L’UTOPIA POSSIBILE DI GIBELLINA di Nicolò Stabile – Numero 1 – Luglio 2015

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È un’opera che si sottrae a qualsiasi tentativo di catalogazione. Letteralmente costruita con le pietre e le cose che furono strade, piazze, case, stalle, negozi, laboratori, scuole, chiese, ma anche un teatro all’italiana, un castello chiaramontano del XIV secolo… è il sepolcro e la matrice perduta di un piccolo paese del Sud, ricostruisce percorsi ideali, spaziali e temporali tra la memoria e il presente, tra i vivi e i morti. La sua storia è complessa. Iniziata nel 1979, non è ancora conclusa. Ha avuto un deus ex-machina, Ludovico Corrao, sindaco di Gibellina dal 1970 al 1994, che come Fitzcarraldo sapeva che chi sogna può muovere le montagne. Siamo alla fine degli anni Settanta. Mentre stiamo scontando un surplus di pena che dura da un decennio in baracche gelide d’inverno e roventi d’estate, i nuovi centri urbani (alcuni, come Gibellina, lontani dai vecchi centri) cominciano a prendere forma. Sono stati disegnati a tavolino in un ufficio romano da un manipolo di urbanisti che pensavano (come hanno scritto nella relazione di progetto) di sradicare la mafia costruendo strade larghe per mettere distanza tra gli abitanti. Nessun ascolto delle istanze e delle esigenze delle comunità locali, anzi: per legge i Comuni vengono esautorati da qualsiasi potere decisionale.

Ludovico Corrao, impotente sulle scelte urbanistiche imposte dallo Stato, ma consapevole della loro bruttezza, e convinto che le case da sole non bastino a far rinascere il senso di comunità e di attaccamento, e che alla ricostruzione bisogna dare un senso alto in cui la bellezza sia motore e legante, chiama a raccolta artisti, intellettuali e uomini di cultura, per cercare di renderla più bella di prima.

La mattina del 23 maggio 1987 Burri vede per la prima e ultima volta il suo Cretto: sembra deluso, non dice quasi nulla. Gli manca probabilmente il punto di vista dall’alto a cui l’aveva abituato la maquette. Gli manca, malgrado le dimensioni, quel senso di grandiosità che aveva immaginato. La visita dura meno di un’ora, appena in tempo per immortalare in uno scatto l’incontro tra l’artista e la sua opera. 

Nell’89 si fermano i lavori, all’80% del totale, per mancanza di risorse. Corrao riesce a farsi finanziare dalla Regione il completamento, ancora una volta presentando il progetto non come opera d’arte, ma come sedicente «parco urbano». Ma non fa in tempo a far partire la macchina burocratica. Dopo più di vent’anni, la gente di Gibellina non lo vuole più sindaco, e nel 1994 Corrao non sarà rieletto. Chi verrà dopo di lui, scientemente, riuscirà a far perdere quel finanziamento e da allora per il Cretto inizia un lento abbandono. 

Passano gli anni e il bianco diventa grigio. I ferri sotto la superficie arruginiscono facendo staccare pezzi di cemento. Qualche piccolo crollo, distacchi, crepe. Nessuna manutenzione, a parte qualche pulitura dalla vegetazione che inizia a infestarlo. Ai Ruderi nessuno va quasi più, sempre meno le occasioni di riunirsi lì. Del Cretto quasi ci si dimentica. Anche Burri non ne parla volentieri. Come aveva previsto, morirà (nel 1997) senza averlo visto ultimato. 

Poi sulle corona di colline che lo circondano, laddove fino a qualche anno prima c’erano giovani boschi, appare una batteria di pale eoliche. Il Comune pensa bene ci sia bisogno di un parcheggio, e lo realizza, a ridosso dell’opera, dello stesso cemento bianco: da lontano sembra una metastasi del corpo quadrangolare del Cretto. Con lo stesso materiale si ripavimenta il pezzo di strada provinciale che ne lambisce un lato, slabbrandone la forma. Nessuna levata di scudi contro questi macroscopici interventi pubblici che violentano l’idea di Burri. Vandalismo istituzionale. 

L’idea di lanciare un appello in favore del Cretto, perché “si restaurasse e completasse e se ne assicurasse la conservazione a futura memoria”, mi venne un pomeriggio di inizio estate del 2010 parlando con Ludovico Corrao, già molto malato, ma non per questo rassegnato. Non poter vedere il Cretto finito era per lui motivo di grande tristezza. L’appello viene firmato da un centinaio di personalità dell’arte e della cultura e inviato al Ministro e all’Assessore regionale. Neanche due mesi dopo, in una nota congiunta del Ministero, il sottosegretario e l’assessore dichiarano che l’appello non rimarrà inascoltato. Il Ministero mette subito dopo a disposizione per il restauro 1.100.000 euro dei fondi del lotto. La Regione prende tempo per quanto riguarda il completamento, l’assessore insiste perché si ricorra ai privati. Non riesco a farlo ragionare. Comincio a pensare che bisognerà inventarsi qualcos’altro… 

Poi, il 7 agosto del 2011, Ludovico Corrao muore ucciso dal suo badante con un’esecuzione che sa di tragedia greca. Tre giorni dopo, sul sagrato della Chiesa Madre di Gibellina, mentre stiamo dando l’estremo saluto al Senatore, l’assessore Missineo mi prende sottobraccio e sull’onda dell’emozione mi dice che troverà i fondi necessari per il completamento, che lo deve anche a Corrao (e manterrà la promessa). 

L’ultima montagna il Senatore l’ha spostata con la propria morte. 

I lavori del Cretto sono stati completati qualche settimana fa. La parte nuova, del bianco candido voluto da Burri, evidenzia ancora di più il grigiore della parte vecchia, creando una stridente dissonanza. 

Cosa fare per assicurarne “la conservazione a futura memoria”? Come uniformare la parte vecchia con la nuova?

Della necessità che la manutenzione di quell’opera straordinaria avesse bisogno di un approccio altrettanto straordinario ne avevo parlato con Corrao. Per lui era 

chiaro che

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1 Stefano Zorzi, Parola di Burri, U. Allemandi & Co, 1995; p. 59.
2 idem
3 idem, pag 60

 

L’UTOPIA POSSIBILE DI GIBELLINA

 

Scrive Sciascia nel discorso che pronunciò a Gibellina il 15 gennaio 1988 per il ventennale del terremoto: «Lo Stato italiano – bisogna pur dirlo – non era pronto né incline ad accogliere un’istanza di ricostruzione che non fosse una ricostruzione della miseria: si sperava forse, appunto, nella fuga, nell’abbandono, “nell’aprir bottega altrove”; e ne è dimostrazione il fatto che la cosiddetta legge del due per cento, la legge che devolve il due per cento della spesa per le opere pubbliche agli abbellimenti artistici, sia stata sospesa e invalidata per la ricostruzione di questi paesi. Vietata l’arte, vietata la bellezza: quasi si volesse che tutto fosse più brutto di prima, che la gente non riconoscesse e non si riconoscesse. Intenzione o inconscio desiderio o semplicemente carenza, nella classe di potere, di una sia pur vaga idea di ciò che abbellisce la vita e la fortifica, che più volte, qui intorno, è andata a segno; ma che qui a Gibellina ha trovato un centro di resistenza. [Ludovico Corrao] ha dato insomma il senso che la vita non è altrove, ma che può essere anche qui».

Gli artisti rispondono all’appello di Corrao e la nuova Gibellina, che lo Stato voleva più brutta della vecchia, si anima d’arte. Negli anni Ottanta diventa un laboratorio permanente delle arti, un crocevia di artisti, e un museo a cielo aperto. Corrao riesce a convincere anche il non facile Burri a venire a Gibellina. Succede nell’estate del 1979.

L’idea gli viene la sera stessa: «Io farei così: compattiamo le macerie, che tanto sono un problema anche per voi, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti un perenne ricordo di questo avvenimento»2.

Per poter realizzare i lavori, Burri sogna la partecipazione attiva e fattiva dei gibellinesi (solo molto tempo dopo gli arriverà all’orecchio, e sarà motivo di grande tristezza, che a molti il Cretto non solo non piace, ma da più d’uno è vissuto come una violenza).

Per reperire fondi, materiali, forza lavoro, Corrao s’inventa mille stratagemmi. Coinvolge persino l’esercito che presta cinque ruspe e forza lavoro. Opera una sorta di geniale e benevola concussione ai «danni» dei costruttori che in quegli anni realizzano opere pubbliche a Gibellina Nuova: chiede loro di donare la costruzione di un po’ di Cretto. E accettano, contenti e orgogliosi di farlo. Allo Stato non può chiedere aiuto: e lui dà incarico ai tecnici del Comune di preparare un progetto in cui i lavori per il Cretto siano camuffati da «opere di sistemazione idrogeologica del vecchio sito urbano». Lo Stato ci casca e, raggirato dal genio di Corrao, diventa inconsapevole cofinanziatore del Cretto.

Nel 1985 la cosa inizia a prendere forma, a farsi spazio tra le macerie. Burri segue da lontano, attraverso l’amico Alberto Zanmatti. Zanmatti sarà il legame tra Burri e il Cretto di Gibellina. Ai tecnici e agli operai il compito di inventare soluzioni tecnologiche per tradurre quelle raccomandazioni in forma.

Qualche anno dopo, alla domanda se nel bozzetto fossero riportate anche le ondulazioni che caratterizzano le pareti del Cretto, Burri risponderà «no, quelle devono crearle di volta in volta con le tavole e le lamiere…. ma dico, devo insegnarglielo io il mestiere?»3.

Misura 270 per 310 metri. Ricopre come un sudario di cemento bianco le macerie del paese distrutto dal terremoto del 15 gennaio 1968. Al centro della Sicilia occidentale, in un territorio ad alta stratificazione culturale, sta a metà strada, in un ideale dialogo senza tempo di assoluta bellezza, tra le imponenti colonne della greca Selinunte, e la magnifica solitudine del tempio dell’elima Segesta. 

Burri arriva con tutti i suoi preconcetti sul Sud e i suoi abitanti. La nuova città non lo ispira, e non lo tenta l’idea di lasciare un’opera accanto a quelle di artisti che non ama: «Qui non ci faccio niente di sicuro»1. Ma poi visita i Ruderi – deve aver sentito quel silenzio rotto solo dal gracidare dei corvi, in quel paesaggio di colline che sconfinano fino al mare d’Africa – e quasi si commuove.

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il Cretto di Gibellina non era un’opera d’arte come le altre e che oltre l’idea c’è il dato oggettivo: è il sepolcro del vecchio paese, sotto la sua superficie di cemento realizzate non dalla mano del Maestro ma da muratori e carpentieri, ci sono i ricordi, la storia e le radici di tutta la comunità gibellinese.

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E’ un’opera attraversabile. Più che una scultura è architettura. Ed è stata pensata e voluta da Burri bianca, di un bianco talmente squillante da essere quasi disturbante. 

