qualcosa di straordinario. 

Lui è Giancarlo Siani4, giornalista napoletano ucciso a soli 26 anni.

La sua storia assume ancor più importanza per una recentissima celebrazione: la libertà di stampa, una delle libertà costituzionali più importanti.  

Il 3 maggio, infatti, è stato scelto, ventisette anni fa, dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite come Giornata mondiale della libertà di stampa: per non dimenticare tutti coloro che, come Siani, hanno deciso di «sacrificare» ogni cosa per riuscire a dotare le persone di un valido servizio di conoscenza e, quindi, di scelte.  

Egli, infatti, per dare voce al giornalismo – quel giornalismo che mira alla verità sottesa ai singoli fatti, e così fornire agli individui gli strumenti per poter scegliere – sin dagli albori,

fonda, insieme ad altri giovani giornalisti, 

il «Movimento Democratico per il Diritto all’Informazione».

 

Un Movimento di cui si farà portavoce nei convegni nazionali, cercando di restituire al suo Sud quello che andava perdendo: la libertà di informarsi e quindi di scegliere.

 

Lo fa anche per consentire che del Meridione – quel Meridione di cui sempre di più 

si delineava un’idea negativa – si conoscesse anche la parte più limpida, 

più pura: la vera anima incontaminata.

 

Quell’anima produttiva che da sempre aveva costituito il motore dell’Italia. Italia che, sempre più spesso, lo andava dimenticando. 

Proprio per tale ragione, il cronista concentrerà la sua attenzione su importanti poli produttivi del Sud Italia, come Torre Annunziata, cittadina del Vesuvio che lo vedrà impegnato sino alla fine.  

Cittadina della quale tenterà di far conoscere ogni scorcio, ogni vicolo, ogni sfumatura, compresa la sua grande forza produttiva.  

Siani cercherà di restituirle il maltolto, denunciando quei misfatti che, uno a uno, progressivamente e inesorabilmente andavano spegnendo ogni piccola, grande fiamma della città, svuotata sempre più delle sue attività industriali e commerciali.  

Per fare ciò, deciderà di adottare non un punto di vista «esterno» alla città.

Cercherà di «avere occhi ovunque», mostrando il «coraggio di denunciare 

anche quello che non si dovrebbe dalle colonne del “Mattino” in anni in cui 

i cronisti del quotidiano erano sotto scorta armata»5

spingendo per un giornalismo sul campo.   

 

Molti, infatti, lo ricordano proprio accanto ai suoi «concittadini d’adozione» – Torre Annunziata, nel 2019, cercherà di «ricucire» il legame con il suo cronista d’eccezione, conferendogli la cittadinanza ad honorem – nelle lotte per la riaffermazione di quei diritti che, proprio nella culla della civiltà del Sud, si erano affermati, ovvero a bordo della sua autovettura, alla ricerca di quelle bellezze ormai dimenticate di quel Meridione a cui doveva essere restituita la «giusta dignità», eliminando quelle «barriere invisibili» che gli stavano impedendo di fiorire. 

 

Lo farà fino a quando qualcuno tenterà di fermare il coraggio e l’ardore di un giovane che, con la forza dei suoi ideali di giustizia, cercherà di far riaffiorare 

la bellezza della sua terra e della sua gente.  

 

Il 23 settembre 1985 il cuore di Siani cesserà di battere. Colpevole di cosa? Di aver cercato di restituire al Sud il suo giusto valore.  

Ma non cesserà la sua opera. Il valore delle sue idee, l’importanza del lavoro compiuto, rompendo le barriere dello spazio e del tempo, riuscirà a riecheggiare, come una dolce sinfonia dal sapore di libertà, sino ad oggi, restituendo così al Meridione, e alla sua gioventù, il suo tesoro più prezioso: l’orgoglio di riaffermare la libertà dei propri pensieri e la bellezza della propria tradizione e cultura.  

Perché «puoi cadere migliaia di volte nella vita, ma se sei realmente libero nei pensieri, nel cuore, e se possiedi l’animo del saggio, potrai cadere anche infinite volte nel percorso della tua vita, ma non lo farai mai in ginocchio, sempre in piedi».

 

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1 «I ragazzi sono agili, si spostano da un quartiere all’altro senza dare nell’occhio» (Giancarlo Siani, articolo pubblicato sul periodico “Il Mattino”, il 22 settembre 1985).  Egli così descriveva i ragazzi che venivano utilizzati dalla criminalità organizzata per lo spaccio di stupefacenti.  

2 Film Fortapasc, diretto da Mario Risi, 2008.  

3 Alessandro Siani, intervista del 24 marzo 2019.  

4 19 settembre 1959 – 23 settembre 1985. 

1 Fondazione Giancarlo Siani, biografia https://www.fondazionegiancarlosiani.it/index.php/bio. 

 

ROCCO SCOTELLARO: UNA GLORIA POSTUMA di Pietro Dell’Aquila – Numero 18 – Settembre-Ottobre 2020

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ROCCO  ScOTELLARO:  UNA GLORIA  POSTUMA 

 

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ROCCO

Le persone che avrebbero dovuto essergli vicine presero le distanze e si defilarono. Più tardi, quando finalmente fu fatta giustizia e il sindaco di Tricarico fu riconosciuto innocente e vittima dell’odio politico, raccolse la sua dolente amarezza per quelle assenze. Certo non gli mancò la vicinanza della sua fidanzata Isabella Santangelo, “la figlia del trainante”, e la solidarietà degli amici veri come Carlo Levi, Manlio Rossi-Doria e lo stesso Mazzarone. Soprattutto non gli mancò la vicinanza dei suoi compagni contadini che contavano sul suo impegno per il miglioramento delle loro condizioni di vita.   

 

Inaspettatamente, nonostante l’asprezza della lotta politica dell’epoca, s’interessò a lui il Vescovo Raffaello delle Nocche al quale si era rivolta Isabella, ex alunna dell’Istituto Magistrale “Gesù Eucaristico” di Tricarico. D’altronde

 

erano tempi in cui ancora vigevano il rispetto e la stima tra uomini che, 

pur avendo opinioni e aspettative diverse, conservavano

il senso dei valori e la lealtà nel confronto delle idee. 

 

Nello stesso tempo circolavano biechi cospiratori e scrittori d’ignobili e menzognere lettere anonime che s’intravedono, caratterizzati dall’aria truce e sfuggente, nel grande telero realizzato da Carlo Levi per “Italia 61” e ora esposto a Matera nel Palazzo Lanfranchi. Sarà forse perché non esistono e non ci sono mai stati tempi migliori nella storia degli uomini. Infatti le cose sono andate su per giù sempre allo stesso modo “sotto il cielo stellato a foglie a foglie”.   

