QUANDO IL FUOCO SI FA DIO di Giovanna Mulas – Numero 4 – Aprile 2016

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quando, per la prima volta appresi, attraverso il detto e non detto dei vecchi della Zona, di sciamani – di norma di sesso femminile – dediti in tempi remoti, e durante la notte, a penetrare negli spazi di sepoltura per abbandonarsi a trance purificatoria e dialogo ispiratore coi defunti.

Pare che ogni tanto l’irrequietudine del gigante dia vita a terremoti ed eruzioni. Non pochi i poeti greci e romani che citarono i vulcani: Omero, Virgilio, Orazio, Ovidio e altri ancora hanno descritto l’irreale panorama delle eruzioni. Divinità romana di origine etrusca, Vulcano fu in seguito identificato col greco Efesto (in greco Ἥφαιστος, Hēphaistos), considerato il fabbro degli Dei. E’ il Dio del Fuoco terrestre, celeste divinità guerriera: di norma veniva raffigurato barbuto, descritto come protettore di quelle Arti che trovano base sul fuoco inteso come elemento cosmico e caotico.

Se per le antiche religioni mesopotamiche (e nella prima religione ebraica) tale figura è rappresentata da Lilith e in quella cristiana da Eva, per quella ellenica il complesso ruolo è stato affidato a Pandora.

QUANDO IL FUOCO SI FA DIO

 

Pare che il suo ruolo fosse inferiore perché claudicante, quindi imperfetto: la sua natura caotica poteva determinare una inadeguatezza nell’azione di raffinamento del mondo divino e umano.

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In dubbio rimane la sua origine: ritenuto inizialmente una divinità ctonia, assunto dall’Olimpo solo in un secondo momento, rimane per altri di unica provenienza celeste. Comunque si devono al suo talento la creazione del carro del sole, i fulmini e lo scettro di Zeus, la corazza d’oro di Eracle, l’elmo di Ares, le armature di Achille e di Enea, il tridente di Poseidone.

Zeus, per l’infelicità del genere umano, diede incarico al dio del fuoco di modellare un’immagine umana servendosi di acqua e argilla; la figura non doveva avere nulla da invidiare alla bellezze delle dee. Efesto fu tanto bravo nel plasmarla che la donna che ne ebbe origine era superiore a ogni possibile immaginazione. Gli dei furono incaricati da Zeus di riporre in lei dei doni: Atena le donò delle vesti morbide e leggere a significare il candore, fiori per adornare il corpo e una corona d’oro, mentre Ermes pose nel suo cuore pensieri malvagi e sulle curve sinuose delle sue labbra frasi tanto seducenti quanto ingannevoli.
Narra Esiodo (Le opere e i giorni) 
“L’adornò del cinto 
E delle vesti, le donar le Grazie 
E Pito veneranda aurei monili, 
E de’ più vaghi fior di primavera 
L’Ore chiamate, le intrecciar corone. 
Ma l’uccisor d’Argo, Mercurio, a lei, 
Ché tal di Giove era il voler, l’ingegno 
Scaltri d’astuzie e blande pargolette 
E fallaci costumi …”

A questa complessa creatura fu dato nome Pandora (dal greco “pan doron” = “tutti i doni”) perché ogni divinità dell’Olimpo le aveva fatto un regalo. Mancava solo il regalo di Zeus che, ovviamente, fu superiore agli altri. Egli infatti, donò alla fanciulla un vaso con l’assoluto divieto di aprirlo. Il vaso raccoglieva tutti quei mali ancora sconosciuti all’umanità: la malattia, la pazzia, il vizio, la malattia e la fame…

Un sonno in grado di trascinarli all’inferno e ritorno. Il fuoco, elemento principe sia all’ingresso del mondo dei morti che all’uscita, sarebbe riuscito a salvarli soltanto se questi vivi eletti dai defunti, imboccando l’uscita del monte/grotta del demonio di turno, avessero camminato sollevando un piede, zoppicando e senza voltarsi indietro. 
Sinonimo del coraggio necessario ad andare avanti nonostante le difficoltà; continuare a vivere lasciandosi alle spalle un passato di assenze sofferte, comunque portatrici d’insegnamento. E quel fuoco: lume da seguire e di cui farsi scudo per uscire dalle tenebre dell’inconscio ed il viaggio necessario alla maturazione, alla crescita dell’Uomo in quanto Uomo; la fuga, vista come rinascita, dal pozzo profondo dell’Io.
Euripide, nel dramma satiresco “Ciclope“, attraverso l’invocazione di Odisseo così definisce il Dio del fuoco: “Efesto, signore dell’Etna, brucia la luminosa pupilla del tuo ignobile vicino, lìberati da lui una volta per sempre.” Ancora, si narra del gigante Tifeo, deciso a insidiare l’Olimpo. Giove, adirato per l’irrispettoso atto, dopo una lunga e turbolenta lotta decise di punire il gigante

obbligandolo a sorreggere la Sicilia tenendo i piedi sotto il Lilibeo (Trapani), il braccio destro sotto il Peloro (Messina) e quello sinistro sotto Pachino (Siracusa), la testa in prossimità dell’Etna.

Efesto, già all’età di nove anni dimostrò di possedere abili capacità nel forgiare i metalli: prese a creare gioielli d’ inestimabile bellezza, soprattutto per coloro che l’avevano accudito e amato. Quando Era venne a conoscenza dell’abilità del figlio si recò da lui per ordinargli di costruire un trono d’ineguagliabile bellezza e valore. Nel presentarsi al figlio, la Dea non rivelò la sua identità, ma Efesto comprese comunque e accettò il lavoro commissionatogli, mirando alla vendetta nei confronti di una madre che l’aveva ripudiato. Costruì per Era un trono interamente d’oro, tanto bello quanto maledetto: avrebbe imprigionato per sempre la Dea che, una volta seduta, non sarebbe più riuscita ad alzarsi. Si narra che, per potersi liberare dal maleficio, Era dovette promettere in sposa al figlio la bellissima Afrodite, e che, successivamente alla sua liberazione, permise al Dio del fuoco di poter tornare nell’Olimpo assieme alle altre divinità. Afrodite non riuscì mai ad accettare la decisione di Era e tradì frequentemente il marito – si racconta che decise di non congiungersi carnalmente con il Dio del fuoco e che, presa con la forza, si smaterializzò dal talamo.
Dunque Efesto abbandonò volontariamente l’Olimpo per rifugiarsi nelle profondità del Monte Etna, stufo delle continue derisioni da parte degli altri dei e per il suo aspetto fisico e per le infedeltà della moglie.

Teti e Eurionome, due ninfe del mare che si presero cura di lui decidendo di allevarlo in una caverna. 
Si narra che proprio la grotta che l’accolse proteggendolo, divenne la sua prima officina di fabbro.

Così come Lilith (ripudiata dall’Uomo ché ribelle) ed Eva (responsabile della cacciata dall’Eden) anche Pandora carica sulle spalle una travagliata eredità di disgrazie, destinate alla razza umana. Efesto: fuoco terrestre inteso in senso positivo, fuoco come elemento di civiltà. È possibile riscontrare un suo corrispondente in Loge o Loki della mitologia nordica – ricordiamo che, in onore di Efesto, venivano celebrate le Efestie, le Apaturia e le Calceia.

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Secondo la maggior parte degli studiosi, Efesto era figlio di Zeus e di Era, mentre per Esiodo sarebbe nato soltanto da Era, per punire Zeus dei numerosi tradimenti con dee e mortali. Accadde però che, alla nascita di Efesto, la madre rimase terrorizzata dal suo aspetto, e decise di scaraventare l’innocente giù dall’Olimpo. Efesto precipitò in prossimità dell’isola di Lemno, e la caduta lo rese zoppo. Per fortuna il piccolo Dio fu raccolto da

Si deve ad Efesto anche la nascita della prima donna.

Trovo di forte interesse, sul tema, la figura de L’Anticristo descritto da Nostradamus nella visione dell’Apocalisse.

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Il vero aspetto dell’Anticristo, infatti, verrà individuato esotericamente attraverso il riferimento specifico a Vulcan-Hermes (IV, 29) cioè Vulcano, il nostro Efesto dio del fuoco. Per il Veggente, L’Anticristo/Efesto sarà addentrato nell’Arte Ermetica della quale falserà i principi. Il notorio riferimento di Efesto a Hermes o Ermete si ricollegherebbe alla tradizione ermetica secondo la quale il corpus di ancestrali dottrine magico-ermetiche giunte fino ad oggi, fu rivelato agli uomini da angeli caduti, discesi sul monte Ermone. Secondo M. Del Gatto (“L’Apocalisse di Nostradamus”), questa affermazione trova fondamento nell’apocrifo di Enoch (cap. 15-69), come pure in altri testi religiosi quali il Vecchio Testamento (Gen. 3-6), il Nuovo Testamento (Apoc. Cap. 12) e il Corano (cap. 15, 30-42).

I testi descrivono come gli angeli ribelli, cacciati dal cielo, scesero sulla terra per ostacolare l’evoluzione degli uomini, li istruirono sulla ‘scienza del fuoco’ e altri artifici contro la Natura, a causa dei quali gli antidiluviani vennero distrutti.

Dunque un Efesto Conoscitore? Un angelo ribelle esperto in scienze pagane? Probabilmente alla stregua di quell’Adamo profanatore dell’Albero della Vita (simbolo di processo cosmico), colui che pose l’uomo nella condizione di essere redento. 
La mia Sardegna è terra di vulcani spenti, forze della natura in stasi da tempo. Il vulcano sardo Monte Santo è chiaro esempio di come l’Isola non sia mai stata asismica. Diverse le alture che presentano, secondo gli esperti, caratteristiche vulcaniche: Monte Ruju, Monte Arana, Monte Cuccureddu, Monte Annaru, Monte Traessu e, appunto, Monte Santo. Le cime sono localizzate a ovest dell’Isola, a breve distanza dalla città catalana di Alghero e dalle spiagge di Bosa e Stintino.

I vecchi narrano che uno di questi monti ospiterebbe un immenso tesoro destinato ad una giovane coppia di futuri sposi.

