MUSICA STRUMENTALE DI VERDI A NAPOLI di Antonio Lopes – Numero 23 – Dicembre 2021 gennaio 2022 – Ed. Maurizio Conte

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MUSICA STRUMENTALE DI VERDI A NAPOLI

 

Verdi compositore di musica strumentale a Napoli. 

 

Si può certamente affermare senza ombra di dubbio che i tre maggiori operisti italiani che hanno operato nella prima metà dell’800, Rossini, Bellini e Donizetti, hanno avuto con la città di Napoli e con il San Carlo un rapporto speciale in forza del quale hanno raggiunto grandi successi internazionali e confermato ancora in pieno secolo XIX il ruolo di Napoli come capitale europea della Musica e del Melodramma.Diverso è il caso di Giuseppe Verdi.

 

Si annoverano solo due opere del catalogo verdiano che furono tenute a battesimo 

al San Carlo di Napoli: Alzira (1845) e Luisa Miller (1849),

 

va poi ricordato che Un Ballo in Maschera, commissionato dal San Carlo nel 1856 non poté essere rappresentato a causa delle richieste della direzione del Teatro, la quale, temendo i rigori della censura borbonica, impose al compositore tali e tante modifiche al libretto da indurlo a ritirarsi. Il desiderio di mettere in scena la sua opera spinse comunque il Maestro a prendere contatto con l’impresario del teatro Apollo di Roma, Vincenzo Jacovacci, il quale fu ben lieto della notizia, ma preannunciò che l’opera avrebbe dovuto subire qualche cambiamento per la censura pontificia. Il librettista Antonio Somma esortò Verdi a lasciar perdere e a dare il libretto a Milano dove sarebbe passato indenne in teatro, ma per il Maestro bisognava dare uno «schiaffo» al teatro napoletano, mettendo in scena l’opera «quasi sulle porte di Napoli e far vedere che anche la censura di Roma ha permesso questo libretto». 

 

Occorre ricordare che successivamente i rapporti tra il San Carlo e Verdi migliorarono: infatti il Maestro vi mise in scena la ripresa del Simon Boccanegra nel 1858 e vi rappresentò la prima italiana del Don Carlo nel 1872 andato in scena per la prima volta a Parigi nel 1867. In ogni caso a Napoli furono riproposte subito dopo le prime rappresentazioni, quasi tutte le opere del compositore di Busseto e sempre con grande successo, al punto che tuttora questo repertorio è probabilmente quello più amato e apprezzato dal pubblico napoletano. 

 

Fatta questa premessa, può essere interessante rievocare un altro episodio, non molto noto, della biografia del grande musicista che vede coinvolta Napoli e il suo teatro.

Nel 1873 Verdi è di nuovo a Napoli per la messa in scena dell’Aida andata in scena 

al Teatro dell’Opera del Cairo, il 24 dicembre 1871 e poi a Milano 

al Teatro alla Scala l’8 febbraio del 1872.


È l’opera che più ha amareggiato Verdi nel corso della sua intera carriera: «Mi ha procurato noje infinite e disillusioni artistiche grandissime». In effetti, il pubblico non aveva apprezzato granché, pur nel rispetto per quello che già allora era già considerato un “Padre della Patria”, ma soprattutto la critica aveva sollevato obiezioni di “imitazione wagneriana”. Per Verdi questo era troppo: «Finire imitatore alla mia età, dopo 35 anni di carriera!». 

 

Durante le prove dell’opera al San Carlo, il soprano Teresa Stolz (già moglie del direttore d’orchestra Angelo Mariani e poi legata da “affettuosa amicizia” con il compositore), ingaggiata per la parte principale, si era ammalata. La prima era stata posticipata, e così 

Verdi «nei momenti di ozio all’albergo Crocella» aveva scritto il suo unico 

Quartetto per archi, in mi minore, eseguito privatamente in albergo, 

presenti non più di sette-otto ascoltatori.


Fra i presenti c’era il corrispondente della Gazzetta Musicale di Milano, sulla quale, pochi giorni dopo, era uscito un grande articolo intitolato 

“Un quartetto di Verdi!”.


L’esordio fu affidato ad un ensemble formato dalle prime parti dell’Orchestra del San Carlo: dai fratelli Finto ai violini, Salvadore alla viola e Giarritiello al violoncello. 

 

L’atteggiamento di Verdi nei confronti di questa composizione strumentale fu molto ambivalente: da un lato il Maestro tendeva a disconoscere valore alla sua composizione, negando che essa fosse degna di essere conosciuta dal grande pubblico, dall’altro poteva comunque essere la dimostrazione che il grande operista era in grado di dare dei contributi originali anche nell’ambito della musica strumentale che proprio in quegli anni iniziava a diffondersi in Italia, intaccando il monopolio del Melodramma nei gusti del pubblico.

Basti pensare che nel 1878 gli era arrivata una richiesta da Parma, 

in fondo la sua “patria” in cui si chiedeva il permesso di concedere 

il Quartetto per l’esecuzione, alla quale egli risponde in modo piccato:


«Sono veramente dolente di non poter aderire a quanto ella domanda. Io non mi sono più curato del Quartetto che scrissi per semplice passatempo alcuni anni or sono a Napoli e che fu eseguito in casa mia alla presenza di poche persone che erano solite venire da me tutte le sere. Questo per dirle che non ho voluto dare nissuna importanza a quel pezzo e che non desidero almeno per il momento renderlo noto in nissuna maniera». Eppure era già stato eseguito a Vienna e a Parigi con successo enorme; stava per essere suonato a Londra, addirittura in una versione adattata per un’orchestra di 80 archi. E l’autore, al quale era stato chiesto l’assenso, lo aveva dato osservando che alcuni temi del primo e del secondo violino sarebbero risultati meglio in versione orchestrale.

Questo atteggiamento così contraddittorio nei confronti dell’unica composizione 

da camera del grande operista si inserisce nel dibattito sulla musica strumentale tedesca, molto vivace in Italia fra gli anni Sessanta e Settanta del XIX secolo.


Nel 1873, mentre componeva il suo unico Quartetto per archi, Verdi si sentiva coinvolto in una sorta di “conflitto musicale” che aveva un fronte interno e uno esterno. Quest’ultimo riguardava ovviamente quanto accadeva fuori dell’Italia nel mondo dell’opera, sotto le insegne del dramma musicale di Wagner e più in generale della cosiddetta “opera d’arte dell’avvenire”, che iniziava a fare breccia anche in Italia. Più singolare, nella prospettiva attuale, il fronte interno. Infatti, dopo il controverso debutto scaligero di Aida, il musicista mostrava spesso di sentirsi “nel mirino”. Non solo e non tanto nell’ambito operistico, nel quale in fondo continuava a non avere rivali, ma in quello della discussione sulla musica strumentale, che stava fiorendo vivacemente in Italia. Carattere forte e ruvido, imperioso e stizzoso, spesso impaziente, Verdi al giro dei suoi 60 anni si sentiva coinvolto al punto da voler condurre una “guerra” in un ambito che non era quello teatrale. E per questo – con intento a suo modo provocatorio e sicuramente polemico – aveva deciso di scrivere un Quartetto.