 

Forse per questo ho avuto una certa remora ad accodarmi alla schiera dei glorificatori post-mortem, anche se, più volte, per motivi professionali mi sono dovuto occupare di lui. Se ora lo faccio, è per dar notizia di due avvenimenti importanti che lo riguardano: prima la recente pubblicazione negli Oscar Mondadori della raccolta di Tutte le opere a cura di Franco Vitelli, Giulia Dell’Aquila e Salvatore Martelli e di seguito l’Album di famiglia di Rocco Scotellaro a cura di Carmela Biscaglia, con uno scritto di Francesco Faeta, edito da Grenzi. Si tratta di due volumi che, ciascuno a suo modo, costituiscono un punto fermo nella sterminata bibliografia scotellariana.

Per altri riferimenti fondamentali occorre riandare al Saggio di Fortini del 1974, alla Bibliografia critica su Scotellaro prodotta da Vitelli e edita da Basilicata nel 1977 ed agli atti del Convegno Scotellaro trent’anni dopo che si tenne tra Tricarico e Matera dal 27 al 29 maggio 1984 per iniziativa dell’Amministrazione Comunale. 

Credemmo allora che, a distanza di trenta anni, si potesse finalmente 

fare il punto su quanto ancora fosse attuale e vivo 

il testamento politico e letterario di Scotellaro

 

e finalmente, rasserenati gli animi, ci si potesse avvicinare alle sue opere senza dover fare i conti con il fantasma o lo spettro del suo mito. Dovemmo costatare che ancora resistevano i rancori delle parti, che non si sono ancora sopiti, e chi sa fino a quando continueranno a resistere. Rocco Scotellaro, come racconta la madre Francesca Armento, casalinga e “scrivana del vicinato”, nella sua dolente narrazione

nacque a Tricarico il 19 aprile 1923

 

ancora avvolto nel velo del sacco amniotico; segno di fortuna secondo il padre calzolaio “che misurava il piede destro e vendeva le scarpe fatte da maestro nelle fiere piene di polvere”.

Studiò, come si poteva a quei tempi, dopo le elementari nel suo paese, 

tra il Convitto dei Cappuccini a Sicignano degli Alburni e poi a Matera, 

a Potenza e a Trento dove conseguì la maturità classica 

prima di iscriversi a Roma

alla Facoltà di Giurisprudenza nel 1942.   

 

Era giovane, affrontava i problemi dei giovani cercando la sua strada tra teatro (Giovani soli), cinema – collaborazione con Luchino Visconti – i primi tentativi narrativi e le prime liriche, ben sapendo, come fa dire a Ramorra nel suo racconto Uno si distrae al bivio che

“Non sapeva che volere. Quante aspirazioni, quante lenti per l’avvenire! Cose incominciate, poesiole, articoletti, drammi di tre atti e tanti quadri.”

 

Dopo la morte del padre si spostò prima a Napoli e poi a Bari. L’inasprirsi delle condizioni politiche, economiche e sociali, che pesavano particolarmente sulla vita dei poveri contadini lucani, prodotte dalla guerra, lo indussero ad aderire alla fine del 1943 al PSI partecipando attivamente al Comitato di Liberazione di Tricarico e svolgendo un’intensa azione politica a sindacale. Alla caduta del Regime poté pensare che un nuovo ciclo si aprisse e che i suoi cafoni potessero entrare di diritto nella storia nazionale tanto da scrivere:

“siamo entrati in gioco anche noi/ con i panni e le scarpe e le facce che avevamo.”

 

Nel 1946 fu eletto Sindaco a guida della lista unitaria dell’Aratro. Durante la campagna per le elezioni politiche dello stesso anno conobbe Carlo Levi e Manlio Rossi-Doria. In quel ruolo s’impegnò con puntiglio democratico ad alleviare le difficili condizioni della sua gente, promuovendo ampiamente la partecipazione all’attività amministrativa dei tanti che avevano subito passivamente la realtà del ventennio fascista.

 

La sua azione si sviluppò, oltre che sul piano locale, 

anche in ambito nazionale e internazionale,

 

cogliendo ogni occasione di presentazione e di affermazione della propria realtà. La dura sconfitta del Fronte Popolare del 1948 gli farà scrivere i versi di “Pozzanghera nera”. 

Tanto impegno politico era destinato a suscitare la dura reazione dei partiti avversi.

 

L’8 febbraio 1950 fu arrestato con l’accusa di concussione per fatti risalenti 

agli anni 1947 e 1948. Il 24 marzo dello stesso anno fu prosciolto 

“per non aver commesso il fatto” e come 

“vittima di vendetta politica”.

 

La detenzione l’aveva comunque segnato al punto da dimettersi e indurlo a continuare il proprio lavoro a Roma e a Portici, occupandosi del Piano Regionale per la Basilicata commissionato dalla SVIMEZ con particolare riguardo ai problemi scolastici e dell’istruzione. Ormai convinto, anche sulla base dell’esperienza amministrativa acquisita, che i problemi del Sud si potevano risolvere solo in un ambito più vasto, poteva dire che

“Io sono un filo d’erba/un filo d’erba che trema/E la mia Patria 

è dove l’erba trema./Un alito può trapiantare/il mio seme lontano.” 

In seguito si occupò, con Carlo Levi, degli esiti della Riforma Agraria e, su proposta di Vito Laterza, cercò di dar voce ai suoi contadini con l’inchiesta sui “Contadini del Sud”.

L’intenso sforzo psichico, emozionale e intellettuale gli dovette produrre l’infarto 

che lo colse a Portici il 15 dicembre 1953 a soli trent’anni.  

 

Ma in vita Scotellaro, come ha documentato Giuseppe Settembrino, aveva già sofferto per il rifiuto della pubblicazione di alcuni suoi scritti e la valutazione non proprio positiva delle sue opere da parte dell’establishment culturale del suo tempo. Non lo risparmiarono nemmeno in morte. Lo dissero anche ubriacone, per la consuetudine di trattenersi coi suoi contadini e perché aveva scritto “Beviamoci insieme una tazza colma di vino! Che all’ilare tempo della sera s’acquieti il nostro vento disperato”, e dissoluto perché attratto dalla bellezza delle donne che lo gratificarono per la sua strana avvenenza di Rosso Malpelo. E la raccolta delle sue poesie vedrà la luce solamente dopo la sua morte su iniziativa di Carlo Levi che ne curò la prima edizione; i giudizi critici permarranno nonostante il Premio Viareggio del 1954 che ne consacrava il valore letterario. 

Così, alla fine, nonostante l’immenso funerale gremito di folla e la tomba a forma di fiamma che ancora guarda la Valle del Basento e su cui

sono incise le parole della sua poesia “Sempre nuova è l’alba”,

 

tra le donne dei suoi contadini, che non vollero credere alla sua morte, si sparse la diceria di un suo rapimento da parte dei Russi che lo vollero con gli altri eroi della rivoluzione a dirigere la battaglia del “sol dell’avvenire”.

