SAN SERGIO I PAPA di Umberto De Augustinis – Numero 10 – Marzo 2018

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SAN SERGIO I PAPA

 

Inoltre i primi tre sono nati ed eletti nello stesso scorcio di secolo, la seconda parte del VII, e l’ultimo circa cinquanta anni dopo. Due di loro, Agatone e Sergio sono palermitani, entrambi impegnati sul fronte della statuizione delle regole della Chiesa, con relative interferenze imperiali; Leone proveniva da Aidone, una città oggi in provincia di Enna; Stefano da Siracusa.

 

Sicuramente Sergio I tra i papi siciliani occupa un posto di enorme rilievo,
perché, con lui, cambiano molto i rapporti tra Impero d’oriente e Chiesa.

 

Sergio, palermitano, presbitero di famiglia originaria di Antiochia, diventa papa dopo la morte di Conone (21 settembre 687), anche lui formatosi a Palermo. L’epoca era decisamente particolare: Roma, e tutti i territori italiani non Longobardi, erano in mano all’imperatore d’oriente, in quel momento Giustiniano II. Il potere in Italia era esercitato dall’esarca di Ravenna, Giovanni Platina. 

 

L’imperatore non aveva remore a indire frequenti assemblee ecclesiali, denominandole concili, presiedendole personalmente indipendentemente dalla presenza del papa, a volte neppure invitato, o per il tramite di delegati, e a formulare norme e precetti per la Chiesa. Fra queste, l’ultima prima dell’ascesa di Sergio, fu l’avvio del c.d. Concilio trullano, quinto dell’era cristiana, indetto all’epoca di Agatone, che prende il nome dalla costruzione ove ebbe luogo.

 

La giustificazione dell’intromissione imperiale stava nel ritenersi l’imperatore 

un “isapostolo”, un parificato in tutto e per tutto agli apostoli. 

Del primato di Pietro, si preferiva non parlare. 

 

L’elezione di Sergio fu piuttosto turbolenta. Al soglio pontificio aspiravano Pasquale, amministratore delle finanze ecclesiastiche e, quindi, arcidiacono, e Teodoro, presbitero anziano di Roma (arciprete). Pasquale aveva stretto un patto con l’esarca Giovanni Platina: l’appoggio per la sua elezione a papa in cambio di cento libbre d’oro. Tra corruzione e simonia. Ma l’elezione di Pasquale fallì per l’opposizione dell’aristocrazia romana. Pasquale sarà confinato a vita in un monastero, in sospetto di magia.

 

Il 15 dicembre 687, Sergio fu consacrato papa. L’esarca Giovanni Platina chiese 

ed ottenne da lui il pagamento delle cento libbre d’oro come prezzo dell’appoggio. Per trovare le risorse furono pignorate le offerte in oro a S.Pietro dei fedeli. 

Ma, all’epoca, le cose andavano così.

 

Sergio, tuttavia, uomo raffinato e colto, dimostrò subito di non gradire la politica ecclesiale di Giustiniano II. Quando quest’ultimo decise di convocare un concilio (denominato Quinisextum, cioè riassuntivo del quinto e sesto), neppure invitando il papa, lì per lì, Sergio non osservò nulla, ma, poi, si rifiutò categoricamente di sottoscrivere le 102 costituzioni che l’assemblea aveva approvato. Tra queste c’era sia la supremazia del patriarcato di Bisanzio su tutti i vescovi, meno il papa, ma anche una sensibile attenuazione del celibato ecclesiastico. 

 

La reazione di Gustiniano II non si fece attendere. L’imperatore fece arrestare i due delegati pontifici e mandò a Roma uno dei suoi militari più feroci, certo Zaccaria, con l’ordine di arrestare il papa e trascinarlo a Bisanzio per processarlo, così come, qualche anno prima, era avvenuto già con papa Martino (fatto maltrattare, destituire ed esiliare). I romani, e non solo, insorsero. La milizia imperiale di stanza a Ravenna accorse a sostegno del papa. Zaccaria capì che i tempi erano cambiati e che aveva osato troppo. 

 

Il prestigio ed il carisma del papa stavano per mettere fine ad una politica 

religiosa imperiale di evidente sopraffazione.

 

Così il feroce militare fu costretto a chiedere aiuto al papa, mentre popolo e soldati vari lo braccavano per tutta Roma. Alla fine Zaccaria si rifugiò nella camera da letto di Sergio e si nascose sotto il letto stesso. Solo grazie all’intercessione di Sergio, non fu ucciso, ma, in compenso, allontanato da Roma tra gli insulti del popolino.

 

Il papa aveva vinto.

 

Giustiniano II pagò anche a Bisanzio le conseguenze del fallimento della sfida: fu deposto da una congiura di palazzo, alla quale si associò anche il patriarca, Callinico I, subì l’amputazione del naso, donde fu denominato Rinotmeto e mandato in esilio. L’asportazione del naso avrebbe dovuto impedire qualsiasi ripristino di poteri imperiali, perché le amputazioni corporali ne erano ostative. Successivamente, fattosi un naso d’oro, Giustiniano tornerà al potere per alcuni anni, fino alla uccisione sua e del suo unico erede, ma eviterà nuove collisioni con Roma.

 

Il confronto, risoltosi così positivamente per Sergio, ne accrebbe enormemente 

il prestigio, assieme a quello della Chiesa di Roma.

 

Facile spiegarsi, dunque, le numerose visite di importanti personaggi a Roma, desiderosi di abbracciare la fede cattolica, e lo spianarsi della strada per un rapporto estremamente significativo e sinergico con il popolo dominante dell’epoca, i Franchi, che porterà molto lontano. A questo enorme prestigio si devono molte cose: tra le altre, 

 

Sergio fu il primo pontefice a battere moneta, il primo ad essere direttamente 

sepolto in S. Pietro, alla sua morte, avvenuta l’8 settembre 701, 

quello che introdusse la possibilità di avere più altari nelle chiese, 

il primo ad essere citato come diretto referente 

delle comunità cattoliche britanniche.

 

Di qui, infine, la sua immediata canonizzazione.

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Agatone, Leone II, Sergio I e Stefano III.
La caratteristica che li accomuna tutti è di essere inquadrabili nell’ambito e nel contrasto delle strategie politiche-religiose dell’Impero bizantino. 

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TARANTO NON E’ SOLO VELENI. IL MArTA di Roberta Lucchini – Numero 10 – Marzo 2018

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TARANTO NON È SOLO VELENI.        il MA TA

 

Ma il faro mediatico, sistematicamente puntato sui mostri che negli anni hanno corrotto le aspettative, inquinando acque e vite umane, dovrebbe talvolta accendersi sul buono che c’è, sulle iniziative lodevoli, sulle persone che si impegnano per il cambiamento. A Taranto si può ricominciare; anzi si deve. Ma da dove? Il MArTA ci sembra un ottimo punto di partenza.

La visita al Museo Archeologico, invero, è la tappa iniziale e imprescindibile
sia per chi desideri avvicinarsi alla città e alle sue origini sia per i tarentini
che vogliano ritemprarsi con una boccata di orgoglio campanilistico.


Il Museo nacque nel 1887 per ospitare le innumerevoli testimonianze raccolte nel corso dei ritrovamenti massicci, conseguenti alla revisione urbanistica che accompagnò ripensamento e sviluppo del quartiere Borgo Nuovo. Taranto, infatti, era anticamente sorta sul piccolo promontorio che, unito alla terraferma da un modesto lembo di terra, separava la grande baia del Mar Grande, all’esterno, dalle acque – dolci e salmastre ad un tempo, preziose per nutrire i celebri mitili – del bilobato Mar Piccolo; mari che, fino alla seconda metà dell’Ottocento, erano in comunicazione solo attraverso il canale naturale a nord-ovest, sul quale sorge, forse dall’anno Mille, il Ponte di Porta Napoli. Sul finire del XIX secolo, l’espansione della città verso est come conseguenza della nascita dell’Arsenale militare sul Mar Piccolo, iniziato nel 1883 e ultimato nel 1889, sfociò, per un verso, nella realizzazione del Canale navigabile, ottenuto recidendo quel breve cordone ombelicale che ancorava la città vecchia peninsulare al resto del territorio, e richiese la contestuale costruzione, sul canale medesimo, del Ponte girevole (entrambe, opere ingegneristiche di assoluto rilievo, inaugurate proprio nel 1887); per altro verso, comportò il rimaneggiamento dell’assetto urbano sulla sponda est della neonata via d’acqua, anche nell’ottica di accogliere molte famiglie dal sovraffollato centro storico. In seguito a sbancamenti e livellamenti per creare un impianto viario di reticolato regolare, moltissimi reperti vennero alla luce, mentre alcuni siti furono irrimediabilmente interrati. Cosicché 

 

il nostro Museo, la cui sede fu individuata nell’ex convento dei frati Alcantarini, 

avviò le proprie attività inizialmente a mo’ di “deposito” 

dei rinvenimenti archeologici locali.

 

A questi, si aggiunsero nel tempo oggetti provenienti da svariati siti del territorio apulo, spesso necropoli o sepolture, da Canosa a Crispiano, da Ginosa ai dintorni di Bari e al Salento, solo per citarne alcuni. Dai primi anni del Novecento, e a più riprese nel corso del secolo fino ai giorni nostri, il Museo fu ampliato, modificato e organizzato secondo i criteri scientifici che più si confacevano al momento storico. Il percorso che viene oggi offerto al visitatore è la risultante di un ultimo intervento che, dopo una chiusura totale nel 2000, riaperture progressive nel 2007, 2013 e, da ultimo, nel 2016, ci consegna un edificio rimodernato, arricchito di ausili multimediali e articolato in due piani espositivi con mezzanino (ove è ospitato un lascito del 1909 da parte di Monsignor Giuseppe Ricciardi che affidò diciotto tele risalenti ai secoli XVII e XVIII alle cure dell’allora Regio Museo);

vi si ripercorre la storia di Taranto e dintorni in progressione cronologica, 

partendo da preistoria e protostoria, quando la parte meridionale 

della penisola era abitata da popolazioni autoctone – gli Iapigi. 


