VIA MARINA DI REGGIO CALABRIA di Giuseppe Valentino – Numero 11 – Luglio 2018

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VIA MARINA DI REGGIO CALABRIA

 

La bellezza e la suggestione di quel tratto di costa che si affaccia sullo Stretto di Reggio e Messina avrebbe potuto certamente evocare, nel poeta-soldato, l’espressione di apprezzamento che gli viene attribuita. C’è, però, un elemento che va considerato e sul quale non risulta che gli osservatori più attenti della storia di Reggio Calabria di quel periodo si siano interrogati: D’Annunzio non sarebbe mai stato a Reggio dopo la realizzazione del Lungomare. 

 

Eppure, più volte fu invitato e, certamente, lo fece l’On. Giuseppe Valentino considerato l’ideatore di quel chilometro che tanta suggestione riesce ad evocare e che si caratterizza come momento architettonico e panoramico più significativo e struggente della città calabrese.

 

La costruzione del Lungomare, così come oggi lo si può ammirare in luogo 

della struttura preesistente – l’antica Via Terme, di poco più a monte 

della vecchia Via Marina con la quale poi si confondeva,

 

è frutto dell’appassionata intuizione di Valentino che realizza così la straordinaria terrazza lunga un kilometro dalla quale si può ammirare, in tutta la sua sfolgorante bellezza, il panorama dello Stretto di Reggio e Messina: un dono di Dio alle due città che si affacciano su quel tratto di mare perché quella bellezza resti immutabile laddove gli uomini, nel corso dei secoli, si sono “sbizzarriti” per turbare le armonie della natura. E fu questo sforzo teso ad individuare la soluzione che meglio potesse valorizzare quel luogo incantevole che Giuseppe Valentino riesce ad esprimere in maniera mirabile in un libro di memorie scritto venticinque anni dopo il sisma che aveva distrutto la sua città. 

 

Qui le stesse parole di Valentino riescono a rendere in maniera palpabile e suggestiva come la sua elaborazione intelligente abbia consentito la soluzione più funzionale e più coerente con le esigenze di eleganza e grandiosità che dovevano caratterizzare quella realizzazione.

Il problema da affrontare era l’area scoscesa su cui sarebbe dovuta sorgere 

la passeggiata e, quindi, quali soluzioni adottare per attenuare le pendenze 

e nello stesso tempo dare un’idea di ampiezza che conferisse 

grande dignità al lungomare.


Val la pena riproporre testualmente alcune espressioni del libro di Valentino che in maniera semplice e suggestiva nel contempo, riescono a rendere l’idea di come lo sforzo di edificare esaltando al massimo l’opera sotto il profilo estetico venne anche alimentato dalla comparazione con luoghi d’Europa noti per la loro eleganza e bellezza. Scriveva Valentino:
«nelle ansie della ricerca mi parve di ricordare, non so bene, se nei giardini di Montecarlo od altrove, delle aiuole in pendio, (quando il mio cervello si stillava in questi problemi … estetici la città era un groviglio di macerie e la mia casetta di Via Tribunali era immersa nel buio e nello squallore!) ed allora mi balenò la soluzione: “e se dessi a tutta la zona di giardinaggio, che separa le due strade, quel dolce declivio che basti a superare il dislivello?” Eureka! Mi fermai su questa idea che mi parve una trovata, pur continuando nella mia mente a fare un confronto colla Via Marina di San Remo, coll’Ardenza di Livorno con la proménade des Anglais di Nizza, le quali sono tutte piatte, senza dislivelli, e credetti il mio ripiego della pendenza degradante sarebbe stata un’originalità presumibilmente di bello effetto, e di movimentata eleganza, sia per coloro che guardino la strada dalle varie parti della città, sia per coloro ed ancora meglio, che la guardino dalla parte del mare».

Così nacque la Via Marina: il più bel chilometro d’Italia a prescindere 

che lo abbia detto o meno d’Annunzio ovvero un incantato, 

ignoto osservatore di quella meraviglia.


Quando a distanza di anni il degrado si stava impadronendo di quell’angolo di Paradiso, Italo Falcomatà – sindaco che amava la sua città – si adoperò per recuperare questo sito incantevole e – grazie agli strumenti della modernità – riuscì a coprire l’attigua strada ferrata con la realizzazione di un tunnel che ha consentito l’ampliamento della passeggiata, incorniciata dalla splendida ringhiera disegnata da Camillo Autore che di Valentino era amico ed estimatore. 

 

Questo merito di Falcomatà è stato riconosciuto e la parte della via Marina posta a ridosso della spiaggia porta il suo nome. A Valentino che ideò il più bel chilometro d’Italia, lo realizzo tra mille difficoltà, rischiando talvolta il patrimonio avito, è dedicata soltanto una colonna romana, all’inizio del Lungomare, dove una piccola targa ne ricorda l’opera. Ma nella considerazione dei Reggini, nonostante il tempo trascorso dagli eventi che determinarono la costruzione di questa opera straordinaria, Egli resta il “Sindaco della Ricostruzione”.

La stampa ne parla ogni qualvolta v’è motivo di ricordare questi anni intensi 

ed appassionati della ricostruzione di Reggio,


nelle Università gli studenti hanno scritto tesi di laurea sulla sua opera, i paragoni si succedono fatalmente nel corso degli anni rispetto ad altri Amministratori che hanno brillato… per non aver fatto nulla in una città che, ancor oggi, ha bisogno di molto. 

 

Questo ricordo grato, che sopravvive al tempo che passa, è motivo di orgoglio e gratificazione per coloro che oggi portano il suo nome e sanno che l’impegno e l’amore per Reggio è l’irrinunciabile patrimonio morale che Egli ha lasciato..

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Così Gabriele D’Annunzio avrebbe definito la Via Marina di Reggio Calabria.