 

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FAI: I LUOGHI DEL CUORE di Vincenzo Cardellicchio – Speciale aglie fravaglie – Maggio-Luglio – 2020

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FAI: iiLUOGHI DEL CUORE

 

che il FAI per questa inimmaginabile primavera del 2020 annoveri nella lista dei siti da votare come “luoghi del cuore” anche l’altipiano di Campitello di Sepino. 

Certo, dal primo posto occupato dalla città di Bergamo, in questi giorni tanto martoriata dall’aggressività della incombente pandemia, occorrerà aver pazienza per arrivare al suo posto, inizialmente assegnato al 79° rigo, per trovarlo in un magnifico, straordinario ed ineguagliabile elenco sempre in evoluzione e sempre più ricco di luoghi, castelli e palazzi italiani. 

 

Luoghi tutti effigiati da immagini eloquenti per bellezza, ricchezza, arte e storia.

 

Invece, di questo sito nascosto nel Molise, non c’è alcuna foto.

Tutto quasi regolare; del resto è da un po’ che il Molise stesso – 20^ e più giovane regione d’Italia – è definito “Il luogo che non c’è”.   

 

L’ultimo che in ordine di tempo ha riportato in prima pagina l’inesistenza della realtà molisana è stato il presidente della Liguria, Giovanni Toti, che in una diretta su Rete4 è scivolato sulle parole ingenerando l’equivoco che il territorio molisano non avesse coste e spiagge.

 

Certamente la regione sannita è più nota per le sue montagne 

e per le sue nevicate,

 

per le quali è in perenne competizione per sottrarre alla città di Boston il Guinness World Records per essere il luogo dove si deposita la maggiore quantità di neve nella più breve frazione di tempo.   

 

In verità l’interessato ha precisato, qualche giorno dopo, di aver voluto soltanto trovare un esempio che, per contrapposizione, potesse esaltare la particolare lunghezza della riviera ligure bagnata dal mare. 

 

Già, perché in verità

sono 37 i chilometri di spiagge molisane e su di esse 

si staglia l’antica città di Termoli,


l’unico autentico e perfettamente conservato borgo marinaro riverso sull’Adriatico, stretto da antiche mura, costellato di tradizionali trabucchi ed eretto a Sede vescovile, dopo il ritrovamento delle spoglie di S. Timoteo. Con una Cattedrale sotterranea che sostiene il peso di quella più “moderna”, dal XII secolo dedicata a S. Maria della Purificazione ma da sempre quotidianamente illuminata dai raggi del sole che si insinuano tra le antiche case dei pescatori in un imperdibile scorcio di mare.

 

Sulle orme della scoperta del “Molise che non esiste”

si sono ormai lanciati in molti ed autorevoli soggetti,

 

tra questi la rivista “Cosmopolitan”, che negli USA dal 1973 è riferimento di moda e viaggi per il suo pubblico prevalentemente di natura femminile; e la BBC, che ha aperto un lungo e lusinghiero reportage dedicato alla piccola regione italiana, esclamando “Chi non vorrebbe visitare una regione che non esiste?” 

 

E non minore eco ebbero le elezioni amministrative del 2018 dove il Molise, improvvisamente riscoperto,

 

fu addirittura paragonato allo stato dell’OHIO

 

quanto a capacità previsionale dell’esito delle consultazioni nazionali.  

 

Un brand quello di

“MOLISN’T – io non credo all’esistenza del Molise“

 

che i molisani stessi ormai utilizzano con un marcato senso dell’autoironia per riuscire a non essere più dimenticati nei palcoscenici dei teatri che contano sulla scena nazionale. 

 

Ma ciò che lascia più stupiti per l’inclusione dell’altopiano è l’esser stato privilegiato rispetto al suo Comune di riferimento che, per blasone, è assai più noto a studiosi e cultori delle nostre più antiche origini.

 

Sepino, infatti, è un centro di antichissima origine,


tra i più importanti del Sannio Pentro, posto a due chilometri dalle rovine d’epoca romana della località di Altilia, luogo storico di commercio e di sosta posto all’incrocio di due grandi vie di comunicazione (la più nota è quella del tratturo Pescasseroli-Candela), dal toponimo “luogo fortificato” e di cui si ha certezza documentale circa la sua esistenza già dall’età del Ferro. 

 

Città evoluta ed urbanizzata, Sepino fu flagellata da terribili terremoti che ne segnarono l’inevitabile declino, di cui approfittarono le legioni romane che la espugnarono nel 459° a.C.

 

Saccheggiata e totalmente distrutta dai Romani, vide i suoi abitanti 
doversi rifugiare ad Altilia una piana poco distante da Boiano. 

 

Di lì, a causa delle continue incursioni e devastazioni, i Sepinesi furono costretti a risalire su un’altura, attuale sede del Comune, che tornò ad essere di nuovo un centro di importanti scambi commerciali. Divenne poi Terra Regia e nel 1309 Roberto D’Angiò la concesse a Bartolomeo di Capua; da questa dinastia passò ai Caracciolo ed infine ai Carafa, fino all’abolizione della feudalità.  

 

Una storia davvero ricca e prodiga di testimonianze, segnata dalla presenza di belle e significative croci stazionarie, ma non questo è il luogo del cuore.

 

Torniamo ad Altilia, allora, portata alla luce negli anni ’50; 

 

è una imponente testimonianza di una cittadina romana a pianta quadrangolare con un perimetro di 1250 metri, racchiusa in mura turrite, con quattro porte poste ai limiti dell’incrocio del cardo e del decumano che ne determinano i quattro quartieri e segnatamente impreziosite nella Porta Benevento e nella Porta Bojano da ornati e sculture. 

 

Al centro il Foro e nei fianchi un Tempio, la Curia, le Terme di Silvano che la resero assai famosa, la Basilica di epoca augustea ed ancora i resti di importanti monumenti funerari.

Tutta questa meraviglia è impreziosita da una realtà irripetibile.

 

Questo luogo, infatti, non è stato mai completamente abbandonato ma è sopravvissuto ai secoli intatto, riutilizzato da contadini e pastori che lì hanno continuato a passare con carretti e greggi sopra le rovine romane, costruendo un paesaggio agrario che ha conservato le emergenze dell’edilizia rurale del Sei-Settecento intatte sino ai giorni nostri.  

 

Una macchina del tempo senza motore.

Ma non è Altilia il sito che il FAI segnala tra i luoghi del cuore. 