Si prosegue poi con l’arrivo degli Spartani, che fondarono qui la loro unica colonia fuori dall’Egeo,
Taras per l’appunto, nel 706 a. C., dopo che i Parteni, cioè i figli illegittimi delle spartane nati nel corso della guerra messenica, guidati dal giovane Falanto, furono costretti ad abbandonare la madrepatria e a riparare sulle coste italiche, come propiziamente suggerito dall’oracolo di Delfi. Interessante cogliere la dialettica dei rapporti fra colonizzatori e popolazioni indigene, come pure la differenziazione interna di queste ultime che nel corso dei secoli, anche per ulteriori influssi esogeni, si suddivideranno, sull’intero territorio apulo, in Messapi, Peucetii e Dauni.

Viene quindi proposta una sezione dedicata all’epoca romana,
il che dà l’opportunità di ripercorrere i tormentati rapporti
fra l’ambita Taranto e Roma,

 

dall’accordo del IV secolo a. C., secondo il quale navi romane da guerra non potevano superare il Capo Lacinio, entrando nella baia, in tal modo sancendo il principio della inviolabilità della acque interne, fino alla rottura di questo accordo da parte romana; dall’arrivo di Pirro a sostegno di Taranto alla sconfitta e conseguente capitolazione (275 a.C.); dalla ribellione a Roma all’arrivo del cartaginese Annibale; dalla resistenza all’assedio romano alla definitiva disfatta ad opera di Fabio Massimo nel 209 a. C., con conseguente spoliazione della ricca e ammirata città sul golfo. Il percorso espositivo si estende al periodo tardoantico e poi altomedievale, con particolare attenzione ai cambiamenti introdotti dalla dominazione romana nelle abitudini scultoree e decorative, fino alle testimonianze della convivenza sul territorio di comunità ebraiche e musulmane, per giungere al ritorno dei bizantini nel X secolo d. C.. 

 

Il criterio temporale, nelle venticinque Sale del MArTA, affianca quello tematico 

che, attraverso oggetti di arredo, suppellettili ed elementi architettonici decorativi, 

per lo più appartenuti a corredi funerari o comunque a necropoli, permette 

di comprendere le abilità produttive, le abitudini quotidiane, 

la cultura religiosa e i contatti con altri popoli:

 

in altri termini, l’oggetto che esprime un territorio, nell’accezione più ampia del termine. Sarebbe arduo, e certamente riduttivo, tentare di dar conto della ricchezza dei reperti custoditi in questo raccolto e bellissimo Museo, diretto dal 2015 – e con successo, come si riscontra nel numero degli ospiti e nel giudizio dei tarantini – dalla dottoressa Eva Degl’Innocenti. Ma non si può tacere di alcuni oggetti emblematici i quali, più di altri, colpiscono il visitatore che volentieri li incamera e se ne appropria nella memoria. E’ il caso, ad esempio, dell’elegante Zeus-Zis, statua in bronzo alta circa 80 cm, rinvenuta presso Ugento e risalente al VI sec. a.C., rappresentato dai Messapi nei modi iconografici greci, con leggera torsione del busto nell’atto di scagliare fieramente un fulmine; oppure del magnifico cratere raffigurante la nascita di Dioniso, risalente al IV sec. a.C., appartenente alla sconfinata collezione coroplastica, la quale racconta non solo dei contatti delle popolazioni locali con la civiltà micenea ben prima della vera e propria colonizzazione greca, ma anche del successivo legame degli artigiani locali con metodi e forme importati dalla madrepatria, fino allo sviluppo di tecniche decorative originali, come quelle della ceramica sovradipinta.

 

Colpisce la magnifica produzione orafa, con l’esposizione di gioielli raffinatissimi, rinvenuti nelle sepolture e realizzati con tecniche di laminatura, a sbalzo 

e in filigrana, prova tangibile dell’elevato standard produttivo raggiunto 

delle maestranze locali in epoca ellenistica;


carpisce l’attenzione un sorprendente nucifrangibulum, schiaccianoci in bronzo le cui leve sono due mani in fattezze sorprendentemente morbide, atte a contenere il guscio, che si prolungano fino ai polsi ornati di splendidi bracciali serpentiformi in oro. Ancora, una ricca collezione di antefisse, cioè elementi di chiusura delle tegole decorate da volti di gorgoni con funzione apotropaica, oppure elementi in carparo, pietra calcarenite locale, provenienti da frontoni o da monumenti sepolcrali. Ad ogni buon conto, il miglior reportage non potrà mai eguagliare il fascino di una visita. La Storia che qui è raccontata, tuttavia, non è fine a se stessa: il MArTA ospita giovani studenti delle scuole secondarie di secondo grado impegnati nei progetti di alternanza scuola-lavoro che, come spiega il dott. Lorenzo Mancini, giovane archeologo estremamente competente che ci ha accompagnati in questo viaggio, prevede per i prossimi mesi la realizzazione di un percorso guidato nella storia della città attraverso la mappatura del territorio che tenga conto della percezione che gli abitanti hanno dello stesso, al fine di fornire loro un solido ancoraggio identitario.

 

Nel corso della visita, incontriamo due scolaresche di bimbetti non più grandi 

di 4 anni che, ordinatamente, attraversano le Sale del Museo e i secoli passati. Questa è la speranza con cui si lascia la città: 

la cultura affidata alle nuove generazioni.


Il lavoro richiede anni, lustri, decenni. Ma in fondo è poca cosa rispetto ai millenni di gloriosa Storia che da qui ha transitato, consegnando ai posteri un senso e un patrimonio. Si può fare, bisogna crederci.

 

 

 

 

 

 

 

Non si tratta di nascondere la testa sotto la sabbia, evitando di confrontarsi con i tanti e radicati problemi che attanagliano la città e che sembra si attorciglino su se stessi generando frutti letali.

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 Immagini concesse dal Museo Nazionale Archeologico di Taranto

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BENEVENTO: LEGGENDA STORIA VETUSTÀ di Hilde Ponti – Numero 10 – Marzo 2018

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BENEVENTO: LEGGENDA STORIA VETUSTÀ

 

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abbonda di testimonianze storiche intrecciate a leggende misteriche, annoverate ormai alla tradizione popolare, spesso confermate da documenti sulla Sacra Inquisizione.

Come si presenta Benevento, città piena di doni, magica per elezione? Si svela come una terra amena, posta in una conca, attorniata da montagne, dove il fiume Sàbato confluisce nel Calore. Un mondo questo, carico di presenze straordinarie. Mille incantesimi, antichità spesso dormienti, attestano un centro sannita che entra nella Storia, solo dopo la vittoria dei Romani su Pirro. Da allora, Maleventum – il nome arcaico, muta in Beneventum – nel 268 a.C. quasi a decretare fortuna.

 

E’ l’imperatore Traiano a procurarle ricchezza, tracciando la via Appia Traiana, 

che avvicina il sito ai commerci del porto di Brindisi.

 

A decretare Benevento capitale, però, dovettero intervenire i Longobardi, creando un principato, dove fiorì la scrittura beneventana: splendidi manoscritti miniati, ancora oggi tesori inestimabili. 

 

Risale proprio a quella Età la leggenda di Benevento esoterica: descrivendo le pendici settentrionali del colle beneventano come zona dove guerrieri barbari davano vita a riti scabrosi, ancestrali, proprio intorno a un albero di noce. Tuttavia, anche dopo il dominio longobardo, le credenze si ammantarono ulteriormente di liturgie diaboliche: donne confessavano davanti al tribunale dell’Inquisizione, aver volato in sella a esseri infernali, al noce di Benevento, celebrare il Sabba e congiungersi al demonio.

 

Talvolta, invece, con afflati fantasiosi, descrivevano con dovizia il volo, 

cavalcando a loro dire scope – forse l’oggetto a loro più familiare – 

sopra i cieli di Roma,

 

zona San Giovanni, la notte del solstizio d’estate, quando si dice che i semplici emanino l’ennesima potenza dei loro principi. Ormai, venivano chiamate Herbane, essendo pienamente consce degli effetti magici dei semplici, elaborati in formule alchemiche, una sorta di scienza da divulgare, marchiandola proprio sotto al noce.  

 

Forse, fu proprio per interrompere sensualità particolari, supplizi e stragi, comunque porre fine a dicerie, che il sant’uomo del posto, nella persona del Vescovo Barbato, pensò di far sradicare la pianta.

 

Niente scandali sul suolo passato alla Chiesa, dominio che durò fino all’Unità d’Italia. Ciò nonostante, la leggenda ebbe a rafforzarsi, tanto da far parlare 

del fatto misterico, pure in un passo de I promessi sposi del Manzoni. 

“L’elemosina. Sapete di quel miracolo delle noci, 

che avvenne molt’anni or sono…?”.

 

Intanto il volgo sposta il racconto sulle rive del fiume Sàbato, alla mitica Ripa delle Janare, luogo atto agli incontri carnali, tra fattucchiere dedite a creare incantesimi, prodigi vari e veleni, con esseri diabolici. Storie di contrada, a cui ha attinto persino un Marchio: torroni e liquore “Strega”, famosi nel mondo. Brand di qualità, che promovendo un importante Premio Letterario, unirà leggenda e cultura editoriale. 

Ma cosa è rimasto della storia infinita di Benevento?

 

Divulgati su argomenti profani, si riparerà decantando la bellezza impareggiabile del Duomo: dove cinque navate ad arco tutto sesto dell’ingresso, mostrano colonne corinzie di epoca romana, mentre la spettacolare facciata ospita, oltre a frammenti romani e bizantini, anche iscrizioni longobarde.
 