Burri, come già ricordato, avrebbe voluto che fosse la comunità di Gibellina a realizzarlo. D’altronde, la sua opera è stata donata alla cittadinanza, e la cittadinanza, sebbene espropriata del titolo di proprietà delle proprie case non più esistenti, ne è moralmente proprietaria e quindi custode. Anche su queste basi si ragionava con Corrao, e l’idea che il Cretto andasse ripulito e imbiancato periodicamente dalla comunità (con la calce, materiale povero che disinfetta e disinfesta, facile da usare, e che ci riporta a una tradizione di tutta l’aerea del Mediterraneo) ci sembrava l’unica strada percorribile. L’alternativa sarebbe un restauro conservativo di ispirazione brandiana, un modello giustamente diventato prassi nelle soprintendenze italiane, ma che ha i suoi limiti oggettivi e nessuna ragione valida che impedisca la sua revisione in presenza di opere contemporanee e inclassificabili qual’è il Cretto. Un modello che proprio partendo da una discussione sul caso specifico del Cretto potrebbe trovare validi e utili spunti per fare il punto, rinnovare, superare, anche attingendo da visioni e prassi diverse, prime fra tutte quelle di scuola anglosassone. 

Un’altra considerazione credo vada fatta, senza per questo volere piegare la filosofia che sta alla base di un intervento di questo tipo a ragioni puramente economiche. Non possiamo però far finta di non considerare i costi insostenibili di un restauro conservativo, e la necessità che esso venga ripetuto spesso. Chi dovrebbe sostenere tali costi? Il Cretto non deve morire, ma non può neanche trasformarsi in un buco nero di soldi pubblici. Anzi, dovrebbe diventare, grazie ad azioni mirate che ne assicurino la promozione e la visibilità, un bene culturale comune capace di attirare turisti e di conseguenza, se ben gestito, produrre economia. 

Ma il vero nodo da sciogliere per assicurare al Cretto un futuro sta nel rapporto tra il sito dei Ruderi e la sua gente. Il Cretto è stato vissuto all’inizio come un corpo estraneo, una violenza contro quelle macerie che nella loro povera fisicità erano però capaci di alimentare un rapporto fortemente sentimentale. L’iniziale rifiuto di quell’opera ha come aumentato la distanza fisica (18 km) tra la Nuova e la vecchia Gibellina, una distanza poi cresciuta per l’indifferenza verso un’opera lasciata a metà. 

La necessità di un restauro partecipato e attivato dalla Comunità parte prima di tutto come necessità di creare un nuovo rapporto con l’opera di Burri e con l’intero sito dei Ruderi. Ed è partendo da questa necessità che dovrebbe essere progettato e messo in atto. Dovrebbe prima di tutto essere un’opportunità per ritrovarsi in un momento di festa e rituale in cui la popolazione si riappropria del luogo e dei simboli a esso riconducibili. Dovrebbe essere non solo economicamente sostenibile, ma capace di produrre economia e quindi vantaggi diretti. E deve chiaramente servire a mantenere costantemente visibile l’idea di Burri, nella sua originale e fondamentale cromia.

Per la gente di Gibellina sarebbe un modo per rompere l’incantesimo dell’umana nostalgia di un passato mitizzato dall’evento tragico del terremoto e di quello che ne è seguito, per finalmente accettare il presente, e cominciare a investire nel futuro.

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Un restauro fatto in tale modo, coinvolgendo i molti artisti che hanno già dato disponibilità a partecipare, diventerebbe un evento perfetto per la comunicazione, uno strumento straordinario di promozione mediatica, estremamente efficace per attrarre volontari, pubblico, flussi turistici, e sponsor privati. 

Questi ultimi tre anni ho avuto modo di condividere quest’idea con restauratori, esperti di materiali del contemporaneo, storici dell’arte, curatori. Con artisti, musicisti, performer. Con le persone che più di tutte sono state vicine e hanno collaborato con il Maestro negli anni in cui si costruiva il Cretto. Con la gente di Gibellina. E con le istituzioni che devono decidere, Comune di Gibellina e Soprintendenza di Trapani. A parte queste ultime, legate all’idea di restauro conservativo, tutti hanno accolto con entusiamo l’idea e il suo senso profondo. 

Il progetto di Corrao incarnato da Gibellina, esemplarmente sintetizzato dal Cretto di Burri, fondato sull’idea mediterranea che la bellezza rigeneri in un approccio maieutico, sulla necessità di rivivere, riattivandoli, i miti fondanti della nostra civiltà, è stato finora, non a torto, considerato un’utopia.

Il restauro partecipato segnerebbe il passaggio tra l’utopia e il presente, e il Cretto, finalmente, diventerebbe l’opera d’arte totale che Burri sognava di realizzare.

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SANDRO RUOTOLO di Gaia Bay Rossi – Numero 1 – Luglio 2015

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e nella denuncia delle illegalità in Campania, sua terra d’origine.
Recentemente i suoi importanti servizi sulla terra dei fuochi hanno fatto infuriare il boss camorrista Michele Zagaria che è arrivato a minacciare di morte il giornalista. Per questo, dal mese di maggio 2015, il prefetto di Roma, Franco Gabrielli, ha deciso di assegnargli un servizio di scorta.

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Chiediamo a Sandro Ruotolo un punto di vista, dalla sua esperienza, sulla situazione di Napoli e del sud Italia.

Napoli mi ha trasmesso tutto, soprattutto dal punto di vista professionale: ho infatti iniziato lì la miacarriera e la cosa straordinaria è stata la cronaca, nel senso che tu potevi seguire l’efferato omicidio di camorra e poi avere il summit dei ministri della cultura europei. Quindi è stata una formazione che mi ha consentito di spaziare a 360 gradi. Mi ricordo quando ci fu il colpo di Stato in Libia, con gli americani che intervennero con la portaerei Nimitz, una delle imbarcazioni di guerra più imponenti mai costruite, e questa, dal Golfo della Sirte, passò poi per Napoli e noi ci occupammo dell’avvenimento. Napoli è una città che professionalmente ti dà tante occasioni. Abbiamo avuto l’opportunità di seguire la cronaca ma anche tutti i processi importanti, Enzo Tortora, Elena Massa, che era una giornalista del Mattino, e poi tutti i processi alla camorra. Però, differentemente da tutta quella generazione di giornalisti che oggi sono i “giornalisti per eccellenza”, come Luigi Ferrarella del Corriere della Sera o Peter Gomez che è diventato direttore del Fatto Quotidiano.it, noi abbiamo avuto una formazione più a 360 gradi, e questa è stata la scuola di Napoli.

Napoli certamente dà delle opportunità, anzi proprio in una realtà del genere il talento è piùvirtuoso, cioè emerge di più. Il problema di Napoli, ma non solo di Napoli, è che oggi le intelligenze espatriano, per cui hai ricercatori straordinari che girano il mondo, anche se questo è un problema che riguarda tutto il Paese Italia. Poi, certo, ci sono delle eccellenze: pensa al marchio Marinella nel settore della moda, ma anche all’importanza del settore industriale. Napoli ti dà la possibilità di emergere anche nella complicazione dello stato di fatto. Ricordo Luigi Compagnone, che era uno scrittore e giornalista napoletano, che dava questo quadro di Napoli: un grande arcipelago di isole, dove però non c’è la connessione. Quindi ci sono delle eccellenze che però o emigrano o restano isolate perché non c’è un tessuto industriale. Nel dopoguerra c’è stato al nord lo sviluppo industriale, poi negli anni ’60/’70 qui si è pensato di realizzare le famose cattedrali nel deserto senza valorizzare il territorio meridionale. Si pensava che l’industrializzazione portasse benessere e poi, invece, abbiamo visto i suoi effetti tipo l’acciaio a Taranto e a Bagnoli. Abbiamo visto anche che cosa significa l’industria pesante per l’ambiente, per lo sviluppo e l’ecologia. Oggi c’è una sensibilità completamente diversa anche nel sud Italia. Però, sicuramente, delle eccellenze ci sono e sono molto più diffuse di quello che non traspare dai mezzi di informazione.

Come si può descrivere Napoli senza rimanere intrappolati negli stereotipi?

Andando nella sua periferia. Perché sicuramente Napoli è Piazza Plebiscito, il Maschio Angioino,Mergellina e tutte le altre bellezze mozzafiato che costituiscono il patrimonio di Napoli. Però la bellezza vera di Napoli la devi avere risolvendo le problematiche che ci sono in periferia. Non dobbiamo più pensare che tutto si risolva nei vecchi centri urbani, oggi le città si sono allargate e nelle periferie vive quello che definiamo il ceto popolare, che una volta era anche il ceto operaio. Beh, anche quella è la vera Napoli e solo risolvendo i problemi di quelle persone puoi risolvere una città e farla progredire.

Chi e quali sono le eccellenze di Napoli e della Campania?

Sei nato a Napoli, cosa ti ha trasmesso questa città durante la tua crescita e formazione?

Braccio destro di Michele Santoro a “Servizio Pubblico”, Sandro Ruotolo è un giornalista napoletano di grande esperienza. Ha iniziato la sua professione nel 1974 per il quotidiano Il Manifesto, entrando poi alla RAI e passando successivamente a Mediaset e a La7. Ha collaborato con numerosi programmi televisivi d’inchiesta tra cui Samarcanda, Il rosso e il nero, Tempo reale, Moby Dick e Anno Zero. Giornalista vero a 360 gradi, è stato spesso impegnato in prima linea nelle indagini 

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Quindi Napoli dà delle possibilità ai giovani che vogliono in qualche modo emergere?

Cosa sta facendo Napoli per risolvere i problemi delle periferie?

Il punto è che noi stiamo vivendo la peggiore crisi del dopoguerra. Dalla crisi finanziaria americana del 2007 i segnali di crescita sono minimi e, quindi, sono necessari nuovi forti investimenti. Dopo la grande depressione del 1929 ci fu Roosevelt e il New Deal. Oggi abbiamo bisogno di un altro New Deal. Abbiamo bisogno di investire sul territorio. Si dice che l’edilizia sia il volano dell’economia: quindi ristrutturando i centri storici, ridisegnando l’assetto idrogeologico, potremmo creare lavoro e risolvere ancora altri problemi. Alla base del boom economico degli anni Sessanta ci fu proprio il settore edile. Oggi, come allora, potremmo programmare l’impiego del lavoratore edile per risanare il territorio e ridurre i costi e l’impatto delle emergenze.

