Il “REALE OSSERVATORIO VESUVIANO” – Gemme del Sud – Numero 18 – Settembre-Ottobre 2020

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il “REALE OSSERVATORIO VESUVIANO“

 

Gemme del Sud

Ercolano

 

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L’Osservatorio Vesuviano, fondato nel 1841 da Ferdinando II di Borbone, è la più antica struttura al mondo dedicata allo studio e al monitoraggio dell’attività dei vulcani.  Il “Reale Osservatorio Vesuviano” – questo il nome che aveva quando fu inaugurato dal re e che è posto tuttora sulla facciata dell’edificio che lo ospita – si trova sul Vesuvio, precisamente sul Colle del Salvatore, tra Ercolano e Torre del Greco, in una posizione apparsa ideale perché abbastanza lontana dal cratere e piuttosto elevata rispetto al piano di campagna, dunque protetta in caso di eruzioni.  L’architetto Gaetano Emanuele Fazzini, che aveva anche esperienza di fisico, fu scelto per realizzarne la sede, che fu inaugurata nel 1845.  Il bellissimo edificio di gusto neoclassico, da quando, intorno al 1970, è stata aperta più a valle una struttura maggiormente idonea alla moderna ricerca, è dedicato alla

conservazione di pregiate collezioni mineralogiche e strumentali 

(tra cui il primo sismografo elettromagnetico, progettato nel 1856 da Luigi Palmieri, 

che fu anche direttore dell’Osservatorio) ed accoglie un’importante biblioteca storica.


Il museo contiene inoltre una ricca raccolta di gouaches, stampe d’epoca, antiche litografie e disegni, nonché una collezione di foto e filmati d’epoca di eruzioni del Vesuvio dal 1865 al 1944, tra cui il primo film al mondo, dei Fratelli Lumière, che riprende un vulcano in eruzione. 

 

Nel 1911, inoltre, fu nominato direttore Giuseppe Mercalli, a cui si devono importantissimi studi di vulcanologia e sismologia e di cui tutt’oggi si utilizza la scala di misurazione dell’intensità dei terremoti.  

 

 

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LE GOLE DI LARDERIA – Gemme del Sud – Numero 18 – Settembre-ottobre 2020

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LE GOLE    di            larderia

 

 Gemme del Sud

Motta Camastra

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 (Conosciute come le gole dell’Alcantara) 

Ci troviamo nel Parco Fluviale dell’Alcantara (si pronuncia Alcàntara, derivando dall’arabo Al Qantarah), nel tratto tra Messina e Catania e in particolare nel territorio compreso tra Motta Camastra e Castiglione di Sicilia. Il fiume nasce da alcune piccole sorgenti nei Monti Nebrodi, durante il suo percorso attraversa i campi coltivati alle pendici del Monte Mojo (il cono vulcanico più distante dalla sommità dell’Etna, con cui condivide il bacino magmatico), arrivando più avanti in località Fondaco Motta dove si trovano le gole dell’Alcantara. Le gole formano un canyon naturale con pareti alte fino a 30 metri e larghe dai due ai cinque metri ed è frutto di un processo lungo e complesso, in cui sono intervenuti dei movimenti tettonici, l’erosione del fiume e tre colate laviche importanti. Le pareti sono state formate da queste colate di lava basaltica che, raffreddandosi, hanno creato queste strutture dalle

forme prismatiche, che lasciano i visitatori senza fiato. Tra queste pareti ci sono 

le gole, il cui primo tratto è oggi accessibile e da dove è possibile ammirare 

tutto lo splendido scenario.


Questa è la storia della formazione di questo luogo unico, anche se molto più suggestiva è la leggenda che vi è dietro: vi erano due fratelli contadini di cui uno buono ma cieco, e uno avido. Al momento di dividere il raccolto di grano il contadino disonesto, approfittando della cecità del fratello, riempì tutto il proprio moggio dalla parte più profonda, mentre rivoltò quello del fratello in modo da contenere pochissimo grano. Gli dei se ne accorsero e in preda all’ira scagliarono un fulmine che uccise il contadino avido, trasformò il cumulo di grano nel cono di Monte Mojo e spaccò la terrà creando le gole di Alcantara. Il fiume, le gole e il territorio circostante sono oggi tutelate dall’Ente Parco Fluviale dell’Alcantara, impegnato della tutela e promozione del territorio naturale.

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 Foto di cristinamandarini da Pixabay

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GEMME DEL SUD di Redazione – Numero 18 – Settembre-Ottobre 2020

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GEMME DEL SUD

 

Mentre i nostri sostenitori, penne dallo spiccato senso benefico, arricchiscono le pagine di Myrrha con delizie intellettuali sempre apprezzate a questo progetto, la Redazione ha deciso di ampliare il proprio impegno con ‘Gemme del Sud’. Vogliamo innanzitutto accelerare il processo di moltiplicazione delle scoperte che gli amanti del Sud fanno di giorno in giorno.  Vogliamo anche riparare una memoria che, con gli anni, si fa meno efficiente nell’immagazzinare un così tanto complesso, multidisciplinare e dinamico forziere di incredibili beni.

Nessuna di essi sarà la gemma tra gemme. 


Non saranno tesori, perché quelli competono a quelle penne ispirate che le incastonano nella struttura -parimenti preziosa – che dà forma ai gioielli; saranno brevi e intensi ricordi di qualcosa che c’è e attende l’attenzione di coloro che vorranno esaminarle più approfonditamente.

 

Le Gemme, dunque, nascono dal desiderio di condividere la Bellezza, 

consapevoli che è sempre apprezzata dai tanti che ci seguono.  

 

Come i nostri dotti articoli, questa nuova esperienza editoriale racconta di memorie da far emergere, con un formato semplice e diretto, che aiuti tutti coloro che passano da luoghi dimenticati, o comunque non adeguatamente (ri)emersi, di lanciarsi in avventure inusuali. Il web infatti non è “solo” ricco, è “troppo” ricco. In questa moltitudine di informazioni “perdersi” è semplice. Le Gemme quindi

rappresenteranno dei puntini su una mappa che si arricchirà col tempo  

 

Un tempo che, come ormai sa chi ci legge, Myrrha considera in maniera opposta a ciò che si attenderebbe da un internet iper-veloce. Le Bellezze, infatti, meritano riflessione. E la riflessione non ha orario.

 

La Redazione. In collaborazione con Paola Ceretta, Martina Frattari, Claudia Pasapadoro, Antonella Raponi.

 

 

 

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PALERMO AL PROFUMO DI ROSE di Franca Minnucci – Speciale aglie fravaglie – Maggio – Luglio 2020

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PALERMO AL PROFUMO DI ROSE

 

il 18 maggio, e D’Annunzio firma dalle pagine de “La Tribuna“ un articolo dal titolo Piccolo Corriere. 

In quel servizio giornalistico il poeta abruzzese riporta, traducendo direttamente dalle pagine de “Le Figaro”, il viaggio che in quel momento Guy de Maupassant faceva in Sicilia e che lo scrittore raccontava sulla famosa testata francese. 

D’Annunzio conosceva Maupassant per essere discepolo amato di Flaubert, il più “gaulois” dei novellieri giovani, autore della Maison Tellier che aveva pubblicato per i tipi di Victor Harvard. Sapeva del nuovo romanzo, Bel Ami, che non era ancora giunto a Roma, ma la cui uscita lui aspettava trepidante.

 

Quello che più colpisce D’Annunzio è un racconto che Maupassant fa, 

visitando Palermo sulle orme di Wagner;

 

questo binomio, questo rincorrersi fra le vie di Palermo di così grandi personaggi non poteva sfuggire a D’Annunzio, che del musicista tedesco era follemente innamorato. Wagner era giunto in Sicilia nell’inverno del 1881, cagionevole di salute, era alla ricerca di climi dolci e mediterranei. Aveva fatto sosta prima in diverse città del Sud e si era fermato a Ravello sulla costiera amalfitana.

