STREGATI DALL’ARTE LA COLLEZIONE D’ARTE CONTEMPORANEA BERLINGIERI, ECCELLENZA ITALIANA NEL MONDO di Luce Monachesi – Numero 2 – Ottobre 2015

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Poi ereditano il castello avito a San Basilio, in Basilicata, appartenuto a Emma sorella dell’Imperatore Federico II di Svevia, (poi divenuto monastero benedettino) e, in anni più recenti Palazzo Mazzarino a Palermo. A questa coppia unitissima di straordinari mecenati il merito di averli restaurati e fatti diventar gioielli dell’Italia del Sud.

Eravamo incuriositi dalle opere di artisti contemporanei che nostro cugino Niccolò Leonardi e il suo amico Giuseppe Panza di Biumo collezionavano da tempo. Approfittammo del ritardo della nascita della nostra primogenita Lydia nel 1968, per impiegare il nostro tempo visitando le gallerie d’arte di Milano. Ci imbattemmo in una straordinaria opera di Fontana: avemmo entrambi un colpo di fulmine e l’acquistammo immediatamente. Decidemmo così di iniziare una collezione di artisti contemporanei. Per non danneggiare le nostre figlie con investimenti sbagliati, però, cominciammo anche ad acquistare opere di artisti tradizionali alle aste, in provincia, rivendendole in città. Con il ricavato acquistavamo opere di avanguardia.

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STREGATI DALL’ARTE 
LA COLLEZIONE D’ARTE CONTEMPORANEA BERLINGiERI, ECCELLENZA ITALIANA NEL MONDO

 

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Come è nata questa vostra passione?

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Colti, eleganti, curiosi, e con grande sense of humour, i Marchesi Berlingieri mi ricevono nella loro luminosa e bella casa romana. Alle pareti, con leggerezza, opere di grandi artisti contemporanei.
Ci conosciamo da molti anni con Annibale e Marida Berlingieri, da quando iniziarono ad occuparsi d’arte d’avanguardia, dopo essere stati circondati da sempre da capolavori del passato, tra cui le sculture di Canova a Palazzo Treves a Venezia della madre di Annibale.

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Quale è stato il primo artista al quale avete commissionato un’opera?

Christo che, a San Basilio, impacchettò nel 1970 una delle carrozze del castello, servendosi anche dei sacchi di iuta del granaio.

La collezione contiene anche opere di artisti di Paesi che si affacciano sul Mediterraneo?

Abbiamo opere, tra le altre, di El Anatsaui e Konatè.

Quante volte opere della collezione hanno rappresentato l’Italia all’estero o sono state esposte in musei italiani?

Molte volte. Per esempio, l’opera di Bruce Naumann “Around the corner” è stata spesso in mostra a New York e Los Angeles. Per quanto riguarda il nostro Paese, abbiamo prestato molte, tra cui quella di Tony Ousler al MAXXI di Roma e sempre a Roma, al Palazzo delle Esposizioni, il lavoro di Bill Viola “Emergence”.

Un episodio che riguarda la vostra attività di collezionisti?

Non un episodio ma due, riguardanti entrambi quest’ultimo artista. Di lui avevamo apprezzato l’intervento alla Cappella dell’Ospedale della Salpêtrière a Parigi. Pensammo quindi a lui per un intervento nella nostra cappella sconsacrata in prossimità di San Basilio, ma non riuscivamo a trovare nessuna galleria che si occupasse della sua opera. Finalmente ci riuscimmo attraverso Leo Castelli, il grande gallerista di New York che ci fornì il suo telefono. Lo contattammo e acquistammo a Londra una delle tre copie di “Emergence” che, poi, l’anno successivo Bill Viola venne a vedere installata nella nostra cappella. La prestammo in seguito altre volte tra cui quella al Palazzo delle Esposizioni. In questa occasione, il cardinale Ravasi fu talmente entusiasta dell’opera e dell’arte contemporanea, che decise di aprire il padiglione dello Stato Vaticano alla Biennale di Venezia.

Qual è l’ultimo arrivo nella vostra collezione?

Una opera di Gonçalo Mabunda, artista mozambicano invitato alla attuale Biennale di Venezia.

Quale è per voi l’artista più singolare?

E’ difficile rispondere perché lo sono tutti, ma in questo momento viene da pensare a Cady Noland che vive del tutto isolata in una metropoli come New York. E’ contattabile solo per fax, ma allo stesso tempo partecipa attivamente a tutte le lotte a favore dei diritti civili.

Progetti futuri?

Dopo i lavori di restauro di Palazzo Mazzarino a Palermo, abbiamo invitato importanti artisti a eseguire nuove opere, anche site specific. Il risultato è stato così incoraggiante da spingerci a ristrutturare anche l’ala della Cavallerizza per ampliare la collezione. Molti degli artisti di cui possediamo le opere sono diventati anche amici e sono spesso nostri ospiti insieme a esponenti del mondo dell’arte.

In famiglia chi ha ereditato la vostra passione per l’arte e il collezionismo?

Nostra figlia Lydia e suo marito Pier Vittorio Leopardi collezionano dagli anni ‘90 opere di fotografi tra cui Nan Goldin e Vanessa Beecroft, e adesso anche opere di altro genere. Nostra nipote Aloisia lavora a Londra in una fondazione che promuove artisti africani emergenti.

 

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NATURA E CULTURA, SINTESI MEDITERRANEA di Giampiero Indelli – Numero 2 – Ottobre 2015

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A volte basta una sillaba per fare la differenza. 
Come ogni anno, alla fine dell’estate, gli amici mi raccontano le loro vacanze. Molti sono stati nel Salento. Pochi mi hanno detto di essere andati nel Cilento. Chi l’ha fatto, è andato al mare, in uno dei tanti paesi lungo la costa. Nessuno mi ha detto di aver fatto escursioni nel Cilento interno. Non sanno quello che si sono persi.

Il Cilento è un grande Parco nazionale, secondo per superficie (181.048 ettari) soltanto al Parco nazionale del Pollino (182.180 ettari). E’ patrimonio dell’umanità dell’Unesco (con i siti archeologici di Paestum e Velia e la Certosa di Padula) e Riserva della biosfera.

Subito dopo è la lavanda a colorare le pietraie alle falde dei monti. 
I monti cilentani sono crivellati da grotte e cavità, che vengono qui chiamate “grave”. La più famosa è la Grava di Vesalo, un inghiottitoio circondato da un bosco di faggi, a mille metri di altitudine, al confine tra i comuni di Laurino e Valle dell’Angelo. I monti Alburni ospitano, sui due versanti contrapposti, le spettacolari grotte di Pertosa e di Castelcivita. Il fiume Bussento s’inabissa alle porte di Caselle in Pittari e riemerge a Morigerati, cinque chilometri più a valle, all’interno di un’Oasi del WWF, istituita per proteggerne il raro ambiente fluviale. 
Lungo la costa estesi oliveti compongono un paesaggio agrario fra i più belli nel bacino del Mediterraneo. La Costa che va da Marina di Camerota a Scario, chiamata Costa degli Infreschi per le numerose sorgenti di acqua dolce che qui s’immettono nel mare, si snoda per sedici chilometri lungo pareti precipiti nel mare e piccole spiagge accessibili soltanto con una barca.

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NATURA E CULTURA, SINTESI MEDITERRANEA

 

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In primavera i vasti altopiani si colorano per la fioritura dei crochi e delle viole. Le ginestre in fiore rivestono intere vallate, offrendo un colpo d’occhio spettacolare. Papaveri e asfodeli, colza e senape colorano intensamente i campi, offrendo spettacoli di grande 

bellezza.

L’isolamento geografico del territorio ne ha preservato ambienti e paesaggi, ancora incredibilmente intatti. Nel perimetro del Parco svettano sette montagne superiori a 1.700 metri di altitudine, fra cui il monte Cervati che, con i suoi 1.898 metri, è la cima più elevata della Campania. I cervi, da cui la montagna ha preso il nome, erano estinti da un paio di secoli. I caprioli invece hanno abitato i boschi del Cilento fino alla metà del secolo scorso. Nel 2005 l’Ente Parco ha reintrodotto alcune coppie di cervi e di caprioli nelle aree interne. In dieci anni la loro popolazione ha superato i 400 capi ed entrambe le specie stanno riconquistando i loro antichi territori. 
In alta quota, le estese pietraie d’altura danno vita a paesaggi di astratta bellezza. Immensi boschi di faggio ricoprono i fianchi delle montagne. In pochi posti d’Italia, come nel Cilento interno, è ancora possibile camminare, per ore, senza incontrare tracce di presenza umana, immersi in una natura ancora primigenia. 
Ai piedi delle faggete s’incontrano estesi boschi di latifoglie. Querce, aceri, ornielli, ontani napoletani, carpini compongono, in autunno, tavolozze di colori da fare invidia ai più famosi boschi del New England. Più in basso è la macchia mediterranea a farla da padrona. Ricopre declivi e colline di un denso mantello verde cupo.