Meraviglia desta anche l’imponente Teatro romano: diecimila spettatori accolti sotto venticinque arcate monumentali, costruzione avviata nel 126 a.C. dall’imperatore Adriano. L’età non ha scalfito né la cavea, tanto meno la scena: ospita ancora rappresentazioni liriche e di prosa. 
 

E come non provare emozione all’arco di Traiano? Un vero passaggio trionfale, eretto per onorare l’imperatore, 

in assoluto il più ricco dei monumenti vetusti, splendori in bassorilievo 

rivestiti in marmo pario.


Invece, i rilievi che spiccano nei due fronti esaltano il saggio governo romano, mentre le immagini all’interno riferiscono rapporti fruttuosi dell’imperatore con la popolazione beneventana. 

 

E poi, non si può tralasciare la Medievale Santa Sofia, dove si celebrano ancora manoscritti e miniature coniate dalla Scrittura beneventana. La costruzione è sorprendente, di pianta semicircolare, sontuosa la cupola, sorretta al centro da un giro esagonale di grandi colonne, affascinante prospettico a effetti geometrici, presenta via via un ciclo di affreschi dell’VIII Secolo:

lascia senza fiato quell’arte siriaco-armena.

 

E come non essere ammaliati da cimeli, colonne, lapidi, cippi romani, incastrati talvolta nei muri di case e ancora androni, cortili trasudanti seduzioni quotidiane, archi, palazzetti barocchi del centro vetusto: Benevento è uno scrigno di tesori. Eccellenze da brivido! Incantesimi, non sempre da immaginario collettivo. 

 

 

 

 

 

  

 

 

 

  

 

 

 

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 Foto: witches-brooms-3067494a Gianmichele Galassi. Le streghe hanno smesso di esistere…

 

INCONTRI RAVVICINATI di Sergio Lambiase – Numero 10 – Marzo 2018

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INCONTRI RAVVICINATI

 

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a Napoli, c’è una stretta scala che porta al ballatoio dove sono allineate le arche degli Aragonesi. Impossibile accedervi. Prima sì, era lecito, i padri domenicani chiudevano volentieri un occhio, anche se era raro che qualcuno si avventurasse lassù.

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I bauli, ricoperti di sete e broccati, non avevano serratura. Si potevano sollevare i coperchi e guardare i corpi adagiati su letti di resina, foglie, argilla. Da ragazzo ho avuto più volte il privilegio di contemplare la mummia di Ferrante, di Isabella d’Aragona, di Fernando Francesco d’Avalos vincitore della Battaglia di Pavia, dei principi bambini, senza che nessuno m’abbia fermato o abbia gridato all’effrazione. Privilegio assoluto. La luce scialba del lucernario non impediva di osservare profili e velluti. Incontri ravvicinati. Corpi di marziani rivestiti di una leggera patina verde, come di muffa o di licheni affioranti. C’erano elementi di attrazione, seduzioni che non si possono dimenticare.

Lunghi abiti di velluto, cinture con pietre preziose incastonate, 

gorgiere, scarpine di raso,


cappelli eleganti qualche volta calati su volti ossificati. Molti di questi reperti sono da alcuni anni nelle bacheche del museo attiguo alla sagrestia, prima fasciavano i corpi di oro, di rosso e di verde cupo. Li ingentilivano. Li carezzavano. Li rendevano presentabili per l’Ade. 

 

A San Domenico gli Aragonesi ci sono tutti. Manca all’appello solo il capostipite, Alfonso I il Magnanimo, la cui mummia fu portata nel 1667 a Santa Maria di Poblet, in Catalogna. 

 

Una ventina di anni fa scrivevo per un giornale di Roma anch’esso defunto. Si chiamava “Reporter” ed era diretto da Enrico Deaglio. Un giorno telefono al caporedattore (che era Adriano Sofri) per dirgli: “Caro Adriano, mi piacerebbe fare un articolo su San Domenico, perché nel convento ho scoperto che c’è uno di Lotta continua che ha deciso d’indossare il saio”. “Vabbè” dice Sofri sbrigativo e mi manda un bravissimo fotografo di Salerno per corredare il testo di immagini. Ma al convento l’ex Lotta continua si mostra subito reticente nei miei confronti, proprio non gli va di raccontare la sua storia e le sue lotte, adesso premono gli studi tomistici; i giorni dei cortei, delle parole scarlatte, degli scontri con la polizia sono acqua passata. Scornato, mi rifugio col fotografo nella sagrestia. Ma qui mi attende una sorpresa!

Il consueto silenzio del luogo è rotto infatti dall’andirivieni di due medici al lavoro con tanto di guanti e mascherine.   

 

Salgono e scendono la scaletta che porta al ballatoio con le arche. Sono affannati, sudati, i camici sporchi, come in ‘Medici in prima linea’. Nella sagrestia c’è una luce ancora più scialba perché fuori piove. Ad un certo punto m’arrampico anch’io sul ballatoio col fotografo. I due m’accolgono con iniziale diffidenza, ma poi mi accompagnano in una stanzetta di fianco alle arche dove scorgo un tavolo anatomico con una lunga massa spugnosa al cui centro intravedo una chiostra di denti neri!

 

“Sa cosa è?” mi dice con enfasi uno dei medici (il più affabile) 

che corrisponde al nome di Gino Fornaciari. Il fotografo spara più volte col flash. “Sono i resti di Maria d’Aragona, duchessa del Vasto”. 

 

Mi giro intorno. Su di un tavolino vedo un microscopio, un’ampolla, delle boccette, pinze e bisturi da sala operatoria. Una sedia ai piedi del tavolo ospita una collana di pietre scure, delle bende, qualcosa come un abito stropicciato, tra il giallo e l’avorio, con un cuoricino rosso “Vuole sapere di cosa è morta la nostra Maria? Quasi certamente di sifilide. In una piega del corpo abbiamo trovato infatti tracce certe di treponema pallidum, anche se aveva un principio di tumore all’utero!” 

 

Gino Fornaciari, l’ho scoperto dopo, è il più grande esperto italiano (o al mondo?) di archeologia funeraria. Nel Sud d’Italia ha lavorato spesso: a lui si deve lo studio a Venosa dei resti di Alberada di Buonalbergo, moglie di Roberto il Guiscardo, quello di Iolanda di Brienne e Isabella di Inghilterra nella Cattedrale di Andria, il rilievo paleopatologico degli scheletri della “Casa di Polibio” a Pompei, l’indagine nel Duomo di Salerno del corpo di Gregorio VII (quello che costrinse l’imperatore di Germania Enrico IV a prostrarsi, il capo coperto di cenere, dinanzi alla rocca di Matilde di Canossa, in segno di sottomissione).

Fornaciari ha studiato anche ciò che rimane della stessa Matilde, dell’Uomo di Similaun, dei duchi di Montefeltro, di Sant’Antonio 

da Padova, dei soldati uccisi a Marengo, del conte Ugolino,

 

delle mummie precolombiane, del musicista Luigi Boccherini a cui Fornaciari ha diagnosticato post mortem la scoliosi del violoncellista. Ricordate il film Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo? Ebbene il nostro paleopatologo tratta le mummie con la stessa disinvoltura di Harrison Ford. A Napoli la sifilide è portata dalle truppe di Carlo VIII e qui si scopriranno i primi casi. La città s’infranciosa, come accadrà tra il 1943 e il 1945 con le truppe alleate. È una malattia “alla moda” per il XVI secolo, come l’Aids quattro secoli più tardi. Girolamo Fracastoro le dedicherà un poema in latino: Syphilis seu de morbo gallico, Pietro Rostinio il primo trattato medico sull’argomento – è il 1556 – avvertendo: 

“’l mal francese è male nuovo, di cui niuno giamai fece mentione”, anche se sono passati circa sessant’anni dall’arrivo 

dei soldati di Carlo a Napoli. 


La sifilide fa strage a corte, come testimonia il lungo, appassionato studio dedicato da Fornaciari ai corpi degli Aragonesi, frutto appunto dell’intensa esplorazione compiuta fra il 1983 e il 1987. Per difendersi dall’assalto del morbo gallico tutti i rimedi sono buoni. Ad esempio strofinarsi l’unguento di mercurio sui denti (“Una notte con Venere, tutta la vita con Mercurio” si diceva allora); ma il mercurio a furia di usarlo annerisce i denti, e invano si cerca di togliere via la patina scura che si forma, usando stuzzicadenti metallici o d’avorio, come farà Maria d’Aragona, ma anche Isabella d’Aragona duchessa di Milano, deceduta quasi sicuramente di mal francese.

Ricordo ciò che mi disse Fornaciari: “La sifilide ha risparmiato 

nessuno nella Napoli del ‘500, sa, né ricchi né poveri!”.


Con la differenza che i poveri finivano all’Ospedale degli Incurabili, mentre i ricchi restavano tra le lenzuola ricamate dei propri letti. Ma di quali altri malattie soffrivano gli Aragonesi? Ferdinando Orsini, duca di Gravina in Puglia, “aveva un tumore maligno nella regione naso-orbitaria destra” (leggo nel gran romanzo-rapporto di Fornaciari); Ferrante d’Aragona, re di Napoli, “un adenocarcinoma della prostata”; il vaiolo aveva ucciso un bimbo di due anni (a San Domenico vi sono arche piccole come culle); Luigi Carafa, principe di Stigliano, soffriva di una “iperostosi idiopatica scheletrica diffusa”; Antonello Petrucci, decapitato per la sua presunta partecipazione alla congiura dei baroni, presentava “voluminosi calcoli della colecisti”.

E poi “un ignoto gentiluomo deceduto nella prima metà del XVI secolo reca una ferita mortale da punta, verosimilmente di spada, fra l’ottava 

e la nona costa di sinistra, sulla linea emiclaveare”. 