Era rimasto affascinato da Villa Rufolo,

 

che è all’interno di un grande parco, con resti imponenti di architettura arabo-normanna intelligentemente recuperati qualche anno prima con un avanguardistico restauro conservativo, e resi godibili dal nobile scozzese Francis Nevile Reid. Ancora oggi si respira il passaggio di Wagner in quei luoghi e ci sembra di vederlo, di incontrarlo, sentire ancora la sua presenza, le sue arie, le sue melodie nel festival di musica classica che vive di esecuzioni sinfoniche prevalentemente del compositore tedesco; e che ancora si tiene in quel luogo.

Wagner, ideando il Parsifal, è così suggestionato dagli ambienti del parco 

che colloca a Villa Rufolo il giardino dove si riuniscono 

i Puri Cavalieri custodi del Santo Graal,

 

immortalando per sempre quegli ambienti nell’opera! 

Dopo il soggiorno a Ravello, Wagner giunge a Palermo e viene ospitato per qualche periodo con la moglie, Cosima Liszt, e il figlio Siegfried al Grand Hotel delle Palme. 

E cosa racconta Maupassant? Di voler vedere l’appartamento occupato da Wagner in quell’albergo, da quell’uomo così geniale, perché «mi pareva», dice testualmente «che egli avesse dovuto metterci qualche cosa di suo e che io avrei sicuramente ritrovato in un oggetto da lui amato, una sedia, un tavolo qualunque cosa, qualunque segno potesse indicare il suo passaggio e la traccia di una sua mania, di una sua abitudine, insomma della sua vita. Allora in primo momento – dice Maupassant – io non vidi nulla, vidi soltanto un bell’appartamento d’albergo, elegante, poi mi indicarono invece i cambiamenti fatti da lui e cominciarono a mostrarmi, proprio in mezzo alla stanza, un posto che aveva un gran divano su cui egli accumulava i tappeti luminosi e ricamati d’oro.

Ma io a quel punto aprii l’armadio e un profumo dolce, possente, ne uscì. 

Come una carezza di un’aura che fosse passata sopra un campo di rose.


Allora il padrone dell’albergo che mi conduceva mi disse: “Sì, là dentro egli era solito chiudere la biancheria dopo averla impregnata di essenza di rose, l’odore non se ne è mai andato e non se andrà mai più.” Io respiravo quell’alito di fiori chiuso nel mobile, dimenticato, prigioniero, e mi pareva di ritrovare qualche cosa di Wagner, in quell’alito che egli amava, mi pareva di ritrovare un po’ dell’anima sua in quel nonnulla delle consuetudini care e segrete che formano la vita intima, quella più bella, quella più vera, di un uomo.»1 
 

Questo episodio legato ad un profumo, un evento così impalpabile, è di una forza espressiva, la più potente che si possa immaginare e mette insieme, fonde nello stesso momento, l’emozione di tutti. 

 

Un filo rosso che conduce da Wagner a Maupassant a d’Annunzio 

e che ha come teatro Palermo, 

 

come quinta il Grand Hotel siciliano noto a noi tutti, perché è stata una dimora di Wagner ma è stata anche una dimora importante nella vita e nel pensiero di Maupassant e di D’Annunzio Il poeta beve quel profumo, lo sente e lo sentirà per sempre come essenza della armonia, della bellezza della poesia e lo inseguirà tutta la vita in quel progetto del teatro en plain air. Un sensibile intellettuale come lui avverte da subito la grande potenza comunicativa e di rinnovamento del pensiero e del progetto wagneriano, quello di Bayreuth che sarà il sogno irrealizzato suo e di Eleonora Duse.

Wagner, nel suo soggiorno isolano, si innamora follemente dì Palermo, 

la città con i suoi colori, profumi, sapori gli entra nelle fibre, lo possiede, 

lo seduce e scioglie sempre più la sua ansia comunicativa 

e la sua ispirazione artistica.

 

La città che profuma di zagare e gelsomino, con i suoi mille giardini che la dipingono di verde e quel magico sole che gli fanno sempre ripetere: “Qui c’è soltanto primavera ed estate”. Fu molto ricambiato dai palermitani e amato dalle famiglie aristocratiche del tempo, i Lanza, i Mazzarino, i Tasca d’Almerita, che facevano a gara per ospitarlo nelle proprie residenze nobiliari, dove spesso egli si esibiva al pianoforte. Il soggiorno di Wagner in Sicilia era seguito da tutto il resto del mondo dove il grande musicista era conosciuto e amato.

 

Renoir si recò appositamente a Palermo per fargli il ritratto, il più noto fra tutti, 

quello che oggi si trova al  Musée  d’Orsay di Parigi.


Wagner finì di comporre il Parsifal il 13 gennaio 1882 e lasciò Palermo il 20 marzo successivo, con un concerto d’addio a Villa Tasca. Prima di congedarsi, fece omaggio, come ricordo, della bacchetta con la quale aveva diretto, per l’ultima volta, un piccolo
ensemble orchestrale nell’esecuzione della melodia “Tempo dei Porrazzi”, dedicata alla padrona di casa, donna Beatrice Tasca. Al suo ritorno in Francia, Guy de Maupassant aveva pubblicato un primo resoconto, ancora un po’ sommario, dei propri “vagabondaggi“. I racconti dei viaggi, nella versione definitiva, appariranno successivamente in tre volumi: Au Soleil (1884), Sur l’eau (1888) e La Vie Errante (1890). Quest’ultima in particolare contiene un brano notevolissimo, degno di divenire uno slogan per la Sicilia: è “La Sicile”, capitolo che narra il viaggio effettuato da Maupassant nella “perla del Mediterraneo” (la definizione è sua), quello della primavera del 1885 tradotto e pubblicato dal poeta pescarese, come abbiamo detto, nelle pagine della “Tribuna”.

 

Come gran parte dei viaggiatori stranieri, il narratore francese è attratto soprattutto 

dai monumenti antichi, che ai suoi occhi rendono l’isola mediterranea 

“un divino museo di architetture”. 

 

«La Sicilia – annota – ha avuto la fortuna d’essere stata posseduta, di volta in volta, da popoli fecondi, venuti ora dal nord ora dal sud, i quali hanno costellato il suo territorio d’opere infinitamente varie, in cui convergono, in modo seducente e inatteso, gl’influssi più distanti. Ne è nata un’arte speciale, sconosciuta altrove, in cui domina certo l’influenza araba, incalzata da ricordi greci e perfino egizi; in cui le severità dello stile gotico, introdotto dai Normanni, vengono mitigate dalla scienza mirabile della decorazione bizantina.»2

 

Con il ritmo e nei modi di un reportage, il narratore francese annota l’arte architettonica dei Greci di Sicilia, lo stupore della Cappella Palatina, “la meraviglia delle meraviglie” per la sua bellezza ”colorata e calma”, quel sublime miracolo di fusione di arte latina-bizantina-araba e di altri monumenti normanni.

 

Le suggestioni dell’area dello zolfo, la natura dell’Etna e di Lipari, il sole, i sapori, i colori della Conca d’Oro. Rimane sedotto, prima ancora di vederla, dalla Venere Landolina di Siracusa, la Venere Anadiomene che aveva “incontrato” per caso in un catalogo. «Nell’album di un viaggiatore avevo visto la fotografia di questa sublime femmina di marmo e me ne ero innamorato come ci si innamora di una donna. Fu forse per lei che mi decisi a intraprendere questo viaggio; di lei sognavo e parlavo in ogni istante, prima ancora di averla vista!» La sua visione lo turberà e lo ammalierà fino a fargli scrivere: «La Venere di Siracusa è una donna ed è anche il simbolo della carne (…) non ha testa che importa? E’ un corpo di donna che esprime tutta l’autentica poesia della carezza (…) la donna che nasconde e rivela l’incredibile mistero della vita.»3 Dinanzi a lei resta estasiato e attratto dalla carnalità di quel corpo sensuale e morbido e a lei dedica le pagine più intense del diario.  

Al di là di ogni sdolcinato sentimentalismo,

 

il diario di Guy de Maupassant, è uno dei più alti inni alla Sicilia di tutti i tempi.