Io un’eccellenza la vedo nella risposta dei cittadini al tema della salute e dell’ambiente, sia per quanto riguarda la terra dei fuochi sia per questo movimento Rifiuto Zero. Quella per me è un’eccellenza, con questa idea della salute, del ripristino dell’ambiente e della bonifica del territorio. Questa che protesta e si attiva è una vera eccellenza. In ogni caso, le industrie del nord che per risparmiare soldi hanno interrato i rifiuti nella mia terra, in Campania, lo hanno fatto in ben 19 regioni italiane. Ma noi abbiamo altre eccellenze, sia nei segmenti industriali, sia nelle intelligenze: pensiamo all’università di Napoli che è un polo straordinario. Poi abbiamo anche il settore aerospaziale e l’agricoltura. Esperienze di eccellenza le abbiamo noi, ma ci sono anche in Puglia, in Calabria, in Sicilia. Una nostra eccellenza è anche il turismo, con i territori strepitosi che abbiamo, perché dobbiamo finirla con questa idea malsana dell’industrializzazione e del PIL che deve aumentare a tutti i costi. Oggigiorno l’industria pesante ce l’hai in India piuttosto che in Indonesia: oggi non ha senso fare qui un’acciaieria con le materie prime che debbono arrivare da fuori per nave ecc.; ormai ci si deve specializzare nella qualità e nel recupero energetico.

Papa Francesco, andato a Scampia, ha detto: “La vita a Napoli non è mai stata facile ma non è mai stata triste. È questa la vostra grande risorsa: il cammino quotidiano in questa città produce una cultura di vita che aiuta sempre a rialzarsi dopo ogni caduta”. Quali valori insegna Napoli ai giovani?

La mia immagine di Napoli è Scampia: se io vinco la battaglia di Scampia, che è il famoso quartieredi Gomorra, allora avrò l’immagine vera di Napoli, perché solo lì vivono oltre 100 mila persone.Napoli è sempre stata una città che ha sofferto, dai bombardamenti della guerra al dopoguerra, però ha avuto sempre una grande risorsa, che io sto ritrovando ora: una sua straordinaria identità. Napoli si è ammalata poi con il terremoto – cioè l’identità della città è venuta meno – i napoletani sono cambiati. E’ stata traumatizzante quella scossa di terremoto il 23 novembre dell’80 anche se oggi ci sono stati due avvenimenti che invece hanno ridato a Napoli una certa identità. Che non è folkloristica, non è neo borbonica. Sono la morte di quel tifoso napoletano a Roma, Ciro Esposito, e anche la morte di Pino Daniele: sono stati due shock che hanno messo al centro non la “napoletanità”, ma questa idea di identità, di colleganza, di solidarietà, di stare insieme e di riscoprire questi valori.

Per te sempre ‘Forza Napoli’? Il calcio a Napoli aiuta a dimenticare i problemi che ci sono o è un motivo di orgoglio cittadino?

Il calcio è un motivo di divertimento. Il calcio non è l’oppio dei popoli, ma è un elemento di comunità, è divertente. Io in realtà non sono mai stato tifosissimo di calcio, ne capisco ad un livello minimo, ma devo dire che soprattutto per chi vive fuori, è un legame che hai con la tua città. Io ho i figli che purtroppo non parlano il napoletano, però sono tifosi del Napoli, per cui c’è un elemento che ci unisce. Non è che si recupera l’identità della città attraverso il calcio però è un elemento di coesione. L’identità si recupera attraverso la cultura che a Napoli c’è ed è molto forte. Che piaccia o no Napoli ha un posto importante nella storia d’Italia.

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L’ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI UNA GRANDE RISORSA PER IL SUD di Francesco Serra di Cassano – Numero 1 – Luglio 2015

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per anni, un faro della cultura filosofica europea. Elena Croce, Enrico Cerulli, Pietro Piovani, Giovanni Pugliese Carratelli e Gerardo Marotta formano il leggendario comitato fondatore che, nel 1975, con una solenne cerimonia all’Accademia dei Lincei, ha dato vita a qualcosa di veramente inedito nel panorama culturale italiano, un’istituzione che da subito si è affermata quale luogo di alta elaborazione e condivisione del pensiero. Non è un caso che lo Stato, nel 1983, gli abbia assegnato come sede i nobili saloni del settecentesco Palazzo Serra di Cassano, da poco rilevato, luogo d’importanti memorie e simbolo della Rivoluzione napoletana del 1799.

L’ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI UNA GRANDE RISORSA PER IL SUD

 

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In quarant’anni di vita, l’Istituto, grazie all’instancabile volontà dei suoi fondatori, ha animato corsi, seminari, congressi con la partecipazione di insigni studiosi, a Napoli, ma anche a Roma, Torino, Parigi, Londra, Poitiers, Tubinga, Monaco, Amburgo, Oxford, Francoforte, Wolfenbüttel, Austin, Rotterdam, Erlangen, praticando l’incontro fra giovani ricercatori e grandi maestri.
Sono approdati a Napoli, negli anni, importanti esponenti delle diverse discipline scientifiche. Vi hanno tenuto seminari e conferenze, tra gli altri, Musatti, Bergmann, Segré, Prigogine, Wheeler, Rubbia, seguendo un indirizzo e una programmazione che avevano, tra i principali obiettivi, l’avvicinamento delle scienze moderne e della filosofia, della teoria e della prassi, oltre che una sistematica ricognizione filosofica della realtà contemporanea. Questo indirizzo fu abbozzato e avviato da quel piccolo solidale gruppo di persone che era animato da una carica ideale senza pregiudizi e da una forte consapevolezza intellettuale e politica. In pochi decenni è stata messa in campo una produttività di gran lunga maggiore rispetto a quella di numerose istituzioni gonfiate e foraggiate dalla burocrazia e dirette svogliatamente.
L’Istituto, raccogliendo nel tempo contributi significativi e riuscendo a coagulare una grande quantità di lavori interdisciplinari, ha promosso anche un importante programma editoriale, che abbraccia secoli di storia e di filosofia (dalla raccolta dei frammenti della Scuola di Platone a un’edizione critica delle lezioni di Hegel), che sono un punto di riferimento per chiunque voglia accostarsi in modo analitico allo studio dei classici. L’attività didattica si è mescolata a quella editoriale, i corsi sono sfociati a volte in vere e proprie lectio magistralis, l’insegnamento ha fatto da guida a un numero sempre crescente di studiosi e di appassionati.

L’Istituto di Napoli ha inteso la promozione degli studi filosofici quale preparazione all’essere cittadini nel senso più alto. Il lavoro compiuto è, dunque, un lavoro per lo Stato in quanto il sapere filosofico occupa concettualmente il medesimo terreno dello Stato, condividendone l’essenza: universalità, oggettività, rifiuto del particolarismo.

In questo senso, può essere considerato una delle realtà più coraggiose e generose di cui la storia della cultura europea abbia saputo dotarsi nel secondo dopoguerra.
Il fattore che rende l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici ancor oggi di vitale importanza è proprio la sua fedeltà alla filosofia come vertice del sapere, da coltivare non con spirito specialistico e “disciplinare”, ma come lievito per la vita collettiva. Questa attività è insostituibile, in quanto rappresenta una barriera contro i pericoli della decadenza e uno stimolo per mantenere alta l’attenzione sulla formazione delle nuove generazioni. Non è un caso che l’Istituto sia stato definito da Giancarlo Rota, eminente matematico del Massachusetts Institute of Technology, un “baluardo di civiltà”.

L’Istituto, nonostante le gravi difficoltà finanziare che lo affliggono, non ha mai interrotto le sue attività né perso la sua autonomia, costruendo un “know-how” irripetibile ed insostituibile nello straordinario “crocevia della cultura mondiale” che è stato Palazzo Serra di Cassano. Un inauspicato arresto di questo patrimonio in continuo divenire si tradurrebbe in un grave colpo per Napoli, per il Mezzogiorno d’Italia e per il Paese.

È infatti un insieme di competenze, di saperi, di rapporti, di conoscenze personali e istituzionali che ha permesso all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di promuovere confronti speculativi e scientifici di livello mondiale,

di organizzare scuole di alta formazione, oltre che a Napoli, in centinaia di comuni dell’Italia meridionale, di pubblicare oltre tremila volumi in italiano, ma anche in francese, spagnolo, tedesco, inglese, russo, rumeno, cinese e in altre lingue occidentali e orientali. E tutto questo in quarant’anni di lavoro senza interruzioni, mantenendo sempre alto il livello delle iniziative che, con tale intensità, non trova alcun riscontro, né in Italia né in Europa.
Questa attività, punto di sbocco di un accumulo di competenze insostituibili, non è spiegabile se non si risale all’impegno etico e intellettuale del suo Presidente, Gerardo Marotta, nel quale lo spirito patriottico si è unito all’amore per la cultura e la filosofia e a una particolare attenzione alle sorti dei giovani.
L’opera di ricostruzione di una tradizione di pensiero interrotta poteva essere affrontata solo a partire dalla ripresa di tutti i momenti alti della tradizione filosofica europea. Proprio perché all’atto della sua fondazione l’Istituto ha riconosciuto la mancanza di categorie teoriche risolutive e il generale abbandono dei filoni più vitali del pensiero, esso si è aperto con la massima liberalità all’apporto di tutte le scuole, le 2 accademie, le università, le istituzioni non universitarie ed è riuscito a valorizzare forze intellettuali isolate, ignorate e a volte mortificate dalla cultura accademica.
La convinzione che le manifestazioni della razionalità umana fossero presenti anche nelle espressioni artistiche, nelle conquiste scientifiche, nelle confessioni religiose, nelle attività economiche, negli ordinamenti giuridici e che tali espressioni spesso “spontanee”, implicite, dovessero essere portate a piena consapevolezza riflessiva e quindi filosofica per diventare elementi dinamici di una nuova sintesi, ha portato l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici a sviluppare una quantità sorprendente di iniziative in tutti i settori d’avanguardia delle scienze, della storiografia, delle letterature e delle arti figurative, della vita delle grandi religioni, della civiltà del diritto, della teoria economica.
Se l’Istituto continuerà a vivere sarà un bene per Napoli e per l’intera Europa. L’auspicio è che le istituzioni manifestino la loro presenza con un segnale chiaro, pragmatico che non interrompa il cammino intrapreso in questi anni.

 

AL SUD, IN SICILIA, SI PUÒ FARE di Marcantonio Lucidi – Numero 1 – Luglio 2015

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Gesualdo Bufalino diceva che “bisogna essere intelligenti per venire a Ibla, una certa qualità d’animo, il gusto per i tufi silenziosi e ardenti, i vicoli ciechi, le giravolte inutili, le persiane sigillate su uno sguardo nero che spia”.
Bisogna essere intelligenti anche per viverci, a Ragusa Ibla, perché la bellezza da queste parti è un’abitudine che porta all’assuefazione del bello, alla cecità.
Allora la mente deve essere acuta e sempre pronta alla meraviglia, perché è lo stupore a generare pensiero e movimento.