I due dovrebbero scalare il monte la notte precedente le nozze, a mezzanotte, ora in cui giungerebbe una strega su un carro. Ma solo vendendo l’anima al diavolo, i fidanzati otterranno dalla strega i suggerimenti necessari ad accedere al luogo del tesoro. Naturale citare, nel contesto in oggetto, il mito tutto sardo di un Sant’Antoni che, giocando di astuzia, sfidò i diavoli entrando nell’inferno e rubò il fuoco per donarlo agli uomini. In ricordo di questo episodio, la notte del 16 e del 17 gennaio in centinaia di paesi della Sardegna si accendono dei grandi falò; riti pagani ancora vivi e sempre volti ad ingraziarsi una natura ostile, nei momenti più delicati di passaggio tra i cicli della terra. Tramite la figura di Sant’Antonio – protettore degli agricoltori, secondo la tradizione morto ultracentenario proprio il 17 di gennaio – , la Chiesa ha cristianizzato un culto ben più arcaico, teso a risvegliare la e alla luce dopo il lungo, freddo buio invernale. La festa è indubbiamente pagana, legata ai riti di morte e rinascita del Dio, della natura, del ciclo vitale.

 

L’ECLISSE DI UN REGNO di Cesare Imbriani – Numero 4 – Aprile 2016

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Nelle Memorie di Giuseppe Garibaldi si legge “La presenza di due legni da guerra inglesi influì alquanto sulla determinazione dei comandanti dei legni nemici, naturalmente impazienti di fulminarci, e ciò diede tempo a ordinare lo sbarco nostro. 

 

L’ECLISSE DI UN REGNO

 

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Fu però inesatta la notizia data dai nemici nostri che gli inglesi avessero favorito lo sbarco in massa direttamente e con i loro mezzi. I rispettati e imponenti colori della Gran Bretagna imposero titubanza ai mercenari del Borbone.”
Si compì, pertanto, a Marsala, un fato che consentì con alterne vicende a Garibaldi, con i suoi Mille e più, di sbarcare in Sicilia, di traversare lo Stretto, arrivando in Calabria; di entrare a Napoli per poi ricongiungersi con le truppe di Vittorio Emanuele II.

Purtroppo l’atto finale che si concretizzò in tale vicenda unitaria, che comportò il dissolvimento del più grande Stato italiano dell’epoca, sembrava annunciato da tempo.

Era opinione non diffusa, ma ben presente, nell’ambiente di Corte, che fosse necessario incamminarsi sulla via delle riforme istituzionali volute dalla Francia,

sia per i suoi vecchi rapporti con la Sicilia, sia per la strategica collocazione geografica del Regno al centro del Mediterraneo.
Ciò faceva ritenere importante un meccanismo di avvicinamento e alleanza della Gran Bretagna al Piemonte come contrappeso alla situazione determinatasi in genere con la crescita di influenza della Francia in Italia, nello specifico nei riguardi dello Stato borbonico.
Nel Regno delle due Sicilie, vi era coscienza del fatto che vi fosse una sorta di isolamento sia per ciò che riguardava i problemi della politica interna, specie per il problema di un costituzionalismo mai risolto, sia per quelli di politica estera, dove, a fronte di un preteso approccio neutrale dei Borbone, non corrispondeva da parte delle grandi potenze dell’epoca una adeguata considerazione.

come si direbbe oggi, in termini geo-politici, la preoccupazione inglese derivava dal timore di un allargamento della sfera di influenza del neo-bonapartismo francese su una realtà, quella del regno delle due Sicilie, che essa riteneva strategica

1si veda, tra gli altri, Eugenio di Rienzo: il Regno delle due Sicilie e le potenze europee, 1830-1861

Fatti e indizi, unitamente ad errori strategici, sono facilmente individuabili. Spesso, discorsi da “salotto” pretendono di individuare astratte ragioni che, però, restano avulse dalla triste logica storica che produsse il dissolvimento del Regno dei Borbone. Innanzitutto, come è stato nella letteratura sull’argomento evidenziato1, il vero problema per il Regno delle due Sicilie derivava dal deciso mutamento di strategia della Gran Bretagna sulla questione italiana;

tant’è che, dopo una defalcante trattativa con il potente alleato, era stato presentato un progetto di Costituzione di stampo moderato, che, come nella tradizione della dinastia, fu però rifiutato dal re. 
Ciò che avrebbe salvaguardato dal pericolo di un’aggressione rivoluzionaria (come poi di fatto avvenne) grazie alla copertura politica francese, divenne una ennesima occasione mancata per abbandonare l’assolutismo monarchico e collocarsi tra le nazioni a struttura istituzionale democratica.

In aggiunta a ciò, Francesco ll rifiutò di partecipare ad un evento fondamentale per l’epoca.

La crisi italiana dopo la seconda guerra di indipendenza fu discussa nella conferenza di pace di Zurigo tra Austria, Francia, Piemonte e vide concretizzare ulteriori opzioni di adesione al Piemonte (prima i Ducati padani, poi il voto delle Assemblee di Firenze e delle legazioni pontificie).
Francesco ll, indotto in ciò anche da suoi non preveggenti ed incapaci collaboratori, sostenne che, ove vi fosse stata una partecipazione a detto convivio, ciò non avrebbe favorito il ruolo di neutralità e la indipendente natura del Regno delle due Sicilie.
Insomma anche il naturale alleato, la Francia, che unico avrebbe potuto controbilanciare la deriva all’isolamento del Regno delle due Sicilie – dovuto sia all’atteggiamento ottusamente anticostituzionale borbonico (che non metteva in campo le richieste riforme istituzionali), sia alla sua chiusura al dialogo esterno a cagione di una pretesa (ma non richiesta) neutralità che isolava nei fatti un regno con confini rappresentati dal mare e dallo Stato pontificio – era in difficoltà.
Ciò nonostante vari furono i tentativi francesi per perseguire e realizzare la sua strategia di influenza: ad esempio,

Napoleone III cercò di rilanciare il programma federativo dell’Italia basato su tre Stati sotto la influenza francese;

programma ovviamente osteggiato dalla Gran Bretagna che ormai vedeva lo stato piemontese come l’utile medium dei suoi disegni.
Ma le cose correvano ed arriviamo alle battute finali.
La corruzione operata ad opera dall’ammiraglio Persano sulla Marina napoletana facilitò lo sbarco sul continente delle truppe garibaldine: la Gran Bretagna, nella logica dei suoi interessi, rifiutò di unirsi alla Francia per impedire tale evento.
Un cupio dissolvi inarrestabile, per una dinastia sorda alle tendenze del vero corso della storia, si realizzava; iniziava la triste pagina nazionale di quella che è stata definita una unità debole e precaria, di cui ancora il Mezzogiorno sopporta le conseguenze.
Ma quella del Mezzogiorno post-unitario è un’altra storia, che merita ben più approfondite considerazioni, partendo da una unità nazionale in buona parte subita.

 

SAN PIETRO AD ORATORIUM di Roberta Lucchini – Numero 4 – Aprile 2016

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Trovarsi in terra d’Abruzzo in una calda giornata di inverno beffardo. Inverno stranito, addolcito, vestito con insoliti abiti a fiori in rilievo di meli selvatici e violette odorose; abiti confezionati anzitempo dall’atelier creativo di una Natura imbizzarrita, che rifugge sempre più spesso dai canoni stagionali, cadenzati, da queste parti, in termometri sottozero, coltri nevose sulle alture e risvegli pacati.

In effetti, l’impressione è confermata. Spento il motore, lasciata l’auto nel parcheggio, la sensazione è di un mondo sospeso, dove la sola colonna sonora che accompagna l’andare curioso su brecciolino e foglie morte è il cinguettio tra le querce e i cipressi secolari insieme al garrulo scrosciare del fiume Tirino da presso.

La scritta sull’architrave dà l’ulteriore informazione di un rimaneggiamento nell’anno 1100 (anno milleno centeno renovata), avvenuto secondo gli schemi dell’architettura romanica tanto presente in Abruzzo e che, ad oggi, caratterizza impianto e decorazioni dell’edificio sacro. Ai lati degli stipiti due bassorilievi, uno di Vincenzo Diacono, l’altro con capo coronato, che alcuni hanno indicato essere proprio re Desiderio, altri hanno attribuito a Davide. Ma Angelo è ansioso di aprire il portone; e mentre lui armeggia con la serratura, la mente divaga, chiedendosi chi e come abbia scelto, mille anni fa, di aggiungere quegli inserti di greche e intrecci e fiori e animali, posti a caso fra i conci della facciata senza un disegno preordinato, ma con la lungimiranza di lasciare traccia degli ornamenti provenienti dal nucleo originario della Chiesa o da reperti di edifici risalenti ad epoche ancora precedenti.

La mano non sa resistere all’istinto, si protende, sfiora quelle lettere incise nella pietra, ripercorre una ad una le concavità che lo scalpellino ha immortalato sul blocco e il costruttore ha, forse sbadatamente, forse perché analfabeta o forse per qualche ragione inspiegabile, inserito fra i conci capovolgendo la scritta. Ma l’essenza non muta: SATOR AREPO TENET OPERA ROTAS, il Quadrato magico.

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SAN PIETRO AD ORATORIUM

 

Roberta-Lucchini

Trovarsi lontano dal clangore di voci e ingranaggi della tentacolare metropoli da cui conviene, talvolta, allontanarsi, per riconquistare spazi di silenzi e di solitudine che fanno bene all’anima.