 

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IL VAL DI NOTO di Sergio Spatola – Numero 10 – Marzo 2018

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IL VAL DI NOTO

L’<<ELOGIO DELL’INDUGIO>>1

 

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Sembrerebbe un racconto dell’ultimo evento sismico che ha interessato, come troppe volte accaduto, il nostro Abruzzo (insieme a Umbria, Marche e Lazio), a parte forse per la frenesia ricostruttiva. Ma non si dimentichino le vittime, seppur eventi più recenti ce ne facciano piangere altre, della nostra Sicilia.

 

11 gennaio 1693. «Vide che alle due mezza improvvisamente rovinò tutta la città (…) e che durante il terremoto si era ritratto il mare di due tiri di schioppo e per la risacca conseguente aveva trascinato con sette tutte le imbarcazioni che erano ormeggiate in quell’insenatura […] State certi che non c’è penna
che possa riferire una tale sciagura»2.

 

Due terremoti – o due scosse dello stesso evento – e uno tsunami, tra il 9 e l’11 gennaio 1693, distrussero tutto il Val di Noto. Così, era definita la circoscrizione amministrativa che si occupò della giustizia, dell’erario e occasionalmente anche delle milizie del Regno di Sicilia dal periodo normanno alla sua abolizione nel 1812 e, dunque, l’area sud-orientale siciliana – individuata tra la provincia di Ragusa, di Siracusa e parte della provincia di Catania, di Enna e di Caltanissetta. 

 

Quello che ne seguì, ai tempi, fu un fervore costruttivo senza precedenti nell’intera penisola. Vuoi la devozione religiosa con la promessa salvezza dopo la vita terrena vuoi il rispetto per il sovrano che passava sei mesi a Palermo e sei mesi a Catania, scattò, negli uomini che allora avevano i mezzi procurati col prezzo dell’enorme divario sociale, la volontà di rialzarsi e di esprimere – dopo l’immenso dolore per le perdite – la gioia della vita.

 

Il barocco siciliano e, in particolare, quello di Val di Noto, rappresenta lo sforzo, 

da un lato, ricostruttivo più riuscito della storia italiana quando si guarda a Catania, Ragusa, Modica e Scicli e, dall’altro, edificatorio, quando si pensa a Noto, 

Avola e Grammichele.

 

Infatti, mentre le prime città vennero «tirate su» dalle macerie, per Noto e Avola la storia fu ben diversa come dimostra lo sdoppiamento in «antica» e «barocca». È impossibile descrivere tutto il Val di Noto, e forse inutile, per l’offerta documentata e attenta di guide e siti che, giorno per giorno, si dedicano a rappresentarlo. Si può, invece, cercare di descriverne lo spirito. Il Val di Noto, infatti, rappresenta un «Viaggio» esso stesso, dove tra bellezze naturalistiche (Vendicari e le Gole dell’Alcantara, in primis), architettoniche (Noto, ma anche Catania, Scicli, Modica) ed enogastronomiche (per trovare qualcosa di veramente locale occorre riferirsi alla rosticceria tipica), si respira un’aria che elogia «all’indugio».

 

L’indugio. Nel documento di presentazione per la candidatura del Val di Noto 

a Capitale della Cultura 2020, esso è stato correttamente contestualizzato 

come «una specificità e un’anima che (…) si è riusciti 

a salvaguardare quasi intatta,

 

diventando oggi formidabile elemento dì attrazione per chi, colto e consapevole, è legato a una concezione del “Viaggio” radicalmente diversa dagli stanchi rituali del turismo di massa». 

 

Questo perché, se ti trovi sul Corso di Noto, in primavera, non troverai alcuno che voglia divorare la bellezza e magari perderla dietro il filtro del proprio smartphone, ma vedrai colui che, nella pasticceria davanti ad una granita, la mattina, oppure nel locale per un aperitivo, al tramonto, starà col naso all’insù per osservare tutt’intorno la caratteristica pietra color «oro tendente al rosa», chiedendosi il perché di un mancato trasferimento immediato. 

 

Questo «indugio» pervaderà il suo viaggio e penetrerà le sue ossa senza accorgersi che non sono gli abitanti ma il luogo a richiedere riflessione quieta. Modica, d’altronde, ti costringerà a rinunciare allo strumento tecnologico approntato per immortalarla. Il Duomo di San Giorgio infatti, sia per la ripida e incredibile scalinata sia per l’altezza, non ti consente di inquadrarne agevolmente la facciata. Prospettiva e equilibrio ne costituiscono il punto di forza. Potrai ammirarne la completa bellezza solo recandoti nella collina di fronte, al Belvedere, dove penserai di essere parte di un presepe.

 

Insomma, un vero e proprio viaggio dell’anima durante il quale riflettere 

sulle dinamiche contemporanee.

 

D’altronde, si sta ripensando il Val di Noto come un luogo dove «il processo di crescita e sviluppo non (è) fondato (…) sull’emulazione impacciata e dannosa di modelli estranei al territorio, ma, per la prima volta, sul riconoscimento e la piena consapevolezza del valore della specificità del proprio patrimonio materiale e immateriale»3

 

Incredibile. Quanto è vero. Ciò – mi dispiace contraddire i redattori del Dossier – non si applica al solo Val di Noto ma all’intero Sud, come Myrrha cerca di affermare, edizione dopo edizione, sostenendo che il nostro Meridione deve essere finalmente considerato attraverso la sua propria «eccellente specificità», da leggersi attraverso criteri che «il PIL non sa contare».

 

 

 

 

Altra distruzione, ancor peggiore della prima. Solidarietà per le vittime. Frenesia ricostruttiva.

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1 – L’espressione azzeccata è contenuta in ValdiNoto 2020 – DOSSIER DI CANDIDATURA A CAPITALE ITALIANA DELLA CULTURA 2020, Noto, 2018, pag. 14

2 –  Relacion de lo refirio el Patron Marco Calapar que vino de Zaragoza. Augusta y Catania en Santa Cruz de Mesina en 15 del coriente mies de Enero de 1693. Citazione contenuta nel testo di Lucia Trigilia, 1693 – Illiade funesta – La ricostruzione delle città del Val di Noto, Palermo, Arbaldo Lombardi, 1994.