Per tutti, o quasi tutti, abusi di zuccheri, carni, vino, grassi di origine animale, con tendenza a sviluppare obesità, gotta, diabete, cirrosi, denti guasti, tumori dell’intestino. Sullo sfondo la tentazione dell’alcova, ma lasciando che il
treponema pallidum compia la sua opera distruttiva. 

 

Ma ai ragazzi e alle ragazze di scuola che, coi loro insegnanti, vengono in visita a San Domenico non si possono raccontare queste tragedie e miserie umane, anche se lo sguardo è rivolto in su, alle arche allineate come i vagoni di un treno in miniatura. O, per lo meno, non si possono raccontare interamente, benché film e videogame li abbiano abituati al genere horror; ma qui non si tratta di finzione.

Grazie alle auscultazioni di Fornaciari sappiamo tantissimo
degli Aragonesi e delle loro terribili malattie. Non sapremo mai, 

invece, di cosa è morto il padre domenicano Richard Luke Concanen, primo vescovo cattolico di New York, il cui corpo è sepolto nella sagrestia di San Domenico sotto una lapide del pavimento.


Concanen nacque in Irlanda nel 1747 e morì a Napoli nel giugno del 1810, nella vana attesa di imbarcarsi per prendere possesso della sua carica, perché il blocco continentale impediva alle navi di prendere il largo verso i porti americani. Sulla tomba dello sfortunato vescovo di New York i ragazzi di solito accumulano i loro zainetti. 

 

 

 

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LA BARCA DI ISIDE IL PAPIRO E LA SCRITTURA di Gaia Bay Rossi – Numero 10 – Marzo 2018

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LA BARCA
DI ISIDE 

IL PAPIRO E 

LA SCRITTURA 

Cosa non può l’ingegno? 

Ecco che il palustre papiro, 

ridotto dalla lama in strisce larghe e sottili, 

dà ai mortali lo strumento della carta. 

Allora per la prima volta gli amici lontani 

poterono mandare e ricevere dolci messaggi. 

Vennero poi i codici in onore: 

allora tutti ad esercitare l’animo con gli studi, 

a dirozzare le menti incolte: 

il papiro raffinò il cuore dell’uomo 

e tanta scienza si dispiegò in tanti libri”. 

(Jean Imberdis, 1693)

Quest’antica scritta accoglie i visitatori del Museo del Papiro di Ortigia (Siracusa), un piccolo gioiello incastonato nell’ex convento di Sant’Agostino fondato dai professori Corrado Basile e Anna Di Natale nel 1987, unico museo esistente interamente dedicato al papiro e ai suoi usi, che nel 1995 per la sua importanza scientifica e didattica, è stato inserito nell’elenco finale dei musei selezionati per il prestigioso premio European Museum of the Year. L’ignaro visitatore che si appresta ad attraversare il portone dell’ex convento non può minimamente immaginare quale universo gli si stia per aprire davanti,

 

un mondo incantato di reperti in papiro che riportano 

agli albori della civiltà.

 

Sì, perché il papiro Cyperuspapyrus L. non è solo la pianta da cui si traeva il materiale per gli antichi fogli ad uso scrittorio ma è una specie erbacea perenne che consente la produzione – e così è stato in Egitto sin dal 3.000 a.C. e poi in Palestina e in tutto il mondo greco-romano – di particolari corde, vesti, calzature, recipienti e anche piccole imbarcazioni. Sono proprio tre leggere barche in papiro uno dei fiori all’occhiello del Museo del Papiro.

 

Nei suoi viaggi di ricerca in Africa, il professor Basile si recò prima 

in Etiopia, dove recuperò due delle tre barche presenti al museo costruite nei laghi Tana e Zwai, 

 

e dopo nel lago Ciad, dove andò sia per studiare l’origine della pianta e i tassi di crescita nelle diverse condizioni ambientali, sia per documentare i processi di costruzione delle barche con la tecnica usata dai pescatori Buduma, e dove riuscì ad ottenere una delle ultime “kedeje” con la poppa tronca e la prua rialzata. Le tre barche gli furono anche richieste da un importante museo all’estero, ma lui le ha sempre custodite, rendendole parte integrante dei beni stabili del suo Museo del Papiro. D’altra parte, oltre ad essere degli esemplari rarissimi, rappresentano secoli di storia, tradizioni e leggende. Le barche in papiro, infatti, hanno una storia antichissima, basti pensare che ne abbiamo testimonianze da autori antichi e anche nei passi biblici. Come ci ricorda il prof. Basile, Isaia descrive i viaggi degli ambasciatori etiopi dall’Egitto alla Palestina su barche di papiro, e nell’Esodo è scritto che la madre di Mosè mise il figlio in un cestello di papiro. 

 

Altre testimonianze antiche narrano la leggenda secondo cui 

in nessun caso un coccodrillo avrebbe attaccato chi navigava 

su un’imbarcazione in papiro per rispetto alla dea Iside 

che ne aveva utilizzata una lungo il Nilo alla ricerca 

del corpo straziato del marito Osiride.

 

Ma questo è solo un tassello della ricca collezione del Museo. Oltre alle imbarcazioni,

 

il museo espone la collezione di papiri faraonici del XV sec. a.C., 

ieratici, demotici, greci, copti e arabi, poi alcuni manufatti in papiro, 

come corde, che fabbricate nell’antico Egitto venivano esportate 

in tutto il Mediterraneo,

 

sandali, fabbricati sin dall’epoca faraonica, e recipienti utilizzati per conservare cibo o altri materiali; infine anche i papiri prodotti a Siracusa dal XIX secolo, con la manifattura della carta di papiro e i materiali e strumenti scrittori, come pigmenti di alcuni colori, penne e palette. Il ruolo svolto dal Museo del Papiro non è solo quello riguardante la parte museale vera e propria, ma è anche tutto ciò che concerne la ricerca scientifica e storica, gli studi sulla pianta, sul trattamento della carta papiracea e sulla conservazione dei papiri antichi. Non meno importanti gli studi sull’origine del papiro in Sicilia e l’uso della pianta nelle varie culture.  

 

Nel 2017 il Museo del Papiro, attraverso i due soci fondatori, è stato premiato dal Museo Egizio del Cairo per essere stato promotore 

sin dal 1998 del “Progetto di restauro dei papiri in Egitto” 

 

in collaborazione con istituzioni culturali e scientifiche egiziane, con lo scopo di favorire l’attività di ricerca e di studio nel campo del restauro dei papiri antichi, nonché per la creazione del più grande “Laboratorio di restauro dei papiri” all’interno del Museo Egizio del Cairo, che è operante dal 2005. Il Museo del Papiro di Siracusa è l’unica istituzione ad aver ricevuto dal Museo Egizio del Cairo un così importante riconoscimento, cui si aggiunge il decreto governativo che nomina Corrado Basile consulente per tutti i progetti di restauro dei papiri in Egitto.

 

Poiché le radici ci riportano spesso a casa, tra i vari rami di studio, 

il professor Basile si dedica anche all’indagine storica del papiro 

in Sicilia e alla tutela della pianta nell’ambiente fluviale 

del fiume Ciane e dei papiri della Fonte Aretusa di Siracusa. 

 

Il papiro è presente lungo le sponde del Ciane, il fiume di mitologica e storica fama che scorre a pochi chilometri da Siracusa. La caratteristica che rende unica quest’area protetta è che, se si esclude la piccola colonia di Fiumefreddo di Sicilia (Catania), il papiro del fiume Ciane è considerato l’ultimo superstite di una maggiore presenza in Sicilia nel versante orientale e in quello meridionale, ed è in assoluto la più grande colonia europea di Cyperuspapyrus L. Ma i papiri sono presenti fino nel cuore di Siracusa, a Ortigia, all’interno della Fonte Aretusa, uno dei monumenti più importanti e visitati della città, le cui piante sono state affidate alla cura e al mantenimento del Museo del Papiro, che peraltro possiede un’ampia documentazione archivistica delle piante della Fonte. Di questa fonte con i suoi papiri rimase affascinato anche Orazio Nelson che, quando sostò a Siracusa nel 1798, prima di affrontare Napoleone ad Abukir scrisse: “Grazie ai vostri sforzi noi ci siamo riforniti di viveri ed acqua, e sicuramente avendo attinto alla Fonte Aretusa, la vittoria non ci può mancare”. Nei secoli il papiro è stato utilizzato dai pescatori siracusani per intrecciare corde o dai contadini per legare covoni,

 

mentre le ampie chiome verdi erano impiegate come decorazione 

per ricoprire pavimenti di strade e chiese durante le festività.

 

Inoltre grazie alla vasta presenza della pianta, Siracusa sviluppò la produzione di carta di papiro sin dall’antichità per arrivare ai giorni nostri con alcune piccole eccellenze. Il prof. Basile ha iniziato a occuparsi negli anni Sessanta delle antiche tecniche di fabbricazione della carta di papiro e del restauro conservativo dei documenti papiracei antichi e oggi, all’interno del suo museo, spiega ai visitatori e agli studenti la manifattura della carta papiracea. Per riassumere in poche parole 

 

come sia possibile da una pianta arrivare a un foglio ad uso scrittorio,

 

si utilizza la porzione mediana del fusto raccolto nel momento di più idonea maturazione. Il fusto è liberato dalla scorza e tagliato in strisce (lunghe anche 40 cm). Dopo il pretrattamento con particolari soluzioni, le strisce vengono appoggiate su un panno e sovrapposte di qualche millimetro, formando un unico strato. Si procede poi con un secondo strato disposto perpendicolarmente al primo. Il tutto viene poi pressato con un torchio o un rullo. Traslando un nostro modo di dire molto conosciuto, possiamo in conclusione affermare che “del papiro non si butta via niente”. Abbiamo visto la vasta quantità di oggetti che venivano prodotti con questa pianta, ma non è finito: le ombrelle infatti erano usate anche nelle feste e nei riti funebri, i germogli più teneri venivano mangiati, lessi, arrosto o crudi, succhiando la parte più liquida e gettando la polpa, i rizomi erano utilizzati come ottima legna da ardere.