Viaggiare alla scoperta di uno dei tanti, sconosciuti luoghi di pregio, forzieri di storia e di arte, che appartengono all’Abruzzo più interno, geloso dei suoi borghi, delle sue chiese, delle sue rocche

Con sorpresa, non è la facciata della Chiesa che si mostra arrivando, bensì le tre absidi circolari con monofore che corrispondono alle tre navate in cui è suddivisa la struttura basilicale. E cresce quindi l’attesa. Finalmente Angelo, il custode – ironia della sorte! – contattato telefonicamente qualche giorno prima, arriva a bordo della sua Ape verde, tipico veicolo per brevi percorsi nei piccoli centri, dove da molti decenni ha sostituito il mulo negli spostamenti fra abitazioni e poderi. Uomo solido, mani da lavoratore. 
Apre il cancello, evviva. Lenta discesa sul viale di gradini bassi e profondi in acciottolato che costeggia, a sinistra, il lato lungo fino alla facciata: lo sguardo voglioso ignora per il momento il primo tratto di parete, sapendo di tornarci a breve, per concentrarsi sul portale. I piedritti plastici, con decorazioni in rilievo non riprodotte simmetricamente, dai motivi naturalistici ad intreccio, accompagnano lo sviluppo verticale fino ai capitelli, le cui foglie sembrano staccarsi dal blocco di pietra. Un bellissimo archivolto con due corone concentriche di palmette, sullo stile di S. Liberatore a Majella, sovrasta l’architrave. A rege Desiderio fondata, vi si legge. Desiderio. A rifletterci, quasi uno stridore. Il fascino garbato di un nome tanto evocativo – etimologicamente riconducibile alla mancanza di stelle (de – sidus), di buoni auspici, di prospettive leggibili, da cui tensione verso l’appagamento – accostato alla figura di un re “barbaro”, l’ultimo dei Longobardi che, giunti in Italia alla guida di Alboino nella seconda metà del VI sec. d.C., imperversarono lungo la penisola nel corso di due secoli, fino alla definitiva sconfitta ad opera dei Franchi di Carlo Magno nel 774. Desiderio. Padre di Adelchi (col quale governò nell’ultimo periodo del suo regno allo sbando) e padre, forse, della sfortunata Ermengarda, data in sposa, forse, proprio a Carlo Magno e da questi, forse, ripudiata nel 771; eppure così reale per l’indimenticabile acconciatura e per lo straziante affanno in letto di morte cantati dal Manzoni. Desiderio, dunque, passò di qui, prendendo sotto la sua protezione, piuttosto che ordinarne l’edificazione (come si ritiene essere erroneamente indicato nell’iscrizione), il primo e più antico corpo della Chiesa, la quale è

menzionata come esistente nel 752 (mentre Desiderio salì al potere nel 756) dal Chronicon Volturnense, una delle testimonianze più valide e importanti per lo studio della civiltà alto­medievale, redatto fra il 1124 e il 1130 dal monaco Giovanni presso il monastero benedettino di S. Vincenzo al Volturno e conservato, nei suoi 341 fogli di pergamena, presso la Biblioteca Vaticana.

ancora distanti dalle corsie affollate del turismo di massa, salvo assurgere all’onore delle cronache quando un passo falso della Madre Terra ne scuote e sconquassa muri e certezze. 
Non si arriva qui per caso. Bisogna cercare attentamente quell’indicazione, sulla Strada Statale 153, che dall’uscita “Bussi sul Tirino” dell’Autostrada A25 raccorda, salendo, la via Tiburtina Valeria con la Strada Statale 17, all’altezza di Navelli. Finché, dopo circa 10 km di percorrenza, nei pressi del comune di Capestrano, trovi il cartello sulla sinistra: S. Pietro ad Oratorium. E la strada asfaltata si stringe man mano, permettendo il passaggio di un’auto alla volta, anche per l’invadenza non contenuta di ginestre e roverelle che si appoggiano ostinate sul manto stradale. Poi, l’asfalto lascia il posto al terreno battuto, e ti rendi conto che stai entrando in una dimensione diversa, troppo lontana dalla quotidianità convulsa lasciata ad un’ora e mezza da qui.

Il portone è aperto: sarà che fuori il sole è alto e caldo, sarà che le mura in pietra isolano dall’esterno, sarà la mancanza di arredi, ma una cortina di aria fredda si para davanti, come impedendo l’accesso.

Poi è subito chiaro. Angelo racconta, quasi sussurrando, del restauro dopo il terremoto, che ha ricostruito il soffitto, palesemente rinnovato nella copertura lignea, che ha rinforzato le colonne e che dovrebbe ripristinare il bel ciborio centrale, a base ottagonale, con tiburio decorato da insolite maioliche in ceramica colorata: ma i soldi sono finiti, per ora non c’è che da accontentarsi. Ecco il gelo, è evidente. Secoli di storia hanno patito lo scossone, e il cemento usato per rattoppare è ancora fresco, troppo fresco, non sufficiente a risanare la crepa, qui come negli altri posti feriti… Per fortuna l’abside centrale attira l’attenzione: l’arcone con gli affreschi di un color rosso quasi monocromo – una particolarità assoluta – in cui è ritratto il Cristo in trono, in stile bizantino, con il tetramorfo ai lati, al di sotto di cui si dispongono i 24 Vegliardi dell’Apocalisse; e la fascia inferiore affrescata con immagini di 6 monaci benedettini, stigmatizzati dalla tonsura del capo e dalla Regola fra le mani, disposti lateralmente alla finestra centrale dell’abside. Pensare che questi affreschi sono considerati una delle primissime testimonianze della pittura romanica abruzzese, ancora così vicina, nell’impostazione grafica, nella fissità degli sguardi, nella linearità dei panneggi, al prototipo dell’iconografia bizantina. Qualcosa, tuttavia, suggerisce di uscire, di tornare sui propri passi, lasciandosi alle spalle, lentamente, quelle colonne massicce, sei per lato, che creano la navata centrale lungo la quale, dal mese prossimo, e dopo la pausa invernale, incederanno fra emozioni e fiori freschi coppie di innamorati che qui decidono di sugellare il proprio patto per la vita. Non c’è esitazione, gli occhi sanno dove cercare. Eccolo, a destra del portale.

Più e più volte letto sui libri, adesso materializzato. Il bagaglio di notizie, in un attimo, fluisce in un’unica immagine onnicomprensiva. Il “latercolo (di forma quadrata), pentadico (con parole di cinque lettere), palindromo (leggibile nei vari sensi)”, secondo la sintesi di Rino Camilleri nel suo scritto del 2004 dedicato a questo argomento, ha affascinato, incuriosito e stimolato la riflessione di studiosi che in tutto il mondo si sono confrontati con questo enigma senza essere riusciti, ancora oggi, a trovarne una spiegazione univoca. Una sola certezza: rispetto ad altri palindromi diffusi nell’antichità, questo è l’unico, rinvenuto negli angoli più disparati del Mondo Antico (solo in Italia presente in almeno 30 siti), ad aver resistito per secoli, inciso su mattoni, vergato su papiri, graffiato sui muri, utilizzato a fini taumaturgici o esorcistici. Perché mai? Cosa vi si nasconde? Qual è la chiave del crittogramma? Il solo tentarne una traduzione è cosa ardua. Le varie interpretazioni proposte convergono sull’idea del Sator quale Creatore, Seminatore (in questo senso il termine è già presente in opere di scrittori latini quali Cicerone, Virgilio e altri), per cui l’idea sarebbe di una Entità che governa (tenet) con fatica (opera) le ruote (rotas), forse riferito alle Sfere celesti.

Ma la logica si incaglia nella parola arepo, dal significato oscuro (nome proprio di persona?, verbo?, radice celtica?),

da taluni considerato solo come un escamotage per garantire la simmetricità del termine opera. Possibile una tale superficialità? Possibile che una siffatta orditura di lettere, riconducibile a scienze esoteriche, legato a numerologia ed aritmomanzia, si perda in una simile leggerezza? Ma sciogliere il nodo non è facile. Ed ancora: il Quadrato è un simbolo pagano? Da escludersi, non conoscendosene di antecedenti a quelli rinvenuti nel 1936 a Pompei (sepolta, si ricorda, nel 79 d.C.) sul muro della Grande Palestra e sulla casa di Proquio Paculo (dove, fra l’altro, l’ordine delle parole è invertito, iniziandosi da Rotas, caratteristica comune ai Quadrati più antichi, superata in epoca medievale ma che si verificherebbe anche qui, a S. Pietro, se capovolgessimo il mattone). È quindi un simbolo cristiano? Probabile, come dimostrano centinaia di ricerche effettuate nel corso dei secoli, che hanno condotto alla sensazionale scoperta, negli anni Venti del Novecento, ad opera di tre studiosi (i quali non si conoscevano fra loro) che anagrammando le 25 lettere si ottiene la parola PATERNOSTER, ripetuta due volte, che si incrocia sulla lettera N (presente centralmente una sola volta e contenente una simbologia antichissima, collegabile fra l’altro alla lettera fenicia nun, segno di acqua o di pesce), lasciando escluse soltanto la A e la O: la cosiddetta tesi Grosser – Agrell dimostrerebbe che il Quadrato racchiude la preghiera cristiana per eccellenza (quindi già diffusa a pochi anni dalla morte di Gesù), con un riferimento esplicito all’alfa e all’omega dell’Apocalisse. Il che comporterebbe una diversa datazione dell’Apocalisse stessa, fino a quel momento ritenuta composta dopo il 100 d.C., dovendosi fare i conti con la ricordata distruzione di Pompei nel ricordato 79 d.C., presupporrebbe la presenza dei cristiani in questa località, suggerirebbe la lettura in chiave cristiana di tutta una serie di rimandi ai culti mitraici, pitagorici, celtici e alessandrini che, scavando, si rinvengono in questa piccola, esigua, griglia di lettere. Esigua?

Come può considerarsi tale se alla base vi è il quadrato, la figura geometrica che da sempre ha incarnato il collegamento fra Cielo e Terra, fra l’uomo e Dio, così nelle Piramidi egizie, come nelle Ziggurat, come nelle Piramidi dei Maja (per i quali la Terra stessa era quadrata), come nel Sancta Sanctorum del Tempio di Salomone, per giungere fino alla prefigurata Gerusalemme Celeste.

Maria Grazia Lopardi, studiosa aquilana dedita soprattutto alla storia medievale, all’architettura dei principali edifici sacri della sua città ed alla simbologia che vi si nasconde, si spinge oltre: nel Quadrato, fra l’altro comune, seppur con differenti segni grafici, a rappresentazioni rinvenute ai poli opposti del globo, come ad esempio nella civiltà Inca, si celerebbe non un semplice – eppur complesso ­ passatempo, ma la “Matrice”, l’Arché, il principio ispiratore dell’architettura sacra che ha permesso per secoli di innalzare templi facendo a meno di progetti scritti e disegnati, affidandosi piuttosto ai rapporti che scaturirebbero dal sistema di griglie che lega le varie lettere dello schema. C’è di più: nel Quadrato magico sarebbe contenuto il mistero costruttivo del Tempio di Gerusalemme, recuperato successivamente dai Cavalieri Templari ed arrivato fino alla Massoneria, i cui simboli si potrebbero ricondurre al Quadrato stesso. Salvo il volerlo considerare privo di significato (come pure qualcuno ha fatto), questo arcano non potrebbe essere un mero esercizio enigmistico, un banale bisticcio di parole, troppe le coincidenze, impossibile la casualità.