Alte falesie rocciose precipitano in mare, offrendo dimora a falchi pellegrini e corvi imperiali, padroni incontrastati di questi paesaggi di selvaggia ed arcaica bellezza.
Il Cilento è percorso da molti fiumi: quasi tutti presentano ancora acque limpide e una folta vegetazione ripariate. Alcuni sono di particolare fascino: il Calore, il Sammaro in prossimità della sorgente, il Tanagro. I fiumi del Cilento ospitano la più numerosa e vitale popolazione di lontre nel nostro Paese. Su molti fiumi s’incontrano ancora antichi “ponti romani”, dalla caratteristica struttura ad arco a tutto sesto, in pietrame a vista.
Ai piedi del monte Cervati si snodano, una dopo l’altra, le quattro spettacolari gole del fiume Calore, comprese fra alte pareti rocciose precipiti nel corso d’acqua, sormontate dalle ruote lente e maestose dei rapaci.

L’impossibilità di costruire una strada litoranea ha salvato questo straordinario tratto di costa, la più lunga ed integra del Tirreno.

Il Cilento interno potrebbe essere l’oggetto del desiderio per i visitatori del centro-nord Europa, amanti della wilderness e dei paesaggi incontaminati.

E’ un target poco “coltivato”, fino ad oggi, dal marketing turistico. Eppure, se gli italiani dimostrano scarso interesse nei confronti delle vacanze in natura, il turista “non mediterraneo” potrebbe esserne la valida alternativa, in particolare al di fuori del periodo estivo. Già oggi la maggior parte degli escursionisti che si incontrano nel Cilento interno sono stranieri, soprattutto olandesi e tedeschi. Questi ultimi vengono nel Cilento attratti dall’idea romantica di camminare lungamente attraverso paesaggi naturali rimasti come all’epoca del Grand Tour e di ammirare nel contempo i templi di Paestum. L’archeologia è, per loro, quasi una passione nazionale. 
Negli ultimi anni molti agriturismi sono nati nel Cilento interno. 
Sono gestiti spesso da giovani, utilizzando antiche case di famiglia. Così come molti giovani, che hanno ereditato oliveti e vigneti, li hanno “reinventati”, con l’aiuto di valenti tecnici, avviando una produzione di vini ed olii eccellenti, mirata non più al mercato locale, come avveniva un tempo, ma indirizzata ad un pubblico nazionale amante della qualità. Promuovere il turismo nel Cilento interno è anche un modo per premiare quest’ultima generazione che, invertendo una tendenza che durava da secoli, ha deciso di restare nel luogo dov’è nata. Finalmente il sud non è più vissuto come una condanna, da parte di chi ci è nato, ma come una sfida e un’opportunità.

 

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THE “MEZZOGIORNO” IN THE FIRE OF ATTENTION di Carlo Malinconico – Numero 2 – Ottobre 2015

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In the last months the “Southern issue” has been lit up again. Firstly, the data gathered by Svimez in the 7-year research from 2007 to 2014, according to which Italy’s Mezzogiorno has had a smaller financial growth than Greece, then Saviano’s article on the state of abandonment of the South, finally Italy’s weekly magazine “L’Espresso” that claims “The South has disappeared” “Demographic collapse. Brain drain. Static economy. Missing entrepreneurs”. The reason for these condemnations comes from the attempt of bringing Southern Italy’s critic situation back in the objectives of the Government’s actions, that – as said- will be dealing with them next October. The Minister of Economic Development has pre-announced the summoning of the Southern States-Generals.

THE “MEZZOGIORNO”
IN THE FIRE OF ATTENTION

 

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The need, felt by everyone, of placing once again the Mezzogiorno in the fire of National attention must be seen not as an unsolvable problem, but as a great occasion not only for the South but for the whole of the Country. For the energy and resources that can come of it, and for the margin of recovery and development that precise actions can bring, Southern Italy is an opportunity that will be able to favour financial and non-financial debts of the Country. Of course, as the SVIMEZ study reminds us, the task is not easy, but the results can be important. In the surely not brilliant general image of our Country, the numbers concerning the Mezzogiorno show it moving back more than the national average: from investments to employment, from capitalisation and size of companies to production capacities. It is important to consider that the pull of exportations that has been a big part of the however modest improvement of the economic Central-Northern conjunction, for structural reasons is not working for the South. The fear here is that these events will lead to a spiral that will bring to the so called desertification of the South, with sceneries going from economic depression to the drainage of youngsters who look for education and training before employment. This would be an enormous damage for the whole National Community. Italy’s South is traditionally complementary to the Northern economy, and the absence of internal demands that distresses the Northern economy would obviously benefit from a larger internal request, that has dropped especially in the South and that, when speaking about companies, would give an important push to the entire National economy. This is why Southern Italy must not be seen as a problem but as opportunity and efforts must be condensed in order to let the South, and with it the whole of Italy, outburst.

 

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For this, an Industrial Policy that can give precise and trustworthy reference points is necessary. We must proceed with realism but also with strong determination. The task of this industrial policy has to be to show institutions and companies the priorities and the objectives to reach, in order to have joint and effective efforts. The resources, both public and private, are limited and therefore should be even more condensed on objectives that are considered essential. Obviously the aim is to start from the analysis already carried out by the Banca d’Italia, by SVIMEZ and other Establishments, to come up with prompts for the Government’s actions. Without forgetting that Institutions can do a lot by simply outlining priorities, describing accelerated processes, condensing competences to obtain the mentioned objectives. A lot can be done to sustain the action of private operators, even without drawing from public resources and without extraordinary measures.
The idea of summoning the States-Generals of the Mezzogiorno, pre-announced by the Italian Minister of the Economic Development, seems to be encouragement-worthy. Not only does this assembly belong to the tradition of Italy, but also the spirit and objective behind it can be agreed upon. National and local institutions, Universities, companies and syndicates must be able to express their own points of view in a sort of public and transparent consultation or, if preferred, in a service conference opened to an audience, a “début public” with prefixed timing. Then, each member will decide upon its resolutions concerning their margin of competence. Not a form of necessary paralyzing consultation with veto rights, but a communal discussion useful to bring together institutions, especially the local ones or the ones with delimited local competence, in order to ensure the coordination of guidelines and of actions on the territories.

 

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Starting from now suggestions to be evaluated by this consultation can be brought up. Among the economic initiatives the ones to be endorsed should be concerning global value chains, especially food and service related ones, being the fields in which Southern Italy has shown the most positivity, and the infrastructures, especially concerning Public Transport services and networking. The South does not need great endeavors, or at least this is not a priority, but what it needs is a strong maintenance of its territory, of the existing infrastructures and of its environment, with actions that would bring the positive effects of an immediate come-back, in economic terms of effects of expenses and immediate usability in favor of economic and tourist activities. One could aim at, for these reasons and taking example from other European Countries, the Special Economic Zones (SEZ) that, as explained by the SVIMEZ report, are areas “characterized by a port… and in which specific regimes of custom treatment, tax exemptions, administration aids and business services are effective, with the main objective of luring foreign investors”. And in these SEZs the guidelines of the EU’s fiscal compensation should be followed. In the Mezzogiorno the SEZs could be established in the transshipment port areas of Gioia Tauro, Taranto and Catania. Keeping in mind that the great lines that transport gas and are essential for the production of energy have different access points in Italy’s Mezzogiorno, and from here they radiate to the rest of the Continent: four pipelines start from the southern bank of the Mediterranean Sea and travel towards Europe, two of them reaching the Mezzogiorno. The Transmed that starts from Algeria, crosses Tunisia and reaches Mazara del Vallo, the Greenstream, that from Libia reaches Gela, and more are being designed: the Galsi from Algeria to Sardinia and then Piombino, the TAP (Trans-Adriatic Pipeline) that will cross Greece, Albania and connect to Italy’s lines in Salento, the Interconnector that will link Italy and Greece (at the port of Otranto).

 

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To finance these investments the EU Structural Funds 2014-2020 must be used at their best- and here too we must have a joint cooperation. In fact there are administrations and Regions that have a greater knowledge on how to obtain said funding. The transferring of these best practices would be an added value, that one could reach either by sending experts from a dexterous region to a less able one, or by sending employees from less expert areas to the best ones for training. The State-Regions conference might give an impulse to this process.
Other indispensable resources of the Mezzogiorno are its culture and landscape. Not only the striking panoramic beauty or the single historical monument mesmerize the visitor, but the actual evocative nature of such beauties. Whether we talk about the Riace bronzes or the Valley of the Temples in Agrigento, the Greek Theatre in Siracusa, Paestum, Pompei or Herculaneum, of the countryside in Salento, Burri’s Cretto or the stones of Matera, what strikes the traveller is the myth, the legend behind each place, symbol, rock, stone, shrub, stack. Here, more than any other place in Italy, nature and things are alive and tell stories and traditions. The enhancement of the artistic, historical and archaeological heritage – that is Mezzogiorno’s real petroleum- needs a series of abilities that luckily are already present, but also a more effective communication system and the definition of quality routes that will express these values. The modern tools to access information and the possibility of sharing knowledge and experiences online must be used at their best, in order to create the necessary development synergy and the easiest access possible: a Southern Portal, around which one can urge the creation, by University students and younger ones, of apps to furtherer help users. Superintendents, Universities and operators can cooperate for this goal.