All’editore Ricordi aveva scritto: «È convenuto che noi italiani non dobbiamo ammirare questo genere di composizione se non porta un nome tedesco. 

Siamo sempre gli istessi, noi italiani».


E aveva aggiunto un’annotazione particolare della quale in realtà non era convinto fino in fondo, visto che attenua in maniera senz’altro insolita il suo parere: «Credevo allora e credo ancora, forse a torto, che il Quartetto in Italia sia pianta fuori di clima». Nella stessa lettera spuntava la polemica “ideologica”: «Io vorrei che le nostre società, licei e conservatori, unitamente ai quartetti a corde, istruissero quartetti a voce per eseguire Palestrina, i suoi contemporanei e Marcello». E così anche la famosa frase verdiana, “Torniamo al passato e sarà un progresso”, riletta sotto questa luce assume una particolare evidenza. Il vero punto di riferimento di Verdi per replicare ai “modernisti” era la grande tradizione polifonica italiana del Cinquecento e i suoi sviluppi nella musica del Settecento. 

 

Subito dopo la prima di Aida a Napoli, Verdi aveva scritto alla fedele amica la contessa Maffei, alla quale aveva raccontato che Aida aveva avuto un grande successo, probabilmente più che altrove in Italia, perché «Qui a Napoli non vi sono i critici che la fanno da “apostoli”». Ovvero, apostoli di una nuova religione musicale, della quale il compositore non aveva certo una grande considerazione. E aveva rincarato la dose: «Non c’è la turba dei maestri che sanno di musica soltanto quello che studiano sulla falsariga di Mendelssohn, Schumann, Vagner (sic!). Non il dilettantismo aristocratico che per moda si trasporta a quello che non capisce».

Molto lucidamente il Quartetto esprime chiaramente l’intenzione verdiana di definire una diversa pratica musicale, che sintetizzi nella forma classica un gusto 

e uno stile tipicamente italiani, alieni da qualsiasi pedissequa “falsariga” 

e imitazione di stilemi ad essi estranei.


Particolarmente significativa, da questo punto di vista, la scelta di concludere la composizione con una Fuga. Che non a caso era la parte cui il compositore teneva di più. 

 

Nel Quartetto, la scrittura della Fuga è stringente, profonda eppure singolarmente lieve. In un primo momento, Verdi aveva pensato di farla precedere da una sorta di recitativo introduttivo. Poi, forse pensando che il tutto sarebbe suonato “sulla falsariga” di Beethoven, vi aveva rinunciato. E l’ultimo movimento era diventato, semplicemente, uno Scherzo-Fuga in tempo “Allegro assai mosso”, con il soggetto affidato al secondo violino chiamato a suonare pianissimo, staccato e leggero. Sorge a questo punto invitabile il paragone con il grandioso Fugato che conclude la sua ultima opera Falstaff (rappresentato nel 1893), quello in cui si dice che “Tutto nel mondo è burla”, lungo un contrappunto di voci e strumenti in 14 parti. 

In modo sorprendente e modernissimo la polifonia si fonde con il gesto ironico dell’estrema maturità verdiana in una sintesi che ancora oggi, 

a distanza di oltre un secolo, ancora ci sorprende.

 

 

UN EPISODIO POCO NOTO DELLA VITA DEL GRANDE MUSICISTA

 

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I COSTUMI TRADIZIONALI DEL MOLISE – Gemme del Sud – Numero 23 – Dicembre 2021 gennaio 2022 – Ed. Maurizio Conte

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I costumi tradizionali del molise

 

 

Gemme del Sud

                  Molise

 

Nei costumi tradizionali popolari molisani sono racchiuse le radici profonde di un popolo dedito principalmente all’agricoltura e alla pastorizia, dalla storia articolata che ha subìto, nel corso dei secoli, influenze culturali diverse da parte di genti straniere che si sono stanziate nel territorio, tra le quali gli Spagnoli, i Borboni, gli Slavi. 

 

Attraverso numerose fonti come gli acquerelli del XVIII secolo conservati nella Biblioteca Provinciale Pasquale Albino di Campobasso, le fotografie dello Studio Trombetta di Campobasso, scattate tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi del Novecento, le fotografie di fine Ottocento dello Studio fotografico Montabone di Napoli e 

grazie soprattutto alla ricca collezione di abiti ed accessori di Antonio Scasserra, esposta fino a poco tempo fa al MUSEC di Isernia, è possibile seguire 

l’evoluzione dell’abbigliamento maschile e femminile 

dei secoli più recenti,


utilizzato nelle diverse occasioni e fasi della vita nei vari comuni molisani. 

 

Le donne indossavano gonne lunghe, ampie ed arricciate in vita, un grembiule, una camicia bianca in lino o cotone, a volte decorata da merletti, copri braccia in stoffa, uno stretto corpetto rifinito da fettucce colorate che poteva essere impreziosito da ricami e un fazzoletto da spalla. Un copricapo di lana o lino bianco, chiamato mappa, aveva la particolarità di essere ripiegato più volte e in fogge diverse a seconda del paese di appartenenza ed era trattenuto da spilloni – per le maritate uno per ogni anno di matrimonio. 

 

L’abbigliamento maschile era più sobrio rispetto a quello femminile e presentava meno varianti nelle diverse province: pantaloni corti al ginocchio, calze in cotone o lana, una camicia bianca, un gilet, una giacca corta o lunga, un mantello a ruota per coprirsi durante i freddi mesi invernali ed un cappello per lo più a falda larga. 

 

Anche i monili valorizzavano l’abbigliamento ed indicavano l’agiatezza economica di chi li indossava; 

essi erano espressione di una produzione artigianale 

ancora oggi presente nella Regione,


che si esprime anche nelle lavorazioni del tombolo, del rame, della coltelleria e che rappresenta una ricchezza da tramandare alle generazioni future per non dimenticare le proprie radici e tenere vive le proprie tradizioni

 

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A sinistra: Costumi tradizionali del Molise, XIX secolo, Fotografia dello Studio Montabone Fonte: Catalogo generale dei Beni Culturali https://catalogo.beniculturali.it/detail/PhotographicHeritage/1500860766)

 

A destra: Costume femminile regionale molisano di Frosolone (IS), dalla Esposizione Internazionale di Roma del 1911 oggi esposto al MuCiv, Museo delle Civiltà, Roma Fonte: Foto di Ceretta Paola

 

 

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IL SARCOFAGO DEGLI APOSTOLI – Gemme del Sud – Numero 23 – Dicembre 2021 gennaio 2022 – Ed. Mautrizio Conte

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IL SARCOFAGO DEGLI APOSTOLI

 

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           Barletta (BT)

 

 

A Barletta, in provincia di Bari, si trova un’opera di grande rilievo artistico, importante testimonianza della presenza bizantina in Italia: il sarcofago raffigurante “Cristo tra gli apostoli”, risalente alla fine del IV, inizio del V secolo d.C., oggetto di un viaggio e un ritrovamento incredibile. 