AL SUD, IN SICILIA, SI PUÒ FARE

 

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Il Teatro Donnafugata, piccolo, poco più di novanta poltroncine rosse, il rosso teatro, non il rosso pompiere, i velluti rossi, gli arredi rossi, la luce calda e ampia dei lampadari, finalmente, non le illuminazioni del minimalismo contemporaneo che sono delle tirchierie della visione, sta dentro il Palazzo Donnafugata.
Il visitatore al corrente di cosa bisogna vedere per capire una città e la sua popolazione, sa che il duomo e il teatro gli daranno le prime fondamentali indicazioni.
Si racconta che nel XIX secolo la chiesetta di Palazzo Donnafugata fu trasformata in teatro.
Ancora oggi al palchetto regale s’accede direttamente da una porta interna: non le ricchezze, non i privilegi dinastici, le sete d’oriente, le perle del mare e i gioielli perduti dell’antica Palmira, ma una semplice porta che dalle stanze di casa apre al teatro ed è il segno di legno di un’aristocrazia dello spirito.
L’ingresso sta in via Pietro Novelli, il teatro è l’unico di Ragusa, possiede vari saloni e il vecchio magazzino per il legname è diventato il bar.
Durante la ristrutturazione, incominciata nel 1997 e finita nel 2004 con l’apertura della prima stagione di spettacoli, il palco è stato ripristinato e allungato in avanti in modo da ricreare le quinte e poter ricavare a livello del proscenio un piccolo golfo mistico per l’orchestra.
Sono stati restaurati gli ornamenti pittorici e le decorazioni originali riprendendoli dal soffitto e dando continuità fino alle pareti e ai palchetti.
Si è migliorata anche l’acustica, già ottima come era normale per un teatro del primo Ottocento, perché il rumore d’un laccio di scarpa allentato deve arrivare in fondo alla platea.
È stato Giovanni Scucces Arezzo, avvocato, mecenate, discendente dell’omonima famiglia e proprietario di Palazzo Donnafugata, a volere che il teatro tornasse ad essere un centro della polis.
Spinto dal sangue secolare della famiglia, evidentemente.
Gli avi Arezzo Donnafugata scrivevano personalmente le opere teatrali, le mettevano in scena e le interpretavano.
Ospitavano le compagnie ottocentesche che recitavano durante l’inverno per ripartire a fare gli scavalcamontagne in primavera e anche Vincenzo Bellini passò di qua e lasciò una sua partitura manoscritta con una dedica ai Donnafugata.
Adesso il teatro, sotto la direzione artistica di Costanza e Vicky Di Quattro ha una stagione di prosa che va dal cabaret al teatro sociale, dalla commedia comica alla Commedia dell’Arte, con artisti del “continente” ed isolani, e concerti, mostre, presentazioni.
E soprattutto ha una cosa da dire con la sua esistenza: che si può fare.
Al sud, in Sicilia, si può fare.
Luchino Visconti sarebbe stato contento.

 

MATERA É UN MONDO A PARTE di Carmen Lasorella – Numero 1 – Luglio 2015

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ritardi e i limiti del Sud più irriducibile, dove i sedimenti del passato passano dalle pietre all’anima. Con la designazione a capitale della cultura europea nel 2019, si è dilatata l’iperbole del possibile. In una città che non è servita da un treno veloce, che non ha un porto, né un aeroporto, con strade improbabili e attività economiche decotte, si ragiona di platee internazionali e di orizzonti spalancati, senza porsi il senso del limite o la misura. E’ inebriante l’euforia che ha pervaso i luoghi e chi li abita, quasi una malia. E’ come se l’atavica rassegnazione del Sud si fosse frantumata nell’aspettativa di una trasformazione radicale “a prescindere”, per il solo fatto che la scelta europea ne farà comunque una capitale.

 

MATERA É UN MONDO A PARTE

 

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Cavalca la fantasia di una realtà immaginaria quasi che fosse il pianeta di Saint Exupéry, con il Piccolo Principe innamorato della sua rosa, ma sconta i 

Non è arrivato anche Ben Hur con la sua quadriga? Il fasto millenario dell’impero di Roma è stato evocato proprio qui, tra quinte di cartapesta e tufo della murgia, con Morgan Freeman, il grande attore di Menphis, magnetico nel suo sguardo di ebano e Jack Huston, che prova a reggere il confronto con Chalton Heston, in un remake digitale del colossal americano, che vinse 11 Oscar negli anni ’50. Matera, un set, dunque, intanto. E nella finzione cinematografica, la promessa di un mondo migliore dove vincono i buoni sui cattivi, con il primato della fede in Dio, che spazza via gli idoli pagani. Non importa se il circo di una produzione movie nel giro di pochi mesi ha smontato le tende, riavvolgendo le bobine chilometriche dei suoi cavi volanti e con essi il senso della precarietà di un’avventura: i riflettori hanno illuminato la notte materana. I cittadini, che pure si sono dovuti accontentare di rimanere dietro le transenne di una quotidianità che è rimasta distante, potranno ammirare la loro città in una poltrona di prima fila sullo sfondo di un sogno.

Ecco, è questo forse il segreto dell’alchimia materana: il rapporto con la città da parte di chi ci è nato o la vive. A prescindere dall’età dal genere o dall’estrazione, Matera provoca incanto, ammirazione, crea una relazione soggettiva, che si fa magnetica. I Sassi incastonati sulla collina, nella sapienza di popoli primitivi e rielaborati dal tempo nelle architetture di ogni epoca, sono uno spettacolo. Si può parlare di magia. Si provano emozioni intense, si vive il piacere, si gode la bellezza. Ci si ritrova come in uno spazio acronico che include e moltiplica. E’ così immediato il senso dell’unicità e la specialità dell’atmosfera, che ne sono contagiati soprattutto i più giovani, oramai abituati alla dimensione virtuale. Qui lo stupore è immanente e riprodotto in 3D.

Nel dossier preparato per la commissione europea, che ha vagliato la candidatura di Matera, in apparenza in svantaggio rispetto alle altre concorrenti blasonate, sono stati enumerati i pregi e le virtù, ma anche i progetti in cantiere per l’appuntamento del 2019. Si è trattato di una sorta di cahier du bonehur, che ha suscitato non poche critiche, ma che ha fatto effetto. La sfida è di quelle che possono segnare la storia ed entrare nella leggenda. L’anatroccolo che diventa un cigno. Il progresso che arriva con la cultura. Gli sprechi e l’approssimazione del Sud dimenticato, che virano verso un futuro operoso, dove la genialità meridionale e l’identità territoriale portano sviluppo e seminano legalità. Un’occasione ghiotta, nella lungimiranza illuminata di una decisione non facile. Toccherà ora agli interpreti.

Matera, negli ultimi mesi, è stata teatro delle grandi manovre per il rinnovo della giunta comunale, con la poltrona di sindaco contesa dai partiti e dalle liste civiche. Mai come questa volta si è trattato di una competizione allo spasimo, affollata, imprevedibile. La posta in gioco e soprattutto le risorse che pioveranno sulla città hanno alimentato gli antagonismi e le ambizioni, anche gli appetiti. E’ stato il tutto per tutto e il tutti contro tutti. Ma se poteva essere l’irripetibile occasione per un voto d’opinione nell’attenzione dei media nazionali e delle politiche per il Sud – che sarebbe stato di per sé un nuovo principio – ci si è limitati invece ad una kermesse dai confini locali e così per gli interessi. Il risultato ha premiato la discontinuità rispetto ai precedenti equilibri politici, senza però cambiare gli attori e ancor meno le logiche della politica di sempre, che costruisce alleanze di poteri e non di scopi. Dato positivo, però, la partecipazione, altissima, e il pathos, che si manifesta con la partecipazione.

Nella città dei Sassi, forse, si potrebbe davvero avviare un percorso verso nuovi traguardi. Sarebbe la scommessa già vinta da Matera e da tutto il Sud. La speranza che può nascere quando c’è un’opportunità, dimostrando che esiste una cura possibile anche per un corpo trascurato, che voglia lasciare al passato la marginalità.

La questione dunque va a spostarsi sulla portata del cambiamento. Servirebbe a poco una fabbrica di eventi – come alcuni immaginano – perché la sfida culturale è crescita sociale, coesione, sviluppo armonico di un territorio e delle sue infrastrutture, tradizioni e tecnologie, sentimento e razionalità. I Sassi dovranno imparare a difendere la propria anima, ma dovranno farlo anche le periferie, dal rischio di diventare il fast-food dei turisti e il loro albergo. Toccherà alle donne e agli uomini di Matera, insieme agli altri che da questa città sono attratti, diventare i garanti della transizione. Il loro impegno ne sarà lo strumento. La prospettiva di capitale europea della cultura, anche se solo per un anno, è l’investimento che può lasciare traccia per sempre. Lo stupore immanente dei luoghi, riprodotto in 3D, che ammalia anche i giovani dell’era digitale, dovrà poter rappresentare il loro futuro. E’ questa la cifra concreta, che farà la differenza.

 

BRUJA E ACCABADORA: IN SARDEGNA L’ORIGINE DEL MITO? di Giovanna Mulas – Numero 1 – Luglio 2015

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s’accabadura e che questa resistesse solo tra le persone che, pur con etichetta cristiana, ancora praticavano costumi pagani a debellare i quali ha indubbiamente contribuito il concilio di Trento col rinnovamento della Chiesa cattolica. Secondo Edward Neville Rolfe l’adorazione di Diana era diffusa al punto che, quando il cristianesimo si sostituì al paganesimo, gran parte del simbolismo pagano fu adattato ai nuovi riti e questo rese relativamente semplice la transizione dalla venerazione di Diana a quella della Madonna. E’ da presumere che sia apparsa in Sardegna già dal periodo neolitico, quando popolazioni asiatiche, durante le migrazioni e a ondate successive, approdarono nell’isola. Le loro pratiche conducono ad uno sciamanesimo di tipo siberiano e centro asiatico, confermate dalle tradizioni funerarie e le credenze comuni.

quali le scuole occulte di magia, il Neo-Platonismo, la Cabala, le eresie cristiane, la magia e il dualismo persiani, unitamente ai resti della teologia greca ed egiziana in voga ad Alessandria nel terzo e quarto secolo d.C., nella Casa della Luce nel Cairo del nono secolo,

’esasperazione dell’assurda demonologia del Malleus Maleficarum non fu il logico sviluppo di un’idea religiosa ma il risultato sociale di una rinnovata guerra ideologica e del conseguente clima di paura.

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BRUJA E ACCABADORA: IN SARDEGNA L’ORIGINE DEL MITO?

 

L’Angius si domanda se la pratica alquanto stregonesca dell’accabadura possa provenire dal geronticidio che i figli praticavano anticamente verso i padri settantenni,

e in effetti numerose testimonianze che ho raccolto per il mio ‘Nessuno doveva Sapere, Nessuno doveva Sentire’ fanno riferimento ad un’antica oralità tramandata loro di “montagne di Baunei o Elini da dove venivano buttati i vecchi perché troppo vecchi e malati. Anche ai piccioccheddos maladios (ragazzini, bambini malati o nati deformi – N.d.A.) facevano questa faccenda”.

Una delle tattiche più efficaci adottate dalla chiesa cristiana nei confronti dei convertiti o dei potenziali convertiti che continuassero a adorare i loro dei pagani, era di demonizzare quegli dei affermando che erano effettivamente demoni o il Diavolo stesso. Poiché questa equazione veniva fatta frequentemente, i cristiani cominciarono a rappresentare il diavolo secondo la visione che i pagani avevano dei loro dei.