3 – ValdiNoto 2020 – cit.

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D’ANNUNZIO A NAPOLI E LA SCRIVANIA di Franca Minnucci – Numero 10 – Marzo 2018

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D’ANNUNZIO  A NAPOLI E LA SCRIVANIA

 

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che indussero il poeta a non proseguire il viaggio per la Sicilia insieme al suo amico e la conseguente decisione di fermarsi, inizialmente per pochi giorni ma in realtà per oltre due anni, nella città partenopea.

 

Che la vita di Gabriele d’Annunzio sia stata inimitabile e sregolata lo sappiamo, 

ma quel che visse a Napoli nei due anni di soggiorno sotto il Vesuvio 

è ancora oggi dai critici considerato tra i momenti più esaltanti 

e complicati della sua straordinaria esistenza.


Quello che possiamo dire è che d’Annunzio, già dal suo primo soggiorno all’Hotel Vesuve, è soggiogato e sedotto da quel mare e dallo spettacolo della natura:“In questi pochi giorni ho veduto mille spettacoli diversi e tutti stupefacenti” scrive a Barbara Leoni, sua amante romana dell’epoca, il 3 settembre: “Sono stato a Posillipo, a Pozzuoli, a Baja, a Sorrento, a Capri, per mare e per terra… Sono tornato a Napoli in barca, stasera, dal capo Miseno, costeggiando. E’stata una divina navigazione per un mare divino. Remigavo, come nelle acque di Anzio. Alla punta di Posillipo è caduta la sera; e tutta Napoli è sorta dal mare incoronata di lumi respirando come una creatura misteriosa, nel crepuscolo violetto”.

Neppure il discutibile “talismano” che Barbara gli aveva donato per legarlo a sé 
una ciocca intima – potrà fermarlo dal vivere questa totale e profonda immersione emozionale e quel turbinio di sensi che lo percorrerà nella città partenopea.


È lecito quindi chiedersi, con i critici, se il soggiorno napoletano fu di grande impegno culturale e letterario o si trattò di una breve parentesi nella vita del poeta, fatta di amori proibiti, di vita inquieta e appena segnata da sprazzi poetico-narrativi. Quel che è certo è che d’Annunzio pubblicò nel 1892 due romanzi: L’Innocente, uscito per i tipi di Bideri dopo il rifiuto di Treves, e il Giovanni Episcopo; concluse L’Invincibile con il nuovo titolo Trionfo della morte, mise insieme alcune delle sue migliori raccolte di poesie, come Odi Navali ed Elegie Romane, entrò nella redazione del quotidiano “Il Mattino” diretto dai suoi amici Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao e scrisse tredici “pezzi”, veri e propri saggi decisivi per la sua auto-formazione. Pubblicò con l’editore Luigi Pierro due libretti di novelle – I Violenti e Gli Idolatri – ascoltò Wagner, si invaghì di Nietzsche che legge in un primo momento nell’antologia curata da Lauterbach e da Wagnon, si innamorò della poesia simbolista che concorda con i versi che raccoglierà nel Poema Paradisiaco.
Tutto questo e “molto altro” in poco più di due anni.

 

Il “molto altro” era fatto di continue incursioni a Roma per tacitare Barbarella, soddisfare i suoi appetiti sessuali e calmare le sue crisi di gelosia, ma anche della storia d’amore e di passione voluttuosa con Maria Gravina di Cruyllas, la slanciata ed elegante principessa di Ramacca che si era buttata nella vita mondana sotto il Vesuvio per reagire alle tante delusioni e che, con quella ciocca rossa che trafiggeva come una spada la sua chioma nera, era simbolo di sensualità e seduzione nei migliori salotti napoletani. 

 

Come se non bastasse, il “molto altro” era anche l’avventura con Moricicca, ex amante di Scarfoglio; erano le varie sfide a duello intimate da mariti traditi; gli artificiosi espedienti per sfuggire ai debitori e i tanti episodi boccacceschi finiti nelle aule dei tribunali.

Il periodo napoletano, quello che d’Annunzio chiamò della “splendida miseria”, 

fu però certamente il periodo più difficile dal punto di vista economico 

nell’esistenza del poeta.


Questo sicuramente perché la sua vita privata si era particolarmente complicata, non solo per la nascita della piccola Cicciuzza, forse il frutto più delicato e desiderato di questa esperienza, ma soprattutto per la convivenza con Maria Gravina che cominciò presto a dare segni di insofferenza e instabilità psichica, e i quattro figli di lei; come pure per i continui spostamenti e viaggi a Roma fatti per tacitare gelosie e risentimenti della moglie, Maria Hardouin di Gallese, e dell’amante romana; e ancora per le tante necessità economiche che arrivavano da tutte le parti, oltre che da questa grande famiglia allargata anche dalla sua casa di origine, in particolare difficoltà dopo la morte del capofamiglia. Non ultimo, per i continui spostamenti di domicilio a cui era costretto, per vari motivi di opportunità e di comodità.

 

Non si contano gli aneddoti sorti intorno al suo eccentrico protagonismo. Troppo preso dalle vicende amorose, manca un appuntamento con Benedetto Croce, che gli sarà sempre ostile, non accettando tra l’altro l’attacco a De Sanctis per il quale il nostro aveva coniato il termine “intellettuale” mai usato prima in forma sostantivata. La verità è che

tutta la vita di Gabriele d’Annunzio è stata caratterizzata da un intrecciarsi 

di situazioni che sembrano a volte soffocare e sommergere il letterato, 

ma dalle quali però escono sempre vincenti il poeta e il romanziere. 

E così a Napoli.