 

Pur trovandosi al Castello Svevo di Barletta, 

fu sicuramente prodotto a Costantinopoli, da una committenza di alto lignaggio: 

era destinato probabilmente ad alte cariche ecclesiastiche 

ed a funzionari della corte Teodosiana.

 

Un raro esemplare come questo difficilmente sarebbe stato esportato in epoca tardo-antica e ciò lascia pensare che giunse probabilmente in Puglia già in età medievale, quando gran parte del sud Italia era parte dell’impero bizantino. Prima dell’attuale collocazione, il sarcofago era altrettanto probabilmente conservato nella chiesa medievale dei SS. Simone e Giuda, distrutta nel 1520. 

 

L’opera 

è giunta a noi divisa in tre parti. I suoi frammenti furono infatti rinvenuti nel 1887 durante i lavori di smantellamento di un pozzo, del quale era divenuta 

niente di meno che un rivestimento. Uno dei tre blocchi di marmo 

venne infatti forato al centro, per fungere da imboccatura 

di estrazione dell’acqua.


A noi arriva una lastra in marmo “proconnesio”, una varietà di marmo bianco proveniente da Prokonnesos, un’isola nel Mar di Marmara (da qui la parola “marmo”) vicino al Mar Egeo, che costituiva la parte frontale del sarcofago. Le parti mancanti raffiguravano probabilmente i ritratti di due defunti, secondo l’uso dell’epoca, mentre le figure attualmente visibili presentano analogie con altre opere provenienti da Costantinopoli, come l’obelisco di Teodosio ed altri sarcofagi con lo stesso tema. Da qui l’origine della fabbrica che l’ha realizzato. 

 

Benché lo stato di conservazione, per le vicissitudini vissute e gli evidenti segni del tempo, non sia dei migliori, la pregevolezza dell’opera non è venuta meno e grazie anche ad alcune iscrizioni più tarde si può determinare la scena di Cristo tra gli apostoli. Al centro si trova Gesù con la croce ed il suo monogramma, la mano destra che tende nel gesto della parola ad indicare che sta parlando, mentre ai lati sono raffigurati gli apostoli, sei a destra ed altrettanti a sinistra, tutti con tunica e pallio.

 

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VENAFRO E IL SUO PARCO DEGLI OLIVI Gemme del Sud – Numero 23 – Dicembre 2021 gennaio 2022 – Ed. Maurizio Conte

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VENAFRO E….. IL SUO PARCO  DEGLI OLIVI

 

Gemme del Sud

           Venafro (IS)

 

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Venafro (in provincia di Isernia), nota come la Porta del Molise, è senza dubbio una delle più belle e caratteristiche cittadine della regione, ricca di storia, arte e cultura. Ma c’è una cosa che rende questo posto davvero unico: i suoi ulivi, tra i più antichi piantati in Italia. 

Venafro è uno dei tre luoghi simbolo dell’olivicoltura storica mediterranea, 

insieme alla biblica Efraim ed al Monte degli Ulivi di Gerusalemme.

 

Venafro (in provincia di Isernia), nota come la Porta del Molise, è senza dubbio una delle più belle e caratteristiche cittadine della regione, ricca di storia, arte e cultura. Ma c’è una cosa che rende questo posto davvero unico: i suoi ulivi, tra i più antichi piantati in Italia. 

Le sue origini antiche sono tramandate da numerose fonti letterarie – da Orazio 

a Plinio il Vecchio, a Marziale – molte delle quali testimoniano che i Romani 

ritenevano l’olio di oliva prodotto in questo luogo 

il più pregiato del mondo antico.

 

Venafro (in provincia di Isernia), nota come la Porta del Molise, è senza dubbio una delle più belle e caratteristiche cittadine della regione, ricca di storia, arte e cultura. Ma c’è una cosa che rende questo posto davvero unico: i suoi ulivi, tra i più antichi piantati in Italia. 

 

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RUDISTE GIOIELLI DELL’AMBIENTE di Santa Picazio – Numero 23 – Dicembre 2021 gennaio 2022 – Ed. Maurizio Conte

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i confini fra le regioni restano inesistenti. Sono linee immaginarie tracciate dall’uomo per comodità di studio, o per convenzioni politiche. 

RUDISTE GIOIELLI DELL’AMBIENTE

 

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È quanto bisogna considerare quando si passa dalla Puglia al

Molise, una regione minuscola, posata di traverso sulla Puglia come un cappellino, 

ma ricca di motivi per una visita, e non una visita veloce, ma una di quelle lente, consapevoli delle tante cose che ci sono da vedere. 


Si potrebbe cominciare da Pietrabbondante, con il suo Teatro italico, in località Calcatello. Affacciato sulla valle del Trigno, toglie il fiato per la sua imponenza, un’antica e ricercata imponenza. Risale infatti ad un paio di secoli prima della nascita di Cristo. Ed ancora, una visita ad Agnone, con le sue famose campane, dove si resta affascinati dal bronzo fuso, calato ad occupare il vuoto della forma, e dove rimarresti ancora per scoprire un altro segreto, quello del loro suono. E che dire di Sepino? La Pompei molisana, cui si arriva attraversando una porta romana. Un luogo ancora ben conservato, dove hai la sensazione di poter salutare antichi romani, e dove tutto si confonde, fino a meravigliarti di incontrare turisti invece che veder passare delle matrone.

C’è, però, una tappa che non ti aspetti, quella che porta in direzione del Matese, 

verso San Polo Matese, un piccolo comune di meno di cinquecento anime.


In questa località sopravvive una torre di origine forse longobarda, restaurata di recente, in prossimità della quale si notano delle strane rocce che racchiudono dei fossili: sono le Rudiste. Ed è a questo punto che la curiosità del turista, di un attento ed interessato turista, deve molto indietreggiare nel tempo, fino al periodo Mesozoico, circa 200 milioni di anni fa. A quell’epoca tutta la regione, e non solo, era ricoperta dal mare, un mare con un bel nome, “Tetide”, limpido, non molto profondo, a temperatura quasi costante, che si estendeva dalle Alpi al Borneo, dall’America centrale all’Himalaya. In questo mare, le Rudiste, questi molluschi bivalvi, prosperavano, riproducendosi senza problemi. Poi, accade che una lenta, ma inesorabile trasformazione di questo favorevole ambiente portò alla fine delle Rudiste. Ma non scomparvero, divennero pietra, che non si perderà mai nel tempo, ma rimarrà a far parte dei nostri paesaggi più interessanti.

L’importanza delle Rudiste risiede, appunto, nel fatto che hanno contribuito, con l’accumulo dei loro resti, e la successiva fossilizzazione, alla formazione 

di rocce particolarmente utili per l’uomo.