 

Questo racconto – resoconto segna forse il contatto più sensuale che mai un narratore abbia avuto con una terra, una città. L’episodio dell’albergo delle Palme fa riferimento ad un raro modello estetico di fusione emotiva e sensoriale .Quel profumo unisce tre grandi della letteratura ed è artefice di una strana alchimia e di impalpabili vibrazioni. Si è tradotto in note, in armonie, in parole se è vero, come dice Friedrich Nietzsche, che ogni parola, ogni suono ha il suo odore e che c’è un’armonia e disarmonia degli odori ed anche dei suoni e delle parole. Il Profumo annidato e nascosto nei recessi delle loro anime è riemerso come emozione pura, come suggestione, turbamento, eccitazione e questo patrimonio unico, eccezionale rende omaggio e lode alla storia e alla vita di un paese, di una città: a quella fantastica Palermo profumata di rose che già i Punici avevano chiamata “Ziz”, e cioè fiore.

 

 

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1 – Gabriele d’Annunzio, “scritti giornalistici 1882-1888”, Milano, Mondadori Editore, 1996, p. 335 

2 – Guy de Maupassant, La Sicilia , Palermo, Sellerio,1990.p.128 

3 – Guy de Maupassant, op. cit., p. 247

 

LA SOCIETÀ OPERAIA DI AVIGLIANO di Francesco Antonio Genovese – Speciale aglie fravaglie – Maggio-Luglio-2020

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LA SOCIETà OPERAIA        DI AVIGLIANO

 

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è costituito dallo spopolamento dei piccoli borghi dell’Appennino: uno sciame virale per coloro che restano, privati dalle difese immunitarie della socialità, delle competenze che si disperdono, del frutto di risorse investite che si godono altrove.

C’è persino chi, di questo silenzio che si è formato in luoghi dove un tempo era del tutto inimmaginabile (perché fu, piuttosto, il trambusto la cifra della vita che vi scorreva, per lo sbocco di famiglie numerose e di sciami di giovani, in cerca di una collocazione in qualche angolo, prima che del mondo, di quelle stesse località) ne ha fatto oggetto di una poetica che riesce davvero difficile da seguire. È nato perciò un più robusto movimento di pensiero che, utilizzando tecnologie di rapida connessione, si propone di ragionare sulla Civiltà dell’Appennino2, che è ovviamente un modo per

recuperare tutto l’osso, ossia quella linea di società, economia e cultura 

che un tempo costituiva la tensostruttura del Paese,


dalla punta della Calabria fino alle Cinque Terre liguri, per quanto soggetta a scosse di ogni genere. 

 

Faccio questa premessa sol perché mi interessa mostrare come nei borghi appenninici dell’Italia meridionale ci siano forze che tengono ancora viva la civiltà della dorsale, nei modi più diversi e, per certi versi, anche inimmaginabili a chi sia immerso nella quotidianità cittadina o dei luoghi frequentati. 

 

Ad Avigliano, in Basilicata, un agglomerato che si muove lungo creste variabili dai circa 700 mt di altitudine della parte valliva, che lo lega a Ruoti, e poi sale in direzione del gruppo montuoso del Monte Caruso, via via, fino a raggiungere i circa 950 mt delle ultime abitazioni urbane che, in cemento armato, si sono aggrappate ai punti più panoramici fronteggianti il Monte Li Foj di Picerno e, più in là ancora, verso est, la piccola – ma suggestiva – catena degli Alburni, la porta verso la Campania (ma, si ricorderà, ancora compresa nel recinto romano dell’antica Regione Lucana)3,

una vecchia istituzione associativa resiste, adottando forme social
di comunicazione con i propri iscritti e con la comunità locale in genere.
È la Società operaia di mutuo soccorso, nata nel 1874


«per volontà di un gruppo di 52 cittadini, appartenenti alle diverse classi sociali del Centro urbano di uno dei più popolosi comuni della regione, abitato in prevalenza da operai, artigiani e piccoli commercianti»4

 

In tempi risalenti cercò di sostenere anche le attività economiche dei soci e di aiutarli in momenti di particolari difficoltà (Nel corso della Grande Guerra, ad esempio, distribuì alle famiglie dei soci e della comunità ben 1.700 q.li di grano e di fiore di farina, a prezzo calmierato), come ha dimostrato uno scritto storico ricostruttivo di Gennaro Claps (storico e critico letterario nonché, a suo tempo, anche sindaco della città), la cui copertina mostra uno scorcio assai risalente di quella che sarebbe diventata la sede della biblioteca dell’associazione.

La vitalità del sodalizio è però dimostrata dal fatto che Essa ha saputo mutare 

con il passare dei tempi, adeguandosi (in modi più o meno tempestivi, certo) 

alle necessità del contesto urbano mutato. 


Sulla base delle donazioni (e dei contributi) di alcuni cittadini benemeriti, ha saputo costituire una biblioteca storica (intitolata al giurista e scrittore “Tommaso Claps”, personaggio vicino a Giustino Fortunato) con oltre 10 mila volumi, tra cui alcune cinquecentine e seicentine, ordinati e custoditi in una sala collegata con i locali storici del sodalizio, con scaffalature protette da vetrine, che si apre – attraverso porte e finestre – sulla piazza Gianturco, offrendo uno scorcio sul catino del centro storico, da dove emergono, fra le case in pietra scalpellinata, anche i picchi montuosi circostanti. 

 

La sala è il luogo suggestivo di affollate conferenze, assemblee, convegni.

È anche il luogo per la lettura di 5 quotidiani e di molte riviste; 

per l’utilizzo di varie postazioni informatiche dell’Internet Social Point

per la fruizione del WIFI-Free all’interno della sede sociale.


Ma l’associazione ha avuto un importante ruolo assumendosi l’impegno, che tuttora tiene vivo, quello di dare un premio al merito scolastico agli alunni delle scuole dell’obbligo (poi esteso anche oltre quelle, con una innovazione degli ultimi decenni) donando (assieme a un attestato di studio profittevole) soprattutto un libro di narratori (più o meno famosi) a ciascun premiato. Quel libro che, con puntualità annuale, ha saputo iniziare tanti ragazzi alla lettura e alla curiosità dell’esplorazione bibliografica e, per molti, anche a favorire l’incontro con il Mondo. 

Non si può immaginare quanto, una piccola provvidenza come questa, 

abbia potuto spingere tante generazioni di giovani 

a trovarsi un posto nel Mondo.


In altri locali del sodalizio ci sono ancora vecchi soci che si raggruppano attorno ai tavoli delle carte o che seguono qualche evento televisivo (quelle stesse sale che un tempo, ormai molto lontano, si affollavano la sera della quasi totalità dei soci che non possedevano il televisore – a cui aveva però pensato il sodalizio – e che si stupivano guardando immagini di un Mondo, ancora poco conosciuto). 

 

 

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1 – Manlio Rossi Doria, La polpa e l’osso. Agricoltura risorse naturali e ambiente, Napoli, 2005.  

2 – Raffaele Nigro – Giuseppe Lupo, Civiltà Appennino, Roma, 2020.  

3 – «Dal Sele parte la III regione e comincia il territorio di Lucania e Bruzio […].» (Plinio il Vecchio, Naturalis Historia).

4 – L’intervista ad Andrea Genovese, presidente della SOMS di Avigliano, è raggiungibile con il link: http://www.aviglianonline.eu/news_dettaglio.asp?idto=2788.

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IL SANTUARIO DEL FULMINE SEPOLTO di Gianluca Anglana – Speciale aglie fravaglie – Maggio-Luglio 2020

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IL SANTUARIO DEL FULMINE SEPOLTO

 

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Potrebbe essere il titolo di un ultimo episodio della saga dell’archeologo-eroe da suggerire a Spielberg. E da ambientare unicamente in Italia. Sì perché, tra i suoi tesori, il Belpaese annovera anche le cosiddette tombe delle folgori. 