 

Così lo studio, la cura e la conservazione di questa straordinaria pianta hanno trasformato un piccolo museo di una città del sud 

in un’eccellenza internazionale,

 

con i suoi fondatori chiamati a partecipare a campagne di scavo in Egitto, convegni internazionali, inaugurazioni di biblioteche e musei in Egitto, pubblicazioni su riviste scientifiche, cattedre universitarie e riconoscimenti pubblici.

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IL SOGNO MEDITERRANEO DI FEDERICO II di Fabio De Paolis – Numero 10 – Marzo 2018

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IL SOGNO MEDITERRANEO DI FEDERICO II

 

E anche se questo nome non fu più usato nel battesimo egli venne accolto nella comunità cristiana con i nomi di entrambi i suoi grandi nonni monarchi: Ruggero II Re di Sicilia, e Federico I Imperatore del Sacro Romano Impero. Nel XIII secolo Federico, Sacro Romano Imperatore, si presentava, durante le grandi celebrazioni religiose, indossando una tunica e una dalmatica di seta siciliana, calzari e calze rosse, sempre in seta siciliana e guanti dello stesso colore tempestati di perle. Poi indossava altresì un mantello color rosso cupo, con ricami in oro rappresentanti un leone artigliante un cammello, nei bordi una iscrizione in arabo che voleva significare che quel manto era stato confezionato nel 1133 per il Sommo Ruggero nella città di Palermo.

Il rosso della seta (come la porpora bizantina) testimonia la discendenza romana del potere esercitato da chi se ne ammantava

 

Erano colori che venivano utilizzati normalmente dagli imperatori bizantini, dai pontefici e da tutti quelli che accampavano diritti di autorità universale e assoluti. Nemico giurato dello sgretolamento feudale, Federico II sognava sin da giovanissimo di restaurare sotto la sua autorità l’unità dell’antico impero romano. E ne mostrava l’intenzione ad ogni occasione e con ogni mezzo. Come per gli abiti, anche la corona che l’imperatore indossava in Sicilia e nell’Italia meridionale era carica di simili richiami. Era di una forma creata alla moda degli imperatori bizantini, cinta torno torno, sia in tessuto ricamato o in metallo prezioso, da lunghi pendenti scintillanti di gioielli, un semicerchio che simboleggiava il dominio temporale di chi la portava. La tunica, la dalmatica e la corona consacravano Federico II come possessore di uno status superiore a quello del comune mortale, come una mediazione tra Dio e l’uomo, un riflesso maestoso del Signore sulla terra.

 

Erede delle corone di Germania e di Sicilia, Federico II 

appena ebbe l’occasione diede luce ai suoi sogni, 

e con grande energia perseguì i suoi ideali.

 

Ideali complessi, estremamente conflittuali. Ideali che partivano dal presupposto che l’umanità in seguito al peccato originale fosse condannata a discordie e violenze. Ne conseguiva che lo Stato voluto da Dio, era l’unico strumento che consentisse all’umanità di organizzarsi in una comunità rivolta al conseguimento di pace e giustizia. Era lo Stato che doveva assicurarle entrambe, ed era Dio che ne affidava la guida a un unico individuo, l’Imperatore. Egli era al vertice della gerarchia, l’esempio vivente di virtù e modello di perfezione terrena. L’Impero e i sudditi erano legati da un vincolo di fedeltà: chiunque lo avesse infranto doveva essere punito dal sovrano.

Con simili presupposti, tra l’Imperatore ed i successoridi Papa Innocenzo III, 

gelosi della propria autorità temporale,e convinti della superiorità 

della Santa Sede rispetto all’Impero, l’urto era inevitabile.


Per tradizione i Papi tenevano alla separazione fra le due corone di Imperatore e di Re di Sicilia. Federico promise certamente ad Innocenzo III di abbandonare il Regno non appena avesse cinto la corona imperiale ma poi nei fatti non ne fece nulla. Al contrario alla morte di Innocenzo III (il pontefice a cui la madre morente lo aveva affidato per sottrarlo alle lotte interne tra i grandi feudatari)

 

riunificò le corone di Sicilia e Germania e si dedicò subito 

al rafforzamento proprio potere.


La concezione monarchica e la struttura amministrativa passarono indenni attraverso l’apparente anarchia della giovinezza di Federico II per costituire la base di un rinnovato dispotismo normanno dopo il 1220. Federico in quanto imperatore portò alla ribalta mondiale idee normanne di monarchia. Questo era l’elemento mancante nell’assolutismo romano di Ruggero II: la dimensione universale. Con Federico questa dimensione era ora presente. E da lui venne sfruttata con energia.

 

Padrone del Regno di Sicilia, titolare dell’Impero, assertore
dell’autorità sovrana sulle città dell’Italia Settentrionale,
Federico II era detto dai suoi ammiratori “Stupor Mundi”,
ma anche “Bestia dell’Apocalisse“ dai suoi detrattori.


E questo perché Federico II con la sua ambizione, il suo pensiero politico, la sua mentalità moderna e il suo culto della ragione, con la sua indifferenza religiosa, il suo spirito di avventura, con la totale mancanza di scrupoli, rappresentava per lo Stato della Chiesa una minaccia continua, superiore a qualsiasi altra presentatasi nei secoli precedenti della storia medioevale. I pontefici videro in lui un nemico astuto, ardito, potente e giudicarono combatterlo con tutte le loro forze. Federico, che era totalmente convinto della sua missione, si erse a rigido difensore dei suoi diritti, si vide come fautore del nuovo assolutismo monarchico.

Stabilì che l’Italia Meridionale fosse la base adatta per affermare
il suo potere dove, a differenza della Germania, la sua autorità
era ben più salda. Nell’ottica delle sue grandissime aspirazioni,
il Regno venne scelto per crearsi nel Sud
una base solida e prospera:


il centro di un vasto impero mediterraneo. Federico, con energia profusa senza limiti, vi ristabilì l’ordine compromesso ai tempi della sua minore età, spezzò le resistenze dei feudatari, soffocò le aspirazioni autonomistiche dei comuni. Di tutto il suo Impero, la Sicilia era il possedimento più amato da Federico II. La sua fucina. La Sicilia non solo perché vi aveva trascorso la fanciullezza. O perché era una terra estremamente ricca e opulenta.

Ma in primis perché era strategica ai suoi fini: era soprattutto
da quelle coste che si controllavano le rotte commerciali
del Mediterraneo. Una fitta rete di scambi collegava
l’isola con la costa Africana, la Puglia, Salerno,
Napoli, Amalfi e l’Oriente.


Dalla Sicilia, e non dalla Germania, che si poteva creare una fortissima economia in grado di realizzare il suo sogno. Questo era il sogno mediterraneo di Federico, un sogno, però, che non teneva in debito conto sia il potere del Papato sia la complessa situazione interna della Sicilia. Ma di questo parleremo la prossima volta.

 

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MASSIMO TROISI, IL CUORE E LA MENTE di Fernando Popoli – Numero 10 – Marzo 2018

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MASSIMO TROISI, ILCUORE E LA MENTE

potremmo dire che è quasi una periferia non essendoci soluzione di continuità tra le due città. Massimo Troisi nacque lì, in un contesto popolare, autentico, tradizionale, fatto di gente semplice che crede nel grande spirito della napoletanità e parla quella lingua universale che è il dialetto napoletano, comprensibile a tutti specialmente quando è “interpretata” da un attore partenopeo. Basti pensare che il grande Eduardo, al quale Troisi fu spesso paragonato, recitò a Mosca in una sua commedia nella sua lingua d’origine. Anche Troisi reputava la lingua napoletana consone alla sua recitazione e, in occasione di un’intervista televisiva fatta da Isabella Rossellini che gli chiedeva il motivo per cui recitasse in dialetto, dichiarò: “Io mi sforzo di capire l’italiano, perché gli altri non si sforzano di capire il napoletano”. 

 

Le sue prime apparizioni sul palcoscenico avvennero nella sua città natale, in una sala parrocchiale, con gli amici d’arte e di vita Lello Arena ed Enzo De Caro.

Era allora timidissimo e non sapeva se avesse potuto affrontare 

il pubblico, ma poi dichiarò che nell’oscurità della sala non vedeva 

la platea e quindi poteva recitare poiché aveva 

la sensazione di stare da solo e al buio.

 

Il successo del trio fu immediato e in breve fu consacrato anche da uno spettacolo televisivo che ebbe una grande risonanza. Furono ribattezzati La smorfia quando, alla domanda di Pina Cipriani, direttrice del San Carluccio, teatro napoletano nel quale avevano lavorato, che chiedeva come si chiamassero, Massimo rispose con una smorfia del volto e la Cipriani affibbiò al trio questo nome. Dopo la prima apparizione televisiva, la Smorfia si pose all’attenzione di un vasto pubblico che vedeva sopratutto nel personaggio di Troisi, nella sua poetica recitativa, nella sua evidente timidezza, nel suo parlare la propria lingua, un’espressione del disagio giovanile e delle problematiche sentimentali che coinvolgono i giovani. 

 

Ben presto il cinema mise gli occhi su questa giovane rivelazione del teatro napoletano e il produttore Mauro Berardi offrì a Troisi il ruolo di Franceschiello in un film che doveva essere diretto da Luigi Magni. Il film non si fece ma 

 

Berardi disse a Massimo di pensare a un film tutto suo 

dove egli potesse essere autore e attore.

 

Nel giro di pochi mesi, con l’aiuto di Anna Pavigliano, Ottavio Jemma e il futuro premio Oscar Vincenzo Cerami, nacque la sceneggiatura di: Ricomincio da tre, primo film del grande attore, al quale ne fu affidata anche la regia. Il direttore della fotografia, Sergio D’Offizi, mi ha raccontato che il primo giorno di lavorazione chiese a Massimo dove posizionare la macchina da presa; questi, con la comicità spontanea che lo distingueva, rispose: “Lanciamola in alto e vediamo dove cade”. La sua scarsa conoscenza del linguaggio cinematografico fu superata da un’interpretazione eccezionale, dove l’attore, al centro dell’inquadratura,

 

esprimeva tutto se stesso, rivelando la sua natura spontanea. 