Le loro particolari caratteristiche, definite “calcari a Rudiste”, riscontrabili in molte zone dell’Italia centro-meridionale, si sono rivelate un elemento di grande importanza. La sedimentazione di questi preziosi gusci ha formato nel tempo strati fossili alti migliaia di metri. Una lunga storia durata per milioni di anni. Poi, il fondale marino decise di emergere, non per guardarsi attorno, ma per le forti spinte tettoniche dei continenti che desideravano dividersi per poi rincontrarsi. Ed ecco gli Appennini, e non solo: tante sono le terre emerse, l’Italia tutta, per esempio, dove le rocce calcaree, sensibili al lavoro costante dell’acqua si sono trasformate in bellissime grotte con ricami di pietra. Ma queste rocce hanno anche una funzione meno decorativa e di grande utilità per l’uomo costruttore: offrono la possibilità di ricavare calce viva per il suo impegnativo lavoro.                              

 

 

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VILLA LYSIS, LA REGGIA DEGLI ECCESSI NEL CUORE DI CAPRI di Aurora Adorno – Numero 23 – Dicembre 2021 gennaio 2022 – Ed. Maurizio Conte

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Villa Lysis, la reggia degli eccessi nel cuore di Capri

 

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quando l’ardente sole ti asciuga sulla spiaggia, ah, lasciami sognare, e fare un bel viaggio… il tuo corpo è uno scrigno misterioso e chiaro…» 

Jacques Fersen

Un triangolo amoroso quello tra il barone-poeta francese Fersen, le tentazioni e la natura incontaminata dell’isola di Capri. 

Proprio come il suo contemporaneo Oscar Wilde, Jacques Fersen credeva che l’unico modo per liberarsi dalle tentazioni fosse cedervi, e così fece per tutta la sua vita fin quando, nel 1903, subì un lungo processo che portò alla luce feste compromettenti, lettere d’amore indirizzate ad un giovane ed altri scandali.

 

Il dandy decadentista e scrittore trovò allora rifugio tra le bellezze dell’isola 

che aveva visitato già a diciassette anni e dalla cui bellezza 

era stato come folgorato,

 

colpito nella sua sensibilità estetica, ammaliato dalla potenza del vento che cantava sugli scogli e dalle onde di acqua cristallina che si increspavano lente verso l’orizzonte. 

Per porre le fondamenta della sua villa scelse un luogo selvaggio, scolpito dal tempo, posto davanti ad un panorama mozzafiato: la rupe di Tiberio.

In dodicimila metri quadri di terra l’architetto e scenografo Chimot 

progettò una villa in stile Luigi XVI,

 

in cui l’eleganza e l’esagerazione trasudavano da ogni poro come in un teatro dell’epoca. All’interno, stucchi, colonne, legni e materiali pregiati impreziosivano le stanze bagnate dalla luce del sole di Capri, riflessa nei mosaici dei vetri colorati. 

La palazzina era contornata da terrazze a strapiombo sul mare, da grandi finestre da cui penetravano i profumi e le fragranze del giardino esotico composto da orchidee, azalee, rose e camelie; copie di statue romane animavano la natura del boschetto d’alloro e del mirto dedicato al mito della bella Venere, mentre la villa era dedicata a Liside, discepolo ed amico di Socrate. Ma le bellezze della natura ed il sole del Mezzogiorno non dettero pace al giovane Fersen, neanche quando, ispirato dai suoi versi, si specchiava nel mare cristallino cercando la propria anima sul fondale in mezzo ai pesci ed alla flora marina;

 

egli, mosso dal suo spirito inquieto, animò la villa di feste e di balli, di scandali 

e di eccessi. Villa Lysis divenne così il ritrovo per artisti e letterati dell’epoca. 


Nell’atrio vi era un’immacolata scalinata di marmo dalla balaustra in ferro battuto, di fronte alla quale faceva capolino la grande biblioteca; al centro, una copia del David di Varrocchio sorrideva, forse schermendo i suoi ospiti. Oltre il salone, una veranda composta da piastrelle azzurre si mostrava al Golfo di Napoli attraverso le finestre, occhi affacciati sul Vesuvio che faceva da sfondo, incerto se eruttare il fuoco della terra, mentre il soffitto a cupola era contornato da colonne corinzie intarsiate d’oro. 

Al piano superiore si trovava la camera di Fersen, esagerata, sfarzosa, imprudentemente affacciata sul mare e sul Monte Tiberio, accanto quella di Nino, suo compagno ed amico, oltre ad una camera per gli ospiti ed una grande sala da pranzo. 

Superati gli archi della veranda si scendeva in basso e, attraversati gli inferi dell’animo umano, si trovava la fumeria d’oppio chiamata “La camera cinese”.

“Amori et dolori sacrum”, ovvero “luogo sacro all’amore ed al dolore” 

era la frase tratta da un’opera di Maurice Barrès, l’iscrizione latina 

che il barone volle apporre all’entrata della piccola sala da fumo.

 

Nell’alcova pietre dure, vassoi d’argento e pipe intarsiate comprate durante un viaggio ad Hong Kong adornavano la stanza in cui si rifugiava per sprofondare nei sogni ovattati dall’oppio, per cercare pace e riparo dalla sua stessa vita ed in cui morirà suicida, chiudendo il cerchio di un’anima inquieta divisa tra gli eccessi ed un’ideale di purezza che lo spinse sempre a narrare il bello. 

Una morte vissuta come ultimo atto sul grande palcoscenico della vita, la fine cercata durante un temporale, illuminata soltanto dalla luce di una manciata di candele rosa e che ci lascia perplessi a contemplare i suoi versi: 

«Stasera canto l’oppio, l’oppio illimitato, il sommo oppio. Danza il suo fumo nel cervello e l’uomo me lo involve nell’oblio. Guardo il fantasma inebriato; divento i suoi veli imponderabili, ascolto la sua voce che promette estasi ed entro in pagode profumate di gelsomini ove ardono resine per gli avi».

 

Dei suoi romanzi e poesie è reperibile in italiano la traduzione dell’autobiografia 

E il fuoco si spense sul mare, edito nel 2005, e Amori et dolori sacrum. 

Capri, un’infinita varietà:1905-1923: l’isola di Jacques Fersen, del 2009.

Villa Lysis ha ospitato tanti personaggi: Hans Paule, Gilbert Clevel, Otto Sohon-Rethel, la marchesa Luisa Casati e la famosa poetessa Ada Negri, che in un articolo sull’Ambrosiano del 1923 scrisse: 

«(…) tutto era troppo bello, compreso Nino, il segretario dal profilo di medaglia, con lo sguardo di chi ha occhi troppo lunghi, troppo neri e sormontati da sopracciglia troppo basse; ed il suo padrone, gentiluomo di gran razza, cortese, dall’altera eleganza, che parlava il più perfetto francese e leggeva versi come nessun’altro» riferendosi a Nino Cesarini, amante ed amico del Fersen che da lui eredita la proprietà.

La villa passò poi alla nipote di Fersen, ma nel 1985 il Ministero per i Beni Culturali 

e Ambientali vincolò la proprietà, che venne restaurata negli anni ’90 con i fondi dell’Associazione Lysis e del Comune di Capri per essere riaperta al pubblico.

 

Per chi oggi visita l’isola vale la pena salire sul promontorio settentrionale da via Sopramonte continuando per via Tiberio, per giungere infine tra le quattro colonne ioniche della villa tra i fantasmi del Fersen, dei suoi amanti e dei letterati dell’epoca, per poi riprendere fiato nel bel giardino, davanti ad un panorama mozzafiato. 