Ed allora dobbiamo salire su per Sepino ed incamminarci lungo un pianoro in continua ma morbida salita, sempre più verde, con una vegetazione sempre più alta, sempre più folta sino ad uno slargo naturale, enorme, che non ti aspetti, e dove il respiro reso ormai affannoso fa sì che i polmoni si possano riempire d’un botto di tanta aria pulita sino all’inverosimile, sino all’ubriacatura. 

 

Di questo luogo, nella mia memoria di prefetto, è ben lucido il ricordo e le relative conseguenti preoccupazioni.

Sconosciuto ai più nei giorni di lavoro, è invece una meta irresistibile

per i molisani amanti dell’aria aperta nei fine settimana. 

 

Ogni giorno di festa d’estate il pianoro si riempie di gioia di vivere, grida festose, bimbi che giocano, profumi di cibo ma anche pericolosi fuochi in prossimità dei boschi e qualche residuo di troppo per tanta allegria.  

 

A rimettere tutto a posto ci pensa da sempre l’alternanza delle amministrazioni civiche e l’amore dei concittadini che nelle forme più varie portano, loro sì, nel cuore quel luogo. 

 

Il giorno di Ferragosto il delirio! Un brulicare di auto, moto, bici ed appiedati vari che si inerpicano nei sentieri e lo invadono in ogni dove. E tra loro Polizia, Forestali, Vigili del Fuoco e Volontari di ogni genere tutti mobilitati per “salvare” il luogo del cuore dal troppo affetto. 

 

Pianificazioni d’ordine pubblico, disciplinari d’esodo, stazioni di controllo, presidi sanitari d’emergenza, punti di osservazione ne garantiscono la serena fruizione, il decoro ed il rispetto

 

 Ogni anno così, sempre senza troppi danni all’ambiente, con un garbato assalto 

che si auspica sempre più “tenero” e consapevole per quella meraviglia


a disposizione di tutti e che vale sempre la pena di ricordare non è un’eredità dei nostri padri ma un prestito dei nostri figli.  

 

Il vero ‘padrone di casa’ il figlio. 

 

Nei miei studi universitari ebbi la fortuna di laurearmi alla cattedra di Massimo Severo Giannini con una tesi sulla formazione normativa urbanistica della Toscana incentrata sulle tutele e l’utilizzo dell’area del Parco dell’Uccellina. 

 

Tra le categorie distintive delle Aree destinate a tutela non v’era annoverata quella dei luoghi del cuore, ma avendo rivisitato anni addietro l’area del Parco toscano reputo certamente meglio conservata questa matesina. 

 

Il mai troppo letto e mai troppo poco ascoltato prof. Sabino Cassese ha osservato nella materia che il percorso previsto dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, che ha dato attuazione alla legge 15 marzo 1997 n. 59, per quanto attiene a musei ed a beni culturali ed ambientali prefigurava certamente nuovi conflitti istituzionali.  

 

A questa osservazione, Cassese ne univa un’altra non meno convincente, del tutto ragionevole e a posteriori risultata inequivocabilmente azzeccata: “… non va sottovalutato il problema che deriva dall’asimmetria tra un corpo di tecnici della tutela non affiancato da un corpo di tecnici della valorizzazione. In futuro, gli addetti alla tutela rimarranno isolati, rispetto a coloro che si interessano della valorizzazione? Oppure si aprirà la prospettiva opposta, secondo la quale gli esperti della tutela ridiventeranno la forza trainante del settore?”.

Bene, qui sull’Altopiano di Campitello di Sepino questa sintesi l’hanno trovata.  

 

Cultori dell’ambiente, amministratori, appassionati, amatori e spensierati gitanti hanno tutelato, rispettato ed in una parola amato il loro luogo del cuore consentendo a chi avrà

la fortuna di trovare la bussola per andare o tornare nella Terra che non c’è


di poter ancora godere dei suoni, dei colori e dei sapori della Natura così com’è, immutata da secoli. 

 

Tanta caparbia, disperata volontà di amare e rimanere legati ai luoghi del cuore non è servita a portare ricchezza economica, se non in minima parte, ma è valsa a tesaurizzare il più prezioso dei beni, l’unico che porta in equilibrio il Prodotto Interno Lordo ed il Benessere Equo Sostenibile del nostro povero mondo, l’ambiente in cui viviamo. 

 

 

 

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C’ERA UNA VOLTA IL SUD di Giorgio Salvatori – Speciale aglie fravaglie – Maggio-Lugio – 2020

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C’ERA UNA VOLTA IL SUD

 

Accendere il televisore e accorgersi che, dall’arcipelago delle banalità colorate, spunta fuori un florilegio di informazioni intriganti e inconsuete. Accade anche questo nella pigra stagione del covid-19, grazie ad un’azzeccata puntata di “Frontiere”, programma di inchieste di Rai1, brillantemente condotto da Franco Di Mare. Il telespettatore, colto a boccheggiare tra ansie di nuovi contagi e promesse di rimedi miracolosi, viene raggiunto da alcune rivelazioni sorprendenti:

“Napoli è diventata la città dove si legge di più in Italia e, dalla città di Eduardo, 

si irradia nuovamente un messaggio culturale vincente 

che raggiunge il mondo intero”. Lo sapevate?


Francamente io no. Vedremo tra qualche riga il perché. Attenzione, però, Napoli non è sola, nel nuovo quadro, affrescato senza pregiudizi, che dipinge il nostro Meridione senza farlo annegare nell’oceano profondo degli stereotipi criminali.   

 

A Napoli, nella nuova narrazione letteraria e televisiva, fa buona compagnia un nutrito drappello di città e di paesaggi, geografici ed umani. Una “Terronia” finalmente colta nella sua interezza e non esclusivamente negli aspetti sociali più deteriori e logori. In testa c’è, comprensibilmente, la luminescente e onirica Vigata, dipinta attraverso pagine e immagini che hanno come protagonista Salvo Montalbano, il famoso personaggio nato dalla penna di Camilleri, ma questa non è una novità.

Ci sono, in questo quadro, altri spicchi di Campania, di Sicilia, 

angoli e atmosfere attraenti e originali della Puglia, della Basilicata. 

Tutti raccontaticon uno sguardo prospettico, ampio e finalmente non strabico 

 

Un assembramento e una rappresentazione inimmaginabili fino a qualche anno fa. Da questi personaggi e paesaggi del nostro Mezzogiorno, dipinti con colori plurimi, viene fuori un affresco meridionale, un mosaico umano e culturale che cozza frontalmente con lo stereotipo del Sud imbarazzante zavorra d’Italia e palla al piede di un Nord avanzato e più progredito. Un paesaggio materiale e immateriale che “scalda i cuori” e affascina mezzo mondo.   