Era una recitazione fatta di pause, parole dialettali, 

espressioni di timidezza, sensibilità certamente nuova, 

atipica e originale.

 

Il film metteva in luce il disagio della retorica sui napoletani e ne faceva superare i luoghi comuni attraverso un’incredibile comicità. Il successo fu enorme, Ricomincio da tre divenne un caso nazionale che dette una svolta al cinema italiano in crisi in quegli anni e Massimo Troisi fu consacrato una grande stella, unica e originale per il modo di porsi, ben presto contesa da tutti. Vinse due David di Donatello, tre Nastri d’argento e due Globi d’oro. Il secondo film completamente di Troisi fu: Scusate il ritardo, dove, in una storia d’amore, Troisi interpreta il suo personaggio con la timidezza e l’indecisione di sempre, consacrando così la sua recitazione. Anche questo film fu un grande successo di pubblico e di critica.

 

L’attore fu paragonato a Totò e a Eduardo De Filippo 

per la sua originalissima interpretazione, ma rifiutò l’accostamento, 

dichiarando di non essere assolutamente alla loro altezza.

 

Nell’arte e nella vita era un uomo timido e riservato, spontaneo e naturale, che rivelava la profondità del suo animo sensibile con un linguaggio semplice e universale. La sua attività cinematografica proseguì con il grande Roberto Benigni nel film Non ci resta che piangere, dove i due attori espressero il meglio di loro stessi in un’indimenticabile interpretazione. Un’accoppiata vincente, il napoletano e il toscanaccio, qualcosa di unico e raro. Poi venne il periodo della collaborazione con Ettore Scola e il sodalizio artistico con Marcello Mastroianni in Splendor e in Che ora è.

 

Scola diceva di aver adottato Troisi e di trattarlo come un figlio, 

spesso la mattina andava a trovarlo nella sua abitazione per parlare 

di arte e di cinema. Due meridionali di grande prestigio, 

l’uno regista, l’altro attore,

 

l’uno napoletano di S. Giorgio a Cremano, l’altro campano di Trevico. L’ultima interpretazione, quella che lo portò a cinque nomination per il premio Oscar fu Il postino, toccante storia di un’amicizia tra un poeta e un portalettere, tratto da un romanzo di Antonio Skármeta, diretto da Michael Radford, ambientato nella splendida cornice delle isole di Salina e di Procida. Questa interpretazione gli costò la vita. L’attore era affetto sin da bambino da febbre reumatica, che sviluppava una grave degenerazione della valvola mitrale, complicata dallo scompenso cardiaco. 

 

Operato a Houston già una volta, doveva sottoporsi a una seconda operazione per il cambio delle valvole deteriorate. Scelse prima di girare il film, quantunque gravemente compromesso dalla malattia, dichiarando “lo voglio fare con il mio cuore” e riuscì a terminarlo qualche giorno prima della fine. Per lui l’arte era più importante della vita.

 

La morte lo colse nel sonno a quarantuno anni, dodici giorni dopo la fine delle riprese, per un fatale attacco cardiaco. Le sue spoglie riposano per sempre affianco a quelle dei genitori nel cimitero di S. Giorgio a Cremano, dove aveva iniziato la sua carriera artistica; in quel mondo che fu sempre suo e lo portò a raggiungere le più alte vette della recitazione, spinto dal bisogno di esprimere la sua grande vena poetica di attore e autore. Nell’isola di Procida, una piazza della marina Corricella è intitolata all’attore napoletano. Nel porto di Salina, un tratto della banchina è stato chiamato: “Passeggiata Massimo Troisi” e vi è conservata la bicicletta adoperata nel film.

 

Sean Connery, dopo aver visto Il postino, dichiarò: 

“E’ il più bel film che abbia mai visto”.

 

Non dimenticheremo mai quel portalettere sprovveduto e confuso nel Postino che va a lezione dal grande poeta Neruda, interpretato da Philip Noiret, per farsi scrivere le poesie per la ragazza di cui è innamorato, per capire, sapere, conoscere e arricchirsi di cose per lui assolutamente nuove; e quando afferma sulla spiaggia in riva al mare in una conversazione filosofica con il poeta: “Il mondo intero è la metafora di qualcosa.”

 

 

 

 

 

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IL FUOCO E IL MARE di Giorgia Ippoliti – Numero 10 – Marzo 2018

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Il marinaio, unico sopravvissuto, pur di non essere sopraffatto dalle onde burrascose, si aggrappò a quel che rimase della sua imbarcazione e, a quel punto, si trovò nella più profonda oscurità. Non gli rimase che rivolgersi al cielo. “(…) Mamma, Mamma ‘e tutt’‘e Mmamme, aiutame tu!”2.
Improvvisamente la notte si fece giorno.
Un’immensa luce lo colse, e gli sembrò di udire una musica celestiale. Una bella signora, vestita di bianco, e cinta nel capo da dodici stelle, gli tese la mano; non v’erano dubbi: era l’Immacolata Concezione!

 

Allora l’acqua, prima ostile e nemica, divenne un valido alleato,
tanto che le onde lo cullarono, privo di sensi, fino a riva.

 

Si risvegliò, all’alba, sull’arenile, accanto alla banchina di Zi’ Catiello. A metà, tra il sogno e la realtà, fu avvistato da alcuni passanti, che accorsero in suo aiuto, con estrema gioia e stupore. Anche questa volta, la vita aveva vinto. Ripresosi, capì che ciò che aveva vissuto non era un sogno … e che quella era, sì, la Mamma di tutte le mamme. Chiamò i presenti “Fratièlle e Surelle” intorno a un falò e insieme cominciarono a recitare il Rosario alla Madonna. 

 

Basta rompere le barriere del pregiudizio e dello stereotipo, che annebbiano la vista, per entrare in contatto con un mondo strabiliante e ricco di

 

tradizioni che, con la loro attualità e forza, irrompono
nella vita di ognuno di noi.

 

È proprio quello che accade a Castellamare di Stabia dove, in un fulgido esempio di unione fra presente e passato, ancora oggi la tradizione svela quella forza viva che la anima e che risiede nella nostra contemporaneità.

Nella notte tra il 7 e l’8 dicembre, in questa splendida provincia napoletana, città delle acque – ben ventotto sorgenti di acque minerali differenti – la storia di Luigi prende vita. 

In un parallelismo fra cielo e terra, nei dodici giorni antecedenti a questa notte, corrispondenti alle dodici stelle di cui era cinto il capo della Mamma delle mamme, riecheggia, dalle prime luci del mattino, la cantilena dei Fratelli e Sorelle che, richiamando tutti i fedeli, li esortano a “dare la voce” a questa tradizione, che suona come un ringraziamento, proprio come secoli prima fecero il marinaio e le persone accorse.

 

La notte diventa di nuovo giorno. Una voce rompe il silenzio, squarciando il buio dell’oscurità.

 

Un richiamo alla preghiera, dunque, gridato a gran voce – ogni quartiere ha la sua “voce” – da un uomo che, camminando per le strade insieme ai fedeli, ogni giorno, annuncia nel canto la stella della Madonna in cui ci si trovi. In ogni angolo della strada, in ogni quartiere, in ogni casa, prende vita questo canto di gioia e di speranza. Sull’arenile della città, proprio come avvenne sull’arenile vicino alla banchina di Zi’ Catiello, si accendono i falò, detti “fucaracchi”, dove nascono momenti di condivisione, con musica e balli tipici.

 

O’ pale e miezz, la legna, viene raccolta dai ragazzi dei rioni
che, già diversi mesi prima, iniziano a ricercare tutto ciò
che possa rendere il falò vivido e imponente.

 

La voce dei Fratelli e Sorelle risuona in ogni rione, accompagnata, nella prima e nell’ultima notte, da una banda musicale che, in un unico suono di giubilo, invita i presenti a unirsi per ringraziare Colei che, secoli prima, salvò quel marinaio sconosciuto e riconoscente. Tutti gli stabiesi si riuniscono in strada e, nell’ultima notte – quando sono terminate le dodici stelle – attendono l’alba: percorrendo un’ultima volta il percorso votivo, intonano l’invocazione alla Madonna. 

Il paesaggio è incredibile. Castellammare di Stabia, città del mare, si colora di vivacità e ardore…

 

la maestosità del fuoco e i suoi vividi colori invadono
ogni angolo, ogni casa, ogni cuore.

 

In un’atmosfera suggestiva, davanti a spettacoli pirotecnici, che si proiettano nel cielo e nel mare, come in un gioco di specularità e simbiosi, la tradizione di Luigi si svela con tutta la sua attualità. Un’attualità fatta di vita, di gioia, di condivisione. Uno scintillio di canti e balli, un profumo confortante di antico e invincibile, scaturente dalla commistione di salsedine e legna, un vento di speranza da una tradizione, da una cultura che, nonostante le difficoltà, vuole innalzare al cielo la propria storia e la propria identità. Un parallelismo fra passato e presente, fra memoria e attualità, un turbinio di insegnamenti che si innestano nella notte dei tempi arrivando sino ai giorni d’oggi. Una città, quella stessa città che anni prima si unì al coro di Luigi, che non dimentica le proprie radici.

 

È un ringraziamento, un inno alla vita, un gesto di gratitudine
di un popolo che ha memoria e che non vuole dimenticare
la storia di quell’immenso miracolo chiamato Vita.

Tutto questo grazie al fuoco, simbolo di calore che riscalda corpo e anima, e del mare, quale metafora della vita che, tra alti e bassi, vale la pena di essere celebrata.