Che non si cada però nella tentazione di giudicare la vita di Jacques Fersen, nipote di un facoltoso industriale, discendente diretto del conte Fersen, maresciallo di Svezia ed amante della regina Maria Antonietta, quel giovane poeta che di quella sua vita aveva fatto lo specchio di eccessi e di misteri, perché, come sosteneva Wilde, è meglio essere protagonisti della propria tragedia che spettatori della propria vita.

 

 

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MAXXI ALL’AQUILA, TRA I SIMBOLI DELLA RINASCITA di Gaia Bay Rossi – Numero 22 settembre ottobre 2021 ed. Maurizio Conte

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MAXXI ALL’AQUILA, TRA I SIMBOLI DELLA RINASCITA

 

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da quel 6 aprile 2009 che ha cambiato la vita agli aquilani, che ha segnato gli abruzzesi e addolorato gli italiani tutti. 

Gli abitanti del capoluogo abruzzese e della sua provincia non dimenticheranno mai quel dolore. Ma dopo dodici anni e la fatica della ricostruzione che continua ad andare avanti, capita qualcosa che porta una visione positiva del futuro, di una continua rinascita.   

 

Tra i palazzi attorno a piazza Santa Maria Paganica, ve n’è uno, 

 

Palazzo Ardinghelli, che è divenuto la sede del neonato Museo MAXXI L’Aquila.

 

L’inaugurazione è avvenuta il 28 maggio scorso alla presenza dei rappresentanti delle varie istituzioni, del Maxxi, nonché dell’Ambasciatore della Federazione Russa in Italia (Stato che ha contribuito con una generosa donazione di 7,2 milioni di euro per l’intervento di restauro del Palazzo).

 

Palazzo Ardinghelli si trova a pochi passi dalla Fontana Luminosa 

e da Corso Vittorio Emanuele,

 

nel cuore del centro storico dell’Aquila. Considerato uno dei massimi esempi del barocco aquilano, è il perfetto trait-d’union tra terremoto e rinascita, perché è un monumento nazionale esso stesso danneggiato dal terremoto del 2009, poi sottoposto ad una lunga serie di lavori di consolidamento, miglioramento sismico e restauro, e poi anche di adeguamento a sede museale dai tecnici del MiBACT.

  

Ma quello che non tutti sanno è che l’iniziale costruzione del palazzo 

è avvenuta proprio nell’ambito della ricostruzione della città 

dopo un precedente e fortissimo terremoto:

 

quello del 1703. L’edificio è stato progettato tra il 1732 e il 1743 dall’architetto romano Francesco Fontana, figlio del più celebre Carlo, per la famiglia di origine fiorentina degli Ardinghelli. L’elemento che caratterizza l’architettura, insieme alla facciata, è il cortile con i portici da cui ha origine uno scalone monumentale di derivazione borrominiana, sovrastato dagli affreschi del veneziano Vincenzo Damini del 1749 che rappresentano i Quattro Continenti e l’Aurora. Proprio la corte interna, che attraversa il Palazzo, collegando piazza di Santa Maria in Paganica e via Giuseppe Garibaldi, rende il Museo anche uno spazio pubblico a disposizione della città, molto simile al sistema previsto nella piazza del MAXXI di Roma, disegnata da Zaha Hadid, che accoglie la città unendo due aree del quartiere Flaminio.

 

Gli ambienti storici di Palazzo Ardinghelli consentono un dialogo perfetto tra i propri spazi antichi, le sale espositive della collezione MAXXI e quelle che accolgono 

le opere site-specific. La mostra inaugurale del museo si chiama Punto di equilibrio. Pensiero spazio luce da Toyo Ito a Ettore Spalletti e, per prima, 

sonda l’interconnessione tra questi spazi.

 

Ettore Spalletti, il grande artista abruzzese scomparso nel 2019, per la sua opera (che resterà esposta in maniera permanente nel museo) aveva scelto la piccola cappella al primo piano (la cappella della famiglia Ardinghelli) per installare una colonna al centro dello spazio in concomitanza con la lanterna della cupola sovrastante. Una colonna di luce che diretta verso l’alto forma un cilindro perfetto: pensiero, spazio, luce. E l’arte ci aiuta a trovare un “punto di equilibrio” che, in un’epoca in cui le certezze sono ben poche, diviene una vera e propria dichiarazione con un senso etico, estetico, politico e sociale. 

 

Cuore dell’esposizione, curata da Bartolomeo Pietromarchi e Margherita Guccione, 

le installazioni donate da 8 grandi artisti contemporanei,

 

Elisabetta Benassi, Daniela De Lorenzo, Alberto Garutti, Nunzio ed Ettore Spalletti che, insieme alle committenze fotografiche a Paolo Pellegrin e Stefano Cerio dedicate al territorio aquilano e a quelle alla giovane artista russa Anastasia Potemkina si mostrano ai visitatori del palazzo. Queste opere interagiscono con i lavori di grandi protagonisti dell’arte, dell’architettura e della fotografia italiana e internazionale provenienti dalle collezioni del MAXXI, tra cui Alighiero Boetti, Monica Bonvicini, Maurizio Cattelan, William Kentridge, Maria Lai, Piero Manzoni, Liliana Moro, Maurizio Nannucci, Giulio Paolini, Michelangelo Pistoletto, Allora & Calzadilla e Juan Muňoz, Yona Friedman, Superstudio e Toyo Ito, Iwan Baan e Gabriele Basilico, solo per citarne alcuni.

 

Nuove performance e presentazioni per tutto il mese di settembre danno l’avvio 

alla nuova stagione, che vede collaborazioni anche con i giovani dell’Accademia 

di Belle Arti e con quelli del corso di laurea in Beni Culturali 

dell’Università dell’Aquila.


Oltretutto gli studenti delle Scuole Secondarie di secondo grado del capoluogo abruzzese saranno protagonisti, da settembre, di una nuova edizione aquilana di MAXXI A[R]T WORK, il percorso per le competenze trasversali e l’orientamento. Non dimentichiamo che i giovani oltre ad essere le colonne portanti del futuro, sono stati, durante il terremoto, importanti vittime della violenza degli eventi (ricordiamo che delle 309 vittime, 55 erano studenti fuori sede).

 

Ecco, l’arte è un piccolo ma importantissimo passo per riportare la speranza 

del cuore degli aquilani, per dare un segnale forte 

di un futuro che è sempre più vicino.


Infatti, se l’animo degli aquilani dal terremoto non è più lo stesso, è anche vero che parole come rinascere, ricominciare, ricostruire sono nell’animo di tutti, dai più anziani ai più giovani che, dopo oltre dieci anni di attesa, hanno voglia di tornare a vivere e vedere la loro città rinascere e anche le loro vite ricostruite.

 

Oltre all’apertura del MAXXI, numerosi sono i siti culturali che hanno riaperto 

nel corso di questi anni e che aspettano le visite dei turisti 

che si recano oggi in questo meraviglioso Comune:

 

fra gli altri, la Basilica di Collemaggio, legata al culto di Celestino V (definito da Dante nella Divina Commedia come “colui che fece il gran rifiuto”), da sempre considerato uno dei monumenti più importanti della città. 