Questo perché, negli antichi tempi pagani, gli umili non sapevano che tutti gli uomini erano uguali davanti a un Dio, e che anche come schiavi avevano dei diritti sulla terra.

Che molti abusi fossero mitigati ed esistessero santi benevoli non cambia la realtà dei fatti e cioè che in generale, per molti secoli, l’umanità sia vissuta in condizioni peggiori di prima e la causa maggiore di questa sofferenza si potrebbe addebitare ad una nuova consapevolezza dei diritti negati,

Se Edwards e Tendale hanno fatto cenno a uomini dediti all’accabadura, lo Spano include il termine nel suo vocabolario solo al femminile. Scrive: “accabadoras, ucciditrici, uccidenti”. La tradizione lascerebbe intendere che la parte della popolazione più cristianizzata fosse riuscita a debellare 

cosa che rappresenta di per se stessa una tortura. Queste circostanze erano rese più dure dalle prediche continue al popolo: era un dovere soffrire e sopportare oppressione e tirannia, e i diritti dell’ autorità di ogni tipo erano tali da giustificare anche i peggiori abusi. Difendendo l’autorità dei nobili, la Chiesa conservava la propria. L’era della grande caccia alle streghe fu l’epoca delle grandi rivolte popolari nella storia d’Europa, secoli che videro guerre civili religiose e le prime rivoluzioni nazionali dell’età moderna. I disordini terrorizzavano i membri delle classi dominanti di tutta Europa, le loro paure si rispecchiavano nella fantasia del sabba. Alla pari dello stesso diavolo che aveva intrapreso la sua carriera con un atto di ribellione verso Dio, la strega rappresentava la quintessenza del ribelle. I cacciatori di streghe, citando la Bibbia, proclamavano che “la ribellione è come il peccato di stregoneria”, i realisti scozzesi, nel 1661, proclamavano che “la ribellione è la madre della stregoneria”. Alcune credenze di chiara origine pagana, connesse ai culti della fertilità, sono il risultato di sedimentazioni antichissime sulle quali si sono innestate superstizioni medioevali, e stereotipi inquisitoriali. Il culto di Artemide-Diana, successivamente chiamata Herodiade, Heroda, Arada, Holda, Perchta, è giunto fino a noi deformato dalle demonizzazioni effettuate nel corso del medioevo. Alla divinità lunare in periodo cristiano si sovrappose il nome di Sant’Anna, cui vennero dati gli stessi attributi della luna. Nei testi sacri di tutti i popoli a creare l’Universo è un dio maschile: Jhave’, Budda o Brama. Nella stregoneria il principio primordiale è femmina.

Nello straordinario conflitto di correnti contrastanti

possiamo notare che l’uguaglianza della donna rappresentava dottrina prominente. Era Sofia, o Elena la donna affrancata, considerata come il vero Cristo che avrebbe salvato l’umanità.

Dai testi dei concili, dei capitolari e dei penitenziali, vengono indicazioni molto precise sulla modificazione interpretativa del fenomeno magico e dei rituali pagani residui. Si andava affermando un modus operandi che considerava magia e culto del diavolo anche pratiche religiose altre. Nell’alto medioevo i testi giuridici propongono termini come striges, strigae, lamiae: demoni femminili pagani dediti a truculenti rituali notturni, creature accomunate alle cosiddette herbarie. Se studiamo nel suo contesto il rilancio della persecuzione contro la stregoneria nel 1560-1570, possiamo renderci conto che la responsabilità dell’isteria collettiva sulla materia non è esclusivamente dei protestanti o dei cattolici, ma di entrambi; della lotta fra costoro.

La prima edizione del Malleus Maleficarum risale all’inverno 1486, fu stampata a Strasburgo. Fino al 1669 seguirono 34 edizioni, giungendo a più di trentacinquemila copie. Con la lotta alla stregoneria il cristianesimo ribaltava sulle donne del diavolo le imputazioni che il paganesimo aveva rivolto alle prime sette cristiane. Accanto alle accuse ricorrenti di ateismo, empietà, sacrilegio, contro i cristiani non mancarono l’accusa d’incesto, di cannibalismo, di culti orgiastici, scandalosi convegni notturni.

Secondo gli apologisti cristiani, la propaganda anticristiana che ebbe un peso determinante sulle persecuzioni fu dovuta in parte all’ignoranza del messaggio evangelico, quindi della condotta irreprensibile dei cristiani, ed in parte all’odio e al fanatismo delle masse popolari. Tra gli inizi del XIII secolo e la fine del XVII si calcola che siano state inquisite, incarcerate, torturate oltre nove milioni di persone, di cui un terzo finì al rogo.

Deduciamo non la scomparsa di un’accabadura quanto il perseverare del nasconderne la pratica agli occhi alieni.

 

NORD, SUD O SEMPLICEMENTE UN UNICO PIANETA di Aloisio Gaetani d’Aragona – Numero 1 – Luglio 2015

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Da secoli e secoli la fisionomia, i sentimenti, la forza e le debolezze dell’essere umano continuano ad essere essenzialmente sempre le stesse. Quando ci fermiamo di fronte ad un busto romano, ad un calco di un corpo fermato all’improvviso dall’eruzione, un quadro rinascimentale o anche una foto in bianco e nero di appena cento anni fa e ci obblighiamo a guardarli respirando più lentamente e con l’attenzione di tutti i sensi uniti, incluso il sesto, non ci sono dubbi che quanto stiamo osservando siamo proprio noi stessi e non solo nella somiglianza delle espressioni del volto ma nel profondo, così come a sua volta tra mille anni lo intuirà chi avrà voglia di curiosare nelle testimonianze del passato, circondato da cose e tecnologie che oggi sarebbe meglio non provare neanche ad immaginare.

NORD, SUD O SEMPLICEMENTE UN UNICO PIANETA

 

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E’ un po’ come cliccare su Google, formulare domande complesse e scoprire che prima di noi c’è sempre stato qualcuno che si è chiesto esattamente la stessa cosa, ma solo con altre parole, vestito in un’altra maniera, nato in posti diversi e lontani, circondato da altre cose; nel fondo sarà comunque sempre la stessa identica domanda intorno allo stesso, identico concetto con 

la stessa risposta.

Quello che crediamo di percepire così diverso da come siamo adesso è solo il contorno, l’apparenza ma la nostra essenza non è cambiata nel tempo e, probabilmente, non cambierà. L’idea che il vestire, il comunicare, il modo intero di vivere ci faccia pensare di essere così diversi da chi ci ha preceduto, magari anche solo di poco, non vuol dire che tutto sia cambiato e che non abbiamo niente a che fare con le generazioni precedenti, tentati a volte di fare anche dell’ironia; tutto il contrario.

Mi viene un po’ difficile quindi accettare che esistano ancora nel nostro Paese, come nel resto del pianeta, delle differenze nel progresso e nei modi di vivere, spesso limitanti, legati soprattutto ad una posizione geografica particolare e sentirmi in qualche modo obbligato a confrontare, cercando di riscattarli, gli infiniti meriti legati ad un pezzetto di mondo sovrapponendoli agli altrettanti infiniti meriti dell’altro.

Musica, pensiero, arte, figure folgoranti in ogni campo, eccellenze e genialità, senso innato dell’ospitalità, amabilità, creatività e immaginazione le abbiamo lungo tutto lo stivale e forse varrà la pena di accennare invece al grosso del tessuto umano, quello che vive senza seguire “virtute e canoscenza”.

Le differenze vere sono quelle tra pensiero illuminato, aperto, creativo e libero che confini e radici esclusive in uno specifico territorio non ne può avere e l’ottusità, la ripetitività e la pigrizia di milioni di persone che a loro volta non possono essere esclusivamente legate ad un fattore geografico.
Questi limiti si riferiscono qualche volta a punti sul pianeta nei quali si presentano più frequentemente, ma ne sono tutti allo stesso tempo pezzi integranti, meravigliosi ed unici con una storia altrettanto ricca e complessa, fondamentale negli equilibri della storia universale che li riunisce.
Solo il pensiero illuminato e libero si intreccia però con gli altri, si innalza, crea e lascia il segno.Nel nostro Paese le grandi differenze nel pensiero e nella scala dei valori corrispondono a sacche di stagnazione che non hanno casa a Milano anziché Palermo o a Roma invece di Napoli, ne’ le possiamo abbinare alla incapacità di saper odorare il vento, sfruttando le occasioni che a volte vengono depositate qui e domani lì, come spesso alcuni tendono a fare. Non sono le opportunità che fanno la storia o rendono un Paese progredito e diverso ma la capacità di saperle vedere, creare o intuire insieme alla fiducia in noi stessi, al coraggio e l’onestà intellettuale, le quali nascono quando si è ancora bambini dall’esempio, dai valori che altri ci hanno trasmesso, dalla conoscenza e dall’educazione ricevute nei nostri primi anni di vita.

Le grandi differenze a mio parere risiedono soprattutto nel protrarsi quasi infinito dell’accettazione, a volte quasi patologica, di tradizioni, dialetti ed usanze limitate o sbagliate, a prescindere dalla classe sociale di appartenenza; ne conseguono un rispetto diverso verso se stessi e gli altri e soprattutto la presenza o l’assenza di una solidarietà genuina verso ogni essere umano, sia nelle classi veramente umili che in questo modo continueranno inevitabilmente ad esserlo, sia in quelle privilegiate ma solo economicamente, che continueranno a credere di costituire per diritto acquisito la casta portante dell’ economia e del pensiero di un Paese, mentre non lo sono affatto e, al contrario, ne costituiscono il virus più pericoloso.
I limiti ed il danno che ne derivano per la società intera e per il mondo sono immensi.

Nulla di tutto questo ha a che vedere né con il livello sociale né con una regione o con l’altra, ma solo con il modo generale di vivere, di sognare o non, di sperare o non, di valutare a fondo le cose o non nella vita di tutti i giorni.

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Le dimostrazioni del potere, così come l’estrema povertà che è sorella dell’ignoranza, la fortuna e la sfortuna accettate come inevitabili, la salute o il suo contrario, gli sfarzi e le ricchezze spropositate o le ingiustizie sulle quali a volte esse si fondano, gli sperperi e l’arroganza a qualsiasi livello, la brutalità sia in alto come in basso senza distinzione, fanno capo soprattutto ad una educazione mancata proprio quando, poco prima dell’adolescenza, la mente era più aperta, pulita e generosa; il centro allora rischierà di non essere più l’uomo ma il potere da una parte e la rinuncia dall’altra, alcuni concetti di parte assoluti e indiscutibili versus l’ignoranza sterile e buia.
Uno spreco di esistenze di cui i più si rendono conto solo quando la clessidra è ormai vuota, che si perpetua nel tempo come il passaggio di un testimone di una staffetta infinita.