Il soggiorno napoletano, anche in condizioni di estrema indigenza, fu precursore di occasioni e proposte culturali future e soprattutto fu la testimonianza di come d’Annunzio riusciva ad essere contemporaneamente nella sua duplice immagine di vittima e di protagonista delle sue stesse vicende di vita. A Napoli d’Annunzio ha compiuto trent’anni, è diventato padre per la quarta volta, ha raggiunto una autorevole fama internazionale. Nella città partenopea ha pubblicato romanzi, raccolte, novelle, veri e propri saggi giornalistici tra i più interessanti della sua immensa carriera di scrittore. L’11 dicembre del ‘93 il poeta parte definitivamente da Resina diretto in Abruzzo, lasciandosi alle spalle un periodo sicuramente difficile e doloroso ma anche una esperienza esaltante e un turbine di successi. E quando, subito dopo la sua partenza, Franz Lecaldano un faccendiere dell’epoca, pone in vendita, negli uffici del “Mattino”, la pelliccia del poeta, uno dei tanti “pegni” che avevano permesso a d’Annunzio di sbarcare il lunario, si capì come quella folla di compratori, di curiosi, che si accalcava e accapigliava per entrarne in possesso lo faceva non per avere la spoglia di un vinto… ma il feticcio di un divo!

Il poeta, il grande poeta che aveva scritto le Elegie Romane, le Odi Navali, 

il Poema Paradisiaco e che scriverà le Laudi, aveva forse composto 

questi versi anche senza avere una… scrivania.


Così, infatti, ci racconta il giornalista Alberto Consiglio in un simpatico articolo sulla “Fiera Letteraria” uscito il 2 settembre 1928: un d’Annunzio che riesce a trovare una vena di ironia e di leggerezza anche in momenti oggettivamente difficili e scoraggianti per chiunque. 

L’autore ci racconta che, nel dicembre del 1892, nella dimora di Villa Isabella a Resina, d’Annunzio è alla ricerca disperata di una scrivania consona alla sua importanza di scrittore e

per convincere la baronessa Marianna Cassitto della Marra, che lo aveva generosamente ospitato nella sua elegante abitazione, a comprare 

una scrittorio adatto ad ospitare degnamente il grande poeta, 

manda alla sua mecenate una supplica in versi.

 

Nulla sappiamo di questi versi che a Napoli circolavano di bocca in bocca e nei quali abbiamo difficoltà a riconoscere il futuro autore delle Laudi, quindi chiaramente lontani dai fasti letterari del Vate, ma se dobbiamo credere a questa attribuzione, possiamo considerarli utili per capire la condizione di “cattività” che il poeta sta vivendo. 

 

La supplica si presenta in tutta la sua scanzonata leggerezza ed ironia con settenari un po’ ridondanti quasi a simulare quel mondo al quale il testo è indirizzato: un mondo di rituali, di consuetudini, di protocolli anche verbali che ci suggeriscono che il poeta non ha difficoltà a calarsi in quel ruolo adottando, con un sorriso stampato sulle labbra, un linguaggio apertamente forzato querulo e devoto!

Un d’Annunzio inedito in tutti i sensi, con una vena di comicità che ci stupisce per i tempi e le avventure che in questo momento sta vivendo.

 

Alla Baronessa Della Marra 

SUPPLICA 

Mia dolce baronessa, 

non mi sarà concessa 

 dunque una scrivania 

che in tutto degna sia 

dello scrittor famoso? 

L’animo generoso 

non muoveranno i versi 

supplici? Dunque apersi 

invano la mia vena? 

O amica, gratia plena, 

non mi fate languire 

per quelle cento lire 

che l’antiquario chiede! 

Voi sarete l’erede 

del morituro sposo. 

Domani un prodigioso  

flutto d’oro le casse 

v’empirà senza tasse… 

Che sono dunque cento 

lire buttate al vento? 

Deh! Fate che domani 

sera le belle mani 

baronali io vi possa 

baciare! Non vi ho mossa 

la pietà nel pio cuore? 

Orrore! Orrore!! Orrore!!! 

È dunque un cor di pietra 

che né pure la cetra 

d’Orfeo discioglierebbe? 

Ahi me, chi l’avrebbe 

imaginato! Addio, 

baronessa crudele. 

Misero Gabriele! 

Nella sua innocenza 

egli resterà senza 

la scrivania. Per cento 

lire! Per sole cento 

lire! Per cento lire 

sole! Ah, meglio morire! 

Il vostro cor m’ascolta? 

Questa è l’ultima volta. 

L’ultima volta sia. 

Voglio la scrivania, 

quella di cento lire; 

o pur voglio morire…

                          Gabriele d’Annunzio 

22 dicembre – sera 

 

“È quasi fuor di luogo” commenta il giornalista, ”aggiungere che, al patriottico scopo di salvare all’Italia le Laudi, la Nave e i più grandi capolavori della letteratura italiana, la baronessa della Marra si affrettò ad acquistare la scrivania.” E la stessa sera il nostro Gabriele “poté baciare riconoscente le baronali mani, nel salotto della principessa di Ottajano, quelle mani che, educate da Sigismondo Thalberg, allietavano di musiche gli uditori”.

 

 

 

 

 

 

 

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è forse uno dei più intricati per i biografi. Si ignorano, per esempio, i motivi dell’improvvisa partenza da Francavilla, nei pressi di Pescara, che d’Annunzio fece insieme al suo maestro e sodale, Francesco Paolo Michetti, in quel fine agosto del 1891, come le insospettabili ragioni

 

MYRRHA PER LA SICILIA: UN DONO di Carmen Lasorella – Numero 10 – Marzo 2018

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Nel Sud dei segni meno, con le cronache dell’abbandono e del degrado, i valori della storia e della bellezza diventano più forti, perché vincono la caducità del quotidiano. 

 

Il percorso scelto da Myrrha ė così insolito, da diventare esclusivo. Racconti sul web, senza fatica, che poi diventeranno specchi di carta limpidissimi nei quali continuare a riflettersi, ritrovando il profilo più prezioso del Sud, fatto di uomini, luoghi e sfide riuscite. O quasi. 