 

Esordisce con questa lettura Franco Di Mare, colto giornalista e volto noto della Rai. Le immagini iniziali sono un serrato succedersi di dialoghi tratti da “L’amica geniale”, la fiction tv ricavata dai best seller internazionali di Elena Ferrante, la scrittrice di cui non è stata ancora svelata la vera identità e in qualche misura “non c’è”, proprio come non c’è il paese immaginario di Vigata.

Invenzioni letterarie e televisive che non solo non nuocciono, ma attraggono 

ed esaltano l’immaginazione di lettori e telespettatori, con traduzioni televisive 

dei successi letterari che amplificano il richiamo delle opere originali e viceversa.

 

L’idea, anch’essa geniale, partorita dalla mente di Di Mare, uomo del Sud dalla vocazione cosmopolita, ma che non ha mai ripudiato le proprie radici napoletane, è stata quella di cucire insieme diverse fiction televisive di successo straripante, alcune anche al di fuori dei ristretti confini nazionali, e accorgersi che sono tutte Made in Sud, elaborate, dirette o interpretate, quasi sempre, da autori, protagonisti ed attori meridionali.   

 

Il “Montalbano” con il volto di Luca Zingaretti, venduto in 65 Paesi del mondo, “L’amica geniale”, trasposizione televisiva di una quadrilogia letteraria esaltata dal New York Times, “Un posto al Sole”, fiction ormai giunta al traguardo storico del suo venticinquesimo anno di vita, “I Bastardi di Pizzofalcone”, dal toponimo di una delle zone più popolari di Napoli che festeggia la partenza della sua terza serie, “Imma Tatangelo”, magistrato grintoso che si muove con disinvoltura tra le trame insolite e le suggestioni arcaiche dei Sassi di Matera, assurti ormai alla ribalta mondiale grazie alle celebrazioni per la capitale europea della cultura nel 2019.   

 

A noi, qui, non interessa molto descrivere gli espedienti narrativi che hanno decretato il successo di queste produzioni televisive. Più interessante, invece, è

seguire le motivazioni di questa sorprendente capacità di attrazione di una vasta regione geografica e di un modello umano, sociale e culturale, che, fino a ieri, 

si ritenevano arretrati e penalizzanti per il resto del Paese,

quello considerato più creativo, dinamico e saldamente agganciato al treno produttivo dell’Europa continentale e dell’Occidente industrializzato. Ricordando il Goethe di “Viaggio in Italia”, là dove l’autore descrive il Meridione e le sue genti con spirito quasi folgorato da un transfert che lo fa sentire meridionale tra i meridionali, alcuni personaggi intervistati nel corso della trasmissione danno una loro interpretazione originale e anticonformista dell’irresistibile fascino del Sud. A cominciare dall’idea che Napoli possa mantenere un forte potere di attrazione anche lontano dalla luce abbagliante del suo mare da cartolina, dall’immagine ricorrente del Vesuvio sormontata da un nebuloso pennacchio, dai suoi personaggi plebei più abusati. Come è possibile? Entrando e conoscendo meglio, ad esempio, le figure umane che animano, nel bene e nel male, quel “verminaio” dei suoi vicoli più stretti, come scrisse Dickens.  

 

Napoli capitale dell’immaginario. Napoli centro dell’attenzione. Lo afferma Alessandro Gassman, protagonista de “I Bastardi di Pizzofalcone”. ”Napoli tira fuori il meglio di se stessa proprio nei momenti di maggiore di difficoltà”, sostiene l’attore.

Città cinematografica per eccellenza afferma lo scrittore e sceneggiatore 

Maurizio de Giovanni, al di sopra degli stereotipi, tutti tragicamente veri 

e altrettanto realisticamente falsi se indagati nella realtà antropologica 

dei vicoli della Città. Napoli inclassificabile e sospesa 

tra condanna e assoluzione. 

 

L’autore di “Terronismo”, lo scrittore Marco de Marco, osserva acutamente che il pessimismo cupo di “Gomorra”, a volte, infastidisce perché viene interpretato come un vicolo cieco, una chiave unica e immutabile di lettura della realtà degradata delle periferie napoletane. Altre città occidentali si caratterizzano per aspetti di criminalità esasperata, maggiore di quella che si riscontra a Napoli, però vengono dipinte con un ventaglio di rappresentazioni che dal nero della violenza passano al rosso delle passioni sensuali al rosa tenue dei sentimenti più delicati. Modello esemplare New York, città violenta, ma che letteratura e cinema descrivono anche nei suoi aspetti più accattivanti, quelli brillanti di Woody Allen, quelli frizzanti di “Colazione da Tiffany”.

 

Un approccio poliedrico al Sud consente una maggiore aderenza alla realtà 

in fieri, non al cliché stanco di narrazioni in bilico 

tra lo strapaese e la lupara. 

 

Il successo de “I Bastardi di Pizzofalcone” dipende forse anche dal fatto che la serie tenta di raccontare una Napoli dove c’è tutto, anche una città normale, una borghesia civile, che sa e vuole reagire alla criminalità. “Raccontiamo Napoli nella sua interezza, aspetti meravigliosi e angoli spaventosi”, sostiene con convinzione Alessandro Gassman. Alla luce di questa nuova e condivisa chiave di lettura condivisa appare distante il Meridione de “La piovra” e sfocata la lettura, senza redenzione, della già citata “Gomorra”. Di tutti gli intervistati è la convinzione che la forza con cui il Sud sviluppa, alla lunga, la sua prorompente forza di attrazione nasca dalla consapevolezza che, la violenza, la mafia, le brutture del Meridione, pur non venendo minimamente assolte, vengono sempre, comunque, riassorbite dal respiro più vasto del suo paesaggio incantato, dalle tante bellezze artistiche che caratterizzano questa metà meno opulenta dello Stivale, ed anche dai sani valori di fondo della maggior parte della popolazione, dal manifesto calore umano mostrato ai visitatori che intraprendono, per ragioni varie, un viaggio nelle regioni del Sud.

 

Dal florilegio delle loro osservazioni emergono descrizioni icastiche 

di città, villaggi, paesaggi e personaggi letti con maggiore apertura mentale 

e volontà di affermare un diverso codice di comunicazione 

del messaggio visivo e concettuale.


Napoli è un’anguilla, non la spieghi e non l’afferri da nessuna parte, afferma un ospite. È vero, gli risponde qualcuno, può esser dolce e crudele pur restando se stessa. Napoli, infatti, non ha molti paragoni, a cominciare dal fatto che è una delle poche città in Europa, che ha visto crescere la sua periferia e il suo proletariato all’interno del suo ventre, non fuori della città, ma esattamente nel suo centro storico. Quei vicoli possono essere raccontati anche a prescindere dai suoi giovani e meno giovani residenti vocati alla piccola o grande criminalità.   

 

Il successo della quadrilogia di Elena Ferrante, ora favorita anche dall’affermazione della fiction, è plateale, dieci milioni le copie finora vendute nel mondo.