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Last, but not least, formation. Universities must find better forms of integration and coordination of courses in order to avoid duplications. It is also necessary to point out excelling centers and favor them. Post-University vocational training courses to support the creation of spin-offs in the most promising fields of economy could be established. Courses in which professors, graduates and economic operators would all be involved. 
At the base of all of this is legality. This must be the State’s task to ensure safety to citizens and operators. It is fundamental to create, especially in the South, excellent centers for the formation of young people who can set off towards judiciary careers, the Armed Forces or the Police. 
Of course these are just suggestions. Others, and better ones, can be found with one belief: that Southern Italy, even with all the recently re-emerged criticality’s, is a great growth opportunity, a laboratory in which one can experiment useful paths for the whole Country. Both energy and will are available, and it is possible to appeal to those in the Mezzogiorno who selflessly believe in and are ready to adhere to a “lever” of intelligence that could help in the relaunch design. It would be yet another gift from the South.

 

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LA RICCHEZZA NASCOSTA DEL POVERO MEZZOGIORNO di Carlo Curti Gialdino – Numero 2 – Ottobre 2015

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‘misteriosa’ villa extraurbana rinvenuta nel 1963, oltre 50 anni fa, per puro caso, nel corso di lavori infrastrutturali. 
E’ completamente lontana dagli itinerari turistici, Casignana, neanche mille abitanti, e la sua collocazione evoca echi inquietanti. Si trova, infatti, nella Locride, in provincia di Reggio Calabria. Un nome spesso ricorso nella cronaca nera, che richiama alla memoria faide senza fine e un sistema malavitoso pervasivo. 
Sotto il profilo amministrativo, al momento, tutto è congelato e i Commissari prefettizi gestiscono l’ordinaria amministrazione, ovvero non si possono avviare iniziative atte a valorizzare questo prezioso tesoro cittadino, azione promozionale e culturale per cui da anni si batte l’on. Pietro Crinò, oggi consigliere regionale. 

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LA RICCHEZZA NASCOSTA DEL POVERO MEZZOGIORNO

PARTE II

 

 

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I mosaici ubicati in località Palazzi di Casignana, molto vicina al Mar Ionio fanno parte di una 

un tesoro preziosissimo, i cui mosaici gareggiano in bellezza, raffinatezza, straordinaria qualità artistica con quelli di Piazza Armerina e di Pompei.

E’ dello scorso 31 luglio, infatti, la delibera del Consiglio dei Ministri di prorogare lo scioglimento del Consiglio comunale di Casignana, per infiltrazioni della ‘ndrangheta. Inizialmente, il provvedimento era stato emanato il 18 aprile 2013. Una realtà sociale e amministrativa bloccata dalla situazione dell’ordine pubblico così degradato, pur avendo splendide prospettive per il tesoro archeologico che custodisce nel suo territorio, qualora se ne sapesse indirizzare bene il marketing territoriale presso le grandi agenzie di viaggio ed i siti turistici…
Ma torniamo al bello che i nostri avi seppero costruire (magari altrettanto ‘inquietanti’ di quelli di oggi nei loro vertici, ed altrettanto avidi, la storia ce lo insegna, ma con l’orgoglio di lasciare un segno alla posterità) e che noi, loro eredi, stupidamente vandalizziamo. 
Ci sono voluti 36 anni affinché, da quei casuali ritrovamenti in Contrada Palazzi, da parte delle maestranze della Cassa per il Mezzogiorno, impegnate nella posa di un acquedotto, il sito di 15 ettari fosse oggetto di una serie di campagne di scavo che ci hanno restituito

Al disvelamento di quest’opera, la Regione, inserendola nei Fondi europei, ha previsto un finanziamento di 2,5 milioni di euro, cifra che, in un paese normale, basterebbe senz’altro a recuperare un simile tesoro.

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L’assoluto isolamento della Calabria dalle rotte di un turismo non stagionalizzato, che non sia quello estivo, balneare, è la dimostrazione che, accanto alle cattedrali nel deserto industriali, esistono quelle culturali, archeologiche, straordinarie eredità di cui sembra non sappiamo cosa farcene. 
Gli stessi Bronzi di Riace che, al loro ritrovamento e nei primi tempi di esposizione, suscitarono clamore e file di turisti, ora sono stati restituiti al Museo da cui provenivano, sottoposto a lunghi restauri, ma a lungo sono stati un ammennicolo del Palazzo della Regione. 
Arrivare a Casignana è difficile. Ma soprattutto è difficile un’opera di marketing territoriale che tenga conto degli svantaggi competitivi dell’area. Manca persino un punto di partenza, ovvero un’amministrazione comunale in carica. Quei 2,5 milioni di euro al momento affidati al SUAP (Sportello Unico Attività Produttive) per realizzarne l’appalto servirebbero per continuare a scavare oltre gli 8mila mq già svelati;

per capire che ci fa un tesoro proprio lì; e di chi fosse quella villa, sorta in un pizzo di mondo piuttosto incongruo nella logica territoriale dell’antica Roma,

anche se si ritiene che essa sia sorta lungo la strada che collegava Locri Epizefiri e Rhegion (l’antica Reggio Calabria); ed è l’unico reperto romano in un mondo magno-greco.
L’attuale parco si compone di oltre 20 ambienti, con un cortile centrale, su cui si affacciano le terme, un giardino ove era collocata una fontana monumentale; i servizi; la zona residenziale vera e propria.
Le terme replicano quelle presenti nell’antica Roma: hanno i loro frigidariumtepidarium e calidarium. Accanto a quest’ultimo, c’è il laconicum, dove c’erano le saune (essudationes), dove il riscaldamento si realizzava attraverso i praefurnia (bocche da forno, collocati sotto il lastricato. Tutto questo sistema si è conservato fino ai giorni nostri ed è visibile ancor oggi.

Le vestigia più pregevoli sono rappresentate dalle pavimentazioni musive. Importantissima è quella della ‘sala delle Nereidi’,

dove, con tessere bianche e verdi viene rappresentato un thiasos marino da cui emergono quattro Nereidi (Ninfe marine), ognuna in groppa ad un animale simbolico: un leone, un cavallo, un toro ed una tigre.
Nella sala d’ingresso a Sud, è emersa l’immagine di un volto femminile, composta a tessere in colori vivacissimi e circondata da girali vegetali. 
Lascia sbalordita la bellezza della Sala delle Quattro Stagioni, ovvero la sala triclinare; ed è in corso di scavo l’anfiteatro. E’ stato altresì rivelato un altro pavimento, con un Bacco ebbro sorretto da un giovane Satiro, che versa vino da un’anfora. Non finisce qui. Vari avvistamenti casuali fanno ipotizzare che proprio lì davanti ci siano reperti in mare altrettanto preziosi. 
C’è anche la vecchia storia della Sfinge, di sofisticata fattura, ritrovata dallo scrittore Axel Munthe, capitato per caso proprio in questo luogo ed ora installata a Capri, a Villa San Michele. Non sarebbe il caso che tornasse a casa?

 

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IL SAPORE DELL’INCOSTITUITO, OVVERO LA SULFARA TULUMELLO di Alessandro Gaudio – Numero 2 – Ottobre 2015

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È mediante uno strumento naturale di osservazione che si può connettere l’opera di un pittore, di un poeta, di un romanziere o anche di un filosofo, di un fotografo, di un musicista o di un artigiano a un luogo geografico, sempre che sia individuato con la massima precisione storica, oltre che geografica. Tale spazio particolare non è necessariamente quello in cui l’artista in questione è nato o nel quale svolge la propria attività, ma è a questa che si riannoda per un qualche rispetto ed è, ovviamente, situato a Sud. Muovendosi lungo il nesso tra arte e realtà a essa contingente, impugnando la storia, la geografia e la scienza della cultura occidentale e dei suoi limiti più estremi (quelle meridionali),

IL SAPORE DELL’INCOSTITUITO, OVVERO LA SULFARA TULUMELLO

 

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partecipa alla costruzione della realtà, anticipando gli approdi delle scienze umane o, magari, contribuendo a un loro assetto più funzionale.

È questa la via difficile di un moderno umanesimo che si snoda oltre i margini d’espansione della civiltà tardocapitalistica e che consente, al contempo, di sviluppare la coscienza di una nuova dimensione mediterranea; ovvero, di delineare una nuova mappa del Meridione che serva a guidare i lettori di «Myrrha» lungo un itinerario (intellettuale, ma non soltanto d’arte) mai percorso prima, un nuovissimo compendio dell’inattualità meridiana, nel cuore della cultura europea. Per far ciò, si riproduce un lavoro dell’artista scelto, accompagnato da una ricognizione critica che ne delinei sinteticamente le peculiarità ed, eventualmente, le connessioni con il luogo corrispondente.
Inizio con Agostino Tulumello, un artista nato nel 1959 a Montedoro, borgo situato a circa venti chilometri a ovest di Caltanissetta, vicino a Racalmuto, a Canicattì, a Serradifalco, in Sicilia.

I fili dell’opera intessuta da Tulumello − allo stesso modo − restituiscono l’estensione singhiozzante della realtà e del modo in cui essa viene percepita, avviluppata dai sensi come tra le spire brulicanti e ammaliatrici di un serpente d’acqua

Nelle sue opere egli è solito individuare un elemento visuale primigenio che, scelto per la sua elementarità, possa rinviare al processo (anche psicologico) della creazione, all’interno del quale si preparano le relazioni tra gli elementi, le gradazioni pittoriche e la prospettiva.