Mahatma Gandhi diceva che la massima espressione della saggezza è la gentilezza.Nulla toglie a chi ne fa derivare la propria forza, il proprio intuito e la concretezza dell’intelligenza pratica e concludente.
Finché però in troppi continueranno a confonderla con la debolezza che è tutto un altro discorso, non capendo che è invece esattamente il contrario, fino a quando in troppi continueranno a seguire alcune mode stupide, invece di creare nuove tendenze intelligenti e fattive, fino a quando il pensiero elitesco ed una certa intellettualità, spesso allineata e prepotente faranno la differenza, la spinta in avanti sarà irrimediabilmente ostacolata e tutto rimarrà sempre uguale.

A volte si può avere un’idea più accertata di un Paese o di una parte di esso, osservando semplicemente la qualità della pubblicità più diffusa, i luoghi comuni più accettati, i pensieri e le parole che più fanno presa sulla “gente”.

I grandi spiriti sono stati sempre ostacolati dalle menti mediocri, lo pensava un uomo straordinario di nome Albert Einstein.Una delle soluzioni a mio modo di vedere potrebbe essere quella di fare passare lentamente ma inesorabilmente le generazioni attuali che, francamente, valutate all’ingrosso, lasciano poche speranze, cambiando allo stesso tempo il modo di combatterne i vizi senza alzare la voce, ma solo con la forza delle idee concentrandosi intanto su un educazione dei più “piccoli” decisamente diversa, sia a casa come nelle scuole.Insegnanti ben pagati (perché non invertire gli emolumenti di alcuni funzionari pubblici con quelli degli insegnanti che potrebbero rappresentare la nuova elite) valutati e selezionati con estrema cura e attenzione sulla base della fusione di valori veri e senza età, aperti però allo stesso tempo ai grandi cambiamenti di oggi e di domani.Un riferimento speciale lo darei all’informazione di massa ed alla maniera di esprimersi dei personaggi dello sport e dello spettacolo (i bambini più piccoli ascoltano tutto) che potrebbero diventare (se ci accordassimo con loro) messaggeri di principi semplici, sani, moderni senza per questo perdere appeal o glamour (ammesso che li abbiano davvero) a causa del passaggio dalla volgarità alla gentilezza, dai luoghi comuni a pensieri un po’ più elevati e senza che ciò possa intaccare credibilità e seguito; si tratta di alzare un po’ il livello; prima o poi qualcuno dovrà farlo.Un discorso a parte meriterebbe il linguaggio e la feroce combattività dei politici, ma la palla l’avrà sempre in mano il primo ministro ed il presidente del nostro Paese che dovranno dare l’esempio cominciando da come si dirigono agli italiani, pronti ad avere la mano di ferro quando il messaggio inviato agli azionisti (noi) dai politici in generale e dal sottobosco che gli sta intorno si faccia indegno e fomenti confronto e scontro.

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Vorrei concludere immaginando un prato dove all’improvviso per uno scherzo del tempo e dello spazio che per un momento si siano distratti, si incontrino, solo per giocare e senza poter comunicare ed avere modo di percepire eventuali differenze sociali o di appartenenza, una decina di bambini di epoche storiche differenti, fino alla nostra. Ma guarda, sono tutti uguali, si stanno divertendo, si intendono e si immedesimano nel gioco… Ma allora perché crescendo sono poi tutti così cambiati? Com’è possibile che il mondo sia andato avanti qualche volta proprio al buio, altre volte con guerre interminabili, ci siano state delle lunghe epoche oscure ed altre inondate di luce e creatività come svegliandosi da un lungo sonno, dove a volte sono prevalse guerre di idee e convinzioni diverse mentre in altre epoche sembrava che all’improvviso tutti si capissero e ritrovandosi su un piano comune… Quei bambini sono ad un tratto cresciuti forse senza avere avuto una mano amica, continua, solidale e intelligente sulla spalla; per tante ragioni diverse quella scintilla di vita, quel pizzico di polvere di stelle si è andato perdendo e, per un motivo o per un altro, altre cose hanno preso il sopravvento. Le loro vite si sono andate in qualche maniera modificando e perdendo, lasciando che troppe volte le grandi mete infinite contenute nei rispettivi DNA venissero sostituite da brevi, leggerissimi e inutili lampi. Perché abbiamo continuato a guardare dall’altra parte e ci siamo dimenticati così spesso di noi, di quanto valiamo, della nostra unicità? Non ho parlato solo del meridione come mi era stato chiesto ed ho divagato, perché credo che il centro di tutto sia sempre e soltanto quella scintilla divina che porta dentro ognuno di noi indistintamente (ma non tutti lasciamo uscire nella stessa misura) che a sua volta è il fine e la soluzione di ogni cosa: passione e intuizione le si avvicinano. Il problema vero è che in troppi casi si è persa lungo la strada e credo che sia arrivato il momento di fare ogni sforzo per ritrovarla e aiutare gli altri a fare altrettanto, a piccoli passi con un ritrovato senso di solidarietà, semplicità e speranza. Se vuoi davvero la pace nel mondo e la serenità dentro di te, comincia stasera quando tornerai a casa; lascia le ansie fuori dalla porta e fai entrare nella tua famiglia solo pezzetti di allegria, serenità, affetto e luce con tanti piccoli gesti. Non è così difficile e funziona.In bocca al lupo.

 

LA RICCHEZZA NASCOSTA NEL POVERO MEZZOGIORNO – PARTE 1 di Carlo Curti Gialdino – Numero 1 – Luglio 2015

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archeologica impietrita nel tempo dalla terribile eruzione del Vesuvio del 79 d.C.; non solo perché tutta la striscia prospiciente il mare della Campania, a partire da Napoli, metropoli sin dall’antichità e le testimonianze delle varie dominazioni, è un concatenarsi di ritrovamenti archeologici noti (Pozzuoli, Paestum) e meno noti (Pontecagnano e i suoi reperti Etruschi); e, saltando alla Sicilia vi sono stratificazioni mozzafiato, di civiltà anche autoctone sovrapposte a civiltà, come la mitica torta sette veli che si gusta a Messina; senza dimenticare che ogni altra Regione meridionale, in varie epoche, ha ospitato vestigia di un glorioso passato. 
Il Mezzogiorno, insomma, è uno scrigno di tesori mai davvero presi in considerazione per diventare volani di sviluppo, Pompei compresa, pur essendo, insieme al Colosseo, il sito archeologico italiano più visitato.

E non solo perché qui c’è Pompei e la sua area 

L’unico problema per il locale a piano terra destinato a coronare il suo sogno era la creazione dei servizi igienici. Lo scolo aveva problemi di riflusso. Per cui, il signor Faggiano arruolò i suoi due figli maggiori per aiutarlo a scavare ed investigare sulle cause dell’inconveniente. Aveva previsto che per i lavori ci sarebbe voluto giusto una settimana. Se solo non avessero impattato in una sorpresa… “Trovammo corridoi sotterranei ed altre stanze, quindi continuammo a scavare” dice il sig. Faggiano, che ha sessant’anni. La sua ricerca del canale di scolo, che iniziò nel 2000, divenne una storia familiare di ossessioni e scoperta.

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LA RICCHEZZA NASCOSTA DEL POVERO MEZZOGIORNO

PARTE I

 

Si organizza il minimo indispensabile, quello utile a tour promozionali in fiere del turismo, dalla milanese BIT ad altre più esotiche, rivelandosi questo tipo di politica arida di risultati, se non per chi se ne va in giro per il mondo a fare il promoter delle bellezze meridionali.
Eppure, all’estero, pur non possedendo neanche la millesima parte dell’intrigante intreccio fra storia, cultura, località godibili del nostro Sud, riescono a fare grandi flussi turistici.
Situata nel tacco dello Stivale italiano, Lecce era un punto nevralgico del Mediterraneo, ambita dagli invasori per tale posizione strategica. Dai Greci ai Romani, fino agli Ottomani, i Normanni ed i Longobardi.
Per secoli, una colonna di marmo del santo patrono di Lecce, Oronzo, ha dominato la piazza centrale della città, fino a che, gli storici, nel 1901, non hanno scoperto un anfiteatro romano che si estendeva sotterraneamente per tutta quell’area ed hanno spostato la colonna per poter fare gli scavi.
“I primi insediamenti a Lecce risalgono ai tempi di Omero, o almeno così dice la leggenda”, dice Mario De Marco, storico e scrittore locale, rilevando che gli invasori sono stati attratti dalla posizione d’oro della città e dalle prospettive di saccheggio. “Ognuna di queste popolazioni è venuta e ha lasciato una propria traccia”.
Severo Martini, assessore alla Pianificazione territoriale e all’Urbanistica del Comune di Lecce, afferma che i reperti archeologici vengono alla luce regolarmente e possono rappresentare un bel problema per la pianificazione urbana. Un progetto per un centro commerciale ha dovuto essere ridisegnato dopo la scoperta di un antico tempio romano sotto il sito del parcheggio. “Ogni volta che si scava un buco” dice “secoli di storia escono fuori come niente”. Come per la famiglia Faggiano.

Tutto quello che Luciano Faggiano desiderava, quando acquistò l’anonimo palazzo a via Ascanio Grandi 56, era di aprire una 

trattoria.

Un nome assai simbolico, in quanto proviene da greco e significa “Vedimi, sono la vita”. “Continuavo a scavare per realizzare il mio accesso alla fogna”, dice. “Nel contempo, però, ogni giorno speravamo di trovare nuovi manufatti”. Gli archeologi spinsero il signor Faggiano ad andare avanti. Oggi, l’edificio si è trasformato nel Museo Faggiano, un Museo archeologico privato, autorizzato dal Comune di Lecce.
Scale in metallo consentono ai visitatori di scendere nelle camere sotterranee, mentre le sezioni di pavimento in vetro servono ad ammirare le stratificazioni storiche dell’edificio. Rosa Anna Romano, una docente operante presso il Museo, è la vedova di uno speleologo dilettante che ha contribuito a scoprire la Grotta di Cervi, una grotta sulla costa vicino Lecce, verso Otranto, decorata con pittogrammi neolitici. Per saperne di più, vi consiglio di consultare il sito www.museofaggiano.it.
Con molta sorpresa, scoprirete che è tradotto in 9 lingue, compreso russo, cinese e giapponese. Certamente, il MiBACT del Ministro Franceschini ha da imparare, con quel suo sito ‘verybello’ che a stento parla inglese! Intanto, però, lo stesso Ministero ha comunicato la disponibilità di Fondi europei 2014 – 2020 per sostenere iniziative culturali nel Mezzogiorno. Ecco la comunicazione divulgata dal Ministero: “La Commissione Europea ha approvato il programma operativo “Cultura e Sviluppo” 2014 – 2020 cofinanziato dai fondi comunitari (FESR) e nazionali, per un ammontare complessivo di circa 490,9 milioni di euro, che vede il MiBACT nel ruolo di amministrazione proponente e Autorità di gestione. Il Programma Operativo Nazionale (PON) “Cultura e Sviluppo” 2014 – 2020 è destinato a 5 regioni del Sud Italia – Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia –  ed ha come principale obiettivo la valorizzazione del territorio attraverso interventi di conservazione del patrimonio culturale, di potenziamento del sistema dei servizi turistici e di sostegno alla filiera imprenditoriale collegata al settore. Gestito dal MiBACT, il PON dà attuazione alle scelte strategiche ed agli indirizzi definiti dall’Accordo di Partenariato (AdP) tra l’Italia e la Commissione Europea.