 

Nell’agosto di dieci anni fa, a Todi, in Umbria, si fece una scoperta: durante i lavori per la realizzazione di un parco venne alla luce un fulgur conditum, ovvero la tomba di un fulmine. Questo rituale, tipicamente italico, aveva lo scopo di espiare un luogo che era stato colpito da una folgore e consisteva nel sotterramento degli oggetti che ne erano stati distrutti: poiché si riteneva che la caduta di una saetta sulla terra fosse espressione dell’ira divina, l’area veniva recintata e consacrata, al fine di preservare il fuoco celeste. L’azione era quella del condere fulminem: lugubri sacerdoti italici sussurravano litanie, masticavano preghiere e

trasformavano un luogo da profanus in religiosus,

 

eventualmente inumandovi anche i resti del disgraziato che, nei casi di fulmini killer, avesse avuto la iella di trovarsi lì nel momento sbagliato. Il rito era collegato alla liturgia etrusca dei libri fulgurales.  

 

Secondo la Soprintendenza per i beni archeologici dell’Umbria, “la scoperta riveste un particolare interesse poiché rari sono gli esempi relativi a questo rituale”1. Uno di essi si trova nell’area monumentale di Pietrabbondante, a quasi mille metri d’altezza.  

 

All’interno del sepolcro del fulmine è stata ritrovata una statuetta: priva della testa e del braccio sinistro, rappresenta una divinità maschile seduta su un trono. È un oggetto d’arte italica che riproduce fattezze umane, stilizzandole senza alcun intento di imitazione naturalistica2.

Siamo in quello che fu il territorio dei Sanniti Pentri, 

genti aspre, indomite e molto bellicose:

 

prima di sottometterle ed assicurarsi l’egemonia sull’Italia peninsulare, Roma dovette inghiottire una lunga serie di conflitti e persino l’umiliazione delle Forche Caudine. Proprio qui, alle pendici del Monte Caraceno, i Pentri realizzarono un’area sacra, dove si conserva quasi solo il ricordo e praticamente nessuna traccia tangibile di un tempio ionico: fu infatti distrutto nel 217 a.C. dalle truppe di Annibale, quando sostarono in territorio sannitico durante la campagna d’Italia.  

 

Nel II secolo a.C., mentre una pace provvisoria consentiva all’economia delle popolazioni indigene di ripartire, si eresse una nuova area sacra: il ‘Santuario Italico’, il fulcro della Nazione Sannita che oggi si può ammirare.

 

La fortuna di questo luogo gli deriva anche dalla bellezza 

del panorama circostante: quello del Molise più autentico.

 

L’altura domina la valle del fiume Trigno e una terra selvaggia che pare infinita, nell’alternanza tra declivi dolci e rocce impervie, cifra costante della dorsale appenninica. Visioni da Enjoy the silence

Il sito è un inesauribile bacino di aggiornamenti scientifici: le risultanze archeologiche hanno spinto gli storici a rivedere alcune informazioni in merito ai Sanniti, la cui organizzazione statuale faceva perno più sulla appartenenza etnico-tribale che sugli ingranaggi costituzionali delle città-stato

 

L’attività di scavo continua a restituire informazioni.

 

Risale allo scorso mese di agosto, il rinvenimento, nell’area più antica del campo archeologico ovvero quella orientale, di un piccolo tempio di sei metri per sei, privo di podio, con pareti in muratura innalzate su uno zoccolo di pietra da taglio e cella unica quasi quadrata. La sua realizzazione fu sospesa poco dopo l’inizio dei lavori, probabilmente a causa della deflagrazione della guerra sociale. In base ai ritrovamenti, sembra plausibile che il manufatto fosse pensato per una divinità femminile3.

Ci sono voluti secoli, letteralmente, per riportare alla luce questo complesso

 

(in parte ad oggi sepolto), articolato in vari edifici tra i quali una domus publica4tabernae e portici. Sopra tutti domina il teatro-tempio sannitico. 

Il teatro, totalmente realizzato in pietra ed a staffa di cavallo, mutua dalle vicine città della Magna Grecia stilemi architettonici ellenizzanti. È un emiciclo. 

Sembra un parlamentino: se n’è affermata la funzione non soltanto sacra, ma anche politica5 e di rappresentanza per lo stato sannitico nella sua interezza, come farebbe ipotizzare la presenza, sui lati dell’ima cavea, di due figure speculari di Atlante in atto di sorreggere il globo. La gradinata dispone di sedili anatomici ed ergonomici, perché provvisti di una seduta confortevole atta ad accomodare il tratto lombare della schiena, i braccioli scolpiti in forma di zampe di grifo.  

 

Qui si svolgevano i ludi, celebrazioni connesse a ricorrenze religiose. Qui si riunivano i magistrati per prendere decisioni e si ricevevano i dignitari stranieri.

L’unicità di questo luogo è data dallo stretto dialogo urbanistico 

tra il teatro e il tempio: si stima che quest’ultimo 

sia il massimo edificio sannitico esistente.

 

Si ergeva su un podio, sulla cui muratura è tuttora visibile un’iscrizione in lingua osca (idioma che procede da destra verso sinistra)6, e si caratterizzava per la presenza di tre celle dedicate ad altrettante divinità. 

I Sanniti avevano una religione politeista, progressivamente arricchitasi anche di culti di matrice militare (Victoria) e civile (Honos) ed orientati alla venerazione della fertilità cioè della dea Ops Consiva, colei che i Romani conoscevano come Abudantia. Quello della fertilità è un tema ricorrente nelle comunità del Sannio, dedite all’agricoltura e alla pastorizia:

 

la Tavola Osca, risalente al III secolo a.C., ritrovata a metà ottocento poco lontano 

da Pietrabbondante, nei pressi di Agnone, ed oggi conservata 

al British Museum, è il Pantheon agreste dei Sanniti.

 

Si tratta di un documento eccezionale poiché fornisce informazioni preziose sulla fede nel Sannio, anche attraverso un elenco di divinità. 

Quella più importante è certamente Kerres, la grande Madre, la Terra dispensatrice di messi e quindi di vita. C’è lei in cima alla lista delle divinità di maggior riguardo, lei era quella da tenersi buona, e pazienza per il povero Díuveí Regaturei, il Signore delle piogge, versione annacquata del Giove Pluvio dei Latini, sistemato a metà processione, nella sezione inferiore di questa hit parade olimpica. Chi può dire se, proprio per questo sgarbo, Egli si fosse adirato decidendo così di scagliare sulla terra e sulla colpevole distrazione degli umani una delle sue saette, che poi solleciti sacerdoti si precipitarono a seppellire7

 

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1 – Cfr.: https://roma.repubblica.it/cronaca/2010/08/09/foto/fulgur_conditum-6175330/1/.  

2 – Cfr. Rapporto Preliminare – Scavi Archeologici dell’anno 2010, di Adriano La Regina e Luigi Scaroina con la collaborazione di Fabiana Carlomagno e di Rachel Van Dusen, 04/12/2010.

3 – A questa notizia la stampa locale ha dato vasta eco. V. in proposito: www.molisenews24.it oppure www.primopianomolise.it.  

4 – Primo esempio di domus publica documentata nella sua consistenza architettonica di età tardo repubblicana (v. Rapporto Preliminare – Scavi Archeologici dell’anno 2010, di Adriano La Regina e Luigi Scaroina con la collaborazione di Fabiana Carlomagno e di Rachel Van Dusen, 04/12/2010).  

5 – L’insediamento antico di Pietrabbondante acquista connotazioni ancora più precise in seguito al suo riconoscimento, da più parti proposto, con il sito antico di Cominium (Liv., X, 43, 5-7)· Tale toponimo (variamente attestato in ambiente italico) deriva dal nome che indica il comitium: la tipologia del teatro-tempio si collega appunto a quella dei comitia. Il questo caso in P. si potrebbe riconoscere proprio il luogo nel quale i Pentri convocavano i propri comitia (Enciclopedia dell’Arte Antica, 1996, su www.treccani.it).  

6 – È riportato il nome di un certo Stazio Claro, forse finanziatore di una parte della costruzione templare.

7 – Si precisa che quello di cui si parla è il Tempio B, mentre la tomba del fulmine è nelle adiacenze del Tempio A (di minori dimensioni).