La Chiesa di Santa Maria del Suffragio, importante chiesa barocca risalente alla metà del XVII secolo, danneggiata dal terremoto ma presa poi in custodia dal governo francese che ha finanziato i lavori di restauro, contiene un prezioso organo a canne del 1897. All’interno della chiesa è possibile pregare nella Cappella della Memoria, dove sono incisi i nomi di tutte le persone che hanno perso la vita nel terremoto del 2009. 

Visitabile è anche la suggestiva Fontana dalle 99 cannelle, uno dei luoghi più famosi di tutta L’Aquila e legata alla leggenda dei 99 feudi che parteciparono alla fondazione della città nel ‘200. La fontana si trova in una piazza di cui tre lati sono coperti da fontanelle, 93 maschere di pietra e 6 cannelle senza “faccia”, dalle quali esce sempre l’acqua. La fontana è stata il primo monumento riaperto al pubblico dopo il restauro finanziato dal FAI, Fondo Ambiente Italiano.

 

Tra i musei, aperto è anche il Museo Nazionale d’Abruzzo (MunDa), principale polo museale della Regione, sistemato temporaneamente nei locali dell’ex mattatoio.

 

Sul punto più alto della città è situato il Forte Spagnolo, progettato da Pirro Aloisio Scrivà nel 1534, uno dei forti militari che meglio si sono conservati. Nel Parco del Forte Spagnolo, è situato l’Auditorium del Parco, nato da un’idea di Claudio Abbado e progettato da Renzo Piano a seguito del terremoto. 

Il progetto è stato realizzato grazie al contribuito della Provincia autonoma di Trento in segno di solidarietà. Vicino al Forte Spagnolo, la Fontana Luminosa, realizzata nel 1934 dallo scultore Nicola D’Antino ed è caratterizzata da due figure femminili in bronzo che sorreggono la caratteristica conca abruzzese e dal suggestivo gioco di luci sull’acqua. 

La Cattedrale, il Duomo della città intitolato ai santi Giorgio e Massimo, è nell’ultima fase dei lavori di ristrutturazione e si spera venga presto aperta al pubblico.

 

Ma oggi L’Aquila è una città che più che mai va scoperta, va percorsa a piedi 

in quel centro storico fatto di stradine e splendidi scorci, dove i cittadini 

hanno lottato e stanno lottando per tornare alla normalità. Una normalità 

che inizia da arte, cultura, musica, spazi pubblici e socialità.

 

 

 

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 Foto: 

Agostino Oslo – Altopiano

Andrea Jemolo

Luca Eleuteri

 

 

MEDITERRANEO CULLA DELLA SCIENZA di Giorgia Ippoliti – Numero 22 – Settembre ottobre 2021 – Ed. Maurizio Conte

 

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MEDITERRANEO CULLA DELLA SCIENZA 

 

«Superare le proprie limitazioni e divenire signori dell’universo».

Così Archimede di Siracusa sintetizzò quello che, sin dalla notte dei tempi, ha spinto l’Uomo a superare le barriere del reale per scoprire l’ignoto. Superando i confini del noto sapere, mettendo in discussione le proprie certezze, l’Uomo ha sempre cercato di travalicare i limiti spazio temporali per riuscire a colmare quella connaturata sete di conoscenza.

 

Ed è proprio ad Archimede, e alla città di Siracusa, che alcuni studiosi 

attribuiscono quella che può essere definita come una delle più grandi 

opere ingegneristiche mai conosciute.

 

La più bella e nobile tra le città greche – per far proprie le parole di Tito Livio – è stata foriera di un tesoro nascosto. 

Cicerone, nel De Natura Deorum, afferma «Secondo loro sarebbe stato molto più abile Archimede nel riprodurre i moti celesti con la sua sfera di quanto non lo sia stata la natura nel crearli, nonostante la maggiore perfezione di questi ultimi in più̀ di un particolare rispetto alla loro imitazione».   

 

Ma a cosa si riferiva l’illustre Oratore? 

Con molta probabilità, alla macchina di Anticitera, il più antico calcolatore meccanico conosciuto, databile intorno al 150-100 a.C.

 

Il meccanismo si racconta sia stato ritrovato intorno al 1900 grazie alla segnalazione di un gruppo di pescatori di spugne che, persa la rotta a causa di una tempesta, furono costretti a rifugiarsi sull’isoletta rocciosa di Cerigotto.

 

Al largo dell’isola, alla profondità di circa 43 metri, fu scoperto il relitto di una nave, naufragata agli inizi del I sec. a.C. e adibita al trasporto di oggetti di prestigio, tra cui statue in bronzo e marmo. 

Tra gli oggetti rinvenuti, ve ne era uno, piccolo, dal colore verdastro, dello spessore di un libro, che destò stupore e curiosità: vi erano delle incisioni, in parte abrase e corrose, in un primo momento indecifrabili.

 

Cos’era quello strano oggetto? Perché si trovava a bordo di un relitto?

 

È bastato contemplare il panorama in una notte di luna piena, per far sì che il brivido del passato riecheggiasse in una delle più antiche colonie elleniche per mostrare l’essenza di quella che può esser definita non solo culla della civiltà, ma anche della scienza.   

 

Gli archeologi e gli studiosi non potevano credere ai loro occhi: si trovavano di fronte a una macchina del cosmo.

 

Quell’eccentrico congegno, quello strabiliante coacervo di dati e incisioni, 

di meccanismi e ingranaggi, era la chiave di volta per capire l’astronomia 

e la tecnologia dell’antica Grecia e il loro ruolo 

nel contesto socioculturale grecoromano.


Era stata concepita in tarda età ellenistica sulla base di raffinate, consolidate e diffuse conoscenze meccaniche e astronomiche. Solo nel 1951 i dubbi sul misterioso meccanismo cominciarono ad essere svelati. 

Fu proprio in quell’anno che il professor Derek de Solla Price[1], come un moderno Indiana Jones alla ricerca del tesoro nascosto, cominciò a studiare il congegno, esaminando minuziosamente ogni ruota ed ogni pezzo, e riuscendo, dopo circa vent’anni di ricerca, a scoprirne il funzionamento originario.

Anni di studi, dubbi ancora in parte irrisolti e avvolti in un’alea di mistero – basti pensare che il testo delle iscrizioni decifrate non risulta essere stato ancora comunicato – consentirono di scoprire la funzionalità e il meccanismo della macchina di Anticitera.

 

 

Quella macchina del cosmo, tra le più avveniristiche nel genere delle macchine strabilianti, era stata creata per imitare la natura senza rivelare 

il proprio funzionamento.

Il meccanismo, sconosciuto ai più, diveniva fruibile ai soli soggetti più curiosi, trasformandosi in una sorta di manuale animato di divulgazione scientifica. La macchina di Anticitera risultò essere un antichissimo calcolatore per il calendario solare e lunare, le cui ruote dentate potevano riprodurre il rapporto di 254:19 necessario a ricostruire il moto della Luna in rapporto al Sole (la Luna compie 254 rivoluzioni siderali ogni 19 anni solari). 