Il signor Faggiano trovò tracce di un mondo sotterraneo che risaliva a prima della nascita di Gesù: un tomba messapica (antica popolazione italica stanziatasi nella Murgia meridionale), un granaio romano, una cappella francescana ed altri dipinti dei 

Cavalieri Templari,

dalla vicenda così controversa, perseguitati dal re Filippo il Bello di Francia. Ma quella è un’altra storia. Se vi capita, approfonditela. La trattoria è ora diventata un museo, dove i ritrovamenti sono esposti. ‘Gli uomini di casa’ scoprirono un piano nascosto che portò ad un altro piano in pietra medievale, che portò a sua volta ad una tomba dei Messapi, i quali vivevano nella regione secoli prima della nascita di Gesù. Presto la famiglia scoprì una camera usata per conservare il grano dagli antichi romani e la cantina di un convento francescano in cui le suore, al tempo, preparavano i corpi dei morti alla sepoltura. Le Forze dell’Ordine arrivarono e bloccarono gli scavi, intimando di non addentrarsi in siti archeologici abusivi. Il presunto ‘tombarolo’ rispose loro che stava solamente cercando di costruire un tubo di scarico.
Passato un anno, finalmente gli fu permesso di riprendere la sua ricerca per il tracciamento della fogna, a condizione che i funzionari della Sovrintendenza partecipassero ai lavori. Emerse, così, un tesoro sotterraneo costituito da antichi vasi, bottiglie devozionali romane, un antico anello con simboli cristiani, manufatti del Medioevo, affreschi nascosti ed altro. “Abbiamo trovato – dice Luciano Faggiano – molto vasellame di epoche diverse. C’erano due tombe, ma una era stata svuotata già ai tempi della costruzione dello stabile, nel 1933.
Le poche monete, molto corrose, frutto degli scavi sono ora allo studio della Sovrintendenza. Non so, dunque, di che epoca sono. Mi ha colpito l’anello, che doveva essere un anello da sigillo, tant’è che lo abbiamo ritrovato ancora sporco di ceralacca. Era in oro, almeno laminato su altro metallo, con uno stemma indimenticabile: l’ostia consacrata. E’ impressionante, il disegno richiama molto quello che ora Papa Francesco ha assunto come suo stemma. Sarebbe bello che lo vedesse.
”La casa dei Faggiano ha livelli che sono rappresentativi di quasi tutta la storia della città, dai Messapi ai Romani, dal Medioevo fino all’età bizantina”, dice Giovanni Giangreco, funzionario del Ministero dei Beni culturali, ora in pensione, coinvolto nella supervisione degli scavi. I funzionari della Sovrintendenza, intuendo di essere di fronte ad una grande scoperta, portarono un archeologo sul sito, anche se i Faggiano si sono accollati i lavori di scavo, sostenendone le spese. Il signor Faggiano, cuoco provetto, continuava a sognare ancora una trattoria anche se, ormai, il progetto era diventato la sua Moby Dick. Intanto ha fondato un’Associazione culturale, denominata “Idume”, dal nome del fiume che scorre sotto la città di Lecce.

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L’Accordo individua tra gli obiettivi tematici la protezione, promozione e sviluppo del patrimonio culturale, considerato asset potenzialmente decisivo per lo sviluppo del Paese, sia in quanto fattore cruciale per la crescita e la coesione sociale, sia per gli effetti e le ricadute positive che esso è potenzialmente in grado di determinare nei rispetti del sistema dell’industria turistica.
Il Programma ha una dotazione finanziaria di 490,9 milioni di euro, di cui 368,2 milioni di euro a valere sui fondi strutturali europei (FESR) e 122,7 milioni di euro di cofinanziamento nazionale.
Il PON “Cultura e Sviluppo” 2014-2020 viene attuato attraverso una filiera corta e diretta: il MiBACT Amministrazione titolare del Programma si avvale delle sue articolazioni territoriali (Segretariati regionali, Poli museali, Soprintendenze) nell’ambito di una strategia di raccordo e di coordinamento con le Amministrazioni regionali delle cinque regioni interessate, con le quali saranno sottoscritti specifici Accordi Operativi di Attuazione (AOA)”.
Nulla cambia circa la necessità di coinvolgimento delle autorità regionali, in passato piuttosto inerti in materia, tant’è che ci sono state tantissime volte che si è corso il rischio di perdere i Fondi pur attribuiti, proprio a causa dell’incapacità progettuale delle stesse.
Si spera, invece, che ora, messe sotto il microscopio proprio per gli errori del passato, le Regioni siano più efficienti nella loro azione. Molto si potrebbe fare, però, se i cittadini, pur se attanagliati dalla crisi, fossero più propositivi e meno rassegnati. Propositivi come il signor Faggiano di cui vi ho raccontato.
Da queste pagine, parte un appello affinché vi sia maggiore partecipazione e minore lamentazione.
La filosofia dell’armiamoci e partite, se protratta, non consentirà al Sud di mettere in pista i suoi beni straordinari: un’eredità che è davvero un peccato dilapidare!

 

IL PARCO LETTERARIO CARLO LEVI. UNA PERLA DA RISCOPRIRE di Antonio Genovese – Numero 1 – Luglio 2015

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1. La prima volta che ci ho messo piede, su invito di una professoressa in pensione (che di allievi ne aveva menati tanti, in giro da quelle parti), mi sono chiesto come avessi fatto a non venirci prima. Infatti, avevo letto il Cristo di Carlo Levi, moltissimi anni prima, e quasi pensavo ad un mondo altro da quello in cui pure avevo vissuto negli anni fondamentali della mia formazione, nella Basilicata occidentale, dove l’influenza del pugliese è assai più sfumata e più avvertita quella del campano.
Ma il primo impatto non è stato con la lingua, con uno dei tanti dialetti della Basilicata (ancora non sufficientemente studiati, a mio avviso, nonostante gli studi di Bigalke e di Rohlfs1) ma con il paesaggio, perché, lasciandoci alle nostre spalle Stigliano (e il Parco Regionale di Gallipoli Cognato), siamo scesi verso le valli alluvionali, abbandonando il verde 

IL PARCO LETTERARIO CARLO LEVI. UNA PERLA DA RISCOPRIRE

 

Sembrava quasi di vivere molte delle pagine del romanzo, specie di quelle in cui l’Autore (rispolverate nozioni di medicina, che pensava di non dover mai utilizzare) racconta della sua missione notturna verso la frazione di Pantano, in visita di un malato grave (di malaria) che, purtroppo, non riuscirà a salvare. Il percorso, fra i calanchi in una nottata d’inverno, tra il nevischio, con la luce silenziosa della luna bianca, parla di queste argille che «precipitano verso l’Agri, in coni, grotte, anfratti, piagge, variegate bizzarramente dalla luce e dall’ombra», che poi l’artista ha anche cercato di raffigurare in molte sue opere pittoriche (quelle in terra di Basilicata sono visitabili presso il Museo nazionale d’arte medievale e moderna della Basilicata, che si trova a Matera, e ha sede a Palazzo Lanfranchi3 o, ad Aliano, nella Pinacoteca, che pure il tour del Parco consentirà di visitare) ma che ovviamente vanno vissute, compiendo tali percorsi en plein air, se del caso anche guidati da qualche accompagnatore: il più famoso di tutti è il prete, don Pierino (vero e proprio Virgilio, conoscitore di ogni dettaglio ma che non sempre rivela di buon grado, se non si entra in sintonia con lui).
Anche il visitatore, perciò, dev’essere avvertito che, come tutti i posti piccoli e remoti, non sempre bene indicati (anche quanto a segnaletica stradale), occorre armarsi di quella pazienza e gentilezza che non sembra avere avuto l’autore di un risentito pezzo giornalistico4.

intenso dell’ambiente alto collinare-montano, per calarci, guadando i fiumi Sauro e Agri, in un paesaggio quasi lunare: erano i calanchi2.

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2. La visita della casa di Carlo Levi è una tappa obbligata del percorso. Essa è rimasta la stessa di quando fu lasciata dal confinato politico nel 1936, assai prima di quanto lui stesso pensasse, quando già si era rassegnato a viverci a lungo. Dentro non ci sono oggetti, né suppellettili, né arredi (se si vuole, invece, vedere qualcosa dell’oggettistica del periodo, bisogna farsi aprire le porte del cd. museo della “Civiltà contadina” di Aliano, pure previsto nel tour), essendo rimasta completamente vuota: un vuoto che sicuramente emoziona così come emoziona il paesaggio che da quella porta si ammira e che si può meglio apprezzare dalla terrazza panoramica. 
Qui Levi dipingeva e costituiva l’attrazione di tanti giovani alianesi, oggi dispersisi nel mondo. Una questione che mi incuriosiva, avendo qualche anno prima, avuto tra le mani una pubblicazione del Servizio studi di Cariplo (Il Paese di Carlo Levi: Aliano, cinquant’anni dopo), Bari 1985, pp. 124 (che nel frattempo mi risulta essere stato anche digitalizzato e quindi più facilmente consultabile) dove si mostravano le enormi trasformazioni intervenute nel piccolo comune portato all’attenzione del mondo dal suo illustre ospite (suo malgrado). La distanza può essere ancor meglio misurata leggendo (e scorrendo le belle immagini riportate) il saggio di C. Magistro, Aliano e i suoi protagonisti Il racconto, tra storia e letteratura, dal dopoguerra alla caduta del fascismo, in Basilicata Regione Notizie, nn. 129-130 (p. 142 e ss.)5.
In realtà le polemiche contro l’Autore erano divampate subito, nel primo dopoguerra, dopo la pubblicazione del romanzo, che andava a ruba anche all’estero, come ben documenta Francesca R. Uccella in Cristo si è fermato a Eboli. Gagliano e il parco letterario di Aliano: metamorfosi di una memoria, in Quaderns d’Italià 13, 2008, pp. 147-1606 (l’Autrice studia la relazione e l’interazione reciproca tra Levi, l’opera – il Cristo – e la comunità di Aliano dal 1945, data di pubblicazione del romanzo fino al 2001, anno dell’ istituzione del Parco Letterario Carlo Levi).
Insomma, se da un lato, gli «alianesi» (o meglio, alcune parti qualificate di essi) hanno modificato la propria posizione, passata dall’originaria avversione fino all’inclusione del suo cantore, con l‘istituzione del Parco letterario, dall’altro lo stesso Levi ha fatto diventare l’esperienza del confino così centrale nella sua vita di artista e di politico, da scegliere poi di essere sepolto proprio ad Aliano (e la visita alla tomba dell’Autore è, necessariamente, una tappa per il visitatore che magari, ivi, potrà rileggere proprio i passi del romanzo che narrano delle sue limitate e controllate passeggiate in quel luogo (posto a picco sui calanchi!: resisterà – con il tempo – alla sfida con i fenomeni naturali?) e degli incontri, narrati con un certo interesse umano e letterario.