 

 

 

Luigi, detto “O’ Chiavone”, in una notte come tante, si trovò ad affrontare, con la sua imbarcazione (O’ paranziello), con tutto il suo equipaggio, una tempesta, di un’imponenza tale da non essersi mai vista. “(…) un colpo di mare spazzò via i marinai dalla coperta e poco dopo la barca fu inghiottita dal mare (…)”1

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IL FUOCO E            IL MARE

 

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castellammare
decoro cultura

1 “Antiche Tradizioni Stabiesi – Fratièlle e surélle” di Ciro Alminni – anno 1999.

 

2“Antiche Tradizioni Stabiesi – Fratièlle e surélle” di Ciro Alminni – anno 1999.

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I GIARDINI DEI POMI CITRINI di Giorgio Salvatori – Numero 10 – Marzo 2018

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 I GIARDINI DEI POMI
CITRINI

 

 

È “giardino” la parola più usata per descrivere gli agrumeti
di cui si ammantano, in un tripudio di sfumature dorate,
gli assolati declivi del Meridione.

 

Forse un legame inconsapevole con la leggenda o, secondo alcuni, la memoria degli anni in cui gli aranceti erano architetture arboree ornamentali, in Europa, poiché solo la varietà non edule del frutto, l’arancia amara, era conosciuta e coltivata in Occidente dopo la sua introduzione dall’Oriente. Quando e come questo avvenne, però, è storia ingarbugliata. Si sa soltanto che padre di ogni agrume è il cedro e che l’Asia è la sua patria d’origine. I romani lo conobbero ben presto, anche se ne facevano un uso officinale. Ogni altro agrume, secondo i botanici, deriverebbe da lui. Arance e limoni, però, trionfo di odori e di colori mediterranei, arriveranno più tardi. Prima come abbellimento di ville padronali, infine, ma è questa è storia relativamente recente, come frutti da gustare non soltanto con gli occhi, ma anche con il palato. Un amore non a prima vista, ma solido, quello del nostro Paese con i giardini delle Esperidi.

 

Strano, però, che le vicende legate alla introduzione e alla coltivazione degli agrumi in Italia siano state narrate da pochi e pazienti cultori 

della storia degli agrumi. Una lacuna colmata da una splendida pubblicazione delle Edizioni del Rosone 

e firmata da Nello Biscotti, 

 

pugliese, botanico, con al suo attivo già numerosi saggi sulla flora e la natura della sua regione. Il titolo è Storie di agrumi e paesaggi. I pomi citrini del Gargano. Se l’attenzione e la ricerca sono soprattutto focalizzati sui “giardini” del Gargano, appunto, terra di cui si sono nutriti il corpo e lo spirito dell’autore, la ricostruzione della penetrazione nel bacino del Mediterraneo dei leggendari pomi delle Esperidi è dettagliata e accurata. Biscotti non si limita a definire l’anno o il periodo in cui sulle tavole dei popoli del Mediterraneo si consumano le prime arance dolci (fine del diciottesimo secolo); narra la complessa genesi attraverso cui si giunge alla domesticazione dei pomi selvatici, all’acquisizione di questi frutti esotici nell’alimentazione quasi quotidiana delle nostre famiglie e alla scoperta delle loro proprietà di contrasto per numerose malattie umane.

 

Un lungo viaggio che comincia in Cina, in India, nell’odierno Bhutan, 

in remote regioni del Sudest Asiatico, e che si conclude
nell’esaltazione trionfale che, dei pomi citrini,
sanno celebrare 
i Paesi del Mediterraneo 

e l’Italia in particolare.

 

Non mancano le curiosità. Prima tra tutte la spiegazione del nome “portogallo” che, ancora oggi in alcune regioni, viene usato per riferirsi all’arancia dolce. Una traccia lessicale del periodo in cui si riteneva che questi pomi agrodolci provenissero dal Portogallo, Paese tra i primi a trarre profitto del loro commercio. Fin qui, però, il lavoro di Biscotti si inserisce nel novero delle ricerche dotte mettendo pazientemente insieme i tasselli di un mosaico fatto di richiami storici, citazioni di studi pregressi, elaborazione di dati desunti da fonti specialistiche. Il grande merito della sua opera risiede soprattutto altrove. Ed è duplice. Il primo merito risiede nella fresca lettura mnemonica che l’autore svolge tra i suoi vividi ricordi d’infanzia sul Gargano, l’affresco di un’Italia rurale identica ovunque. Val la pena di trascriverne alcuni: “Il giorno più bello (d’estate, n. d. r.) era quello in cui dicevamo: – Domani ci trasferiamo al giardino – (in corsivo). Si era a luglio e l’idea di poter vedere il mare era fortissima, ma vi era dell’altro e ancora oggi non riesco a decifrarlo fino in fondo.

 

Era probabilmente l’idea di una campagna vissuta, abitata
da tanti bambini, uomini, donne, pescatori che vendevano
alici, sarde, telline, tante volte barattate
con un cesto di arance. 

 

La sera si riunivano in tanti a suonare tarantelle e chiacchierare, discutere, raccontare favole ai bambini. La gioia era probabilmente quella di poter stare con zii, cugini, nonne, tutti insieme a condividere 15-20 metri quadri di una casetta che ogni anno si pitturava con la calce all’interno e di rosso pompeiano all’esterno. C’erano ancora le arance ed ogni momento era buono per mangiarne una e, se si aveva molta fame, bastava strusciarla su una grossa fetta di pane, il tutto condito con tanto olio di oliva che non mancava mai”. Suona lontana questa armonia per chi vive oggi un’infanzia o un’età matura immerse nella inconsapevole distopia del caotico universo digitale. Eppure si tratta di memorie degli anni sessanta del secolo scorso, non di protostoria dell’umanità. Il secondo merito è nella descrizione accurata, la prima, nel suo genere, delle tante varietà di pomi citrini coltivati nel Gargano, dalla loro età dell’oro, quando erano considerati i più pregiati e si esportavano agrumi perfino negli Stati Uniti, fino alla loro decadenza, negli anni dello spopolamento delle campagne, quelli in cui il “giardino delle Esperidi” si cercava in città, nelle metropoli del Nord Italia e addirittura nelle miniere del Belgio, dove morirono tanti nostri connazionali.

 

Ecco allora sfilare davanti agli occhi del lettore, attraverso descrizioni accurate o suggestive immagini fotografiche, arance forti, “femminine”, rugose, a spina, “toste”, limoni lustrini, sanguigni, incannellati,
melangoli bizzarri e tanti altri ancora, dai nomi stravaganti 

e misteriosi, che ci attraggono o ci lasciano perplessi. 

 

E oggi? Oggi qualcosa si muove. La richiesta di arance del Gargano è in ripresa. “C’è perfino un’azienda di bevande analcoliche del Nord che reclamizza alcune bibite come aranciate con succo di agrumi del Gargano” -dice con orgoglio Biscotti e racconta di come questa timida ripresa sia frutto di un lungo e paziente lavoro di ricostruzione della rete di coltivazione, raccolta e commercializzazione degli agrumi del Gargano. Una ricostruzione avviata anche con provocatorie esposizioni pubbliche di frutti abbandonati nei giardini negli anni ottanta e novanta, incontri con rappresentanti politici regionali e nazionali, partecipazione ad una edizione del Salone Internazionale del Gusto a Torino, nel 2000, sostenuta dal graduale interesse di testate radiofoniche e televisive.

 

Fino ad arrivare al riconoscimento IGP (indicazione geografica protetta) per due varietà tipiche, il limone femminello, nel 2006, 

e l’arancia bionda nel 2007.

 

Entrambe possono essere considerate eccellenze del Sud non soltanto perché uniche per colore, sapore, consistenza, resistenza alle avversità climatiche, ma perché rappresentano un mondo degno di essere conservato e tramandato per lo straordinario patrimonio di conoscenze che generazioni di agricoltori ci hanno consegnato. Un modello di coltivazione ammirevole, su terreni talmente impervi che sarebbe difficile ipotizzare altre produzioni agricole di eccellenza con le moderne tecniche di coltivazione. Ci sono tutti gli ingredienti perché “i pomi citrini del Gargano tornino ad essere risorse di qualità” -dice Biscotti, e si tratta dell’unica strada percorribile per salvare anche un paesaggio che resta ancora uno dei più belli e più intatti del Sud. Mutatis mutandis, si dovrebbe “tornare indietro per andare avanti’’. Era una frase, quasi un ossimoro che amava ripetere Tatanka Yotanka, alias Toro Seduto, il grande leader dei Lakota Sioux. Un insegnamento che sembra voler far proprio Nello Biscotti a proposito dei suoi pomi citrini dello Sperone d’Italia e che noi, di cuore, condividiamo.

 

 

 

 

 

LIBRO
AGRUMI

Tavola 1. Rappresentazione di un campione significativo della diversità che ha caratterizzato la storica agrumicoltura del Gargano. 1. Limone incannellato; 2. Limone ovale; 3. Limone fusillo lunario; 4. Limone tunno; 5. Limone sanguigno; 6. Limone lustrino; 7. Limone tondo vecchiarino; 8. Cedro liscio oblungo; 9. Limone tondo vecchiarino; 10. Arancia a pera; 11. Arancia scorciuta; 12. Arancia varlotto; 13. Mandarino meditteraneo; 14. Arancia sferica; 15. Arancia sanguigna; 16. Arancia virgata; 17. Arancia tosta depressa;18 Arancia Patrenostro; 19. Arancio forte; 20. Bergamotto.

in origine

sorvegliato da un drago e dalle figlie di Atlante: Egle, Eritea, Esperetusa, le Esperidi. Questa, in estrema sintesi, è la leggenda, anzi, una versione della leggenda. Una storia che nasce dalla mitologia greca, si intreccia con la leggenda dell’albero dell’immortalità e le vicende della guerra di Troia e giunge fino a noi, con i frutti dorati dei “giardini” del Sud. Pochi, infatti, dalla Sicilia alla Calabria, dalla Puglia alla Campania, usano il termine “agrumeto” per riferirsi alle coltivazioni di arance, cedri, limoni.