Sia che lo si voglia considerare di origine non cristiana, legato cioè a miti pagani, all’esoterismo o più semplicemente all’occultismo, o che si accolga l’idea di una realtà rivelata in esso secretato, forse la trasposizione di quel Verbo, di quella Parola alla radice del Creato, rimane un dato di fondo,

vale a dire l’intrigante gioco di parole che si inseguono, si amalgamano, si uniscono e poi separano in un intreccio senza fine di cui a noi, uomini del XXI secolo, sfugge il senso profondo. “Il mondo è stato creato con delle frasi, composte da parole, formate da lettere. Dietro queste ultime sono nascosti dei numeri, rappresentazione di una struttura, di una costruzione ove appaiono senza dubbio degli altri mondi ed io voglio analizzarli e capirli perché l’importante non è questo o quel fenomeno, ma il nucleo, la vera essenza dell’universo.” Così scriveva Einstein. Forse prima di lui qualcun altro lo aveva intuito. Molto accattivante. 
Le informazioni scoloriscono, però, e si fa strada un lieve senso di invidia per l’Iniziato, per colui che ha avuto la fortuna di sapere e di custodire, insieme a pochi altri, un segreto le cui fondamenta si sono perse nella nebbia dei tempi… Colui che forse non ha dovuto interrogarsi, perché aveva già tutte le risposte. 
D’un tratto le notizie si disperdono, come se il bagaglio si aprisse lasciando cadere indumenti in ordine sparso; o come se un groviglio di fili lanosi e intrecciati si dipanasse creando spazio nella testa, mentre, dopo un veloce saluto ad Angelo, i passi assecondano il richiamo, abbandonano il cortile, risalgono il vialetto, conducono inconsapevolmente verso quel corso d’acqua, così peculiare nelle sue caratteristiche biologiche da essere oggetto di studi e monitoraggi, come indicato nella bacheca di legno che precede l’accesso al bacino: il fiume Tirino inserito in un progetto dell’Unione europea (Aqualife) per la valutazione dello stato di conservazione di ecosistemi dipendenti dal sistema di acque sotterranee, la cui biodiversità è minacciata dalle attività antropiche, per giunta troppo incisive solo pochi chilometri più a valle, ove insiste il polo chimico di Bussi. Il dato scientifico, ancorché interessante, è al momento secondario: un invito troppo forte va accolto, troppo forte l’impulso di immergere la mano nello scorrere limpido e festante, avvertendo quel brivido che scuote i sensi, brivido vitale che per un attimo ti fonde con la natura intorno, cancellando ombre e perplessità. Ed in quell’attimo sembra di avvertire “il nucleo”, quella unità nella diversità spesso millantata, mai veramente assaporata. 
Ma è un momento. Poi tutto torna al proprio posto, nella realtà frammentata e diffratta di una vita di rincorse affannose. E, ripartendo, rimane alle spalle un mondo sfiorato, una Storia millenaria che porta con sé molte domande, spesso non soddisfatte, per lo meno non abbastanza. Qui si chiude il cerchio. Dubito, ergo sum.

 

FRANCO CAVALLO, LA POESIA di Alessandro Gaudio – Numero 4 – Aprile 2016

FRANCO CAVALLO, LA POESIA

 

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 La plaquette, edita per i tipi di SIC − che poi confluiranno nella bellissima esperienza delle edizioni Altri Termini, nate da una costola dei Quaderni internazionali omonimi che, inaugurati nel maggio del ’72, risulteranno fondamentali, tra l’altro, per il recupero in chiave ironica e neosperimentale del surrealismo e delle avanguardie storiche europee −, ha una circolazione quasi clandestina: eppure, la silloge, pubblicata in proprio, giunge sorprendentemente fin sulla scrivania di Pier Paolo Pasolini che, qualche mese dopo, in aprile, ne dirà sinteticamente sulle colonne del «Tempo»: «un libriccino delizioso, − assicurerà Pasolini, al termine di una delle sue Descrizioni di descrizioni − credo fuori commercio».1 Forse sarà stato il Piccolo arazzo musicale che Cavallo, all’interno di Rien ne va plus, dedica proprio a Pasolini ad attirare l’attenzione del più grande intellettuale italiano del secondo Novecento? O, piuttosto, sarà stato il tono stravagante della poesia di Cavallo (poi scomparso nel 2005) a sollecitarne la considerazione?
A quell’altezza, Cavallo poteva già vantare, tra le altre cose, la pubblicazione di due apprezzabili raccolte di versi per Rebellato e, in particolare, di altre due sillogi, all’interno dell’importante collezione di poesia della Piccola Fenice degli italiani (diretta da Roberto Sanesi) che l’editore Guanda di Parma inaugurò alla fine degli anni Sessanta proprio con Fétiche di Cavallo.2 Per i lettori di «Myrrha» non riproduco l’elogio della natura dedicato a Pasolini, preferendogli invece Bruchi perché mi sembra che in essa sia maggiormente manifesta l’ammissione di una debolezza, quasi la certificazione di uno scacco dell’intelligenza, frutto dell’unione dell’indolenza meridiana del poeta campano e dello scetticismo riguardo alle regole fisse della trigonometria borghese che tanto disturbavano anche il grande intellettuale bolognese.

Simbolo-f-p-marrone

l(ex)iquida obniscienza in presenza glaucale
nell’altissimo pino vedean li dèi e l’amore,
pipsula in insula corallina anfitrioni − e

poi ritornati alle belle giornate d’autunno
sull’auto(bus) che li conduce all’accettazione
supina della res padronale, lambruschi lombri-
chi cauti alla pozzanghera e alla genuflessio-
ne, alle regole fisse della trigonometria bor-

ghese (ah, corona di spine della rivoluzione!)

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Nel gennaio del 1974 Franco Cavallo (nato nel ’29, a Marano, vicino a Napoli) pubblica un minuto volumetto contenente nove poesie e intitolato Rien ne va plus.

Rien ne va plus si era aperto prendendo in prestito da Edoardo Sanguineti l’ammissione franca dell’inutilità dei nostri destini («che non ci sono più storie / che si possono raccontare») e proseguirà, nella lirica successiva a quella qui riproposta, contestando il rapporto assiduo e geometrico tra la casa (la sua, come quella di Racine e quelle di tutti i poeti) e l’albero del Potere (scritto con l’iniziale maiuscola). Già nel 1974, al di sotto della franca accettazione dello scacco di un’intera generazione di intellettuali (sancita e resa definitiva, poi, dalla morte di Pasolini), Cavallo si calava, come un bruco, nel corpo vivo della lingua, cercando − come egli stesso aveva ammesso più volte − di realizzarsi in essa, provando a scavare in sé alla ricerca del posto sotterraneo in cui quella lingua si cela e correndo il rischio, alla fine dello scavo, di non trovare comunque niente.
A questo vuoto la poesia di Cavallo contrappone un eccesso di materialità3 che, poi, continuerà a caratterizzarla nei versi degli anni seguenti; essa è frutto di una scrittura che «[…] cigola / come il cardine / di una vecchia cassapanca» e che accoglie la mancanza, tematizzandola e, di fatto, prosciugandola o, se si preferisce, occupandola con la propria inquietudine formale e lessicale.4 Tuttavia, al di là di quel niente che si riempie di sé («Manca sempre qualcosa, − aveva detto qualche anno prima l’autore di Poesia in forma di rosa − c’è un vuoto / in ogni mio intuire […]»),5 ciò che nella poesia di Cavallo aveva incuriosito Pasolini era stata, con ogni evidenza, l’espressione della condizione greve di chi ha ormai compreso che tutto è stato fatto: di questo niente resta una confusa memoria che, in versi, è all’incirca un’ipotesi di distruzione; più propriamente, è una eco che si ripete di canto in canto, sino a includere, nella sua irrimediabile vacuità, l’intera condizione umana e la sua sorte. È su questo crinale che la poesia (anche quando, negli anni successivi, si verserà nel nonsenso) ricorrerà alla consistenza delle sue figure grammaticali e linguistiche e delle sue parole-cose per riempire quell’assenza che Cavallo sente così presente e finirà per ribadire l’indissolubilità del legame strutturale che la congiunge alla storia.

 1 P.P. Pasolini, Descrizioni di descrizioni, a cura di G. Chiarcossi, Milano, Garzanti, 2006, p. 390. 2 Si tratta di Paesaggio flegreo del 1957 e Reliquia marina e altri versi del 1959 per Rebellato e, per Guanda, di Fétiche (1969) e I nove sensi (1971). 3 Cfr. V.S. Gaudio, L’ascesi della passione del Re di Coppe, Milano, Celuc, 1979, p. 7. 4 Stefano Lanuzza ha già parlato della poesia di Franco Cavallo come di «parole squillanti nel vuoto»; l’espressione segnala con grande efficacia la concomitanza nei versi del poeta campano di nichilismo e artificio formale (cfr. S. Lanuzza, Lo sparviero sul pugno. Guida ai poeti italiani degli anni ottanta, Milano, Spirali, 1987, p. 117). 5 P.P. Pasolini, Poesia in forma di rosa [1964], Milano, Garzanti, 2012, p. 169.

 

IL CINEMA A MATERA di Delio Colangelo – Numero 4 – Aprile 2016

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Matera, a partire dal secondo dopoguerra, è stata terra di cinema; più di trenta produzioni cinematografiche sono state realizzate nei Sassi. Una tendenza dominante, da Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini a Cristo si è fermato a Eboli di Francesco Rosi, ha messo in luce la condizione di miseria e arretratezza della Basilicata, influenzata da autori come Carlo Levi ed Ernesto De Martino. Negli ultimi anni, Matera è diventata teatro di opere filmiche – come The Passion di Mel Gibson – che hanno contribuito a formare l’immagine di una città quasi mistica e culturalmente attiva.

La designazione di Matera come città Capitale Europea della Cultura del 2019 sembra essere la definitiva redenzione di una cittadina che per lungo tempo ha suscitato la “vergogna nazionale”.

Tratto dal libro omonimo di Carlo Levi, racconta l’esperienza di confinato vissuta da Levi stesso durante l’epoca fascista. Durante i due anni trascorsi in esilio, Levi, medico progressista torinese, ha l’occasione di entrare in contatto con la civiltà contadina lucana che osserva con meticolosa attenzione e che lo colpisce profondamente. Pur avendo come centro il paese di Aliano, dove lo scrittore ha vissuto, vi sono descrizioni di Matera che, come abbiamo già detto, hanno prodotto grande attenzione mediatica sul destino dei Sassi.