 

1 A. Pizarnik, Árbol de Diana [L’albero di Diana, 1962], in Ead., La figlia dell’insonnia, Milano, Crocetti, 2015, p. 38. Si riporta la traduzione di Claudio Cinti, curatore dell’unica raccolta antologica della poetessa argentina pubblicata in Italia: «Questi fili imprigionano le ombre / e le obbligano a render conto del silenzio / questi fili uniscono lo sguardo al singhiozzo» (ivi, p. 39). 
2 Sulla dimensione frattale esibita nell’opera di Agostino Tulumello e sullo schema iterativo e omotetico tipico del suo tratto si rimanda a A. Gaudio, Consistenza e caso. Idea e confini del neodadaismo da Cage a Pleynet e oltre, «Diacritica», a. I, fasc. 1, 25 febbraio 2015, pp. 49-60, in particolare pp. 52-54; ma si veda anche Id., Al di qua del linguaggio. La concezione scritturale dell’opera di Agostino Tulumello, «Rivista di Studi Italiani», a. XXXIII, n. 1, giugno 2015, pp. 793-796.

 

Nelle tele della serie di cui fa parte l’opera qui riprodotta, denominata Scrittura come cibo, egli tenta − come è sua consuetudine − di congelare alcuni degli elementi che poi precipiteranno nella figurazione e, pertanto, nella determinazione del gusto. Cosa accade nel processo di figurazione di un’opera d’arte prima che il gusto si orienti? Sembra che l’interesse di Tulumello verta intorno a tale questione; tuttavia, ci troviamo ben al di qua rispetto alla poesia gastronomica di Franco Verdi, esperimento ironico e irriverente nei confronti dell’atto creativo disimpegnato, precostituito e inscatolato; eppure, si può guardare a quell’operazione portata avanti dal poeta visivo veneto nel 1969 per comprendere meglio il valore del godimento per l’incostituito, proposto dal pittore siciliano. A questo stadio (quando ancora non ha fame), il processo sensoriale non va alla ricerca delle sottigliezze della modulazione del gusto, del sapore; mira, invece, a un concentrato di senso, inodore e insapore appunto, a un’immagine persistente o consecutiva che non segni il verso di una definizione; ricompone una totalità integrale, una grandezza sensoriale intera, colta nella sua indivisibilità non ancora orientata.
Guardando i segni grafici di Tulumello e facendo un ulteriore passo all’indietro, torna alla mente ciò che, nel 1962, sosteneva la poetessa di Buenos Aires Alejandra Pizarnik a proposito di un disegno di Wols, pseudonimo di Alfred Otto Wolfgang Schulze, pittore informale berlinese: «Estos silos aprisionan a las sombras / y las obligan a rendir cuenta del silenzio / estos silos unen la mirada al sollazzo».1

(della biddrina, magari, l’animale mitologico ferocissimo che vive nelle campagne di Caltanissetta), allorché il significato di quella realtà non ha ancora raggiunto un’estensione riconosciuta, un spazio di quiete. Lo spazio dell’opera di Tulumello coincide con l’inferno fisico fatto del dedaleo e folto andirivieni delle volute e dei nodi del serpente o, anche, delle esalazioni dello zolfo di Sicilia: esso è ridondante come l’eco dei colpi di piccone che, sino alla fine degli anni Cinquanta, risuonavano nelle miniere di Montedoro, nel cuore dell’altopiano gessoso-solfifero dell’isola; esso è opprimente così come l’alternarsi dei pieni e dei vuoti nell’attesa che il linguaggio dia forma ai versi della Pizarnik.
Il senso del progetto artistico di Tulumello è da includere, così, nella tradizione non figurativa e neodadaista che, muovendo dalle scritture bianche del pittore americano Mark Tobey, passa dai lavori poetico-visuali dell’artista belga Paul De Vree e, magari, arriva alle figure, geometriche o no, e agli ideogrammi dell’uruguaiano Clemente Padin e ad alcune espressioni della transavanguardia italiana (quella del già citato Verdi, ad esempio); esso non deve essere ricercato al di fuori di questa significazione originaria perché è proprio a partire da essa che ogni pensiero razionalizzato si dispiega: mostrando lo stato nascente dell’idea, l’artista di Montedoro riflette sulla funzione dell’immaginazione, sulla facoltà del possibile e, dunque, sull’efficacia stessa dell’immaginario. È in questo luogo che il tratto significante della scrittura si coniuga strutturalmente con il suo elemento figurativo, pur non essendo ancora decifrabile.2

 

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LA SALUTE ECCELLENTE “MADE IN SUD” di Maurizio Campagna – Numero 2 – Ottobre 2015

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All’epoca della “sanità commerciale” l’eccellenza diventa spesso uno slogan pubblicitario e non una qualità oggettiva delle strutture sanitarie, misurata e monitorata. Le autodichiarazioni di eccellenza si sprecano tra professionisti e strutture tanto che si è perso il senso di un’espressione che dovrebbe, invece, indicare precisi standard qualitativi nell’erogazione delle prestazioni sanitarie ed essere attribuita, con parsimonia, soltanto dopo una valutazione scientifica degli output specifici delle strutture. Ma il processo di crescita del controllo democratico garantito dalla rete ha investito anche il settore sanitario. Si sono moltiplicati i “trip-advisor” della sanità e ciò ha garantito una maggiore possibilità di accesso ai dati da parte degli utenti alla ricerca delle strutture sanitarie migliori. L’avvertenza è sempre la stessa: tra le possibilità di conoscenza offerte dalla rete occorre fare una attenta selezione sulla base dell’attendibilità delle fonti. Così anche tra i siti che si occupano della qualità delle strutture sanitarie è bene distinguere i 

LA SALUTE ECCELLENTE “MADE IN SUD”

 

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L’eccellenza dell’Istituto Nazionale per lo studio e la cura dei tumori “Fondazione G. Pascale” di Napoli resiste ad ogni tipo di prova in rete. Non è virtuale, non è frutto di rumors tra internauti, è un’eccellenza reale e scientificamente misurata. A certificarlo sono i più importanti e accreditati siti di settore. La struttura sanitaria rappresenta un (vero!) polo di eccellenza per la cura dei tumori e un punto di riferimento principalmente, ma non esclusivamente, per tutto il Sud d’Italia. L’Istituto Pascale è un IRCCS (Istituto di Ricerca e Cura a Carattere Scientifico) di diritto pubblico trasformato in Fondazione. Il carattere scientifico, riconosciuto alla struttura sulla base degli specifici requisiti stabiliti dal d.lgs. del 2003 che ha provveduto al riordino degli IRCCS pubblici, consente alla stessa di accedere a un finanziamento statale appositamente finalizzato alla ricerca che si aggiunge a quello già erogato dalla Regione di appartenenza. 
La natura di Fondazione è il frutto di una scelta specifica della Regione che, su propria istanza, può trasformare gli IRCCS pubblici in Fondazioni di rilievo nazionale, aperte alla partecipazione di soggetti pubblici e privati e sottoposte alla vigilanza del Ministero della salute e del Ministero dell’economia e delle finanze.
L’Accademia dei Lincei, nell’anno 2014, ha assegnato al Pascale il prestigiosissimo Premio “Cataldo Agostinelli e Angiola Gili Agostinelli”. Si legge nella motivazione che l’Istituto è“ […] un’eccellenza nel campo della prevenzione, diagnosi e cura delle patologie tumorali, sia attraverso la ricerca clinica sia attraverso l’innovazione tecnologica e gestionale”. Il premio consegnato al prof. Tonino Pedicini, all’epoca Direttore generale, direttamente dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano rappresenta un riconoscimento importantissimo per tutto il Sud d’Italia perché la buona sanità non è soltanto “questione di camici bianchi”, ma anche di buona gestione amministrativa. L’Accademia dei Lincei ha voluto proprio premiare un insieme di competenze, non solo medico-scientifiche, ma anche gestionali.

Non a caso, il Pascale è stato insignito anche di un altro prestigioso riconoscimento nel 2013: l’Oscar di Bilancio della Pubblica Amministrazione – categoria Aziende Ospedaliere e degli IRCCS Pubblici, promosso da Ferpi (Federazione relazioni pubbliche italiana). Si tratta di un premio nazionale, unico nel suo genere, che ha l’obiettivo di segnalare e sostenere le best practices di rendicontazione adottate dagli Enti locali e dalle Aziende Sanitarie Pubbliche che danno prova non solo di buona amministrazione, ma anche di trasparenza e di efficacia nella comunicazione a cittadini e stakeholder.

L’Istituto partenopeo, dunque, come esempio di buona amministrazione pubblica del sud e per il sud che contribuisce considerevolmente ad abbattere luoghi comuni sulla gestione della res publica nel Meridione.