Per Time la Ferrante è tra le cento personalità più influenti al mondo, 

 

e “L’amica geniale” viene paragonata al romanzo ottocentesco “Piccole donne”, di Louisa May Alcott. Il sociologo Luigi Caramiello sostiene che la tessitura della trama, insieme con i suoi personaggi, recupera la memoria appannata del grande romanzo d’appendice, soprattutto nel raccontare il progetto di riscatto della povera gente, un riscatto che a volte può avere successo e altre no. Si può comunque affermare che si tratta del tentativo, riuscito, di dipingere un affresco composito dell’Identità italiana, almeno come la si intende nel mondo. E anche se questa identità enfatizzata mostra ancora il fianco allo scadimento nel folklore, un po’ come quando noi ci attendiamo di trovare tutti vestiti da cow boy con i cappelloni nel Texas e un traffico congestionato di dromedari in Tunisia, resta il fatto che

siamo di fronte ad una unicità del paesaggio del Sud, un modello 

di rappresentazione non facilmente replicabile 

in altre realtà, in Italia e nel mondo.  

 

Vittorio Feltri, anche lui ospite della trasmissione in qualità di rappresentante di un Nord ricco e fatalmente escluso da questa rappresentazione, si dichiara fan di Montalbano, dice che è giusto che il Sud sia protagonista di questa realtà sfaccettata e complessa perché offre diversi e interessanti spunti di analisi e di riflessione, poi però si imbufalisce quando accusa la Rai di ignorare ingiustamente il Nord nelle sue più recenti serie televisive. Pochi romanzi, poca tv parlano oggi di Milano, nonostante il fatto che a Milano continuino a recarsi molti giovani per trovare lavoro. L’attrazione del Nord però non è più così scontata e neppure sempre vincente è la sua immagine. Forse perché è cresciuta una vigorosa comunità di scrittori meridionali. Napoli è la città più raccontata perché cinquanta e più scrittori sono nati o lavorano in questa città e risultano regolarmente iscritti alla Siae, la società italiana di autori ed editori. “Chi non legge a 70 anni ha vissuto una sola vita’”, ci ricorda Di Mare citando Umberto Eco, “Chi legge ha vissuto con Abele e Caino, con Dante, con I promessi Sposi”.   

 

Vanessa Scalera, madre letteraria del personaggio di Imma Tatarani, ci conferma che la differenza fondamentale tra i vecchi e i nuovi personaggi delle storie del Sud risiede nel fatto che essi non sono più dipinti come macchiette, non sono tutti “sole e mandolino”, sono anche altro, però senza gettare alle ortiche il meglio delle proprie tradizioni.

 

La forza del Sud sospesa tra passato e presente. Un Sud proiettato in un futuro animato soprattutto dai giovani, imprenditori, professionisti, ricercatori, 

che anche quando sono costretti all’emigrazione si sforzano 

di mantenere vivi i tradizionali valori umani e familiari.  

 

Ecco perché le rappresentazioni letterarie e televisive di questa realtà accendono il desiderio di visitare i luoghi dimenticati del Meridione, a cominciare da Matera, divisa tra i suoi spazi luminosi ed i suoi angoli grigi, quelli dei Sassi, non sempre inondati a profusione dal sole mediterraneo, una realtà sconosciuta ai più fino a tempi recentissimi. Che dire dei consolidati flussi di turismo a Porto Empedocle originati dal successo ventennale dei libri di Camilleri e, soprattutto, della serie televisiva ad essi collegata? “Quel pessimismo velato di ironia di Camilleri – dice Luca Zingaretti – è il sigillo autentico e riconoscibile del personaggio, il segreto della sua longevità. Montalbano ti trasmette la sua particolare visione della vita e il suo legame per il territorio, perciò il suo personaggio riesce agevolmente a viaggiare in tutto il mondo”.  

 

Ora un’altra avventura televisiva sembra in corsa per consolidare un’idea di Meridione diversa e distante dai luoghi comuni: ”Vivi e lascia vivere”, con Elena Sofia Ricci, donna con unghie affilate, anch’essa immersa nella moderna realtà napoletana. Vedremo se ci regalerà un altro profilo ben tratteggiato di quel nuovo Sud che sembra emergere dal pentolone colmo di speranze che bolle sul fuoco del Terzo Millennio. C’era una volta il vecchio Sud, il nuovo lo stiamo tutti riscrivendo. 

 

Giorgio-Salvatori
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NA CAMMENTATA PE’ MME di Max De Francesco – Speciale aglie fravaglie – Maggio-Luglio-2020

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NA CAMMENTATA PE’ MME 

 

“Na cammenata pe’ mme” è un testo scritto in una delle tante notti di reclusione domestica a causa del virus con la corona. Avevo l’esigenza di fermare un immaginario dialogo “a distanza” tra un uomo spaesato in una Napoli “vacante” e “annaccuvata” e il nipote, responsabilmente a casa per una guerra che ci vuole lontani e carcerati.

 

Il testo è una “preghiera piccerella” per la mia città grandissima, 

costretta ancora una volta a subire attacchi gratuiti e sputi pregiudiziali

 

da parte di chi ha la convinzione di comprenderla, pur non conoscendo un granello della sua spettacolare cultura. “Na cammenata pe’ mme” è stata pensata e creata in lingua napoletana, idioma che possiede il genio della sintesi, la musicalità del mare, il ritmo di un popolo che è nato e si esibisce, come teneva a dire Eduardo, “all’aperto” e, quindi, soffre maggiormente l’imposizione del chiuso, la restrizione della libertà di movimento.

Dialetto dalle infinite soluzioni, regolato (e sregolato) da un formulario magico 

di parole antiche, suoni ambulanti, sillabari carnali, segnaletica di meraviglie 

e disincanti, perentorie chiusure liriche.

 

Pur rifacendomi alla grafia vivianesca, chiedo scusa ai puristi del vernacolo partenopeo se ho commesso errori nella scrittura: spero che anche qualche sbaglio possa essere diventato emozione.

 

Ma… Ma ch’è stato, ch’è succiesso? 

Mo so’ asciuto e nun ce sta niciuno, 

Napoli ma addò stai, manco nu bar apierto 

nu sciore ’e femmena, nu cuncierto, 

nu ciardino cca voce ‘e nu criaturo. 

Ma ch’è stu silenzio, addò state tutti quanti? 

Che modo ’e sfottere è chisto, 

ascite a fore! Addò site fuiuti?  

 

Stamma ’a casa, o zì, ma nun ’o sai? 

Comme ’e carcerate, che i dienti strignuti, 

pure se n’amma accis’ a nisciuno. Campamm’ da juorni reclusi 

per il bene della Nazione, ’nchiummati ’ngopp’ ’a nu balcone.  