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IL CINEMA A MATERA

 

Delio-Colangelo

Il primo film di finzione interamente girato nei Sassi è La Lupa (1953) di Alberto Lattuada, trasposizione cinematografica dell’omonima novella di Giovanni Verga.

Nonostante non manchino ritardi e sterili polemiche, la città sta attirando la creatività giovanile e rafforzando i propri eventi e manifestazioni culturali. La stagione turistica si allunga, con sempre più frequenti episodi di overbooking, ed è caratterizzata da una crescente dimensione internazionale. Tra le grida di gioia che hanno invaso la Piazza San Giovanni nell’ottobre del 2014, quando il ministro Franceschini ha comunicato la scelta di Matera come capitale europea della cultura, molti parlavano di un importante riscatto per la città. Una città che ha compiuto un lungo percorso per riabilitarsi e che, dopo il risultato dell’iscrizione dei Sassi nel patrimonio Unesco nel 1993, trova, come Capitale Europea della Cultura, il suo compimento. 
Qualcuno ha detto che Matera, prima di essere stata città dell’Unesco e città della cultura, è stata città del cinema e su questo vorrei soffermarmi un attimo. Su come il cinema è stato importante sia per la riflessione sulla condizione della città che per la sua promozione mediatica e turistica.
Dagli anni ’50 agli anni ’70, la produzione cinematografica a Matera, infatti, risente di una vasta riflessione che, da Levi a De Martino, ha posto l’attenzione sui problemi della Basilicata.

In particolare, si può citare una piccola opera di un giovane Antonioni dal titolo Superstizione e diversi lavori, tra cui Magia Lucana e La Madonna di Pierno del regista Luigi Di Gianni, uno dei più importanti rappresentanti del documentario antropologico. 
Un film di finzione, girato in parte a Matera, che raccoglie questa eredità e questo fermento, è Il Demonio (1964) di Brunello Rondi. Il film ha come obiettivo quello di offrire un ritratto autentico della Basilicata, soprattutto in riferimento a quel “mondo magico” che circondava la realtà lucana degli anni ’50 e ’60. A metà strada tra storia drammatica e documentario, il film racconta i riti contro il malocchio, gli esorcismi, le superstizioni. La protagonista, Purificata, non riuscendo a superare una delusione d’amore, cade nella “fascinazione”. La fascinazione, o la possessione, rappresenta il momento di stallo in cui si trova Purificata che non riesce ad accettare la fine di un amore; il percorso di liberazione da questo male, che però la condurrà a una fine tragica, è un susseguirsi di riti liberatori, pratiche magiche, esorcismi, lamenti funebri che il regista inserisce all’interno della narrazione con intento quasi documentale. In alcune suggestive sequenze girate nei Sassi, avviene il conflitto magico: da una parte, Purificata che cerca di minare, attraverso filtri amorosi, la solidità del matrimonio tra il suo amato e un’altra donna mentre, dall’altra, gli sposi che proteggono con alcuni rituali la loro unione dalle forze negative. 
Un “paesaggio” magico che mostra il netto divario esistente tra l’arretratezza della terra lucana e il progresso e il boom economico che veniva vissuto in altre zone d’Italia. 
Questa tendenza rappresentativa, che incomincia a tramontare a partire dagli anni ’70, ha un ultimo e forse più importante esempio nella trasposizione cinematografica del romanzo di Levi a opera di Francesco Rosi.

A metà degli anni ’60, Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini inaugura una tendenza ad ambientare nei Sassi di Matera vicende di argomento biblico. I Sassi diventano la Gerusalemme della predicazione cristiana e della via crucis

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L’operazione interessante compiuta da Lattuada consiste nell’usare i Sassi non come sfondo per rappresentare un paese siciliano (originaria ambientazione del racconto di Verga), ma come effettivo luogo in cui si svolgono le vicende raccontate. Il paesaggio mostrato, quindi, porta nel film il suo carico di drammaticità che integra l’opera verghiana. Prova ne è, ad esempio, lo spazio che nella prima parte del film è dedicato alla Festa della Bruna di Matera in cui si snoda la vicenda. L’inserimento nel film di riti e tradizioni tipicamente materani serve proprio a intessere la trama nel nuovo contesto territoriale.
Nel Dopoguerra è intensa anche la produzione documentaristica. Nel 1949 vi è l’esordio alla regia di Carlo Lizzani con il documentario dal titolo Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiato (1949). L’interesse verso la realtà materana e lucana coinvolge anche altri registi che, anche sulla scia delle spedizioni etnografiche organizzate da Ernesto De Martino, raccontano i riti e le superstizioni che regnano in Basilicata.

Una ricca produzione documentaristica investe la Basilicata con l’evidente compito di mostrarne le condizioni culturali e sociali.

Il Cristo si è fermato a Eboli (1979) di Rosi è sicuramente uno dei prodotti artistici più rappresentativi dell’identità lucana e racconta con realismo un pezzo di storia della Basilicata.

mentre la Murgia materana è il luogo della crocifissione e della resurrezione del Cristo. Tuttavia, Pasolini, non sceglie Matera in quanto somigliante a Gerusalemme, ma perché è rappresentativa del contesto socioeconomico del sud d’Italia. Così se, da una parte, c’è l’intenzione autentica di sottolineare la forza rivoluzionaria del messaggio cristiano e ricollegarla a un generale senso del sacro, dall’altra, emerge il desiderio di denunciare e mettere in luce i contesti di vita inaccettabili in cui vivevano gli abitanti di questa parte del Sud. La macchina da presa mostra i paesaggi, i volti scavati, con la stessa attenzione dimostrata da Pasolini nei suoi precedenti film sulle borgate romane

Matera, quindi, trasferisce all’interno del film non solo la sua conformazione fisica ma anche la sua specificità sociale, divenendo una metafora di tutta la questione meridionale.

Il tentativo compiuto dall’autore è quello di far emergere l’immagine autentica di un territorio raccontando una storia che non le appartiene.
Dagli anni ’70 in poi, Matera verrà utilizzata per rappresentare la Spagna (L’albero di Guernica), la Sicilia (L’uomo delle Stelle); diventa, quindi, esclusivamente una location cinematografica che avrà particolare fortuna con le storie di argomento biblico. Dopo un King David girato negli anni ’80 e di scarso successo (che però porta Richard Gere tra i Sassi), si apre per Matera l’epoca delle grandi produzioni hollywoodiane. Nel 2004 esce nelle sale The Passion of the Christ (2004), storia della passione di Cristo raccontata da Mel Gibson, i cui esterni sono stati girati quasi interamente nei Sassi. La pellicola, che racconta la passione di Cristo dall’invocazione nel giardino dei Getzemani sino alla resurrezione, ha dato una grande esposizione mediatica internazionale ai Sassi di Matera. Non vi è più riflessione sul contesto sociale né riferimento all’identità culturale; tuttavia, la distribuzione mondiale e il successo del film offrono a Matera un’importante vetrina promozionale. The Passion viene spesso citato come caso di cinema che ha dato un forte impulso al turismo cittadino ed effettivamente, dati alla mano, nei due anni successivi all’uscita del film il turismo straniero è raddoppiato. Probabilmente il film ha prodotto anche maggiore consapevolezza, nei cittadini e nelle autorità, sulla dimensione internazionale di Matera e sulle potenzialità turistiche dei Sassi che, pur essendo già patrimonio Unesco, risultavano ancora inespresse. 
Dopo il film di Mel Gibson, altre grandi produzioni, a tema religioso, si sono fermate a Matera come The Nativity Story (2005), The Young Messiah (2016) o remake di peplum famosi come Ben Hur (2016).

Oggi le strette stradine dei Sassi sono un set a cielo aperto, passaggio continuo di produzioni cinematografiche e televisive, dimostrando la stretta relazione tra il cinema e la città.

 

GRIMALDI, LA SUA RICERCA DEL SUBLIME di Venera Coco – Numero 4 – Aprile 2016

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Nel corso del tempo ogni artista ha intravisto nelle proprie opere qualcosa di trascendentale, quasi un barlume di eternità. In quel chiarore ha riconosciuto una parte di sacro, un’espressione di sublime che ne ha segnato l’esistenza. Una ricerca, a volte introspettiva a volte estetica, che diventa immediata agli occhi di chi ne osserva le forme, i colori e l’armonia. 

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GRIMALDI, LA SUA RICERCA DEL SUBLIME

 

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Come un vero archistar di fama internazionale, Grimaldi va oltre la moda, immagina scenari differenti, come fece la sua maestra Fernanda Gattinoni.

Inconfondibile romantico, non poteva essere altrimenti. Grimaldi è originario di Salerno, una terra idilliaca e poetica, un luogo dalla mille sfumature che con le sue tonalità pastello, delicate e femminili, ispira gli abiti sognanti. Un uomo vero e sincero che non illude le donne proponendo modelli immettibili, ma riesce a illuminarle con linee semplicemente seducenti. 
Nessuna forma è esacerbata, anzi appare leggera, fluttuante come anche nel suo prêt-à-couture, che costruisce minuziosamente con sbiechi cuciti a mano, ultimati poi nei laboratori. Per questi capi lo stilista sembra giocare con atmosfere urbane, dove ogni pezzo è considerato al pari di una costruzione filiforme e sinuosa come i grattaceli ideati dalla commiata Zaha Hadid. È palpabile la transavanguardia, la sperimentazione, l’utilizzo di colori metallici.

Nonostante il suo eterno amore per l’haute couture, si reinventa ogni giorno, diversificando e trasferendo il proprio savoire-faire anche nel quotidiano. Ed ecco che il suo valore stilistico si palesa allo specchio quando le donne indossano quel ready-to-wear su misura che indovina e asseconda i desideri femminili, tanto quanto i suoi abiti d’alta moda. I modelli d’haute couture di Grimaldi ricordano l’effimero del vento che con braccia invisibili raccoglie una manciata di foglie per ricoprire, con leggiadria, le curve di chi ne trattiene le vesti. Altri sembrano toccare la goccia più debole di una nuvola che si scioglie sotto il peso di perle iridescenti.

Frange come petali di ninfee, come sottili tentacoli che accarezzano, quasi senza toccarne l’essere, per lasciarsi scorrere in una danza erotica.