 

Lo sforzo non si avverte, perché le occasioni di racconto sono infinite. Basta andarle a cercare. 

 

Nello speciale di Myrrha dedicato alla Sicilia, si va dalle architetture fraintese di Gibellina al mecenatismo ibleo, per arrivare alla centralità di Siracusa nella cultura della giustizia. E si continua con l’arte declinata nel piacere di una collezione contemporanea a Palermo o con la creatività che coinvolge i sensi tra pittura e narrazione, fotografia e poesia, in una cornice insolita quale quella di Caltanissetta. Non manca il brontolio sordo dell’Etna, che brucia miti e visioni, magma e fuoco perenne; mentre sullo sfondo del Mar Mediterraneo si stagliano le memorie di antichi e nuovi relitti, offerti all’immagine e consegnati alla testimonianza. Ci sono poi la tradizione e la fede, che si fondono nel barocco di Catania, la stessa città per la quale l’università di Enna immagina micro-interventi di agopuntura urbana tra i colori e i profumi della Vucciria di Guttuso. E Palermo, capitale della cultura, va oltre i muri, edificando ponti e crocevia, guardando all’Europa, comunque terra di poeti, scienziati ed anche pescatori, che -come cantava De Andrè- “qualsiasi cosa tu gli confidi, l’hanno già saputa dal mare”. 

 

L’isola più intensa del Mediterraneo concentra dunque in sé il senso e le contraddizioni del Sud. Evocando Sorrentino, La grande bellezza e lo sfascio disperato di una società oramai degradata, che il regista descrive quasi con crudeltà. 

 

Eppure, la speranza non può morire. 

 

Proprio Gibellina, negli anni ’70, dopo le devastazioni del terremoto, fu capace di esprimere la tenacia di un uomo, che insieme ad altri uomini capì che non basta ridare un tetto a chi l’ha perduto. Il sindaco di quella città si oppose alla ricostruzione, che non ricostruisse anche il senso della comunità e ignorasse la bellezza. Un tema attualissimo e destinato a rimanere attuale in un paese ad alto rischio sismico, come l’Italia. Gibellina, nella visione di quell’uomo doveva rinascere più bella di prima, con il contributo di artisti e di uomini di cultura. Anche Burri immaginò un’opera per Gibellina: il cretto. Una fenditura, un segno profondo, comunque una cicatrice, non per cancellare la ferita, ma per guarirla. 

 

In quella sfida, che purtroppo non è stata vinta appieno, c’è una storia che si ripete. Come scriveva Sciascia: “ lo Stato non era pronto, né incline, ad accogliere un’istanza di ricostruzione, che non fosse una ricostruzione della miseria…sperava nella fuga, nell’abbandono..” 

 

Cosa è successo dopo nel Sud? In Basilicata? In Irpinia? In Molise? Nelle Marche? In Abruzzo? Perfino nel Lazio, che è un po’ più in su, ma non abbastanza come nel caso dell’Emilia Romagna? Terra colpita dal terremoto, ma con le attività produttive che non hanno mai smesso di funzionare? 

 

Hanno continuato a costruire le casette, laddove ridare un tetto a chi l’ha perduto, appunto, non basta. Si sono allora ripetute le storie di miseria e le storie di fughe e di abbandono, benché ci siano risorse immense, come nel caso della Basilicata del petrolio. Facciamo però una considerazione: è vero o non è vero che proprio la Basilicata oggi è conosciuta in Italia e nel mondo grazie alla scelta di fare di Matera una Capitale Europea della Cultura? 

 

Come a Gibellina negli anni ’70, anche per Matera, nella percezione dei più, ha funzionato il sogno, il dialogo senza tempo nel segno della bellezza assoluta. Eppure, Gibellina non è stata una sfida vinta appieno. Per Matera si annuncia lo stesso rischio. In una terra, che vede flussi di turisti e di risorse incredibili, dove sono le infrastrutture? Quali acceleratori si sono messi in campo? E i nuovi modelli? Quanto si è investito nel capitale umano di qualità? 

 

Ancora una volta, la cattiva politica e le classi dirigenti che la impongono hanno impedito la partecipazione attiva e fattiva dei cittadini. Per loro non vale neanche più la legge del 2%. 

 

Ovvero? Una legge, che venne chiamata così oramai quasi mezzo secolo fa, perché destinava il due per cento della spesa pubblica edilizia al decoro dei luoghi e al fregio dell’arte. Allora si considerò che fosse troppo poco… come potrebbe bastare oggi, che non viene neanche applicata? 

 

Ecco allora il senso di Myrrha, che cerca le matrici perdute del Sud, capaci di incidere sui luoghi e nei cuori delle persone, sicura che l’altissima capacità di resilienza delle donne e degli uomini che vivono sotto un cielo colorato di indaco e comunque educati alla bellezza, possano ricreare orizzonti possibili. Sul piano economico, sostenibili.

 

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MYRRHA PER LA SICILIA: UN DONO

 

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L’ISOLA DEL TESORO di Giovanni Ilarda – Numero 10 – Marzo 2018

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l’isola    del tesoro

 

 

Oltre 1.000 km di costa, migliaia di spiagge, un arcipelago di isole minori nel cuore del Mediterraneo, il vulcano più alto d’Europa, 4 parchi naturali1 e 77 riserve.

 

La Regione più grande d’Italia, dove hanno lasciato segni indelebili della loro stabile presenza Fenici (che hanno fondato il Capoluogo), Greci, Romani, Bizantini, Arabi, Normanni, Francesi e Spagnoli.

 

Le tradizioni e le culture di questi popoli hanno scritto nei secoli la storia della Sicilia e sono rappresentate oggi non soltanto da migliaia di inestimabili capolavori dell’architettura e dell’arte, ma dal carattere stesso dei siciliani, 

dal loro linguaggio e persino dai piatti tipici,

 

dalla pasta con le sarde ai prodotti delle tonnare, dai cannoli alla cassata, dalla caponata alla granita di limone, dagli arancini di riso2 alle panellei3, cosicché la cucina è diventata ragione di riconoscimento e identità prima ancora che motivo di attrazione turistica (dallo street food alle rivisitazioni stellate).