 

Magnammo, cuntammo riebbiti, jucammo a scopa, 

ce spartimmo l’ammore, sperammo n’ata vota e pazzia’ cu l’onna, 

sbariammo ca ’a televisione addò na vranga ’e scienziati 

’ntroppeca ca lengua mentre l’Italia affonna.  

 

O zì, ma addò vivi? Nun sai ca sta lota ’e virus 

che s’atteggia ca curona, nun tene manco ’e palle ’e ce guarda’, 

te trase dinto cumm’ ’a nu mariuolo 

s’arrobba ’a vita e nun te fa cchiù respira’.  

 

E nui stamma ccà, chesta guerra ce vo’ luntani, 

assettati dint’ ’a cucina senza pute’ spara’, 

arrevutammo pensieri dint’ ’o lietto, ci abbuffamm’ ’e dimani 

pure ’o saluto è fuorilegge pe’ ce pute’ salva’.  

 

Nun saccio cumm fanno l’ati, però pe’ nui 

’a detenzione e cchiù dura, pecché simmo nati all’apierto, 

’o core dint’ ’o sole, ’a vocca che sape ’e mare, ’e piedi ca vanno 

sempe fujenne, pur se nun vanno a nisciuna parte.  

 

Cumme simmo bravi a sta’ dinta ’sti quatto mura 

senza cchiù suonno, vasi e nu muorzo ’e libertà. Pe’ carità, 

ce sta sempe ’o strunzo che sputa ’nfaccia ’a città, ma Napoli, 

chella vera, chella ’e sustanza, sta cuieta e sape aspetta’, 

comme ’o guaglione ca rispetta ’e viecchi e nun se scurdat’ ’e sugna’. 

Quanti ccose voglio fa’, o zì, quanno me n’esco a ccà! 

M’aggia piglia cchiù vita ’e primma, aggia brinda’ a nu munno nuovo 

voglio turna’ a prega’ dint’ ’a na chiesa, voglio fatica’ e balla’ notte e juorno 

voglio fa’ co ccosa ’e bbuono prima che ’a rota se ferma.  

 

E po’ voglio abbraccia’ e mierici nuosti, ’e surdati d’ ’e corsie, 

quanti ne so’ caduti cumme ’e stelle d’aùsto, dint’ ’a nu turmiento ’e speranze 

stanno cumbatenn’ ’a guerra cchiù dolorosa, senza s’arrepusa’, 

pe’ vede’ nu malato ca se culora n’ata vota ’e rosa.  

 

Mo… Mo aggio capito. Aggio capito tutte ccose. 

’O silenzio, ’e ciardini senza criature, ’o core ’e Napoli che s’è annaccuvato. 

Vabbuò, era ’a campana mia, perciò me sento leggiero leggiero, 

e guardo ’a città vacante, ianco comme ’a luna, ‘ngopp’ ’a ’sta balcunata ’e cielo. 

All’intrasatta, me ne so iuto dint’a nu ciato pe’ ’a pandemia, 

’o spitale manco muglierem’ aggi visto pe’ l’ultima raccumandazione. 

Manco nu vaso, na stretta ’e core primma ’e lascia’ ’sta ammuina.  

 

Te pozzo chiedere, allora, na cortesia, 

na preghiera piccerella cumma ’a vita mia: 

quanno tutto stu male è fernuto e puo’ mettere ’a capa fore, 

te puo’ fa na camminata pe’ mme? Me ne basta una! Una sola! 

Tuoccom’ ’o mare carnale ’e Mergellina, 

pigliate nu cafè ’o primmo bar che truovi pa via, 

porta na curona ’e sciore ’a Maronna e Piedigrotta 

salutame e bastimenti ca partene d’ ’a Marina 

nun te scurda’ e cammina’ mmiezzo ’a ggente, 

chianu chiano, ca faccia ’o sole 

e rrecchie appizzate p’ogni rummore, 

na rumba ’e fantasia ‘ngopp’ ’a nu scoglio, 

nun me dicir’ niente, ma ienno ienno dint’ ’o vico 

magnatella na pizza a portafoglio. 

E se te resta na ’nticchia ’e tiempo, fammelo n’atu regalo: 

puos’ na cosa e sordi dint’ ’a mano antica 

d’ ’o mandulinista ’e Santa Lucia. 

Dincelle che è nu pensiero ’e Sasa d’’a Ferrovia, 

cca mo è nu bello aucielluzzo dint’ ’o viento 

che nun tene cchiù paura ’e niente. 

 

 

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FRANCESCO ADORNO VIAGGIO ATTRAVERSO LE ORIGINI di Aurora Adorno – Speciale aglie fravaglie – Maggio-Luglio-2020

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FRANCESCO ADORNO VIAGGIO ATTRAVERSO LE ORIGINI

 

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Francesco Adorno ha contribuito alla conoscenza del pensiero dei filosofi greci e del rapporto tra il pensiero classico e la cultura cristiana.

Letterato e umanista con studi e interessi estesi anche al Medioevo, è stato già ricordato da Myrrha in occasione della recente pubblicazione della biografia firmata da sua nipote, Aurora Adorno. In questo numero, il suo profilo viene idealmente tracciato dalla compagna della sua vita che descrive sensazioni, incontri e suggestioni del rientro del filosofo a Siracusa dopo anni di permanenza a Firenze, città dove insegnò a lungo. 

Ricordi, Francesco? Correva l’anno 1962, esattamente il 5 Agosto.


Lo ricordo perché fu il giorno in cui morì Marylin Monroe suicida nella sua camera da letto. Allora non si parlava d’altro. 

Partimmo da Fregene, perché eravamo in vacanza da mia sorella Olga in provincia di Roma, si passò dal Cilento per vedere la costa e si dormì vicino Paestum. 

Visitando i templi mi canzonavi, chiamandomi “la baccante che vaga tra i templi”. 

L’indomani visitammo anche la maestosa grotta di Palinuro. All’epoca non si accorciavano i viaggi volando in aereo e quel tempo che scorreva lento, trascorso guardando attraverso il finestrino, cantando canzonette e raccontando storie, colorava la mente di immagini e bei ricordi.

 

Quando giungemmo a Villa San Giovanni – il cielo era limpido e si poteva ammirare bene Messina – ti mettesti subito ad urlare “l’isola, l’isola!”. Parevi un bambino.  


Eri sempre contento di ritornare dove le tue radici avevano dato i loro frutti ed eri nato. 

Corrado Adorno, tuo padre, era stato insegnante di disegno e pittore; dopo averne fatto richiesta, era stato preso ad insegnare alla scuola media di Firenze. 