 

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LE REALI FERRIERE DI MONGIANA di Stefania Conti – Speciale aglie fravaglie – Maggio-Luglio 2020

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LE REALI  FERRIERE    DI MONGIANA

 

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è una paese di poco più di 700 abitanti. Piccolo, case basse, squadrate e immerse in un mare verde di faggi e abeti bianchi: le Serre regionali del Vibonese.

Questo piccolo centro ha un interessante museo, il Museo delle Reali Ferriere Borboniche. Installazioni digitali interattive che sviluppano come un racconto la “Vicenda Mongiana”. Restaurata nel 2013, l’antica fabbrica d’armi, mostra tutto il processo dall’ estrazione del ferro, alla forza motrice.  

 

E poi, carbone, viabilità, tecnologie e produzioni, condizione operaia.

 

A poca distanza sorgono i resti del complesso, una enclave 

di archeologia industriale in mezzo ai boschi.

 

Al momento non sono visitabili, ma si sta procedendo alla loro ristrutturazione. L’auspicio è che il sito si possa aprire al pubblico al più presto perché degno di essere visitato anche per l’originale forma architettonica e per la storia della zona in cui sorge visto che etruschi, greci, romani, bizantini e normanni, prima dei Borbone, vi estraevano i minerali per la costruzione di utensili e di armi. 

 

Tanto interesse per un paese così piccolo ha una spiegazione. Semplice e triste. Mongiana è stato un esempio di industrializzazione nel Sud, voluto dai Borbone, con una produzione di alta qualità, grande quantità, un avanzatissimo progetto sociale e – diremmo oggi – un buona politica ambientalistica (al Nord allora tutto questo non era nemmeno concepito e concepibile). Un progetto di eccellenza ucciso dall’Unità d’Italia. 

 

La confluenza di due fiumi – il Ninfo e l’Allaro – la presenza di legno pregiato, la ricchezza di minerali ferrosi disponibili, facevano della zona di

Mongiana il luogo ideale per un impianto di base per la produzione 

di materiali e semilavorati ferrosi (rifiniti sia in loco, 

che presso il polo siderurgico di Pietrarsa).


Fu così che tra il 1770 e 1771 nacquero le Reali Ferriere e Officine Borboniche, con miniere e fabbriche che rifornirono tutta l’Europa. Un luogo capace di attrarre forza lavoro con maestranze altamente specializzate. Mongiana arrivò ad impiegare 1.500 operai, con l’indotto oltre 2.000. In alcuni periodi addirittura 2.550-2.800. 

 

Mongiana sorse in soli due anni grazie all’opera infaticabile e alla mano esperta dell’l’architetto e urbanista Mario Goffredo. Insieme con gli stabilimenti, entrati subito in produzione, sorsero rapidamente anche abitazioni di maestranze e  un moderno villaggio al polo collegato.

Con lungimiranza sorprendente ed encomiabile Ferdinando IV dispose che il taglio degli alberi necessari alla costruzione degli insediamenti abitativi 

ed industriali avvenisse in modo razionale e controllato.

In pratica si attuò un sistema di taglio a rotazione che consenti la conservazione, la riproduzione e la tutela del vasto patrimonio boschivo della regione interessata dai lavori. Una lungimiranza che oggi chiameremmo ambientalista, ma che, soprattutto, viene rarissimamente osservata dalle aziende dei nostri tempi. Così come lungimirante era la politica verso gli operai: quelli in miniera lavoravano 8 ore, quelli in fonderia 10. Niente lavoro dei bambini o delle donne.

Nel resto d’Europa erano ben lontani dal consentire, in quei tempi, 

ritmi analoghi, che, per l’epoca, potremmo definire 

quasi a misura d’uomo.


Ce lo racconta Vincenzo Falcone nel suo libro “ Le Ferriere di Mongiana, un’occasione mancata”. 

 

Che cosa usciva dalle Ferriere? Di tutto: campane, ruote di ferro, chiavi, argani, armi di ogni genere, leggere e pesanti, rotaie.

Da Mongiana provenivano i binari della prima ferrovia italiana: la Napoli Portici.

E si collezionavano primati, nella realizzazione di forni e di macchine industriali ed agricole, all’avanguardia per gli standard dell’epoca, sia in Italia sia all’estero. 

 

Con l’arrivo dei francesi le cose andarono ancora meglio. Con Gioacchino Murat, nel 1814 furono incrementate le produzioni ferriere, tanto da far crescere ancor di più il villaggio. 

 

Ma tutto precipita con l’arrivo dei Savoia.

Alla caduta del Regno e con il suo inserimento nello Stato Italiano 

fu progressivamente diminuita la produzione


privilegiando le industrie del Nord Italia. Si puntò tutto su Terni, con la scusa che era più difendibile da eventuali attacchi nemici (Mongiana era abbastanza vicino al mare: le merci venivano portate a Pizzo calabro e da lì per nave a Napoli). Ai mongianesi non restò altro che emigrare. 

 

Chi restò si ribellò ai nuovi padroni. Subito dopo l’annessione al Piemonte, sommosse e rivolte popolari si moltiplicarono.

Le donne, mogli, madri, sorelle, scesero in piazza con gli operai delle Ferriere


inalberando la bandiera bianca con i gigli e destando lo stupore degli ufficiali al comando delle truppe sabaude chiamate a sedare le sommosse. Per loro, l’annessione, significò soprattutto la perdita di un lavoro o di un reddito sicuro. Nel 1875 la ferriera passò definitivamente di mano, acquistata dall’ex garibaldino Achille Fazzari, divenuto deputato del Regno Sabaudo. Fazzari la chiuse dopo soli sei anni, dopo aver sfruttato le residue risorse e venduto le giacenze. Finì in questa luce opaca il più grande polo siderurgico della penisola.

 

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 Foto gentilmente concesse dal Sindaco di Mongiana Arch. Francesco Angiletta

 

ACQUA MADRE DI UNA SARDEGNA INESPLORATA di Giovanna Mulas – Speciale aglie fravaglie – maggio-Luglio-2020

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ACQUA MADRE DI UNA SARDEGNA INESPLORATA

 

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Ci pensavo, già lavorando a questo pezzo, anche il giorno in cui ebbi un interessante scambio di opinioni con un amico fraterno.

 

Mi si parlò del geronticidio che, anticamente, i figli praticavano 

verso i padri settantenni in quella Barbagia
che è autentico 
cuore della Sardegna;

 

eutanasia primaria che, a mio parere, getta le basi della più civile accabadura di cui faccio cenno nel mio Bruja e Accabadora: in Sardegna l’origine del mito? (Myrrha numero 1, luglio 2015). Pratica che riporta alla greca Sparta di cui, in Sardegna, sono storicamente indubbie le influenze. Il vecchio capoclan o il disabile, comunque colui/colei non autosufficiente, pertanto di peso nei confronti della propria comunità, veniva caricato sulle spalle di un figlio o di una persona particolarmente amata e trascinato per uno stretto, lungo sentiero che, ad oggi, è possibile valicare se la clemenza della stagione lo permette, tra rocce impervie e strapiombi che fanno corona ai paesi di Jerzu e Gairo (Nuoro). Il cammino, autentico rito iniziatico, sarebbe durato giorni; il portatore poteva fermarsi soltanto per dissetarsi in fonti stabilite e ritenute sacre, oggi se ne contano tre. Anche al povero derelitto era concesso bere prima di morire: l’avrebbe fatto utilizzando lo stesso contenitore del portatore, e la stessa acqua. L’anziano avrebbe bevuto per primo. Lungo il cammino, il portato raccontava l’intera sua vita a chi l’avrebbe sostituito: se figlio, il futuro re doveva essere in grado di comprovare un primo, attendibile atto di coraggio, gettando l’amato padre dal dirupo, e senza piangerlo.   

 

Il vecchio, mentre il figlio camminava lento, impedito ma fiero, si guardava attorno per l’ultima volta e forse piangeva ciò che era stato, o forse no; forse dignitoso e muto stava, nonostante l’impedimento di età o malattia

fiero di quel figlio così forte, sangue del suo sangue suo respiro senza lamento, 

che ora nell’ultimo viaggio doveva trovare (avere) il coraggio di accompagnarlo 

fino alla cima del sentiero e allo strapiombo e accabare totu: finire tutto.  