 

La gastronomia è, anzi, testimone d’eccellenza della storia di Sicilia, degli stenti e dell’orgoglio di un popolo. Emblematica l’origine, secondo la leggenda, della pasta con le sarde a mare: c’è stato un tempo in cui anche le sarde erano un lusso per molte famiglie; le mamme utilizzavano, allora, la precedente acqua di cottura dei giorni di festa per insaporire un piatto di spaghetti in cui le sarde in realtà non c’erano, ma soltanto perché – rispondevano alla domanda di loro bambini – … erano rimaste a mare! 

Anche i piatti tipici fanno, quindi, parte della storia di una terra alla quale 

si addice, in pieno, il titolo del famoso romanzo di Stevenson, 

l’Isola del tesoro. Anzi, dei tesori:


che si ritrovano a migliaia nelle Chiese, nei Palazzi dell’antica nobiltà, per le strade, al centro e nei quartieri popolari, un enorme museo all’aperto nelle grandi città e nei piccoli borghi
4. Non sorprende, quindi, che Palermo sia stata scelta come Capitale italiana della Cultura per l’anno 2018. In questa terra straordinaria, però, vive un popolo che parla un dialetto (che con il maestro Camilleri è andato ben oltre i confini dell’Isola) nel quale non esistono verbi al tempo futuro. 

 

Un’acuta riflessione sull’argomento si deve a

Leonardo Sciascia che nel corso di una conversazione con la giornalista francese Marcelle Padovani, pubblicata nel ’79, affermava: Come volete non essere pessimista in un Paese dove il verbo futuro non esiste? 


Quasi a dire che la spiegazione di quella particolarità linguistica doveva essere ricercata nello stesso modo d’essere dei siciliani che, ormai rassegnati di fronte alle difficoltà del presente, avrebbero perso ogni speranza in un futuro migliore, fino al punto da cancellarlo dalla loro lingua. 

 

Un sottile filo rosso collega all’evidenza il pensiero di Sciascia ad un altro famoso rappresentante della letteratura siciliana, Tomasi di Lampedusa, che nel Gattopardo fa dire a Tancredi, rivolto al principe di Salina: “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.” 

 

Il senso di una frase che inneggia al trasformismo e che è divenuta ormai celebre e a tutti nota: far finta di cambiare al solo scopo di lasciare tutto immutato, rimanendo fermi all’eterno presente. 

 

La rassegnazione, il pessimismo, l’incapacità di guardare al futuro è, così, diventata nell’imaginario collettivo una componente identitaria della sicilianità. 

 

Personalmente, però, non credo che ciò sia vero o, almeno, che sia ancora vero. Il pragmatico realismo e l’aver dovuto, per secoli, affrontare ogni giorno prepotenze, sopraffazioni, soprusi di governanti, vessazioni di mafiosi e proclami riformisti di una classe dirigente che mirava, in realtà, alla gattopardiana conservazione dell’esistente, hanno accentuato nei siciliani l’attenzione al presente, hanno affinato l’arte dell’arrangiarsi, hanno portato a trascurare la programmazione, ma non sono univocamente sintomatici di un’atavica ed eterna rassegnazione.

 

Pensando al carpe diem di Orazio o all’incertezza del domani cantata 

da Lorenzo de’ Medici nel Rinascimento penso, infatti, che il preoccuparsi 

del presente, trascurando l’importanza del futuro, non sia un’esclusiva (in negativo) dei siciliani, ma una caratteristica dell’umanità intera, in ogni tempo.

 

I giovani siciliani di oggi, del resto, hanno in gran parte abbandonato il dialetto, parlano italiano e inglese, due lingue in cui il futuro esiste e ha un preciso significato. 

 

Il largo consenso con cui è stata raccolta l’eredità che ci hanno lasciato due grandi siciliani come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e tanti altri che hanno pagato, con il sangue, la caparbia ostinazione di volere una Sicilia migliore, conferma il cambiamento. 

 

Oggi l’atteggiamento dei siciliani verso il futuro è, infatti, cambiato per l’acquisita consapevolezza, soprattutto nei giovani, della necessità di lottare e impegnarsi nell’affrontare un presente che è ancora, purtroppo, più duro che in altre parti del Paese, soprattutto sul fronte del lavoro, con la dignità degli uomini liberi, con la volontà e la speranza di un futuro diverso per una Terra che rappresenta una vera perla del Sud.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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1 – Parco dell’Etna, Parco dei Nebrodi, Parco delle Madonie e Parco Fluviale dell’Alcantara.

2 – Conosciuti rigorosamente al femminile (arancine) nel palermitano.

3 – Frittelle con farina di ceci tipiche del capoluogo che hanno rappresentato la colazione quotidiana di intere generazioni di studenti sino agli anni sessanta.

4 – Notevole, ad esempio, il patrimonio di Ciminna, piccolo comune a pochi chilometri da Palermo, non a caso scelto da Luchino Visconti per ambientare molte scenografie del Gattopardo (1963).

 

Credits foto

 

San Giovanni degli Eremiti (PA)
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Golfo di Mondello (PA)
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Duomo di Modica
Diritto d’autore: <a href=’https://it.123rf.com/profile_xlucax79′>xlucax79 / 123RF Archivio Fotografico</a>
Etna in eruzione
Diritto d’autore: <a href=’https://it.123rf.com/profile_virz8′>virz8 / 123RF Archivio Fotografico</a>
Diritto d’autore: <a href=’https://it.123rf.com/profile_elesi’>elesi / 123RF Archivio Fotografico</a>

 

SAN SERGIO I PAPA di Umberto De Augustinis – Numero 10 – Marzo 2018

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SAN SERGIO I PAPA

 

Inoltre i primi tre sono nati ed eletti nello stesso scorcio di secolo, la seconda parte del VII, e l’ultimo circa cinquanta anni dopo. Due di loro, Agatone e Sergio sono palermitani, entrambi impegnati sul fronte della statuizione delle regole della Chiesa, con relative interferenze imperiali; Leone proveniva da Aidone, una città oggi in provincia di Enna; Stefano da Siracusa.