La tua famiglia si trasferì quando eri ancora molto giovane, ma il legame con la Magna Grecia aveva colpito irrimediabilmente la tua immaginazione, consacrando la passione verso la filosofia e i filosofi, verso la culla della nostra cultura e la genesi del pensiero.

Con la Cinquecento bianca stipata di borse – con noi c’era 

nostro figlio Eugenio – arrivammo a Siracusa, 


nel centro storico collegato da un ponte all’isola, precisamente in Riva della Posta, dove abitava la tua famiglia. “Beh, Marylin Monroe s’ammazzò!”, disse in dialetto Tina, la figlia di Santino, parente della Lucietta Adorno, appena ci vide. 

Santino girava ancora in calesse e frequentava il circolo dei nobili vestito di bianco; allora andavano tutti al Tropical, un caffè concerto per la gente bene. Difatti, ai tempi c’era ancora molta divisione di classe, purtroppo. 

Mio figlio insisteva per andare al cinema Marconi che faceva il doppio programma, ma ci venne detto che era da scugnizzi e che sarebbe stato scandaloso frequentare un locale di basso livello! 

Ricordo anche un fatto divertente: Annamaria Corpaci, che allora era una bambina, figlia dell’avvocato e di Giuditta Adorno, volle fare una cena a lume di candela perché lo aveva visto fare in un film. Ma la zia Lucietta se ne uscì dicendo “queste candele saranno quelle della mia bara!”, rovinando la festa. Anche l’avvocato era un tipo intelligente e spiritoso, si chiamava Armando ed era di battuta facile.

L’aria che profumava di aranci rallegrava le piccole viuzze del centro 

ed inevitabilmente ci scontravamo con quelle belle chiese 

che pur noi, atei, non resistevamo al desiderio di visitare.

Allora, entrandovi, per rispetto toglievamo il cappello di paglia che proteggeva il capo dal sole e con gli occhi verso l’alto, rapiti, respiravamo il senso di sacro, ammirandone l’architettura. 

L’elegante facciata barocca del Duomo di Ortigia custodiva il prezioso tempio di Atena… Ah, che bello, che grandi cose è capace di fare l’uomo! 

Sfilavamo sul lungomare, davanti a quella cornice bianca di marmo che recita:  

 

Passeggio Adorno 

Cittadini, questo passaggio ottenne per voi il cavalier Gaetano Adorno, sindaco il quale negli ordini nuovi difese la patria, la resse con sapienza: degno per questo che il consiglio comunale gli decretasse nel 1865 titolo di benemerenza e questa memoria 

1868

E tu, fiero, ci raccontavi di quegli avi lontani, dai quali, ne eri certo, avevi preso 

il carattere e il coraggio che ti hanno sempre contraddistinto,


come anche la forza di ragionare sempre con la tua testa e non farti trasportare da mode passeggere. 

Ti appassionavi molto agli alberi genealogici della famiglia e li custodivi geloso. Tu solo riuscivi a capire qualcosa in quelli che a me parevano solamente dei nomi e delle date scritte a china dentro dei cerchi, sospesi come foglie sopra i rami. 

Lo sguardo smarrito correva verso il mare che si estendeva davanti ai nostri occhi, respirando l’aria salmastra che, come un balsamo purificatore, ci riempiva i polmoni.  

 

Il legame col mare era qualcosa che sentivi dentro, nelle profondità della tua anima che spesso si agitava, mentre altre volte era calma, proprio come le onde che si dibattevano sulla battigia e come il vento che leggero soffiava sulla nostra giovinezza… Che nostalgia, marito mio!

Si dice che chi è nato nelle località marine provi una sorta di malinconia andandosene. Me ne rendevo conto quando vi tornavi,


la gioia riempiva di luce il tuo sguardo spesso cupo, sovrappensiero, e in me sorgeva la speranza che tu fossi felice. 

Andammo in visita anche sul fiume Ciane. Ti piaceva fare sfoggio di quella lingua che tanto amavi studiare, e così dicesti: “Kyanòs significa verde azzurro”. E di questo colore erano le acque smeraldine.

Ritenevi che la scrittura greca avesse sviluppato il grande desiderio di conoscenza in termini razionali a causa della sua scrittura, che era alfabetica e quindi implicava il decifrare di volta in volta i segni. Inoltre, l’uso dell’alfabeto composto dai suoni che consuonano con gli altri rende il linguaggio interpretativo e attivo, diversamente dagli ideogrammi egizi o cinesi, che invece stimolavano una maggiore contemplazione statica e non storica.

 

Si fece merenda al sacco, con i piedi scalzi nell’erba e le acque 

che scorrevano lente dinnanzi a noi. 


Erano famosi i papiri che allegri nascevano sulle rive del fiume, rendendolo celebre.  

 

Io fui Cyane azzurra come l’aria. 

L’acqua sorgiva mi restò negli occhi; 

la lenta corrente mi levigò.  

 

Citavi il D’Annunzio nell’Alcyone, e noi intenti a divorar panini e a bere un goccio di buon vino, apparecchiati nella natura su di una leggera tovaglia di lino, sciacquando poi la bocca col gusto dolce delle susine. 

La Tina ci riempiva di quelle domande che fanno gli adolescenti, distraendoci dalla musica del fiume che scorreva lento.

E, nel nostro peregrinare da turisti, amavi citare anche Mario Adorno, un avvocato discendente dall’antica famiglia patrizia e dogale genovese,


vissuto a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, che aveva partecipato ai moti carbonari, capo degli insorti di Siracusa, e che dopo aver accusato il governo borbonico della diffusione del colera venne giustiziato insieme al figlio Carmelo. 

Difatti, come amavi spesso raccontare a nostro figlio Eugenio, l’antica dinastia degli Adorno, in seguito ad una guerra con i Doria, potente famiglia genovese, lasciò la Repubblica Marinara e si stabilì prima ad Avola, dalla quale prese il secondo nome Avolio, ed in seguito nella splendida Siracusa, dove tuo padre Corrado era nato. 

Il tuo essere comunista cozzava con il tuo sentirti nobile, con quel “sangue blu” – ciano, appunto – che sentivi fortemente scorrere nelle tue vene, intridendoti delle tue stesse origini.

Ognuno di noi è ciò che è, quello che le proprie esperienze 

lo hanno fatto divenire e come ha scelto di interpretarle. 


Abbiamo avuto un’infanzia diversa, una famiglia borghese la mia, diversa la tua, in quegli obblighi e nel dover dimostrare sempre chi si è e da dove si viene, in quello sguardo alto, sospeso verso il cielo, di chi cerca sempre di non deludere la propria stirpe, e in quello stemma che ti sorprendevo spesso ad osservare, quasi rispecchiandoti in esso. 

Dietro ogni persona esiste una storia e, se si vuol conoscerla fino in fondo, si deve tacere ed ascoltarla. 

 

 

 

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