Lunghe tuniche simili a infinite strisce di terra brulla si muovono sinuose come il fermento di un tubero che lotta. Bluse che si svincolano dalla sabbia come rettili, abbagliando i caldi del deserto con le loro squame cangianti. La magia sta tutta nelle sue mani, nel suo valore della tradizione, in sineddoche modaiole, dove la parte è importante tanto quanto il tutto e va considerata con estrema grazia.

Qualsiasi ispirazione riesca a trarre è certamente unico il risultato che propone alla donna del suo tempo.

Abile couturier riesce a raccontare per ogni abito un’avvincente storia il cui epilogo è sempre una dichiarazione d’amore alla sublime bellezza.

 

CITTÀ SICURE: NORD E SUD A CONFRONTO di Giorgio Salvatori – Numero 4 – Aprile 2016

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Poi, però, si deve mettere in conto il crescente problema della sicurezza: scippi, rapine, furti, omicidi, danneggiamenti. Roba che in Paese o in campagna avviene di rado, salvo alcune aree del Nord a recente, alto tasso di aggressioni a persone e di furti in abitazioni. Ma dove avvengono, con maggiore incidenza i crimini metropolitani? Quale è la città più sicura e, all’opposto, quella più insicura? Gli ultimi dati ISTAT disponibili risalgono ad oltre un anno fa, ma il Corriere della Sera, recentemente, è tornato a commentarli in relazione alla situazione, critica, di Milano.

CITTÀ SICURE: 
NORD E SUD A CONFRONTO

 

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Li ricordiamo anche noi, perché le classifiche dei reati, riferite al numero delle denunce rilevate, ci regalano alcune conferme ma anche qualche sorpresa. 
Partiamo dalle prime. Sud e Isole, purtroppo, continuano a far registrare il maggior numero di omicidi rispetto alle altre Regioni italiane, ma il Nord vanta, in base ai dati ISTAT, altri primati negativi. Milano è la capitale dei furti, con quasi 8000 denunce ogni centomila abitanti, seguita da Bologna, con 7600, e, poi, Roma, Torino, Firenze, Venezia, Rimini. A Milano, poi, è preoccupante la curva ascendente del numero dei furti se messa a raffronto con l’andamento, sostanzialmente stabile, dello stesso tipo di reati a Napoli, una città dove quasi ogni scippo denunciato balza agli onori della cronaca nazionale e serve a rinforzare, nell’opinione di molti, la convinzione che passeggiare senza scorta nella ex capitale del regno borbonico sia rischioso quasi come avventurarsi, da soli e disarmati, nei territori controllati dall’ISIS.
Per i furti, invece, dati alla mano, il Nord, e, in particolare, il Nordovest, batte il Sud (con la sola eccezione di Catania) con percentuali decisamente superiori rispetto al vituperato Meridione. Ed anche sul fronte rapine Milano e Torino non brillano certo per maggiore sicurezza, risultando ai primi posti, in Italia, insieme con Napoli e Bari. Napoli, però, resta indietro rispetto a Bologna, Firenze, Milano e Roma per numero di reati connessi con lo spaccio di droga. 
Anche atti di vandalismo e danneggiamenti, sorprendentemente, vedono in testa Torino, Milano e Genova. 
Qualcuno osserverà che, su tutto, comunque, dominano incontrastati i feroci delitti imputabili alla criminalità organizzata, fenomeno storicamente e geograficamente legato al meridione. Andiamo a esaminare, allora, i dati forniti, in questo campo, dal Ministero dell’Interno. Prendendo come termine di paragone il 2007, il rapporto del Viminale sulla sicurezza, nel 2015, ci mostra un andamento discendente degli omicidi di mafia, ’ndrangheta, camorra e altre simili consorterie criminali. Queste morti, che erano 147 nel 2007, sono scese a 49 nel 2014. Una diminuzione di oltre il 70 per cento rispetto a sette anni prima. Tutto bene allora? Assolutamente no. 
Il percorso è sempre in salita. Non soltanto perché i dati globali non sono rassicuranti per nessuna città italiana (ad eccezione di Matera, guarda caso al Sud, dove, in termini relativi, la vita scorre decisamente più tranquilla che altrove) ma anche perché è ancora lunga la strada da percorrere per sconfiggere il radicamento al Sud della criminalità organizzata, la sua espansione al Nord, la quiescenza di troppi cittadini meridionali ed anche, spesso, settentrionali, di fronte a questo cancro spaventoso. 
Modificare il generico pregiudizio antimeridionale, però, è il secondo dovere che ci impone l’analisi meno emotiva e più razionale della realtà in cui siamo immersi, giorno dopo giorno, dal Nord al Sud della Penisola. La coesione sociale, economica e culturale della Nazione va perseguita come un bene comune fondamentale e non come una iattura da scongiurare. Vagheggiare il ritorno a piccole e chiuse patrie regionali, nell’età del pianeta globale, non può essere altro che mera e vana utopia.

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MATTEO DE AUGUSTINIS, DIVULGATORE E MAESTRO di Umberto de Augustinis – Numero 4 – Aprile 2016

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Matteo de Augustinis è stato un figlio del profondo Cilento, nel quale è nato 207 anni fa, a Felitto, un anno dopo lo scoppio della rivoluzione francese, da una famiglia che fu fatta oggetto della più bieca reazione da parte delle marmaglie del Cardinale Ruffo. 
La sua casa natale fu data alle fiamme, ed i suoi parenti costretti ad una terribile diaspora. Morì troppo presto, e nel luogo sbagliato (nel 1845 in quella Napoli, la cui classe colta era stata più che decimata con la restaurazione e chi che era sopravvissuto viveva nel sospetto e nel terrore), per essere incluso fin dall’inizio tra i padri della Patria.

MATTEO DE AUGUSTINIS, DIVULGATORE E MAESTRO

 

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Incarcerato ben due volte perché di idee sovversive, Matteo de Augustinis era un giurista (avvocato), professore ed economista, incarnando un’idea consolidatasi nella tradizione partenopea: prima che economisti, bisognava essere giuristi, perché

L’abolizione del feudalesimo fu una grande svolta “epocale”, dovuta anche all’impegno di molti economisti, come Giuseppe Palmieri, che aveva scritto, tra l’altro, “Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli e altri scritti” (1788), in cui, per “pubblica felicità” si intendeva l’uscita del popolo dall’ignoranza e dall’oscurità verso la luce, secondo il più ortodosso illuminismo. 
L’idea delle pubblica felicità è fondamentale nell’insegnamento di de Augustinis. Dal post-feudalesimo era derivato un complicato contenzioso che contrapponeva anche i proprietari latifondisti (baroni) alle città (università), in cui si riconoscevano le classi sociali borghesi ed operaie in formazione. Il tutto si svolgeva in uno Stato rigorosamente chiuso all’esterno, che faceva della politica dei dazi il suo centro propulsore economico. Vaghi accenni riformatori duravano poco e creavano delusioni (anche a de Augustinis).

il grande evento di quegli anni era stato l’adozione, per il Regno delle due Sicilie, della legge n. 130 del 2 agosto 1806, il cui primo articolo recitava: «La feudalità con tutte le sue attribuzioni resta abolita. Tutte le giurisdizioni sinora baronali, ed i proventi qualunque che vi siano stati annessi, sono reintegrati alla sovranità, dalla quale saranno inseparabili».

Il primo da ricordare è Antonio Genovesi (che era morto a Napoli nel 1796), il quale, nel teorizzare la necessità di far uscire l’uomo dallo stato di “oscurità”, è colui che, per primo, aveva compreso la decadenza culturale, materiale e spirituale del Regno di Napoli e, quindi, si era reso conto della necessità di intervenire, invitando le nuove generazioni ad approfondire lo studio dell’economia. All’Università di Napoli aveva insegnato economia politica, con un insegnamento istituito appositamente per lui, denominato “Cattedra di commercio e di meccanica”. Genovesi teneva sempre le sue lezioni in lingua italiana e questo costituì il modo per diffondere ad ampio spettro lo studio dell’economia e delle scienze tra sempre maggiori segmenti di popolazione. Matteo de Augustinis si innamorò subito dell’idea di raggiungere il maggior numero di persone con l’insegnamento.
Tra i suoi “economisti defunti” sono anche citati: Antonio SERRA (calabrese di nascita, ma morto a Napoli intorno al 1625), un’originale figura di genio meridionalista, che ha scritto, mentre era detenuto al carcere della Vicaria, l’introvabile “Breve trattato delle cause che possono far abbondare li regni d’oro e d’argento dove non sono miniere”, con applicazione al Regno di Napoli, esaltando l’importanza del mercato interno per un’economia troppo ripiegata su se stessa; Giovan Donato TURBOLO, (prima metà del 1600) un precursore del mercantilismo, esperto della politica monetaria del Regno di Napoli, da Ischitella; Francesco MENGOTTI, collaboratore di Cesare Beccaria, e ministro della Repubblica Cisalpina, che aveva analizzato l’economia di mercato, osteggiata dal protezionismo borbonico, alla luce del mercantilismo; Pietro VERRI (morto nel 1797), in qualche modo precursore di Adam Smith, perché, nelle Meditazioni sull’Economia Politica (1771), aveva enunciato (per primo in forma matematica) le leggi di domanda e offerta, aveva spiegato il ruolo della moneta quale “merce universale”, aveva appoggiato il libero scambio e sostenuto che l’equilibrio nella bilancia dei pagamenti è assicurato da aggiustamenti del prodotto interno lordo (quantità) e non del tasso di cambio (prezzo). Matteo de Augustinis rimase affascinato dall’idea che la libera concorrenza potesse servire a distribuire correttamente la proprietà privata. In questo si spiega la sua ammirazione, testimoniata nell’opera “Lettere” per Ferdinando GALIANI (educato a Napoli), che, nel 1751, aveva teorizzato nel trattato Della Moneta il valore economico dei beni, passando attraverso una relazione nientemeno che tra quantità e qualità del lavoro, tempi di produzione, utilità e rarità del prodotto. Dalla lettura di Sallustio BANDINI (morto nel 1760), senese e gesuita, esperto in diritto bancario (la cui statua è a Siena, davanti alla sede del Monte dei Paschi), de Augustinis apprezzò l’idea di porre il sistema bancario a servizio di tutte le classi sociali, avvalorata dal libro di Lodovico Ricci, storico ed economista, che aveva pubblicato il libro “Riforma de’ pii Istituti della Città di Modena”.