 

Sicuramente Sergio I tra i papi siciliani occupa un posto di enorme rilievo,
perché, con lui, cambiano molto i rapporti tra Impero d’oriente e Chiesa.

 

Sergio, palermitano, presbitero di famiglia originaria di Antiochia, diventa papa dopo la morte di Conone (21 settembre 687), anche lui formatosi a Palermo. L’epoca era decisamente particolare: Roma, e tutti i territori italiani non Longobardi, erano in mano all’imperatore d’oriente, in quel momento Giustiniano II. Il potere in Italia era esercitato dall’esarca di Ravenna, Giovanni Platina. 

 

L’imperatore non aveva remore a indire frequenti assemblee ecclesiali, denominandole concili, presiedendole personalmente indipendentemente dalla presenza del papa, a volte neppure invitato, o per il tramite di delegati, e a formulare norme e precetti per la Chiesa. Fra queste, l’ultima prima dell’ascesa di Sergio, fu l’avvio del c.d. Concilio trullano, quinto dell’era cristiana, indetto all’epoca di Agatone, che prende il nome dalla costruzione ove ebbe luogo.

 

La giustificazione dell’intromissione imperiale stava nel ritenersi l’imperatore 

un “isapostolo”, un parificato in tutto e per tutto agli apostoli. 

Del primato di Pietro, si preferiva non parlare. 

 

L’elezione di Sergio fu piuttosto turbolenta. Al soglio pontificio aspiravano Pasquale, amministratore delle finanze ecclesiastiche e, quindi, arcidiacono, e Teodoro, presbitero anziano di Roma (arciprete). Pasquale aveva stretto un patto con l’esarca Giovanni Platina: l’appoggio per la sua elezione a papa in cambio di cento libbre d’oro. Tra corruzione e simonia. Ma l’elezione di Pasquale fallì per l’opposizione dell’aristocrazia romana. Pasquale sarà confinato a vita in un monastero, in sospetto di magia.

 

Il 15 dicembre 687, Sergio fu consacrato papa. L’esarca Giovanni Platina chiese 

ed ottenne da lui il pagamento delle cento libbre d’oro come prezzo dell’appoggio. Per trovare le risorse furono pignorate le offerte in oro a S.Pietro dei fedeli. 

Ma, all’epoca, le cose andavano così.

 

Sergio, tuttavia, uomo raffinato e colto, dimostrò subito di non gradire la politica ecclesiale di Giustiniano II. Quando quest’ultimo decise di convocare un concilio (denominato Quinisextum, cioè riassuntivo del quinto e sesto), neppure invitando il papa, lì per lì, Sergio non osservò nulla, ma, poi, si rifiutò categoricamente di sottoscrivere le 102 costituzioni che l’assemblea aveva approvato. Tra queste c’era sia la supremazia del patriarcato di Bisanzio su tutti i vescovi, meno il papa, ma anche una sensibile attenuazione del celibato ecclesiastico. 

 

La reazione di Gustiniano II non si fece attendere. L’imperatore fece arrestare i due delegati pontifici e mandò a Roma uno dei suoi militari più feroci, certo Zaccaria, con l’ordine di arrestare il papa e trascinarlo a Bisanzio per processarlo, così come, qualche anno prima, era avvenuto già con papa Martino (fatto maltrattare, destituire ed esiliare). I romani, e non solo, insorsero. La milizia imperiale di stanza a Ravenna accorse a sostegno del papa. Zaccaria capì che i tempi erano cambiati e che aveva osato troppo. 

 

Il prestigio ed il carisma del papa stavano per mettere fine ad una politica 

religiosa imperiale di evidente sopraffazione.

 

Così il feroce militare fu costretto a chiedere aiuto al papa, mentre popolo e soldati vari lo braccavano per tutta Roma. Alla fine Zaccaria si rifugiò nella camera da letto di Sergio e si nascose sotto il letto stesso. Solo grazie all’intercessione di Sergio, non fu ucciso, ma, in compenso, allontanato da Roma tra gli insulti del popolino.

 

Il papa aveva vinto.

 

Giustiniano II pagò anche a Bisanzio le conseguenze del fallimento della sfida: fu deposto da una congiura di palazzo, alla quale si associò anche il patriarca, Callinico I, subì l’amputazione del naso, donde fu denominato Rinotmeto e mandato in esilio. L’asportazione del naso avrebbe dovuto impedire qualsiasi ripristino di poteri imperiali, perché le amputazioni corporali ne erano ostative. Successivamente, fattosi un naso d’oro, Giustiniano tornerà al potere per alcuni anni, fino alla uccisione sua e del suo unico erede, ma eviterà nuove collisioni con Roma.

 

Il confronto, risoltosi così positivamente per Sergio, ne accrebbe enormemente 

il prestigio, assieme a quello della Chiesa di Roma.

 

Facile spiegarsi, dunque, le numerose visite di importanti personaggi a Roma, desiderosi di abbracciare la fede cattolica, e lo spianarsi della strada per un rapporto estremamente significativo e sinergico con il popolo dominante dell’epoca, i Franchi, che porterà molto lontano. A questo enorme prestigio si devono molte cose: tra le altre, 

 

Sergio fu il primo pontefice a battere moneta, il primo ad essere direttamente 

sepolto in S. Pietro, alla sua morte, avvenuta l’8 settembre 701, 

quello che introdusse la possibilità di avere più altari nelle chiese, 

il primo ad essere citato come diretto referente 

delle comunità cattoliche britanniche.