Ma allo stesso tempo il Pascale è la prova che ognuno deve fare la sua parte, che tutte le professionalità sono fondamentali nell’erogazione di servizi di qualità per i cittadini.
Il binomio cura e ricerca raggiunge risultati eccellenti nel centro partenopeo, risultati misurati con indicatori bibliometrici, in molti settori dell’oncologia, rappresentando non quella “speranza trappola”, ma una speranza opportunità per tutti i malati. 
La presenza di un istituto sanitario di eccellenza fa bene anche alla salute dell’economia del territorio. Senza assecondare una retorica buonista, la sanità è anche (casomai non solo!) un settore economico assai rilevante. La produzione del valore salute non può essere sottratta alle regole della produzione industriale dei servizi, anche sanitari, soprattutto se si tratta di prestazioni ospedaliere. Ecco l’importanza di aver adottato buone pratiche anche sul versante amministrativo. Le ricadute economiche sul territorio della filiera sanitaria sono consistenti non soltanto in uscita, quando cioè i pazienti locali sono costretti alle migrazioni sanitarie, ma anche in entrata, quando i servizi sono erogati in favore di utenti provenienti da altri territori.

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forum autogestiti dai pazienti che riportano le loro esperienze, del tutto soggettive, dai portali che traggono i loro contenuti da fonti ufficiali o che rielaborano dati raccolti con metodo scientifico.

La tutela della salute si colloca sul punto di intersezione tra tante discipline e le cure di qualità sono il frutto di un’armoniosa integrazione tra saperi.

Un polo di eccellenza, infatti, è anche un polo di attrazione che non solo impedisce la dispersione di risorse trattenendole sul territorio, ma addirittura ne fa arrivare di nuove.

Curarsi significa, infatti, spendere anche per i servizi ancillari come l’assistenza non sanitaria, i trasporti, il vitto e l’alloggio dei familiari al seguito. Si tratta di spesa che non è immediatamente riconducibile ai costi diretti della prestazione sanitaria, ma che indirettamente ne determina l’ammontare finale. In quest’ottica, la capacità attrattiva diventa capacità produttiva di ricchezza. 
La stessa considerazione deve ora essere estesa su una dimensione europea in ragione del recepimento nei paesi membri dell’UE della Direttiva 24/2011 sull’assistenza sanitaria transfrontaliera. In estrema sintesi, il sistema dell’assistenza sanitaria transfrontaliera disegnato dalla Direttiva dovrebbe garantire al paziente assicurato in uno degli Stati membri dell’UE la scelta di ricevere cure, programmate o non programmate, in uno Stato diverso da quello di appartenenza. Ciò potrebbe attivare una virtuosa dinamica concorrenziale tra strutture su scala europea. 
Un recente studio condotto dal Battelle Memorial Institute, istituto statunitense per la ricerca e lo sviluppo, con riferimento ad un’altra struttura di eccellenza sanitaria del sud d’Italia, dimostra come vi sia un nesso tra la produzione di servizi sanitari di elevata qualità e la crescita del PIL. Non solo: non sono trascurabili neppure i risultati in termini di risparmio di spesa. È noto, infatti, che il costo delle migrazioni sanitarie è sostenuto dai sistemi sanitari regionali di partenza. 
I risultati dello studio, sebbene riferiti ad una struttura della Sicilia e al Pil di questa Regione, possono essere trasferiti in altri contesti. Il messaggio forte e chiaro è che l’investimento in ricerca e tecnologia può essere volano di occupazione e motore per lo sviluppo. 
Senza contare l’investimento di tipo sociale.

La condizione di fragilità data dalla malattia è aggravata dal costo umano della migrazione sanitaria. È un dato di esperienza comune che nessuno vorrebbe curarsi lontano da casa.

La sanità infatti è un servizio naturalmente a vocazione territoriale e l’ospedale come industria non può essere delocalizzato! 
Il Pascale fornisce così un’importante opportunità di cure ai cittadini del sud per un gruppo di patologie tra le più gravi e invalidanti e che, peraltro, assorbono più risorse in ragione della “residenzialità” delle patologie oncologiche. 
L’auspicio per il futuro è che la grave sofferenza patita dal Sistema sanitario nazionale sia il motore di una razionalizzazione delle risorse e non di un mero e acritico razionamento, l’occasione per ammodernare l’amministrazione sanitaria o addirittura riformarla. Che le eccellenze come il Pascale possano continuare il loro lavoro sul territorio e per il territorio. L’eccellenza è tale, infatti, solo se accessibile. Se cioè è in grado di rispondere efficacemente alla domanda di servizi sanitari che si forma prima di tutto nella comunità di riferimento della struttura e poi altrove, se si è capaci di sviluppare mobilità sanitaria attiva.
L’esempio dell’Istituto partenopeo è un’esperienza in controtendenza nel panorama di un’amministrazione pubblica screditata agli occhi dei cittadini e un suggerimento per il futuro: investire nell’economia della conoscenza.

 

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LA CASA DELLE MUSE di Antonio Genovese – Numero 2 – Ottobre 2015

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Sulla collina
Io certo vidi le Muse
Appollaiate tra le foglie,
Io vidi allora le Muse
Tra le foglie larghe delle querce
Mangiare ghiande e coccole.
Vidi le muse su una quercia
Secolare che gracchiavano.
Meravigliato il mio cuore
Chiesi al mio cuore meravigliato
Io dissi al mio cuore la meraviglia.

Ma io che da anni leggo i suoi versi e le sue prose (e li cerco nelle varie edizioni che gli uni e le altre hanno diffuso), sono finalmente lieto di vedere lo sforzo che questo piccolo Comune della Basilicata ha saputo compiere per richiamare, in quella modesta abitazione, in un luogo non comodo dello Stivale, gente di ogni luogo: perché la Poesia di Sinisgalli ha saputo varcare il tempo della sua vita e le aree della sua pratica.

E’ da credere che le Scuole sapranno farvi momento di visita e di studio, ma l’iniziativa degli enti territoriali di Basilicata meritano la sosta di lettori e curiosi di tutte le età.

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LA CASA DELLE MUSE

 

Antonio-Genovese

      Questa estate, ho approfittato dell’ozio da vacanza per fare un’incursione a Montemurro, un centro della (sempre più nota, per i suoi giacimenti petroliferi, che tanto stanno facendo discutere) Valle dell’Agri, in Basilicata. Una valle in cui il fiume (che sbocca sul litorale ionico) trasporta con sé, assieme ad un rilevante carico di acqua (è il fiume più ricco, anche se non il più lungo, della Basilicata), memorie millenarie.

La Valle, che soprattutto nella sua prima parte, è aspra e costellata di monti coperti di boschi (i Belliboschi, a cui Sinisgalli ha intitolato una raccolta di suoi scritti autobiografici e no, che uniti a Fiori pari fiori dispari formano quelle «prose di memoria e d’invenzione», tanto care ai suoi lettori), è cosparsa di piccoli centri di remota civiltà, più o meno arroccati sulle alture, che tendono a fare sistema ed a formare una sorta di Città della Valle (un po’ sul modello della Città del Vallo di Diana, invero da essa non molto distante ed anzi collegata a diverse altezze), con servizi distribuiti e strutture comuni, attività culturali messe a rotazione, santuari religiosi accomunanti le genti valligiane, ecc. (la Moliterno di Petruccelli della Gattina e Giacomo Racioppi, la Montemurro di Giacinto Albini, Marsico Nuovo e Marsico Vetere, la Viggiano di Vito Reale, Sarconi, la Spinoso di Biagio Petrocelli, Tramutola, ecc.) 
Accanto ai monti coperti di boschi ve ne sono altri (ad es. il Vulturino) quasi del tutto nudi, e però assai belli e suggestivi, che fanno da riferimento e da contrasto selvaggio con quelli altri, interamente verdi e ricchi di biodiversità.

Non c’è dubbio che anch’essi facciano parte di quella vera e propria identità comune delle genti della Val d’Agri, che oggi si arricchisce di sempre nuovi tasselli: un richiamo anche per le generazioni che più hanno dato con la loro emigrazione, ed i loro discendenti d’ogni parte d’Italia e del Mondo.

E davvero di Muse (al plurale) si tratta, giacché il Nostro non incarnò solo un’anima ma tante assieme, quelle di: scrittore, poeta, ingegnere, disegnatore, editor, curatore di prodotti culturali, perfino cineasta (autore o coautore di fortunati cortometraggi premiati alla Biennale di Venezia nel 1948 e nel 1950) e sceneggiatore.

Una casa semplice, come quelle di cui il Poeta ha detto nei suoi versi e negli altri scritti, ancora del tutto dispersi, perché affidati alle vecchie preziose edizioni d’epoca, ma ormai necessitanti la formazione di una raccolta completa (ad esempio, un Meridiano, edito da quello che fu il suo editore principale), per il lettore d’oggi. 

Una casa che non ha mai ospitato quel mobilio e quei libri, che il Poeta-Ingegnere ha portato con sé nel suo girovagare (cominciò a farlo a dieci anni) e, soprattutto, nei suoi spostamenti tra Roma e Milano, dove si è svolta – pressoché interamente – la sua vita professionale, non solo di artista (anche visivo) ma anche di direttore di belle riviste, alcune legate al mondo aziendale (dalla rivista Pirelli, alla più fortunata Civilità delle Macchine), di curatore di collane (come «Scienza e poesia»), di collaboratore con l’industria italiana (Olivetti, Finmeccanica, Alfaromeo, ecc.). 