In questo contesto, bisognava creare, da una parte, una coscienza tra la gente per sradicare l’idea stessa di vassallaggio e, nello stesso tempo, creare e utilizzare sia le nuove risorse che si erano liberate sia nuove frontiere di occupazione e produzione per ideare e favorire le riforme sociali, politiche ed economiche:

era, cioè, necessario coniugare la scienza giuridica e quella economica, nell’ambito della quale era fondamentale anche il ruolo della neonata statistica, che affascinò molto de Augustinis. Leggendo la prefazione, curata dall’autore stesso, del volume “Elementi di economia sociale” pubblicato a Napoli nel 1842, si nota che la dedica è fatta “ai grandi economisti defunti”, citati con rispetto e devozione, nel preambolo del libro. A costoro fa dire: “Noi non morimmo, ma viviamo, tuttavia, colaggiù, siam vivi nelle nostre opere e nella memoria di coloro che tanto amammo”. De Augustinis collega, dunque, la propria opera agli economisti defunti che vivono “colaggiù” e, cioè, nell’impegno dei suoi contemporanei. 
L’elenco che ne fa è lungo, ma ragionandoci sopra, è molto importante per capire da che parte stava.

La lettura della lista ha una sua logica e chiave interpretativa, che, senza mezzi termini, fa capire che Matteo de Augustinis si reputa una delle voci che intende saldare il nuovo al vecchio, assimilando e sviluppando la summa del pensiero della tradizione “colta napoletana”.

Da queste letture deriva a Matteo de Augustinis l’idea di ipotizzare un obbligo di investire nelle casse di risparmio, enunciata nel suo discorso sulla povertà degli Stati. In questo riecheggiano anche le idee di Cesare Beccaria.

 Nell’ambito dei grandi defunti non poteva mancare Gaetano FILANGIERI, brillante esponente dei “nobili liberali” napoletani, quelli dai quali derivò la rivoluzione del ‘99. Altri grandi economisti cari al Nostro furono Melchiorre GIOIA, che, dopo la caduta di Napoleone, aveva prodotto le sue opere maggiori, come il “Nuovo prospetto delle scienze economiche” e, ancor più, “Sulle manifatture nazionali” (1819), la cui eco si sente nell’ultima fatica di Matteo de Augustinis “della Valle del Liri e delle sue industrie”, che sarà, poi, anche la relazione tenuta a Napoli nei giorni della sua morte (1845) in un convegno di economisti italiani. Il libro sulle manifatture di Gioia, peraltro, non era stato gradito al Governo borbonico: il volume fu messo all’indice e Gioia fu arrestato, nel 1820. 
La stessa sorte, non foss’altro che per aver condiviso le tesi di Gioia, fu riservata a Matteo de Augustinis.
Da Carlo Antonio BROGGIA, autore di un Trattato de’ tributi, delle Monete, e del Governo politico della Sanità, de Augustinis trasse la logica del metodo nel gestire le risorse pubbliche in vista del loro uso sociale. Da Gian Domenico Romagnosi, de Augustinis derivò la convinzione che l’intera esperienza politico-sociale del XVIII secolo sia stata compresa, riassunta e condensata attraverso la fiducia nello sviluppo capitalistico e nella libera concorrenza economica, teorizzando che i poteri pubblici devono far rispettare le corrette regole della libertà di concorrenza. Di qui l’assoluta presunta centralità del pensiero di Romagnosi, secondo de Augustinis, nell’ambito del pensiero dell’800.

De Augustinis fu, in effetti, un acuto osservatore della realtà contadina ed industriale (come emerge nel discorso sulla Valle del Liri, di cui si è detto); non gradiva gli eccessi, ma si commuoveva davanti allo sfascio della sanità e della scuola della Napoli dell’epoca (pronunciò un accorato “discorso sulla povertà”). 
Si lanciava in ardite proposte “globali”, pur conoscendo l’Europa solo attraverso i libri: e così commise anche errori, come il considerare l’Inghilterra bersaglio di molti strali, pur apprezzando Adam Smith, o come arrivare a negare l’aumento della miseria nel Regno; ma,

la sua logica, in genere, è sempre quella di trovare forme di mediazione fra tendenze diverse, esaltando le specificità della vita del Sud, del Tavoliere pugliese, del Cilento, del casertano, della Calabria etc., e ritenendo, comunque, che ogni teoria economica possa essere, almeno in parte, buona per la causa di consolidare l’uscita del popolo di Napoli e del Sud da una situazione di abiezione, e di rassegnazione,

vera origine della sua povertà, stimolandone l’azione, il lavoro, il commercio e, dunque, la via della “felicità” nei termini elaborati da Genovesi. De Augustinis manifesta la fiducia che la strada intrapresa dagli economisti “amici” sia indefettibilmente esatta.

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Napoli, in realtà, a quell’epoca, era un centro di prima grandezza in Europa per tradizioni di influenza nei confronti delle istituzioni e del potere politico locale, consolidate e robuste nella cultura del diritto meridionale; ma era anche, diremmo oggi, in qualche modo terribilmente isolata ed autoreferenziale a seguito delle purghe post-1799.

Matteo de Augustinis resta vittima di questa situazione: il destino non gli concesse il tempo di collocarsi nell’Italia unificata.

La sua speculazione scientifica si concentrò sullo studio e l’analisi della realtà del Regno e della sua gente. E, in questo, fu davvero grande: lo stesso famoso VII Congresso degli scienziati italiani, tenutosi a Napoli nel 1845, puntò a dimostrare quanto i giuristi-economisti napoletani fossero assolutamente attenti ad incrementare la “felicità” essenzialmente del proprio popolo, con questo attirandosi ovvie ed autorevoli critiche (in particolare dalla Germania, che vedeva la miseria della gente). 
Il tempo in qualche modo, fu, però, galantuomo, perché alcuni di quelli che si allontanarono da Napoli, come Pasquale Stanislao Mancini, allievo, al pari di Antonio Scialoja, di Matteo de Augustinis, contribuirono con la loro idea di mercato libero ed allargato alla formazione dell’ideologia risorgimentale ed ai fondamenti economici della nuova realtà, mentre, nella seconda metà dell’800, chi era rimasto, senza colpa, nella logica e nella storia della Napoli preunitaria ne fu soffocato dalla decadenza. 
Forse questa conclusione potrebbe portare a capire come un’intelligenza eccezionale, interamente cresciuta e misurata sulla cultura e sulla gente del meridione, ha pagato il suo amore verso il Sud con l’emarginazione, dovuta alla diffidenza della grande tradizione economica continentale, pur potendo dire di aver contribuito seriamente al meglio della tradizione socio-economica italiana post-unitaria.

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LA VIA DELLE MEMORIE di Vincenzo Donzelli – Numero 4 – Aprile 2016

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Le cose accadono e spesso non per caso. Ricordo ancora quell’umido pomeriggio di novembre del 2013 in cui ho ricevuto la telefonata del mio amico geologo Gianluca Minin, Presidente dell’associazione culturale Borbonica Sotterranea. Aveva un’importante proposta da farmi e mi aspettava, la domenica successiva alle nove in punto, alla Galleria Borbonica in prossimità del parcheggio Morelli.

Arrivati in cima all’impalcatura, mi ritrovai in un ambiente un po’ polveroso, dove un gruppo di almeno 30 volontari stava scavando … Restai sbalordita davanti a questi ragazzi molto giovani che lavoravano affiatati, con passione e anche divertendosi. A quel punto, Gianluca mi chiese se ero pronta a conoscere la principale ragione del suo invito; mi sorrise e mi chiese di girarmi: dietro di me vidi una lunga scala con decine di gradini che erano stati appena finiti di pulire dai volontari che erano di fianco a me.

Dal 30 gennaio di quest’anno, il nuovo percorso della Galleria Borbonica è attivo e aperto al pubblico con il suggestivo nome di La Via delle Memorie.

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LA VIA DELLE MEMORIE

 

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Gianluca mi guardava divertito e, di colpo, sorridendo, mi disse: “Sei pronta a scavare?”. Ero attonita, quasi sbalordita. Lui non si scompose e sempre sorridendo mi condusse a fare un giro all’interno della Galleria per presentarmi “alcune persone speciali che avevano una sorpresa per me”.

Quella mattina, restai senza parole di fronte a tanta bellezza; ero impressionata dalle opere realizzate dai Borbone e orgogliosa dei ragazzi che avevano ripulito tutto senza alcun aiuto economico. Gianluca mi guardò e mi disse che mi avrebbe portata dove i lavori di rimozione dei detriti e dei rifiuti erano ancora in atto. Dopo l’apertura della parte iniziale della Galleria, infatti, nell’agosto del 2013, lui e il suo socio avevano iniziato a scavare all’interno di una cisterna del Seicento, alla ricerca del passaggio verso il ricovero bellico di Palazzo Serra di Cassano. Quando arrivammo alla cisterna, Gianluca si fermò di colpo e mi disse che ci trovavamo esattamente al di sotto del Palazzo, in un punto limitrofo allo spazio di mia pertinenza. Lo ascoltavo in silenzio, mentre lui mi spiegava tutto il sistema di cunicoli e attraversamenti. Alla fine della spiegazione mi indica il passaggio che cercavano da tempo e che era emerso dai detriti. Quel passaggio consentiva di entrare in una serie di ambienti di epoche diverse, su più livelli, collegati da bellissime scale. Salimmo queste scale e mentre guardavo l’altissima volta che era sopra di me, Gianluca mi rivelò che tutto ciò che vedevo risultava, in gran parte, dal riempimento di detriti derivanti dai resti degli edifici bombardati nella parte alta di Monte di Dio e versati subito dopo la guerra nei pozzi. Era incredibile e il mio stupore cresceva con i suoi racconti. A un certo punto, mi fece salire su un’impalcatura che conduceva ancora più in alto da dove arrivavano i rumori di persone che parlottavano divertite. Ero impressionata dalla quantità di materiale che era stata spostata.

Non solo la Galleria fu restituita al patrimonio culturale di Napoli, ma la scoperta di diverse cavità non censite ubicate in aree limitrofe alla Galleria, ha permesso di migliorare la conoscenza del sottosuolo dell’area di Monte Echia e di studiarne i movimenti, utili a prevenire possibili smottamenti e altre calamità.