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L’ABRUZZO NON ESISTE di Marzio Maria Cimini – Numero 10 – Marzo 2018

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L’ABRUZZO NON ESISTE

 

sarebbe piaciuto a Giorgio Manganelli (1922-1990), che all’Abruzzo ha dedicato pagine terse e solenni, forse le più belle che siano state scritte su questa regione ascosa e spigolosa. Quando l’attraversò in lungo e in largo, nel 1987, scortato dall’automedonte Pino Coscetta, entrambi al soldo del Messaggero, trovò che l’Abruzzo fosse “specializzato nella produzione di freddo” e gli abruzzesi “bizzosi, protervi”, con collane di serpenti, latori di “qualcosa di acre e insieme di angolosamente elegante” 1 e gli piacquero non poco.

 

Non era nuovo alla scoperta dell’Abruzzo, Manganelli: l’attraversò con la sua Bakunina, un motorino anarchico, scendendo direttamente da Milano, sua città natale, dalla quale fuggiva, fuggendo da una madre ebrea convertita cattivissima (“qual è la differenza tra un condor e una madre ebrea? Entrambi ti mangiano il cuore, ma almeno il condor aspetta tu sia morto”), da una moglie che non lo amava, da una figlia in fasce, da un’amante un po’ matta che rispondeva al nome di Alda Merini, andando incontro al suo destino di grande scrittore, a Roma. Allievo, a Pavia, di quel Vittorio Beonio Brocchieri che alla guida di un monomotore solcava i cieli dei due emisferi puntando dritto ai Poli, Manganelli non era neppure minimamente progettato per il viaggio: pingue e nevrotico, attraversato da milioni di incubi e manie, manderà nondimeno corrispondenze mirabolanti e straordinarie dalle sue esplorazioni di mondi lontani e paradossali. Una volta che lasciò Roma per intraprendere uno dei suoi viaggi avventurosi disse che si sarebbe recato a Teramo.
 
In effetti l’Abruzzo è un luogo lontanissimo, per arrivarci senza valicare l’Appennino – che lì tocca i tremila metri del Gran Sasso d’Italia – bisogna compiere un giro intorno alla Terra, e non è detto che non sia 
la maniera più comoda e più veloce per raggiungerlo, se pure 
Boccaccio per indicare luogo nascosto e irraggiungibile 
scrive “più là che Abruzzi”2
 
E la sua distanza dal mondo, la sua albagia un po’ cisposa e un po’ voluttuosa ne fanno un oggetto strano, non pienamente definibile e tantomeno maneggevole. Anche chi v’è nato, solitamente attraversato da un amore selvatico e belluino per questa terra di “sassi, rocce, queste cose che hanno movimenti, spasimi e trasalimenti che durano millenni, e poi brividi di un secondo che fanno strage”3, ha sovente difficoltà a capire la sua terra, che si ostina ad osservare e dalla quale viene ricambiato solo da effimeri segnali d’amicizia, strette di mano calorose e fugaci. 
 
Non stupisce dunque che i foresti facciano fatica a comprendere la natura di questa terra di orsi, camozze e lupi. 
 
Che posto ha l’Abruzzo nell’Italia del XXI secolo? Anzitutto, 
ha un problema di collocazione. La storia del Novecento, curiosamente, l’ha fatta a poco a poco avanzare verso Settentrione: quanti sono oggi 
gli abruzzesi che definirebbero loro stessi pienamente meridionali? 
 
Temo pochissimi. L’Abruzzo d’oggi ha dimenticato i suoi mille anni sotto il Regno di Sicilia, poi quello di Napoli e infine sotto il Regno delle Due Sicilie. Eppure le bizzarre costruzioni degli uomini che appartengono all’ingegneria politica dopo il 1861 non hanno mai sottratto l’Abruzzo a questo suo pristino e antico legame con il Meridione della penisola. Regione più settentrionale del Regno duosiciliano e anzi irriducibile terra di confine (Civitella del Tronto, fortezza estrema posta sul confine col Regno Pontificio, resistette alle truppe sabaude duecento giorni, fino al 20 marzo 1861, ossia fino a tre giorni dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia da parte di Vittorio Emanuele II), l’Abruzzo regnicolo ha guardato cinquecento anni a Napoli quale suo riferimento morale e politico, mentre oggi pensa solo a Roma, a cui è velocemente collegata da due supersoniche autostrade, le più alte d’Europa, le più belle del mondo secondo la scrittrice premio Nobel Alice Munro, che le attraversò nel 2008 restandone incantata. Napoli e tutto il meridione sembrano oggi lontanissimi dall’Abruzzo, e non solo a causa della congenita difficoltà e lentezza dei trasporti su gomma e su rotaia che affligge il sud d’Italia, ma per ben più radicati sentimenti: l’Abruzzo d’oggi si sente appartenente ad un indefinito “centro Italia”, più simile alle Marche, all’Umbria, al Lazio che vantano tra loro apparentamenti storici assai vincolanti e illustri. 
 
Anche l’osservatore che abbia vaghe conoscenze dei popoli e delle terre aprutini – nessuno sa con esattezza i suoi confini e la sua toponomastica è flagellata dall’approssimazione – non è pronto ad ammettere l’Abruzzo tra le regioni del Mezzogiorno.
 
Ma se l’Abruzzo, meridionale e napolitano per storia, costumi, lingua, cucina, dimentica d’appartenere al Sud, ed è negletto e trascurato dal Centro, e alieno e giustamente inaccolto dal Settentrione, cessa d’esistere. Non so se l’Abruzzo sia effettivamente un dono del Sud, ma di certo del Sud è figlio legittimo e non scapestrato: del Meridione conserva la cucina sapida e ingegnosa, fatta di cibi rituali assai legati alla terra e alle stagioni, con una sostanziale distrattezza per i frutti del mare; del Meridione parla la lingua, la cui radice partenopea si avverte ovunque, inasprita dal passaggio dei monti; del Meridione porta i costumi, impreziositi dai lavori a tombolo e da arcaici schemi geometrici; del Meridione condivide, infine e soprattutto, la storia, una lunga storia fatta di seduzioni antiche e di furori ben temperati, a cui ha fornito acute intelligenze e non poche mani d’artista, che contribuirono non distrattamente a compiere i destini pre e post-unitari del Mezzogiorno d’Italia, con esiti quasi sempre felici. 
 
Non è possibile immaginare una storia d’Italia senza considerare il suo ingombrante Meridione, non è possibile immaginare 
una storia del Meridione senza l’Abruzzo.
 
E allora perché questa Regione di un milione e trecentomila abitanti, di poco più piccola della Campania e di poco più grande della Basilicata, è così desiderosa d’affrancarsi dal Sud, pronta ad abbracciare altre storie, altre tradizioni, altre lingue? Forse è il destino di tutte le terre di frontiera, mescolarsi agli altri, non definire con chiarezza i contorni della propria appartenenza, mimetizzarsi e confondersi per il timore di vedersi un giorno assaliti dall’altrui ferocia. È forse questo anche il motivo della sua atavica ospitalità nei confronti di quanti venivano dall’altra parte del Mare Adriatico, non temibili come i Saraceni in Puglia, ma contrappunto commerciale, sponda amica, portatore di Santi Patroni, come quel San Cetteo che protegge Pescara, Porta Aprutii e sera Regni, con ogni probabilità originario dei Balcani, così come dai Balcani viene quell’uso di mangiare le pecore, le stesse pecore che davano una lana di così alta qualità da essere gelosamente protetta e richiesta dai Medici di Firenze e che hanno rappresentato per secoli la maggiore fonte di ricchezza, sulla via del Tratturo Magno, per larghe porzioni della sua popolazione. 
 
Il Tratturo Magno, questa via antichissima, “quasi un erbal fiume silente”4 nelle parole del più abruzzese dei poeti, del più italiano 
dei cuori, Gabriele d’Annunzio, che milioni di pecore e migliaia 
di pastori, per mille anni e forse mille altri ancora, 
 
hanno percorso per fuggire i rigori invernali di questo esportatore netto d’inverno e di freddo che è l’Abruzzo, dai massicci del Gran Sasso e della Majella fino alle spiagge adriatiche e poi giù, ancora, verso i tepori del Tavoliere delle Puglie. È questa la via che conduce a Meridione, è questa la via che gli abruzzesi devono tornare a percorrere per ricongiungersi con la propria storia e andare fiduciosi incontro al destino. È questa la via che, “su le vestigia degli antichi padri”5, porta all’identità più profonda, segna una collocazione nell’Italia di oggi e in un Mondo dai confini sempre più sbiaditi e mutevoli, valica i confini politici delle regioni e conduce ad una nuova concezione degli spazi, costituendo entità spirituali e amministrative nuove e antiche al tempo stesso. Senza memoria delle sue appartenenze illustri l’Abruzzo non esiste.

 

1 -Tutti gli articoli che Giorgio Manganelli scrisse per il quotidiano “Il Messaggero” nel 1987 sono oggi raccolti ne La favola pitagorica, Adelphi, Milano, 2005, da cui sono tratte le citazioni riportate in questo scritto.

 

2 – V. G. Boccaccio, Decameron, Giornata ottava-Novella terza: «Disse allora Calandrino: “E quante miglia ci ha?” Maso rispose: “Haccene più di millanta, che tutta notte canta.” Disse Calandrino: “Dunque dee egli essere più là che Abruzzi.” “Sì bene” rispose Maso “sì è cavelle.»

 

3 –  Ancora G. Manganelli, op.cit., p. 106

 

4 –  G. d’Annunzio, I pastori, da Alcyone, Fratelli Treves, Milano, 1903.

 

5 –  Ibidem.

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