Il museo (che è stato denominato, in maniera suggestiva: la Casa delle Muse) è stato affidato alle cure della Fondazione Sinisgalli (creata dagli enti territoriali di Basilicata, essenzialmente), che organizza mostre, eventi, convegni, incontri di studio (se ne veda l’elenco di quelli tenuti, ad oggi, nel bel catalogo intitolato Leonardo Sinisgalli, la Casa delle Muse e la Fondazione, Villa d’Agri, 2014, pp. 30).

In questo rinnovato interesse per la Valle, s’inserisce la bella novità di Montemurro: la creazione di un museo Sinisgalli, nella casa di famiglia, acquistata e recuperata alla bisogna.

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 In particolare, oggi la sua collaborazione a edizioni editoriali di pregio, con artisti contemporanei (Lucio Fontana, Orfeo Tamburi, Franco Gentilini, Domenico Cantatore, ecc.), ha reso spesso difficili da reperirle persino sul mercato del libro raro e di pregio.

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          La visita della casa di Sinisgalli, consente di ammirare – tra i riquadri della sua Biblioteca (quasi interamente recuperata) e composta di edizioni consultabili – anche una bella tela, acquistata dalla Fondazione Carlo Levi: un suo ritratto (del 1944), a olio, della sua concittadina Maria Padula, un’artista che merita ogni considerazione (anche la sua opera è in corso di catalogazione, grazie all’impegno della curatrice e figlia, la d.ssa Rosellina Leone, che ho avuto il piacere di ritrovare dopo anni). 

Tra libri e mobili del Poeta, è possibile ammirare tanti altri cimeli: abiti, foto, lettere, numeri di riviste, libri, ecc.

Le stanze sono coperte di didascalie, quadri che riportano i suoi principali versi, così che anche chi non ha mai praticato la sua Poesia possa essere in grado di comprendere la misura e la cifra dell’artista.

 

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LA LUNGA VIA VERDE di Pierluigi Giorgio – Numero 2 – Ottobre 2015

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Abbandonati da decenni, escono dall’oblio e stanno per essere protetti e valorizzati. E’ stata infatti presentata ufficialmente a Roma, lo scorso maggio, una richiesta all’Unesco per inserire queste immense strade verdi nel patrimonio culturale dell’umanità. Una grande opportunità per chi si batte per conservare la memoria di un passato umile e, insieme, grandioso del nostro Paese e preservare storia, cultura e ambiente delle regioni che erano interessate dalle spettacolari transumanze di una volta, e cioè Abruzzo, Molise, Puglia. Myrrha ha chiesto ad uno dei maggiori studiosi di storia e costumi dell’Italia rurale, Pierluigi Giorgio, di raccontare la sua esperienza e i suoi viaggi lungo i tratturi. Quella che segue è la sua commovente testimonianza.

Percorsi di pellegrinaggio, del commercio itinerante e della conoscenza di altri popoli, usi, tradizioni. I campi di battaglia tra Sanniti e Romani; oggetto di controllo e regolamentazione dei passaggi animali ed umani, che si sono susseguiti nei secoli: Normanni, Svevi, Aragonesi, Borboni…
A contrappunto del percorso, mura di difesa e avvistamento di popoli antichi, le torri, i castelli, le cappellette, le chiese, i mulini, i fontanili, gli opifici… Autostrade erbose: senza auto, naturalmente!

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LA LUNGA 
VIA VERDE

 

Pierluigi-Giorgio

I tratturi non erano solo le vie delle greggi, ma sino a non moltissimi anni fa, le vene ove pulsava la vita di un territorio; arterie in cui fluivano civiltà, economia, cultura, scambio…

Il vecchio zi’ Felice non poteva credere che avrei percorso passo passo con loro, che erano abituati da generazioni, i 180 km. che dalle Puglie, li separavano da Frosolone; che avrei condiviso il sole, la pioggia, i bivacchi attorno al fuoco. Dovette ricredersi: l’ultima sera aveva le lacrime agli occhi! Me lo ricordo quando vide il documentario che avevo fatto realizzare, in silenzio: la fatica di una vita innanzi agli occhi di tutti! E la commozione, la gratitudine e anche il disappunto per un percorso sempre più in residuo, invaso dagli sterpi, inglobato dai frontisti (i contadini confinanti con le proprie terre); dalle concessioni della Forestale e – sembra incredibile dato il vincolo – a volte anche dal permesso di asfaltare…
E’ rimasto un urlo soffocato il suo, strozzato! Se l’è portato via con sé, tra le nuvole nel ’95 su tratturi sicuramente più ampi, senza confini. Forse è lì che scuote ancora la testa guardando le difficili transumanze dei suoi cari…
Passarono gli anni e per i tratturi non fu fatto niente, o forse veramente poco: salvo le parole, parole, parole. Anche le ultime taverne dei pastori, stanno inesorabilmente crollando. Si stanno sgretolando! Ma tutto ciò appartiene alla storia, all’identità di un popolo, del Molise: alla storia universale!…
Ho sempre pensato che la nostra regione non ha laghi pittoreschi come quello di Como o del Garda; non ha Dolomiti, ma possiede una risorsa unica, tutta propria, che se fosse stata protetta in tempo, oggi costituirebbe un’alternativa turistica per il Molise; particolarissima. 
I tratturi non esistono più in Puglia, miseri tratti in Abruzzo vanno cercati.

Ben 111 metri di larghezza: ai lati, a delinearne l’ampiezza e a impedire lo sconfinamento animale o coltivo, due lunghe fitte siepi longitudinali: i guardrails d’altri tempi. I luoghi di sosta? Gli autogrill, i motel d’altri tempi: vecchie taverne…

Era il 1986 quando m’infilai gli scarponi, zaino in spalla e volli per la prima volta percorrere circa 250 Km. di tratturi a piedi affascinato dall’idea che solo nella mia terra, il Molise, erano in buona dose ancora intatti, seppur comunque seriamente a rischio: come i Koala o certe forme endemiche flogistiche… Pubblicizzai l’evento: non sarebbe stato un semplice trekking ma una marcia provocatoria: riportare il problema “salvaguardia e cura” di tracciati antichi più di 2000 anni, all’attenzione della gente dei borghi che gravitavano sui tratturi, dei politici molisani del momento, dei media nazionali.
E la gente venne ad incontrarmi puntuale; ad ascoltare le storie che narravo; le proposte che suggerivo… A volte mi venivano incontro; a volte mi accompagnavano per qualche tratto, mi offrivano cibo, attenzione e sostegno… Capirono man mano di non vivere con le loro case, accanto ad un semplice prato d’erba; compresero che dovevano impedire la cancellazione dei tratturi e magari la loro stessa storia, con una colata d’asfalto su quel verde cordone ombelicale che li riconduceva alle proprie vicende umane; ad un’identità di popolo…

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Insomma un mondo semplice ma funzionale che oggi può tornare ad insegnarci l’armonica simbiosi tra uomo e territorio. Il senso del mio andare? Passo passo, seguivo il ritmo del mio cuore, le sensazioni a fior di pelle, il palpito della storia… Si, tanta gente venne, tanti borghi s’inventarono una festa d’agosto, un momento di riflessione e vi fu un “tam tam” pubblicitario fitto ed intenso, sicuramente a livello non solo regionale, ma largamente nazionale. Anche Maurizio Costanzo mi volle in trasmissione, intrigato dal fatto che un attore e scrittore, invece delle tavole di palcoscenico sceglieva di calcare… la cacca di armenti. Preferiva cioè recitare e narrare testi intrisi di messaggio legati al percorso attraversato e alla sua storia, nelle varie 14 tappe che si susseguirono in una teoria di giorni esaltanti. Insomma, finalmente se ne parlava! Proposi di salvare ed utilizzare i tratturi per il turismo, lo sport, lo spettacolo!

Tre anni dopo venni a sapere di una famiglia – i Colantuono – che ancora faceva la transumanza con circa 600 mucche: Molise-Puglia e ritorno. Me la feci presentare ed espressi il desiderio di seguirli, di raccontare, di fotografare la loro storia, di filmarla.

Recuperiamo, salvaguardiamo almeno i nostri, in linea con quell’illuminato decreto ministeriale che anni fa li sottopose a vincolo ritenendoli di notevole interesse per l’archeologia e per la storia politica, sociale e culturale.

Turismo e cultura, potrebbero dare lavoro a molte persone, giovani in particolare… Offriamo la possibilità a contadini ed artigiani di vendere i loro prodotti, di offrire ospitalità: non strozzandoli di tasse o altro. Incentiviamo il restauro delle vecchie masserie, non costruiamo nuove strutture; diamo sostegno e albergo ai nuovi trekkisti, ai cavalieri, a coloro che amano passeggiare per giorni senza incontrare l’asfalto; fare soste tra gente e cibi genuini. Suggeriamo veri itinerari, fattibili, a tutti coloro che in un ritmo lento ritrovato, cercano un’oasi di pace ove passo, pensiero e cuore possano viaggiare all’unisono. 
Molise, terra dal fascino discreto, terra di grande ospitalità che a mio avviso il turista cercherà come l’oro quando Umbria e Toscana – ad esempio – saranno sempre più inaccostabili per l’inarrestabile lievitazione dei prezzi e per la perdita di un volto proprio.
Qui avremmo e offriremmo la possibilità di

riassaporare gli umori di una terra, ricalcare le tracce degli antenati, ritrovare ritmi più umani nel dialogo e rispetto con la natura.