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3. Certo non è un mistero che Levi preferisse vivere a Grassano piuttosto che ad Aliano: ne parla nel Cristo; ne racconta del ritorno, quasi come un premio al confinato «modello». Vi si reca nuovamente (per terminare di dipingere alcune tele) e richiama alla mente tutti i ricordi della sua prima sistemazione: una realtà sicuramente più vivace e cittadina (che i grassanesi hanno voluto ricordare e far visitare, istituendo anche un proprio, secondo parco leviano7) e che non avrebbe voluto lasciare, se non vi fossero stati i provvedimenti punitivi presi dall’autorità di polizia, per la sua relazione con una donna sposata (ad un noto personaggio) e che lo raggiungeva da Torino per vivere il proprio rapporto, più o meno clandestino, sicuramente non gradito al regime (e forse ai benpensanti grassanesi!).
Resta il fatto che l’omaggio a Grassano, contenuto nel libro, è piuttosto un ricordo letterario (come anche, per certi versi, lo è il passaggio per Matera), ma non segnerà l’Autore nel suo profondo così come lo segnerà Aliano, al punto che il medico e dissidente torinese sentirà il bisogno di farne il centro della sua nuova esistenza, quantomeno come ricordo indelebile e come riflessione continua su quella formidabile scoperta etno-antropologica.
La scoperta ha poi alimentato tutta una vasta letteratura (che, ovviamente, qui non può essere richiamata, bastando solo far rinvio al lavoro, sopra menzionato, di Francesca R. Uccella ed alla bibliografia contenuta nelle note del suo bel saggio) ed ha persino prodotto una ricerca dei discendenti dei protagonisti dell’opera che ha portato ad una documentazione fotografica (di Antonio Pagnotta) di grande rilievo: frutto della ricerca socio-fotografica della sociologa Graziella Salvatore e del foto-reporter Antonio Pagnotta, “La Ruota, la Croce e la Penna”8.
E si potrebbe continuare, ancora a lungo.
Ma forse qui conviene arrestarsi e riprovare a parlarne dopo un tour nella Basilicata orientale.

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 1 cfr. F.R., Le lingue della Lucania, in http://www.regione.basilicata.it/giunta/site/giunta/detail.jsp?otype=1120&id=285326&value=consiglioInfor – 2 se ne veda qualche immagine, anche se solo parzialmente coinvolgenti – dato che l’esperienza va vissuta percorrendo tutta l’area ed immergendosi nella dimensione geologico-naturalistica – nel sito web del Parco Letterario: http://www.parcolevi.it/ – 3 http://www.visitmatera.it/palazzo-lanfranchi.html – 4 http://basilicata.basilicata24.it/lopinione/interventi-commenti/volevo-visitare-luoghi-fu-confinato-levi-cacciato-9791.php. – 5 ora in: http://consiglio.basilicata.it/consiglioinforma/files/docs/32/36/05/DOCUMENT_FILE_323605.pdf – 6 cfr.: http://webcache.googleusercontent.com/search?q=cache:YrOwPaKnjc4J:http://www.raco.cat/index.php/QuadernsItalia/article/download/129463/178846%2Bfrancesca+uccella+cristo&hl=it&gbv=2&&ct=clnk -7 http://www.comune.grassano.mt.it/Parco.php – 8 su cui, vedi http://www.italplanet.it/templateStampa.asp?sez=81&info=4915

 

IL NUOVO SUD, DOPO “VENT’ANNI DI SOLITUDINE”! di Giuseppe Soriero – Numero 2 – Ottobre 2015

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Il dibattito è già avviato non solo tra i meridionalisti, ma innanzitutto nella Politica e nel Governo.
I riflettori accesi in piena estate dalle anticipazioni del Rapporto SVIMEZ hanno disgelato dati eclatanti di “quella parte dell’Italia che sta peggio della Grecia”: dai 46,6 mila euro di valore aggiunto per abitante di Milano si precipita ai 12 mila in provincia di Agrigento. 
Già Romano Prodi, nella prefazione alla nuova edizione del volume “Sud, vent’anni di solitudine”, aveva richiamato l’attenzione sul “Racconto di due economie” illustrato dall’Economist: il prodotto interno lordo per abitante, in Calabria (16.462 euro) è ancora la metà esatta di quello di un cittadino della Valle d’Aosta (34.415 euro). Adesso, in presenza di primi incoraggianti segnali di ripresa della produzione, e dei consumi, è doveroso chiedersi se l’area meridionale sarà questa volta coinvolta positivamente negli scenari di sviluppo del Paese. Il Governo annuncia infatti nuovi investimenti nazionali ed europei assieme all’elaborazione di un “Master Plan” per l’area meridiana.

IL NUOVO SUD, DOPO
“VENT’ANNI DI SOLITUDINE”!

 

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MEZZOGIORNO SENZA MERIDIONALISMO?

Scritti e libri hanno alimentato un dibattito fazioso tra i sostenitori del mercato e quelli dello Stato: chi gridava allo scandalo per le troppe risorse verso il Sud e chi replicava, implorandone ancora di più.
E giacchè “non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l’ha generato”(Albert Einstein), sono da correggere i guasti indotti sia dal potere centrale che dalle classi dirigenti meridionali, risvegliando l’anima del Sud e suscitando fiducia tra le forze propositive cui si rivolge innanzitutto il messaggio suggestivo della rivista Myrrha. Le energie sane in campo sono tante.
Si può dire infatti che il Mezzogiorno, come l’ambiente descritto nel capolavoro di García Márquez, sia ancora oggi un luogo popolato da persone, quali il protagonista José Arcadio Buendía, «la cui smisurata immaginazione andava sempre più lontano dell’ingegno della natura, e ancora più in là del miracolo e della magia». E si può naturalmente parlare di un’area territoriale certo diversa dal villaggio di Macondo, ma non affatto irrecuperabile, nella quale come altrove «le cose hanno vita propria […] e si tratta soltanto di risvegliargli l’anima».

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RISVEGLIARE L’ANIMA DEL SUD.

Archiviando, innanzitutto, la singolare semplificazione sulla «diversità» identitaria dei meridionali che aveva istigato in alcune zone del Nord una diffusa interpretazione razzista. Certo, l’intervento pubblico straordinario verso il Sud è stato, nel passato, gelosamente tutelato come la «calamita», considerata indispensabile da Arcadio Buendía per «sviscerare l’oro della terra». Una buona parte dei cittadini meridionali, come nel romanzo di Márquez, non riuscendo a «consolarsi dell’insuccesso delle proprie calamite», concepì l’idea di «utilizzare quella invenzione come arma da guerra». E gli effetti qui sono stati devastanti nel moltiplicarsi di calamite clientelari che hanno precluso ogni argine alla penetrazione della corruzione e delle mafie.

MALI DEL SUD E MALI DELL’ITALIA.

Il potere criminale ha saputo cogliere in tempo i ritmi della globalizzazione ed è riuscito a integrare capitali e risorse umane superando ogni dualismo dentro un sistema unitario con baluardi vistosi addirittura in Lombardia, in Liguria, in Emilia e a Roma capitale. Tutto ciò è accaduto proprio mentre la politica privilegiava un dibattito ideologico sul federalismo fiscale come misura risolutiva dell’utilizzo della spesa pubblica, soprattutto per rieducare il Mezzogiorno. 
Vale convincersi, pertanto, che né la politica, né la cultura, hanno più tempo per distrarsi, eternando stancamente meri conflitti territoriali tra “Nordisti” e “Sudisti” giacchè è arrivata l’ora di rivoluzionare il nesso tra politica, economia e pubblica amministrazione. La crisi internazionale ha clamorosamente squarciato il velo e lo scenario oggi è più netto: o le due aree del Nord e del Sud cresceranno insieme o la ripresa dell’Italia rimarrà sempre più tiepida proprio mentre il Mediterraneo è in ebollizione e spinge comunque verso la modifica di secolari equilibri.

UN NUOVO INTERVENTO PUBLICO E PRIVATO.

«Un’altra Europa è possibile» continua a scrivere Habermas nella direzione indicata con nettezza da Paul Krugman: «I nostri governi devono spendere di più, non di meno, assumere insegnanti, costruire infrastrutture, scegliere spese utili». L’analisi più rigorosa delle esperienze internazionali analoghe, dalla Germania all’Irlanda, ci dice che l’intervento dello Stato, solo se protratto nel tempo, con misure innovative e consistenti supporti finanziari, può ridurre drasticamente i divari territoriali interni fino ad annullarli.

Le novità di scenario vanno a questo punto valutate in tempo: la macroregione vera è quella euro mediterranea.

Hic Rhodus hic salta! Il Nord Africa, pur condizionato dalla evidente instabilità politica, cresce più dell’Europa ed è già all’attenzione dei capitali finanziari della Cina e dell’India tanto da indurre rispettabili studiosi a coniare il neologismo “Cindoterraneo”.

Qui, c’è la vera sfida culturale per chi voglia contribuire a innovare il Meridionalismo, sapendo ragionare sull’utilità europea del Sud: un’area che possa essere percepita nella sua validità da ogni cittadino europeo,

dai sistemi europei dell’economia, della finanza, dell’informazione, della scienza e della cultura. Il problema vero è se l’Italia, nel suo insieme, intenderà misurarsi in una competizione non scontata tra alleanze internazionali. Qui, più che altrove, è praticabile la riduzione del costo logistico totale, attraverso l’offerta di servizi integrati per affrontare la sfida globale dei mercati. Dopo l’ampliamento del Canale di Suez v’è la possibilità di raddoppiare in dieci anni i movimenti di merci (nel 2025 ben 56.880.000 di TEU); quale sistema portuale saprà trarne vantaggio? Solo la Spagna, la Francia, il Nord Africa o finalmente anche l’Italia? 
E giacchè le attuali deficienze logistiche implicano per noi “un costo superiore dell’11%, circa 12 miliardi di euro, rispetto alla media europea” (studio Cassa DD.PP.), il pieno utilizzo delle infrastrutture meridionali è la precondizione per tornare a crescere; mediante la specializzazione di filiera di alcuni poli produttivi e di tutti i porti meridionali da Gioia Tauro a Taranto, da Napoli a Cagliari a Catania, con una strategia di sistema, utilissima anche ai porti del Nord, da Genova a Trieste e proiettando finalmente la rete di Alta Velocità da Salerno verso Gioia Tauro e la Sicilia.
Si richiedono oggi, pertanto, coraggio civile e culturale, analoghi a quelli delle classi dirigenti che nel secondo dopoguerra diedero impulso al miracolo economico; per suscitare adesso il proficuo coinvolgimento di tutte le energie culturali, progettuali, operative espresse da sindacati, imprenditori, università, associazioni culturali. Con analogo spessore dell’impegno nazionale profuso per l’Expo di Milano si lavori insomma per esaltare la scelta di Matera 2019, indicando nuove capacità operative e anche nuovi riferimenti simbolici alle nuove generazioni.