Come suo padre prima, e prima suo nonno, e prima di ogni tempo conosciuto dall’uomo; come prima avevano fatto. 

Lo vedo parlare il vecchio, mentre il figlio lo trascina. Parla, forse gesticola stanco, mugugna dei tempi passati e di ciò che sarebbe stato, forse o forse no, e venuto. O forse no. Parla di ciò che non ha detto mai, ma che ora trova risposta. E ogni fonte che spilla dalla roccia grezza, ai lati del sentiero, antica ed eterna quanto il Re spossato, è per i due momento di pausa, di ulteriore riflessione.

 

È bere l’acqua (tornare all’acqua), e contemporaneamente 

battezzarsi al proprio destino, 

 

abbandonarsi allo stesso senza combattere, in accettazione ora che, in quell’età, non più rabbia e passione tengono le membra all’erta, ma consapevolezza.  

Ed ecco che si arrivava alla fine dello strapiombo, alla punta, alla cima frastagliata. Il sentiero finiva e il Grande Padre, l’Aquila Ardente, volgeva l’ultimo sguardo al figlio. Pregava il futuro Re, se di carne e sangue e coraggio vero era fatto, gli stessi suoi, di buttarlo di sotto. Accabaeminci, finiscimi. E l’Aquila, al momento del volo, forse gridava. Ma sono certa di no.   

 

Invito il Lettore a porre particolare attenzione, in questo racconto trasmessomi dagli anziani del luogo e che fonde fantasia con realtà, ai dettagli legati all’elemento acqua.

 

Bere dalla stessa fonte che la Terra Madre partorisce, ovvero dalla Natura 

che ci ha partoriti, entrambi, dallo stesso contenitore: 

feto che ci pasce, e sostiene. 


Condividere con chi ci ha amato fino all’ultimo giorno della sua vita (il presente) la purezza d’intento, la verità, una nuova nascita per entrambi. In Sardegna il brindisi più popolare si pronuncia, da sempre, in occasioni da imprimere nella memoria, e soltanto coi più cari:
“A chent’annos cun saludi e trigu”. Sarebbe un “che ci si possa ritrovare qui tra cento anni con salute e fertilità, amore, con la stessa trasparenza e l’affetto dell’oggi”.  

I due e non più di due che principiano una via che condurrà, in un modo o nell’altro, ad una evoluzione–annullamento del portato, maturazione del portatore – li vedo attraversare una montagna che ci rappresenta, quella Torre di Babele ch’è la vita stessa, un “lasciate ogni speranza, o Voi ch’entrate” e, se entrate, proseguite fino alla cima: questo è il vostro compito.

 

Dunque camminare, tra gli ostacoli posti dal destino e i momentanei riposi 

nelle fonti, fino all’altezza di un dio: 

 

quello Spirito che accoglie, svegliando, il dormiente. Simbolicamente, i due viaggiatori mi sono uno: androgino ermetico da sempre delineato iconograficamente sotto la forma di creatura umana bisessuale, Rebis che nasce dall’unione tra il sole e la luna o, in termini alchemici, tra zolfo sofico e mercurio sofico. In Sardegna, un chiaro esempio di utilizzo in epoca contemporanea del termine “androgino” è possibile notarlo in riferimento a Su Componidori della Sartiglia di Oristano. La natura androgina è marcata in relazione a maschera, abiti ed accessori, per le peculiarità del rito di cui si rende protagonista.  

Dualità del e nell’uomo, quei Bene e Male in ognuno di noi?

 

Rivediamo i nostri viaggiatori, lì a seguire il sentiero attorno alla montagna 

 

L’attraversavano rasentando gli strapiombi, zigzagando in salita, il più debole fisicamente e più saggio –ché già preparato ad affrontare la morte o cambiamento – sulle spalle del giovane. In diverse leggende dell’isola vengono descritti spiriti inquieti che infestano chiese campestri sconsacrate, erette accanto a corsi d’acqua.   

 

Queste anime inquiete, apparentemente uomini e donne normali, sembra abbiano la lieta abitudine di danzare a cerchio e cantare festosamente ad ogni tramontare del sole e fino all’alba. Ad ogni nuovo giro si dissetano passandosi, l’uno con l’altro, una croccoriga: una zucca svuotata e ben scavata, utilizzata a mo’ di contenitore per l’acqua.

Se un vivo capita nei paraggi, viene attirato dalla festa all’interno della chiesa 

e invitato ad unirsi, ad entrare nel cerchio, quindi a bere

 

Si narra che tanto grande sia la festa dei morti, e così rinfrescante la loro acqua, che il passante dimentichi la realtà per unirsi a loro. E’ in quel momento che i morti lo trattengono all’interno del loro cerchio: il disgraziato si ritrova a dover girare a vuoto per l’eternità. Solo un soffio di vento divino, mi raccontano, potrebbe distrarre le anime inquiete per lasciar fuggire il vivo dal cerchio; ma uno degli spiriti gli salirebbe in groppa non visto – soltanto sentito dalla vittima – permettendogli di ritornare sì tra i vivi, ma condannato a caricare, e fino alla fine dei suoi giorni, la morte sulla schiena.

 

In questo momento di resistenza dura per il mondo tutto, clausura forzata e dovuta, riflettevo una volta in più sui viaggi di Magister Gregorius e Goethe.

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UN PAESE LA SCUOLA LA MERICA Parte I di Tommaso Russo – Speciale aglie fravaglie – Maggio-Luglio – 2020

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UN PAESE, LA SCUOLA, LA MERICA 

 

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raccontano che in quel decennio, per effetto di un lungo e lento processo di crescita, Avigliano era diventato un importante paese in provincia di Potenza.  

Contava 19.010 abitanti nel 1881, scesi a 18.841 nel 1901. Quello scarto di 169 abitanti non riuscì a compromettere la trama del suo territorio.

 

La campagna estesa ed ampia con più di ottante frazioni, con la sua economia degli orti e della pastorizia, con quella del seminativo e dei boschi, apparteneva a un principe, venuto da Genova, di nome Doria-Pamphili.

 

Egli ne aveva concessa molta parte a grandi affittuari borghesi e a piccoli contadini. Questi ultimi che mal sopportavano la burbanza feudale per difendere la loro dignità spesso lo trascinavano in giudizio oppure scioperavano. Per fortuna che quando finivano in tribunale erano difesi gratuitamente da avvocati socialisti o liberal massoni.

Il centro del paese aveva tutt’altre caratteristiche. C’era la pretura, 

in cui bene o male, si amministrava la giustizia.


Dai paesi vicini e dalle campagne vi accorrevano avvocati, imputati, testimoni, familiari. Paesani e forestieri con la loro presenza animavano una fitta rete di negozi, di forni, caffè, osterie, trattorie, alberghetti. 

 

Nelle strade cittadine avevano bottega orafi, sarti, calzolai, falegnami, figulai, bottai, maniscalchi. Nelle loro forge essi ferravano zoccoli per cavalli, per asini e muli, predisponevano ruote per carri, carrozze e carriole e per tutto ciò che potesse servire a spostare uomini, donne, famiglie e merci. Famose poi erano quelle botteghe in cui si fabbricavano e si vendevano coltelli a scatto con manici finemente intarsiati e lame affilate e luccicanti. Questo particolare artigianato aveva alimentato la leggenda che gli aviglianesi fossero uomini seri, onesti ma bravi di mano e veloci di coltello quando qualcuno veniva meno alla parola data.

A vivacizzare il paese provvedevano pure vari sodalizi, quello di mutuo soccorso, quello di previdenza e lavoro; poi la società agricola e quella di tiro a segno. 

 

Avvocati, medici, dottori fisici, farmacisti, maestri, e poi braccianti, contadini, scalpellini, muratori, operai, erano iscritti e tutti impegnati in azioni di solidarietà, di mutualismo e cura.