Era, infatti, un sofisticato planetario, mosso da ruote dentate, che serviva per calcolare il sorgere del sole, le fasi lunari, i movimenti dei cinque pianeti allora conosciuti, gli equinozi, i mesi, i giorni della settimana e le date dei giochi olimpici, oltre che le lunazioni, ottenute dalla sottrazione del moto solare al moto lunare siderale.   

 

La macchina era delle dimensioni di circa 30 cm per 15 cm, dello spessore di un libro, costruita in rame e originariamente montata in una cornice in legno. Era ricoperta da oltre 2.000 caratteri di scrittura, dei quali circa il 95% è stato decifrato.

 

Il meccanismo riproduceva di fatto l’universo così come lo concepivano i Greci.


La scoperta riuscì a far emergere come nella Grecia del II secolo a.C., e nelle sue colonie, esistesse effettivamente una tradizione di altissima tecnologia. Ma come mai si riconduce la sua creazione ad Archimede, e in particolare alla città di Siracusa? 

Quel manufatto fuori dal tempo, uscito dal limbo delle semplici curiosità, riesce a render tangibile il pensiero del grande scienziato, secondo cui «coloro che pretendono di scoprire tutto ma non producono prove dello stesso possono essere confutati come se avessero effettivamente preteso di scoprire l’impossibile».   

 

È grazie ad Alexander Jones[2] che sono emersi degli ulteriori elementi che consentono di ricondurre, con sempre più probabile certezza, la costruzione della macchina a Siracusa.

 

I nomi incisi sullo strumento, in particolare dei mesi, ottenuti grazie all’opera 

di decifrazione compiuta, sono proprio quelli utilizzati nelle colonie corinzie 

e in particolare a Siracusa, in Sicilia.

 

Questa ipotesi, particolarmente affascinante, troverebbe conferma in alcuni scritti di Cicerone. L’autore latino descrive infatti alcuni strumenti realizzati dal matematico Archimede, siracusano, nel III secolo a.C, cioè due secoli prima rispetto alla costruzione del Meccanismo di Antikythera. 

Egli infatti riferisce, nel De Re Publica e nelle Tusculanae Disputationes, di planetari in bronzo costruiti da Archimede che mostravano la Terra, la Luna, il Sole, il mese lunare e le eclissi di Sole e di Luna.

 

L’antico calcolatore – oggi conservato presso il Museo Archeologico di Atene – sarebbe quindi frutto di una tradizione costruttiva legata direttamente 

agli studi del celebre matematico.

 

Ma perché è stato ritrovato sul relitto di una nave romana proveniente dal medio oriente e affondata attorno al 70 a.C.? 

Anche questo apre un nuovo filone di mistero, che rende ancora più affascinante e avvolgente la storia del meccanismo di Antikythera. 

C’è chi sostiene sia stato mandato in dono in Oriente da qualche ricco siracusano e da qui entrato a far parte di un bottino diretto a Roma; chi sostiene faccia parte dei meccanismi di Archimede portati a Roma, dopo il saccheggio di Siracusa e la morte dello stesso nel 212 a.C., dal generale romano Marco Claudio Marcello.   

 

Una cosa è certa. Passato e presente continuano ad essere facce di una stessa realtà. Gli antichi greci si avvicinarono così tanto alla nostra epoca, nel pensiero nella tecnologia scientifica, così dimostrando il fatto che «l’Uomo sia il più straordinario dei computer» (John Fitzgerald Kennedy).

 

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[1] Fisico e storico della scienza della Yale University, in uno studio pubblicato nel 1959 nella rivista Scientific American.

 

 [2] Alexander Jones, La macchina del Cosmo, Hoepli, 2019. 

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AVEZZANO L’AIA DEI MUSEI di Ilse Beretta Covacivich – Numero 22 – Settembre ottobre 2021 – Ed. Maurizio Conte

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AVEZZANO L’AIA DEI MUSEI

 

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tra l’antico ed il contemporaneo, un’operazione culturale riuscita ed il mecenatismo degno di questo nome rendono l’Aia dei Musei un imperdibile luogo dove approdare. 

Il tutto deve essere condito da impegno, straordinaria forza di volontà e amore per quello che è intorno a noi, che spesso vediamo senza guardare.   

 

Quando cultura e comunicazione rendono con efficacia le correlazioni tra territorio, tradizione, innovazione ed informazione, ecco allora

l’Aia, nome evocativo di un luogo di incontro e di lavoro, di tradizioni custodite 

e storie raccontate, dello stretto rapporto tra uomo e ambiente, oltre che 

della particolare ricchezza dell’Abruzzo in questi ambiti.


Nel caso dell’Aia dei Musei, polo museale di recente impianto, ecco come una struttura culturale degna di questo nome interconnette storia ed attualità. L’occasione per guardare con attenzione all’impresa così brevemente accennata viene da una mostra temporanea, “Sculture a colori”. L’esposizione porta ad Avezzano il movimento artistico chiamato “Cracking Art”, che connette un ‘prima’ così lontano ed un ‘oggi’ grazie alla relazione tra l’ambiente e l’artefice delle sue trasformazioni, utilizzando, per l’opera di creazione, il riciclo di materiali inquinanti.

La contingenza di una mostra d’arte contemporanea, degno tributo di un mecenate che non delude mai, rende evidente una storia durata quasi duemila anni: 

quella del Lago del Fucino.


Terzo bacino per grandezza in Italia, al centro, nel corso della storia, di importanti progetti di ingegneria idraulica, da quello di Giulio Cesare fino a quello del banchiere Alessandro Torlonia (divenuto principe grazie al completamento dell’opera cui si accennerà), il bacino era destinato ad essere prosciugato per farne risaltare le potenzialità agricole. 

Esso, infatti, per le caratteristiche geofisiche – prime fra tutte la mancanza di un emissario che potesse farne defluire le acque – era soggetto ad eccessivi sbalzi volumetrici che non permettevano di creare stanziamenti agricoli in una terra conosciuta per la fertilità.

Il progetto pensato da Giulio Cesare, assassinato prima di poter iniziare i lavori, 

fu portato ad un primo completamento dall’Imperatore Claudio


che creò un emissario artificiale sotterraneo per salvare gli abitanti dalla risalita di quasi 12 metri del livello delle acque. Le manutenzioni, necessarie per il tipo di pietra impiegato, erano tante e tali che, alla caduta dell’impero per l’avvento delle orde barbariche, il sito venne lasciato in stato di abbandono, riconsegnando il livello delle acque all’imprevedibilità delle condizioni atmosferiche.