Come concludere? Mi rendo conto delle difficoltà organizzative, burocratiche e compagnia bella. Lo so, non sono un diplomatico, forse solo uno sciocco idealista legato ad alcun partito e non potrei e vorrei mai essere un politico; ma solo un artista con la sensibilità dell’artista; un uomo che conserva e protegge autonomia e che vive le cose dall’interno, con grande rispetto: sempre; che ha voluto relazionarsi con la gente – soprattutto con i più semplici – che ne ha attinto insegnamento, che si è voluto rimescolare con la terra. Una cosa però la so: se mancherà seriamente e immediatamente l’impegno, la volontà di proteggere definitivamente i tratturi facendone rispettare il vincolo; la lungimiranza di un progetto turistico fattibile; se non si affiderà a competenti professionisti del campo e non a improvvisati avventori politici il compito di “vendere” il pacchetto Molise, di credere nei tratturi, consci che un giorno tutto ciò “pagherà” – perché è questo che i nuovi turisti in genere, già stanno chiedendo – perderemo irrimediabilmente l’ultimo treno e con esso la magica lunga via verde. Resteranno solo le parole, i vani proponimenti; le chiacchiere a vuoto di chi dovrebbe essere preposto alla salvaguardia e all’utilizzo mirato.
Perché non ricostruire (riattare) tutto un lungo ininterrotto percorso fratturale per transumanze e turisti, recuperandone nei punti difficili, non più riscattabili, non dico 111 metri di larghezza come all’origine, ma almeno 3 a testimonianza e continuità di percorrenza? Valutando dove creare sottopassi e cavalcavia per non incrociare, a proprio rischio, l’asfalto e auto distratte e “frettolose”.

La richiesta presentata all’Unesco lascia ben sperare in un futuro di conservazione e valorizzazione delle grandi vie della transumanza.

Un passato di lavoro duro, umile, lento, di cui gli italiani non debbono vergognarsi, ma andare fieri. Dovremmo indicare i tratturi ai nostri figli come un esempio di armonia tra il lavoro dell’uomo e la conservazione dell’ambiente che, oggi, è assai raro scorgere nel tumultuoso sfruttamento della natura.
Il Molise crescerà con i tratturi e i tratturi con il Molise! Sono pronto a scommetterci…
E’ il momento di azioni pratiche: nonostante tutto, voglio ancora sperare!…

 

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LE ARCHITETTURE MEDITERRANEE DIVENTANO ORDITO di Venera Coco – Numero 2 – Ottobre 2015

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Scostare il tessuto e scoprire la carnagione del Sud che ha assorbito, nella pelle e nella sabbia, tutta l’arsura di un sole indifferente al dolore, è la scoperta che alcuni stilisti hanno provato a raccontare. Stilisti che, attingendo dallo stupore dei loro sguardi, per creare invenzioni stilistiche, reinterpretano gli antichi fasti e gli intarsi che abili maestranze avevano creato per le chiese, le moschee e i palazzi.

Un vero e proprio eden, fatto di centinaia di piante provenienti da cinque continenti, piccoli ruscelli e costruzioni in stile moresco e Art Déco. Sedotto da “quest’oasi in cui i colori di Matisse si mescolano a quelli della natura”, lo stilista algerino trova la fonte d’ispirazione per i suoi preziosi caftani, come la djellaba, la tunica lunga con il cappuccio a punta, il jabador e il mantello burnus. Anche il designer franco-tunisino Azzedine Alaïa con la sua cosiddetta “soft sculpture”, fa rivivere sui suoi abiti la scultura soffice della stoffa da domare. L’architettura “arabisance” non viene rispettata alla lettera da Azzedine ma ciò che si capta immediatamente è quello speciale attaccamento all’essenzialità delle strutture berbere e al bianco, simbolo di rigore e purezza. I suoi abiti si avvicinano silenziosamente all’ambiente che li circonda, amalgamandosi ad esso. Le pieghe scolpite da Alaïa sono le stesse che il vento del deserto scava nella roccia, diventando anse nel corpo delle donne.

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LE ARCHITETTURE MEDITERRANEE DIVENTANO ORDITO

 

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Si tratta di creazioni nelle quali i colori riescono a riprodurre i toni della natura, gli accostamenti caldi e prorompenti che riportano alla memoria le luci abbaglianti di un territorio dalle stanche membra, che cede sia alla calura che all’incanto.

Svolazzi che diventano geometrie e che, pur mantenendo il rigore delle forme, si ritrovano intrappolati in un gioco di armonia.

Ed ecco che Yves Saint Laurent è riuscito a contaminare i suoi capi con i vividi colori del suo Giardino Majorelle a Marrakech.

A Cristóbal Balenciaga, invece, piaceva reinterpretare stili appartenenti ad epoche passate della storia spagnola

per poi arricchire le proprie collezioni, non a caso l’“Infanta”, s’ispira agli abiti ritratti da Diego Velázquez nei dipinti della principessa Margherita, e nella “Jacket of light”, si ritrovano i bolero dei toreri spagnoli. Nato a Getaria, ha interiorizzato la sua Spagna estrapolando elementi caratteristici del suo paese come il pizzo, il bolero e il contrasto tra rosso e nero. “The queen of textures”, così viene definita la stilista greca Mary Katrantzou, ha reso i suoi abiti strutturati una tela per stampe visionarie e dall’effetto trompe l’œil. La sua Atene rivive nella tridimensionalità e nelle forme geometriche, ma anche nei collage digitali che ripropongono i colori vivaci e i fregi mitologici che un tempo adornavano le sale dei templi greci. Appassionati di una delle tre Gorgoni, Medusa, e amanti del culto ellenico,

i reggini Gianni e Donatella Versace, dal 1978 ad oggi, danno vita a una libera commistione di elementi decorativi che vanno dalla Magna Grecia, al Barocco, fino alla Pop Art.

Il past forward diventa per loro una forma di sperimentazione, mescolando elementi couture a drappi da vestali, ma anche nuovi materiali, come pelle, maglia e minuteria metallica rigorosamente color oro e coloratissime sete stampate su cui sono impresse greche d’ordine corinzio e riccioli rococò. Il libanese Elie Saab, infine, ricrea su stoffe ricercate come pizzo, seta e chiffon, ricami con perline, paillettes e cristalli, talvolta solo per impreziosire determinate parti, altre volte i tessuti utilizzati ne sono completamente ricoperti. Elie risente dell’arte del ricamo, sfoggiata per impreziosire i costumi tradizionali durante le danze popolari dabke e raqs sharki, per costruire ogni suo dettaglio prezioso, seguendo però un mood incredibilmente femminile, sensuale e mai eccessivo. Gli abiti d’haute couture di Saab nascondono

bagliori lucenti color oro simili a quelli che rendono le danzatrici del ventre terre voluttuose di conquista.

I designer accostano quei pigmenti che ritrovano lo splendore di antichi popoli che lottavano per affermare la bellezza delle loro terre, abbellendole con pregiati intarsi, con maioliche, arabeschi e architetture simili ai luoghi del Corano. I tessuti si colorano dei toni del beige, dei marroni chiari, dei blu cobalto, dei silenzi, delle dune attraversate solo da un vento che scuote, con il proprio tormento, le vesti fascianti dei nomadi. Le collezioni nascono da queste terre e a questi luoghi ritornano per rendere uniche e pregevoli le movenze di chi si lascia catturare da uno stile che non teme confronti, perché sa che il Sud non è stato creato come un semplice luogo ma come archè divino.

 

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I VITIGNI DI VICO DEL GARGANO di Nello Biscotti – Numero 2 – Ottobre 2015

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Chi scrive è un botanico, e operando nel Gargano mi sono ovviamente imbattuto anche sui vitigni. Il territorio si rivelava in tal senso uno straordinario campo di ricerche, poiché si conservavano fino a qualche decennio addietro vecchie vigne, “veri fossili biologici”, fatte con quei vitigni “storici”, testimoni dell’antica tradizione viticola del Promontorio. Tra queste “vecchie vigne” vi era anche quella ereditata da mio padre, ridotta ormai a qualche decina di are, e con ceppi ormai di 50/70/100 anni. Cominciai a conoscerli, studiarli, per capire le loro storie, anche umane a cui erano legati.

 

I VITIGNI DI VICO DEL GARGANO

 

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in realtà si trattava della “vite selvatica”, l’unico taxon aborigeno della famiglia Vitaceae di una estesa regione floristica che va dal Mediterraneo al Mar Caspio

Fatto emozionante è stato ritrovare qualche anno addietro un vecchio ceppo di Uva della Macchia, probabilmente di 200 anni, nello stesso luogo indicato dal nonno.