Non avevo idea di cosa volesse propormi, il solo pensiero che mi venne è che potesse chiedermi una collaborazione tra la sua associazione e l’associazione artistico culturale Interno A 14, che, da lì a poche settimane, avrei aperto, in un locale di proprietà della mia famiglia a Palazzo Serra di Cassano. Ero davvero curiosa e quella domenica mattina mi recai all’appuntamento con un pizzico di ansia. Conoscevo quella parte di sottosuolo che partiva dal parcheggio Morelli perché ne avevo sentito molto parlare, ma non l’avevo mai visitata. Quando arrivai al cancello della Galleria Borbonica, Gianluca era lì ad accogliermi. Già all’entrata, rimasi colpita dalla maestosità delle cavità che si ramificavano da quel punto in varie direzioni e poi, entrando, dal susseguirsi di giochi di volte, scavate nel tufo, e dagli archi di grandezze diverse.

“Questo – mi disse Gianluca senza scomporsi – è il nostro piccolo miracolo napoletano”! Era la storia di decine di volontari che ogni domenica mattina andavano a lavorare alla Galleria per rimuovere a mano tutti i materiali che ingombravano gli ambienti.

Durante il tragitto mi raccontò la storia della Galleria e di come lui, e il suo socio – e collega – Enzo de Luzio, avessero trovato tutto quello che, con grande sorpresa, stavo ammirando. Mi parlò dei rilievi statici che faceva nelle cavità del sottosuolo di Napoli che, dopo alcuni mesi, lo avevano condotto all’interno della Galleria Borbonica – che era in uno stato di totale degrado e abbandono, invasa da rifiuti e detriti sversati abusivamente negli ultimi 30 anni. Gianluca, tuttavia, non si scoraggiò. Cominciò subito i rilievi e i lavori di pulizia, coinvolgendo decine di volontari. Dopo cinque anni di interventi pazienti e impegnativi, tutta la città ha potuto ammirare la bellezza di un’opera civile totalmente dimenticata. Si trattava di un piccolo miracolo napoletano, dovuto alla capacità e alla tenacia di geologici, tecnici, studiosi e al lavoro di tanti ragazzi e ragazze della città.

Mi disse che le scale terminavano proprio sotto il pavimento del mio spazio. Rimasi di sasso.

Nel periodo bellico, per consentire il ricovero degli abitanti durante i bombardamenti, qualcuno aveva ampliato la scala già esistente nel Rinascimento che collegava il Palazzo con i suoi ambienti sotterranei. Restai in silenzio, osservando tutto ciò che mi circondava. Guardavo i volti dei ragazzi e lo sguardo di Gianluca e degli altri volontari dell’associazione Borbonica Sotterranea che quella mattina erano lì e che con tanto amore e passione avevano per anni scavato per riportare alla luce una simile bellezza. Gli dissi che ero onorata di poter collaborare con loro e di ripristinare il passaggio chiuso dopo la II guerra mondiale, che univa due realtà importanti come il Palazzo Serra di Cassano e la Galleria Borbonica. Da quel giorno sono passati due anni di intensi lavori di scavo e di prolungate attese per i permessi. Finalmente, il 14 novembre 2015 abbiamo potuto eliminare l’ultimo diaframma che impediva il congiungimento tra il Palazzo e il sottosuolo, restituendo così alla città di Napoli un percorso che, senza alcuna retorica, rappresenta l’orgoglio dell’iniziativa privata e del volontariato.

Da quel giorno, chi proviene dal sottosuolo può seguire il percorso di Palazzo Serra e sbucare con sua grande sorpresa all’interno del mio spazio polivalente dedicato alle arti e alla cultura – chiamato Interno A 14. In questi spazi abbiamo allestito un’area con una mostra permanente fotografica in onore dei volontari della campagna di scavo dell’associazione Borbonica Sotterranea dove si possono ammirare anche delle teche con alcuni degli oggetti ritrovati nel sottosuolo.

 

CRISI O METAMORFOSI? di Luciano Cimmino – Numero 4 – Aprile 2016

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è stato caratterizzato per gli imprenditori italiani da una invadente, ed a volte molesta, presenza di un mondo finanziario sempre più interessato ad acquisire marchi e attività produttive con partecipazioni di maggioranza o di minoranza.

CRISI O METAMORFOSI?

 

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Fino alla fine degli anni novanta, pur avendo già esteso la mia attività in gran parte del mondo, la mia principale base operativa era a Napoli.

Avevo la sensazione che fossimo rimasti in pochi a credere nella forza del lavoro vero; quello che ti impegna quotidianamente nel tenere un’azienda sui binari corretti di una sana gestione, proiettandola nel futuro con idee e progetti solidi, legati ad idee innovative oltre che ad un solido know-how.

Oggi mi rendo conto come, da un osservatorio sia pure importante come quello di una ex Capitale, l’incrocio tra mondo finanziario ed impresa fosse vissuto in maniera completamente diversa da quanto, poi, avrei potuto verificare avviando nel varesotto il marchio Yamamay. Marchio immediatamente oggetto di attenzione di banche d’affari e di Fondi che, a decine, presidiavano la piazza finanziaria di Milano. 
Con meraviglia constatavo quanto tempo bisognava inventarsi per seguire un’agenda di appuntamenti che niente avevano a che fare con l’attività principale dell’azienda. Per la maggior parte si trattava di incontri finalizzati ad ascoltare progetti e condizioni legati all’ingresso nel capitale di un’attività ancorché giovane e dall’avvenire ancora da definire. 
Educato ad un modo di operare che mi imponeva di concedere un appuntamento a chiunque me lo chiedesse, mi trovai in breve a dover rivedere questa mia convinzione.

In effetti, la brusca frenata non creò da sola tutti i dati negativi che fummo costretti a registrare, ma tolse i veli ad una generale situazione dell’economia italiana, che si sarebbe già dovuta affrontare da tempo,

In quel momento i nostri marchi correvano come puledri in dirittura d’arrivo di un derby, ma questa frase mi colpì come una scudisciata in pieno viso. Cosa stava accadendo e cosa ci riservava in generale il futuro e per i nostri marchi in particolare? La risposta arrivò nei mesi seguenti quando fummo costretti a ridimensionare le nostre vertiginose crescite a due cifre in miglioramenti che comunque si evidenziavano come le migliori performance nei settori in cui operavamo, mentre si registrava la diminuzione sostenuta ed inarrestabile dei consumi in tutti i settori. 
L’Italia stava entrando in un ciclo di recessione che avrebbe minato alla radice convinzioni che ormai sembravano inamovibili: PIL sempre con un segno + davanti, occupazione stabile, voglia di consumare anche nei canali innovativi che si erano presentati più di recente.

Ed ancora: è il caso di parlare di crisi o dobbiamo prendere atto che la nostra società civile è rimasta coinvolta in un processo di metamorfosi che ha trasformato completamente modi di vivere, aspettative, speranze per il futuro? Non sono considerazioni di poco conto, perché in ballo ci sono tutte le nuove generazioni che hanno visto disintegrarsi, in pochi anni, le convinzioni che avevano supportato le generazioni precedenti: il posto fisso, la sicurezza di una pensione alla giusta età, un ragionevole potere di acquisto. 
A tutto questo dobbiamo aggiungere il fatto che, come sempre, quando le crisi economiche sembrano irrisolvibili, si sono accesi conflitti locali di grande importanza e sempre più diffusi, fino a far dire a Papa Francesco: “Ė in atto una terza guerra mondiale a pezzi”. Un’affermazione drammatica, ma poco lontana dalla realtà e che sembra possa coinvolgerci ulteriormente ed in maniera più diretta, in tempi molto brevi. 
Ci stiamo abituando anche a questo. Per fortuna ci sono convinzioni che non sono ancora venute meno:

Ora però bisogna chiedersi: come siamo usciti da questo percorso negativo durato più di un lustro? In quanti anni possiamo recuperare tutto il PIL che abbiamo lasciato per strada?

c’è ancora la voglia di confrontarsi con la concorrenza mondiale sul piano produttivo e per la penetrazione in mercati che potrebbero rappresentare una nuova frontiera per lo sviluppo.

In definitiva contrasti forti, molto forti, che bisogna saper gestire e pilotare con mano ferma. Abbiamo il dovere di mettere le nuove generazioni in condizioni tali da poter affrontare i prossimi decenni con la preparazione e la carica indispensabili per non far arretrare il nostro Paese nella grigia zona delle Nazioni che poco possono incidere sui futuri destini del mondo.

Fino al 2007 sembrava impossibile sottrarsi ad un gioco che mi ricordava quello dello scambio di figurine che praticavo da bambino: io ti do qualcosa e tu mi dai qualcos’altro in cambio; oppure compro il tuo mazzetto di figurine al prezzo che, in apparenza, decideremo insieme. 
In sintesi, i discorsi sul mondo finanziario sembravano prevalere in larga misura su quelli legati all’economia reale che per me è sempre quella della produzione e distribuzione dei beni. 
Purtroppo, l’Italia era solo un’appendice di quanto si stava verificando, in misura molto maggiore, nelle principali piazze finanziarie del mondo. Inevitabilmente, dopo alcuni anni, la bolla è scoppiata e dal 2008 ci siamo trovati in una situazione che ha visto, in misura minore o maggiore, e con esiti assolutamente diversi per ogni caso, coinvolte tutte le aziende italiane. 
Ho un ricordo preciso del momento in cui fui costretto ad aprire gli occhi su quanto stava accadendo.

Un pomeriggio, doveva essere maggio del 2008, ero davanti al distributore automatico di caffè in azienda ed arrivò una persona per la ricarica. Mi sembrò naturale domandargli come andavano le cose nel suo settore. “Lasci correre, mi rispose, in sei mesi ho perso il 75% del mio fatturato!”

con sostanziali riforme a cui però nessun Governo aveva inteso mettere mano. 
Scivolando sulla pericolosissima china di un debito pubblico inarrestabile nella sua corsa verso record negativi, ci trovammo così alla vigilia di catastrofici eventi che in poche settimane (attenzione poche settimane, non pochi mesi) avrebbero portato l’Italia al default
Di fronte ad una realtà, che non esito a definire drammatica, per fortuna ci fu un momento in cui le forze politiche si compattarono intorno al nome del professor Monti per evitare il naufragio. Agli italiani furono chiesti grandi sacrifici, soprattutto sul fronte delle pensioni, il cui nodo ancora oggi appare irrisolto, ma fu così evitato il peggio. 
A distanza di pochi anni, oggi sembra che la caduta si sia arrestata, mentre appare avviato un nuovo processo di crescita sia pure segnato da risibili decimali.