Fu nella metà dell’Ottocento che venne data la concessione di ripristinare 

le opere claudiane ad Alessandro Torlonia


il quale, per essere riuscito nell’impresa di bonifica, non solo ottenne le terre strappate alle acque, ma venne titolato principe da Vittorio Emanuele dopo la dichiarazione di avvenuta bonifica del 1878. Le parole di Alexandre Dumas del 1863 rendono più di ogni racconto: “Il principe Alessandro Torlonia portò a termine un’opera ideata da Cesare, ritenuta impossibile da Augusto, tentata da Claudio, rilanciata invano da Adriano e Traiano e che, nel corso di diciassette secoli, aveva vanificato gli sforzi di Federico di Svevia, Alfonso I d’Aragona, i dubbi Colonna e Ferdinando IV, che valeva la pena fare una deviazione di qualche chilometro per ammirare quel lavoro dell’antichità, che, se avesse saputo come farlo, l’avrebbe chiamato l’ottava meraviglia del mondo”. 

Questa la storia raccontata oggi in uno dei due musei dell’Aia, chiamato, per l’appunto, “Il Filo dell’Acqua”.

Con la mostra “Cracking Art”, l’Aia dei Musei, luogo ricco di storia e tradizioni, 

si trasforma in una variopinta e contemporanea Arca di Noè, con sculture 

di conigli, orsi, lupi, elefanti, tartarughe e chiocce come simbolo 

di rappresentazione di tutte le specie e del potere che viene loro attribuito. 

Il messaggio che arriva allo spettatore è di un’impellente 

necessità di rigenerazione della natura stessa.


Come il luogo in cui è realizzata è stato trasformato dall’uomo per il miglioramento della vita di chi vi abitava, così questa mostra innovativa sottolinea come l’utilizzo di materiali considerati deleteri per la flora e per la fauna possa essere destinato alla creazione di opere d’arte. Le “sculture a colori”, realizzate da un gruppo di artisti che si definiscono crackers, fanno entrare il pubblico in un mondo surreale composto da forme e colori diversi.

Il messaggio del ‘prima’ e del ‘dopo’ è quello secondo cui l’attività umana plasma oggetti e materiali, trasformandoli in capolavori portatori 

di un profondo messaggio di rinnovamento.


Il coronamento di tanta forza evocativa si deve, ancora una volta, alla Fondazione Terzo Pilastro Internazionale, presieduta dall’illuminato Emmanuele Emanuele, che ha avuto modo di affermare come “la sede espositiva ancora poco nota rispetto alla sua bellezza […] merita sicuramente di essere conosciuta, e che la Fondazione intende contribuire a farla diventare un nuovo polo di eccellenza per l’arte contemporanea”.

 

 

 

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IL CUORE DEL VULTURE: LA BADIA DI SAN MICHELE di Sergio Spatola numero 22 settembre ottobre 2021 ed. Maurizio Conte

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affidandosi alle sapienti mani di colui che non solo li vive ma li ama, senza porsi domande e senza consultare guide – insomma, ponendosi favorevolmente nei confronti dell’ignoto – è già un’avventura. Naturalmente la qualità umana dell’ospite gioca un ruolo essenziale e, nel caso di chi scrive, è una certezza.

Se il “dove” è la Basilicata, poi, ci si può ubriacare da tanta bellezza e sentirsi così “persi” nei boschi, nelle alture, nei punti panoramici, nei castelli, da provare quella fugace emozione chiamata felicità.

In questo caso specifico, il crescente stupore, culminato in meraviglia,


ha avuto inizio sul Monte Carmine ad Avigliano, ove è adagiato l’omonimo santuario. È un luogo per tutti: religiosi e non. Mentre il primo potrebbe fare anche una sosta mariana, entrambi potrebbero godere di un panorama che comprende tutta la Basilicata, dal confine campano a quello pugliese, che, con il suo tavoliere, si para all’orizzonte orientale.

E poi c’è il Nord, verso il quale solitario, maestoso, cromaticamente riconoscibile 

per via dei boschi che non sono stati strappati in favore dell’agricoltura, 

si erge lui, il vulcano ormai spento: il Vulture.

Lungo il percorso che da Monte Carmine porta nel cuore del cratere, ci si imbatte nel castello federiciano di Lagopesole. Tra non molto sarà possibile rivederlo. Nel frattempo, il noto calore umano meridionale di qualche operatore del Nucleo di Tutela della biodiversità ve ne parlerà e vi racconterà dei lavori che lo stanno portando all’antico splendore.   

 

Superata la zona dell’Aglianico, per chi non volesse e non potesse fermarsi a gustarlo lentamente, accompagnato magari da strascinati con cacio ricotta e peperone crusco, lo attendono i boschi di querce che sussurrano una promessa: entra nel vulcano e vedrai! 

Hanno ragione. 

Cos’è questa meraviglia? Non sono i due laghi (il maggiore e il minore) di Monticchio con un grado di biodiversità tale da avere il diritto a un documentario tutto loro e che costituiscono uno spettacolo di rara bellezza, ma quello che incastonano insieme alle pareti del cratere. 

Mi riferisco al luogo che custodiscono:

l’Abbazia di San Michele Arcangelo, che la devozione, già precedente all’anno mille, 

e il tempo hanno connotato di una tale stratificazione architettonica 

da essere tuttora studiata.


Quel luogo era destinato: già in epoca pre-cristiana vi si venerava una dea femminile, per poi, dall’epoca bizantina in poi, essere dedicato a San Michele Arcangelo. 

E la santificazione della forza e del coraggio, tipicamente attribuite all’apice della schiera angelica, non poteva che trovare luogo più adatto per essere celebrata, pur non facendo parte della cosiddetta Linea Sacra. 

La stessa storia della lunga, incessante e perigliosa costruzione della Badia lo testimonia.

Tutto ha avuto inizio con i Benedettini che fino al XVI secolo hanno gestito sia il luogo che le risorse patrimoniali, compresa la fonte che ancora oggi 

concede la sua acqua ricca di sali minerali.

Ma la storia architettonica del luogo che oggi vediamo ha a che fare con un evento fin troppo familiare: un terremoto. La catastrofe del 1456 ha spinto i monaci del monastero di Sant’Ippolito, posto in basso tra i due laghi, a portare il culto micaelico sulla rupe in cui sono custodite le tracce più antiche del sito. Da quel momento, i frati Agostiniani prima e i Cappuccini poi hanno completato l’opera che oggi può essere ammirata, o meglio percepita.   

 

La Badia è visibile nella sua interezza dal lago maggiore, perché quando ci si trova dentro è talmente ripida la facciata che la prospettiva non può essere interamente colta, a testimoniare quanto scoscesa sia la base di roccia a cui letteralmente è stata appesa.

Un luogo di preghiera innanzitutto, e soprattutto, per un religioso 

e un luogo di introspezione per chi non lo è.

Affacciarsi dalle vetrate della chiesa o scorgere dalla finestra di una stanzetta che era una delle celle dei monaci – perfettamente conservata, compresi gli arredi – offre una tale visione del creato che doveva necessariamente avvicinare lo spettatore a qualcosa di supremo. Ciò che l’uomo ha voluto fare a Monticchio non è venerare, ma avvicinarsi a Dio, cercando di cogliere un angolino della sua immensa bellezza, a prezzo di appendere un’opera d’arte su una scarpata della creatura più temibile in natura, un vulcano.

 

 

 

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