Ho bussato infinite porte istituzionali (Comune, Parco, Provincia, Università) ma nessun interesse per lunghi anni a partire dal 1998. Disponendo di una piccola cantina che era di mio padre, mi sono cimentato personalmente in questa scommessa. Il risultato? Un vino in bottiglia, appena 500/700 bottiglie. Il vino, rosso, elevato in acciaio, denominato MACCHIATELLO di Mastrocianni, è un esperimento di vinificare, con un approccio scientifico, un uvaggio caratteristico, antico, del territorio: circa il 60% fatto da 4 vitigni storici (l’Uva della Macchia, Nardobello, Uva nera tosta, Malvagia nera); il rimanente 40% da 22 vitigni diversi, tutti con la caratteristica di essere particolarmente aromatici. Una testimonianza di un numero, che non sapremo mai, di vitigni storicamente coltivati sul Promontorio del Gargano, un crocevia di flore, uomini con i loro semi, le loro piante.

la collezione è oggi partner del progetto “biodiversità” (Regione Puglia) che mira a conoscere, salvaguardare e recuperare quanto rimane (con notevole ritardo) della storica diversità di specie e cultivar agrarie. L’unica collezione di vitigni storici del Gargano.

A Vico del Gargano era consuetudine fare vigne a prevalenza di ceppi antichi di Malvasie nere, e soprattutto, con il vitigno localmente individuato come Uva della Macchia, capace di vegetare ottimamente anche sulla spiaggia. Mio padre, mio nonno raccontavano che era stato trovato spontaneo (prima metà dell’800), in una contrada denominata “Macchia” (Torrente Macchia, tra Peschici e Vieste), di qui il nome del vino.

Indagini dello scrivente (Ente Parco del Gargano, 1998), hanno portato all’individuazione di ben 66 biotipi tra cultivar, accessioni, ecotipi (Biscotti, Biondi, 2008; Biscotti et al., 2010); di recente indagini volte alla tipicizzazione su base morfologica e genotipica del germoplasma, di 10 dei 25 vitigni esaminati, sono stati già riconosciuti come genotipi (Progetto Ager, Biscotti, et al., 2013; V Convegno Nazionale di Viticoltura tenutosi a Foggia, maggio 2014)

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Un caso di spontaneizzazione dunque che poteva dimostrare l’ultra secolare presenza della vite sul Gargano. In un documento, un poemetto (Elegia), De Vico Garganico (1607, 432 versi, distici elegiaci), di recente portato alla luce, l’autore, Carlo Pinto, salernitano, vescovo di Cuma, ci descrive uno scenario agricolo di Vico del Gargano di grande interesse per la storia della vite sul Gargano. Scrive in proposito: “Qui ove volgi lo sguardo trovi viti: in questi territori va errando Bacco”; e il vino, già conosciuto come Vicanum è “tantae bonitatis, ut laudatissime Vicanum nominetur”. La produzione stessa doveva essere rilevante se aggiunge che “di questo nettare puoi caricar mille navi che solcano il mare”. I casi di spontaneizzazione da noi rinvenuti sono numerosi: vecchi ceppi a margini di coltivi, qualcuno in boschi, che un tempo erano vigne, di cui non sappiamo assolutamente niente se non grappoli bianchi, neri, rossi, tutti da studiare. Spontaneizzazioni da una parte, ma d’altra anche casi di inselvatichimento di forme coltivate; è stata questa la prima interpretazione di diversi ceppi rinvenuti lungo solchi vallivi, margini di torrenti; ci sbagliavamo,

(articolo in corso di stampa su Informatore Botanico Italiano, SBI); da questa vite (Vitis vinifera subsp. silvestris) siamo partiti per creare quella infinità di vitigni o di uve coltivate che esistono oggi in tutto il mondo. Le conoscenze in Italia sulla sua eco-geografia e la struttura genetica sono ancora non del tutto definite; si ha intanto un primo quadro sulla sua attuale distribuzione: un totale di 161 siti e con appena 814 individui, generalmente concentrati nella parte centro-meridionale della penisola; nel Gargano ne abbiamo rivenuto fino ad oggi almeno 35 individui. Questa un’altra storia da ricostruire e scrivere poiché alcuni ceppi, secolari, autentici monumenti botanici della specie, sono stati rinvenuti all’interno di una secolare faggeta (faggio e vite possono dire molto in termini di paleoclimi, o di paesaggi vegetali antichi). Tutte queste storie ruotano intorno alla mia piccola vigna, ciò che restava di un grande vigneto di oltre 1,5 ettari ancora produttivo negli anni 70 del 900, costituita per il 50% di Uva della Macchia, e per il restante in primo luogo di ceppi antichi di Malvasie bianche e nere, e poi Sommariello nero, rosso, Bell’Italia, Pudicin tener, Uva nera tosta, Nardobello, Chiapparone, Moscatiddone bianco, Moscatiddone nero, Dundurino, Moscato Saraceno e tanti altri ancora di cui si è perso ogni traccia di memoria storica. L’unica strada da percorrere per “salvare” qualcosa era quella di moltiplicare in ogni modo, questi vitigni. Con il fratello nel 1999 realizziamo una piccola collezione di questi vitigni e fare un vino, il Macchiatello, era l’unica strada per salvare questi testimoni di storie umane, di valori storici, scientifici: “Si raccolgono le cose per il vivere dei mortali, e fra l’altre buoni vini vermigli” (Leandro Alberti, 1561). “I vini poi vi sono dovunque non meno per copia che per bontà mirabili, rossi per lo più e di media forza, ma sinceri nella sostanza sicché, senz’alcun condimento, durano fino al terzo anno e anche molto di più” (Andrea Bacci, De Naturali vinorum historia). Prospero Rendella in Tractatus de vinea, vindemmia et vino, (1603) parla dei vini di Rodi, Vico e Vieste, e Monte. La vigna è una realtà diffusa per tutto il ‘700.

Nel 1768 si documenta che “nel Monte Gargano si hanno vini preziosi delle terre di Rodi Peschici, San Giovanni, Monte, Vico e Cagnano” (Giuliani 1768).

La vigna si pianta ovunque per tutto l’800. “Nel contado di tutti comuni del Gargano si pianta la vigna e sollecitamente dà il suo frutto pieno di liguore pregevolissimo…. ma i vini migliori per robustezza, durata, trasporto e abbondanza insieme son quei che si hanno da Viesti, Vico, Ischitella, Sannicandro e San Giovanni R.” (Della Martora 1823); “Abbondano le Comuni di Viesti, Vico, Ischitella, San Giovanni Rotondo, San Nicandro confermerà qualche anno dopo Giuseppe Libetta – di ottimi vini”. 
Raccontando (febbraio 2004) questa mia storiella in una e-mail al grande Luigi Veronelli, qualche anno prima di morire, mi rispose dopo appena un quarto d’ora e mi volle incontrare per assaggiare il mio Macchiatello. La soddisfazione fu tanta che il Macchiatello si meritò di essere inserito come “attenzione” immediatamente nella rinomata Guida (I vini di Veronelli) con un apprezzamento scritto dallo stesso Veronelli: “Ho assaggiato il Macchiatello a base di Uva della Macchia; segna albo lapillo i vino mantici. Se riesci a trovarlo bevilo” (Vini Veronelli, 2005). Le particolarità? Tanti aromi e profumi, aspetti così rari sui quali è disperatamente impegnata la ricerca enologica.

Il vino intanto migliorava in ogni annata; impariamo a farlo, con l’ausilio di qualche ricercatore (Francesco Soleti) e soprattutto con ripetute analisi di uve e vino.

Poi mi cominciano a cercare: assaggiatori, enologi, “esperti”. Com’è il Macchiatello? Molti di dicono “particolare”, qualche altro aggiunge: “ci fa ricordare certe viti selvatiche franche di piede”; tutti concludono: “Un prodotto sicuramente originale”. A maggio del 2011 mi fece visita Pierce Carson, giornalista, cercatore di tipicità italiane, il quale mi dedicò un articolo su Napa valley, nota rivista on line americana e, dopo aver assaggiato qualche bottiglia, scrisse: “Aaaah, but the 2008, what a wine. It had lovely floral notes, perhaps violets, even spring wildflowers. There was oodles of fruit … I tasted mulberries and cherries with succeeding sips. A rich wine. They were pleased with my delight. But before we stole away into the darkened lanes of Vico, the Biscottis had one final surprise”. L’estate dello stesso anno la mia piccola cantina fu invasa da diversi statunitensi, pronti a comprare tutta la mia piccola produzione, che rimane per scelta e per necessità piccola. Hanno frequentato la cantina anche molti francesi e tutti sorpresi di questo “vino italiano”. Le analisi bio-chimiche, ripetute per diversi anni, caratterizzano un vino (tecnologie artigianali) con una sorprendente quantità di polifenoli totali (2500 mg/l). Nel settembre 2014 ci raggiunge Bruno Gambacorta che ci dedica un servizio mandato in onda nella sua rubrica Eat Parade del gusto; tante telefonate, tante richieste di acquisti, ma il Macchiatelo non può essere qualcosa di più di una testimonianza. Intanto un altro passo avanti:

Una storia comune come tante? chissà quanti altri vitigni locali meritano queste attenzioni! Parliamo di risorse attraverso le quali si possono ricostruire piccole economie locali come quella di diversi comuni del Gargano: in un modello di economia integrata (agricoltura, turismo, ecc.), anche la viticoltura, ovviamente di qualità (storia, cultura, sapori non omologati) può occupare un posto rilevante. Del resto vite e vino possono raccontare meglio di ogni altra cosa storia, archeologia, botanica; la storia della vite e del vino è trasversale alla stessa storia umana e il Gargano, i suoi vitigni, possono dire qualcosa anche in questo senso.

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