 

Don Giustino Fortunato, grande intellettuale e meridionalista, 

le volte che veniva colto da un qualche attacco di ipocondrìa 

era solito vedere nero. E in genere non sbagliava. 

Così, quando in Basilicata, negli anni Ottanta dell’Ottocento, si trovò di fronte a una opaca rete di banche popolari, di cooperative di credito, tuonò contro di esse dicendo che la misura era colma e che presto a quel carnevale bancario sarebbe sopraggiunta la quaresima. E così fu. Naturalmente Avigliano non sfuggì alla punizione divina. Era successo che ricchi borghesi pur di improvvisarsi banchieri, avevano chiesto prestiti al Banco di Napoli e li avevano garantiti ipotecando i loro beni immobili e fondiari. Così quando il tribunale dichiarò il fallimento della banca aviglianese, l’istituto di Via Toledo ne incamerò i beni. Su di essi, e sugli altri pervenuti in possesso del Banco per gli stessi motivi, vigilava attento e severo Nicola Miraglia, valente uomo della Terza Italia e meridionale di Lauria, che giustamente e a certe condizioni voleva immettere quote di quel patrimonio sul mercato per movimentarlo.

 

Fiore all’occhiello e vanto di Avigliano era il suo sistema scolastico.

 

L’istruzione domestica impartita da eruditi locali o da preti, quella funzionante nel convento e quella che si svolgeva nella scuola pubblica costituivano i pilastri di un solido edificio dove ogni mattina entravano frotte di bambini e bambine. Era il tesoro vivente del paese. I genitori avevano investito molto sul successo scolastico dei loro figli, così pure avevano fatto l’amministrazione locale e i nuclei borghesi che la governavano. Un caso raro in cui nessuna di quelle tre componenti aveva pensato che l’istruzione producesse spostati di capa, ma tutti ritenevano che da quell’edificio potessero uscire solo teste ben fatte come desiderava un filosofo francese Michel de Montaigne. 

 

Ad Avigliano Gioacchino Murat, nel 1809, aveva voluto istituire il Real Collegio, un istituto pubblico per la formazione della classe dirigente regionale, ma aveva ordinato anche l’apertura delle scuole primarie maschili e femminili. La frequenza era gratuita ed il reclutamento delle maestre e dei maestri era in capo al Comune. Iniziava così il lungo, lento e difficile cammino della laicità della scuola elementare.

 

 Nel 1851 Ferdinando II di Borbone volle aprire un ospizio-convitto 

per trovatelli, orfani e per i figli di molti padri e di una sola madre. 

Re-Bomba volle che fosse consacrato 

alla Madonna della Pace. 

E così fu. 

Col passare dei decenni quel convitto diventò una bella istituzione educativa e formativa con tanti ragazzi bravi ed anche altri che diventarono importanti. In più il collegio mise in piedi una banda musicale che allietava le iniziative pubbliche delle società e dei sodalizi aviglianesi e le funzioni religiose. 

 

Negli anni ‘70 dell’Ottocento gli amministratori comunali tentarono di aprire un ginnasio comunale ma le numerose difficoltà prima di tutto quelle economiche ne impedirono la partenza. 

 

Dalla Scuola di Arti e Mestieri uscirono validi artigiani, orafi, falegnami, ebanisti, intarsiatori, sarti che poi andavano a Napoli a perfezionarsi in altre istituzioni pubbliche o private, fare ritorno al paese oppure emigrare. L’aviglianese Emanuele Gianturco, deputato a volte moderato, più spesso reazionario, l’aveva presa sotto la sua protezione per cui, a quella Scuola, arrivavano libri, calchi in gesso, materiale didattico e di laboratorio, abbonamenti a riviste specializzate. Supporti di tutto rispetto per stare aggiornati e al passo con i tempi. Nelle sue aule studiarono e si addestrarono fianco a fianco ragazzi di Avigliano e ospiti dell’ospizio-convitto offrendo un bell’esempio di integrazione, di reciproco apprendimento e di tolleranza.

 

Mentre ancora tuonava il cannone nelle campagne tra Turbigo, Boffalora s/Ticino 

e Magenta, in quel giugno del 1859, e i feriti facevano ritorno nelle retrovie 

come li dipingeva Giovanni Fattori, il conte Camillo Cavour 

chiamò a sé l’amico milanese conte Gabrio Casati.

 

Di lui si fidava più che di Carlo Cattaneo, di Giuseppe Ferrari, o di Francesco Domenico Guerrazzi e non si fidava per nulla di Giuseppe Fanelli, Saverio Friscia, Carlo Gambuzzi. Ordinò al suo amico di mettere giù un testo di legge per le scuole del nuovo Regno. Per la verità il nobile piemontese ignorava ancora quali sarebbero stati i confini della nuova Italia, ma l’idea di fare le scarpe a quel plotoncino di federalisti, di repubblicani e di mazziniani del Nord, Centro e Sud Italia lo eccitava. Casati, forse in omaggio al modello istruttivo, di quello che diverrà in seguito il triangolo industriale, mise giù un testo di oltre 300 articoli dai toni autoritari e accentratori. Venne premiato diventando suo malgrado ministro della pubblica istruzione dal 24 luglio 1859 al 15 gennaio 1860. Lo schema della legge era semplice. Il regio ginnasio e il liceo erano statali (a prescindere dai comunali) perché servivano a preparare la nuova classe dirigente italiana. Una parte consistente dell’istruzione tecnica, commerciale, agraria era affidata al Ministero di Agricoltura Industria e Commercio. La scuola elementare invece veniva graziosamente regalata ai Comuni che su di essa dovevano vigilare, reclutare maestri e maestre, trovare i soldi e l’edificio, arredarlo, riscaldarlo, tenere in ordine e conservare l’archivio scolastico. Delle migliaia di Comuni meridionali non pochi fecero ciò che la legge dettava loro. Avigliano tra essi.  

(continua…) 

 

 Parte I

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IL PREZZO DELL’ONESTÀ PASQUALE JULIANO di Francesco Antonio Genovese – Numero 16 – Febbraio 2019

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IL PREZZO DELL’ONESTÀ.  PASQUALE JULIANO 

 

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Tra le personalità di rilievo del Mezzogiorno d’Italia non ha ancora trovato il posto che merita un uomo che mostrò grande coraggio ed onestà in tempi difficili (come diremo):

parlo del commissario di Polizia Pasquale Juliano, originario della Puglia, ma a lungo vissuto a Matera, in Basilicata, dove aveva cominciato la sua carriera in Polizia, dopo aver svolto la professione di avvocato; professione a cui fu costretto a tornare nel 1980.

 

Vale la pena di ricordare le sue vicende personali, 

perché di grande insegnamento, ancor oggi. 

 

Ma è necessario andare indietro nel tempo, di circa cinquant’anni, ossia nel 1969; ora che – come si è detto di recente1 – la verità non è monopolio dell’autorità ma è, piuttosto, figlia del tempo. 

 

Ebbene, secondo la consuetudine storiografica sul terrorismo italiano postbellico2, l’inizio della lunga stagione che avrebbe insanguinato l’Italia (e che è divenuta celebre come quella della strategia della tensione: così ebbe a battezzarla The Guardian) è individuabile

nella giornata del 15 aprile 19693, quando a Padova, nottetempo, 

una bomba esplose (con gravi danni, per fortuna solo alle cose)  


nello studio del Rettore dell’Università patavina: il prof. Enrico Opocher, uno dei maggiori filosofi del diritto del novecento italiano, ebreo e tra i fondatori del Partito d’Azione in Veneto. 

 

L’indagine sul quel primo misfatto, nell’ambito della Questura di Padova (dove pure operava un’articolazione più specifica: il cd. Ufficio politico) venne affidata al capo della squadra mobile,

 

il dr. Pasquale Juliano, che – a 37 anni e, senza tirarla troppo per le lunghe, con provata puntualità e capacità – arrivò a individuare i responsabili 

in un nucleo di estremisti neri che da qualche tempo 

cospirava con armi ed esplosivi.  


Tra i leader di quel gruppo vi era un neolaureato in giurisprudenza, che aveva avuto come relatore (con una tesi su Platone) proprio il prof. Opocher: si trattava di Franco Giorgio Freda (detto Giorgio, non Franco, come poi è invalso nella pubblicistica nazionale), seguace di Julius Evola, che da poco aveva, a sua volta, cominciato un’attività editoriale (con la sigla Ar: “Aristocrazia ariana”) ed aveva aperto anche una libreria (la Ezzelino) dove gli estremisti solevano riunirsi, specie in ore serali.

Juliano decise di far sottoporre l’utenza di Freda ad intercettazioni telefoniche: intercettazioni di cui si perderanno però le tracce, proprio a seguito 

delle vicende che colpirono il Commissario,   


salvo a recuperale qualche anno dopo, da parte del giudice istruttore di Treviso, Giancarlo Stiz (attento e coraggioso magistrato, scomparso da pochi anni) che assieme a Pietro Calogero (sostituto procuratore, allora a Treviso), per qualche tempo ebbero le mani, molto abili ed efficaci, sull’inchiesta che poi dovettero trasferire a Milano. 

 

Oltre alle investigazioni sulle conversazioni telefoniche,

il commissario Juliano cercò di penetrare nel cerchio chiuso dei cospiratori 

per mezzo di informatori che, tuttavia, si resero disponibili – come successivamente sarebbe emerso – solo allo scopo di metterlo in condizioni di impotenza,


preparando una trappola in suo danno (tanto era la potenza, la protezione e l’arroganza di quel gruppo di criminali). Uno di loro, infatti, dopo avergli dato le prove del possesso illecito delle armi da parte di un appartenente al gruppo, così da guadagnarsi la fiducia dell’investigatore, farà sì che, al momento del fermo di un altro di loro colto nella flagranza del possesso di un ordigno, il fermato farà una callida dichiarazione menzognera: “La bomba me l’ha data Juliano”.  

 

Così l’uomo che aveva individuato la pista nera nella progressione degli attentati dinamitardi che, a partire dal 15 aprile 1969 insanguineranno l’Italia, e che, unico tra gli uomini delle forze di polizia del Paese, aveva cominciato l’attività di assicurazione delle prove per inchiodare i responsabili alle accuse che loro competevano, finiva nel tritacarne di una giustizia matrigna.

 

Il commissario Juliano, infatti, si vedrà scippare l’inchiesta, che verrà insabbiata, 

e Lui stesso finirà sotto processo, accusato di aver costruito 

le prove contro i terroristi.   

Un potente funzionario dell’UAR del Ministero dell’Interno4, il dr. Elvio Catenacci, viene appositamente a Padova per chiedergli di dare le dimissioni dalla Polizia. Al suo rifiuto, viene sospeso dalle funzioni e dallo stipendio (evento allora rarissimo, se non unico). 

 

Un teste genuino che avrebbe dovuto testimoniare di circostanze utili a scoprire la macchinazione (il povero Alberto Muraro, un ex carabiniere divenuto portiere dello stabile di piazza Insurrezione, a Padova, dove abitava Massimiliano Fachini, legato al solito gruppo nero) morirà precipitando inspiegabilmente nella tromba delle scale, e così

 

al testimone chiave dell’inchiesta condotta dal commissario Juliano contro il gruppo Fachini-Freda-Ventura, che avrebbe dovuto testimoniare solo due giorni dopo, viene chiusa definitivamente la bocca. 


Da Ruvo di Puglia dove è costretto a trasferirsi perché privato del lavoro (e dove viene accolto a braccia aperte dalla famiglia della moglie5), il commissario di Ps Pasquale Juliano invia al giudice padovano, Ruberto, un memoriale difensivo nel quale riferisce di essere stato informato da quel confidente che esisteva una organizzazione, responsabile di attentati, che faceva capo a un «certo avvocato Freda da Padova» e a un bidello dell’istituto Configliachi di Padova (Marco Pozzan); ma

gli occorreranno ben dieci anni per dimostrare completamente 

la sua innocenza, che trionferà solo nel 1979,  


quando  sarà  assolto  da tutti  i capi d’imputazione  e la stagione delle bombe avrà quasi concluso il suo tragico corso.  

 

Quando verrà reintegrato nelle funzioni di poliziotto, Juliano chiederà di tornare a lavorare laddove era partito, a Matera.

ma non resterà a lungo in Polizia, anche perché quel blocco di carriera, 

gli ha fatto passare avanti troppi colleghi ed anche gente 

che non ha avuto la sua onestà intellettuale  


nell’adempimento del dovere, svolto – per lui sì, si può dire – con disciplina ed onore, come raccomanda l’art. 54 della Costituzione. 

 

Un’onestà intellettuale che manifesterà anche quando, intervistato sulla prevaricazione subita, dichiarerà di aver capito fino ad un certo punto di aver individuato una cellula terroristica dalle profonde innervature (cfr. M. Dianese-G. Bettin, La strage, cit., p. 119). 

 

Al giornalista dell’Avvenire, Antonio Maria Mira, che per primo lo intervisterà dopo tanto oblio racconterà: «Ancora oggi ricevo telefonate anonime con minacce e insulti»;

«Avevo già intuito che dietro Freda e Ventura ci doveva essere qualcun altro.
Lo capii dalle protezioni che scattarono in loro difesa. Anche politiche. Italiane 

e straniere, come sta emergendo dall’inchiesta del dottor Salvini»6. 


Era ben informato Juliano, perché seguiva con attenzione – come avrebbe fatto meglio a fare la Procura della Repubblica di Milano – il lavoro del giudice milanese, che finalmente gli dava ragione. «È arrivato là dove stavo arrivando anch’io. E io non avevo i pentiti. Magari li avessi avuti. Avevo solo dei confidenti, ma a questi allora si credeva poco».

 

Nel 1980, tornerà a svolgere quella professione che aveva lasciato per entrare 

in Polizia: l’avvocatura, nel foro di Matera, laddove lascerà definitivamente 

il suo posto proprio il 15 aprile (una data fatale) 1998, 

morendo ad appena 66 anni;

 

lo studio legale passerà così a uno dei figli, Antonio, che prosegue tutt’ora la sua attività forense giustamente orgoglioso di colui che gli ha lasciato il testimone (se ne veda l’intervista in calce al volume A. Beccaria-S. Mammano, Attentato imminente, cit.). 

 

Aspettiamo tutti ora che una strada di Padova, di Milano o di Matera sia intitolata al suo illustre nome. 

 

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[1] E. Deaglio, La Bomba. Cinquant’anni di Piazza Fontana, Milano, 2019, p. 115 e ss. 

[2] Da ultimi: M. Dondi, 12 dicembre 1969, Bari, 2018, p. 24 e ss.; La strage di Piazza Fontana, a cura di A. Carioti, Milano 2019, p. 223; M. Dianese-G. Bettin, La strage degli innocenti, Milano 2019, p. 114 e ss.; P. Calogero, La strategia della tensione e piazza Fontana, in L’Italia delle stragi, a cura di A. Ventrone, Roma, 2019, p. 3 

[3] In realtà altri episodi violenti vi erano già stati a Padova: il 5 febbraio 1969 vi era stato un attentato dinamitardo al quotidiano Il Gazzettino, che aveva cagionato un incendio alla sede del giornale, e il 29 marzo 1969 vi era stato uno scoppio di ordigni nei pressi della sede del Siulp (cfr. M. Dianese-G. Bettin, La strage, cit., p. 115).

[4] Sul quale apparato: cfr. G. Pacini, Il cuore occulto del potere. Storia dell’Ufficio affari riservati del Viminale (1919-1984), Roma, pp. 234

[5] cfr. M. Dianese-G. Bettin, La strage, cit., pp. 117-118; A. Beccaria-S. Mammano, Attentato imminente, 2009

[6] Sull’enorme lavoro svolto dal Giudice Istruttore Guido Salvini si veda ora l’importante volume, anche in parte autobiografico: G. Salvini-A. Sceresini, La maledizione di Piazza Fontana, Milano 2019, pp. 611