 

Di qui, infine, la sua immediata canonizzazione.

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Agatone, Leone II, Sergio I e Stefano III.
La caratteristica che li accomuna tutti è di essere inquadrabili nell’ambito e nel contrasto delle strategie politiche-religiose dell’Impero bizantino. 

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BENEVENTO: LEGGENDA STORIA VETUSTÀ di Hilde Ponti – Numero 10 – Marzo 2018

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BENEVENTO: LEGGENDA STORIA VETUSTÀ

 

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abbonda di testimonianze storiche intrecciate a leggende misteriche, annoverate ormai alla tradizione popolare, spesso confermate da documenti sulla Sacra Inquisizione.

Come si presenta Benevento, città piena di doni, magica per elezione? Si svela come una terra amena, posta in una conca, attorniata da montagne, dove il fiume Sàbato confluisce nel Calore. Un mondo questo, carico di presenze straordinarie. Mille incantesimi, antichità spesso dormienti, attestano un centro sannita che entra nella Storia, solo dopo la vittoria dei Romani su Pirro. Da allora, Maleventum – il nome arcaico, muta in Beneventum – nel 268 a.C. quasi a decretare fortuna.

 

E’ l’imperatore Traiano a procurarle ricchezza, tracciando la via Appia Traiana, 

che avvicina il sito ai commerci del porto di Brindisi.

 

A decretare Benevento capitale, però, dovettero intervenire i Longobardi, creando un principato, dove fiorì la scrittura beneventana: splendidi manoscritti miniati, ancora oggi tesori inestimabili. 

 

Risale proprio a quella Età la leggenda di Benevento esoterica: descrivendo le pendici settentrionali del colle beneventano come zona dove guerrieri barbari davano vita a riti scabrosi, ancestrali, proprio intorno a un albero di noce. Tuttavia, anche dopo il dominio longobardo, le credenze si ammantarono ulteriormente di liturgie diaboliche: donne confessavano davanti al tribunale dell’Inquisizione, aver volato in sella a esseri infernali, al noce di Benevento, celebrare il Sabba e congiungersi al demonio.

 

Talvolta, invece, con afflati fantasiosi, descrivevano con dovizia il volo, 

cavalcando a loro dire scope – forse l’oggetto a loro più familiare – 

sopra i cieli di Roma,

 

zona San Giovanni, la notte del solstizio d’estate, quando si dice che i semplici emanino l’ennesima potenza dei loro principi. Ormai, venivano chiamate Herbane, essendo pienamente consce degli effetti magici dei semplici, elaborati in formule alchemiche, una sorta di scienza da divulgare, marchiandola proprio sotto al noce.  

 

Forse, fu proprio per interrompere sensualità particolari, supplizi e stragi, comunque porre fine a dicerie, che il sant’uomo del posto, nella persona del Vescovo Barbato, pensò di far sradicare la pianta.

 

Niente scandali sul suolo passato alla Chiesa, dominio che durò fino all’Unità d’Italia. Ciò nonostante, la leggenda ebbe a rafforzarsi, tanto da far parlare 

del fatto misterico, pure in un passo de I promessi sposi del Manzoni. 

“L’elemosina. Sapete di quel miracolo delle noci, 

che avvenne molt’anni or sono…?”.

 

Intanto il volgo sposta il racconto sulle rive del fiume Sàbato, alla mitica Ripa delle Janare, luogo atto agli incontri carnali, tra fattucchiere dedite a creare incantesimi, prodigi vari e veleni, con esseri diabolici. Storie di contrada, a cui ha attinto persino un Marchio: torroni e liquore “Strega”, famosi nel mondo. Brand di qualità, che promovendo un importante Premio Letterario, unirà leggenda e cultura editoriale. 

Ma cosa è rimasto della storia infinita di Benevento?

 

Divulgati su argomenti profani, si riparerà decantando la bellezza impareggiabile del Duomo: dove cinque navate ad arco tutto sesto dell’ingresso, mostrano colonne corinzie di epoca romana, mentre la spettacolare facciata ospita, oltre a frammenti romani e bizantini, anche iscrizioni longobarde.
 
Meraviglia desta anche l’imponente Teatro romano: diecimila spettatori accolti sotto venticinque arcate monumentali, costruzione avviata nel 126 a.C. dall’imperatore Adriano. L’età non ha scalfito né la cavea, tanto meno la scena: ospita ancora rappresentazioni liriche e di prosa. 
 

E come non provare emozione all’arco di Traiano? Un vero passaggio trionfale, eretto per onorare l’imperatore, 

in assoluto il più ricco dei monumenti vetusti, splendori in bassorilievo 

rivestiti in marmo pario.


Invece, i rilievi che spiccano nei due fronti esaltano il saggio governo romano, mentre le immagini all’interno riferiscono rapporti fruttuosi dell’imperatore con la popolazione beneventana. 

 

E poi, non si può tralasciare la Medievale Santa Sofia, dove si celebrano ancora manoscritti e miniature coniate dalla Scrittura beneventana. La costruzione è sorprendente, di pianta semicircolare, sontuosa la cupola, sorretta al centro da un giro esagonale di grandi colonne, affascinante prospettico a effetti geometrici, presenta via via un ciclo di affreschi dell’VIII Secolo:

lascia senza fiato quell’arte siriaco-armena.

 

E come non essere ammaliati da cimeli, colonne, lapidi, cippi romani, incastrati talvolta nei muri di case e ancora androni, cortili trasudanti seduzioni quotidiane, archi, palazzetti barocchi del centro vetusto: Benevento è uno scrigno di tesori. Eccellenze da brivido! Incantesimi, non sempre da immaginario collettivo. 

 

 

 

 

 

  

 

 

 

  

 

 

 

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 Foto: witches-brooms-3067494a Gianmichele Galassi. Le streghe hanno smesso di esistere…

 

IL FUOCO E IL MARE di Giorgia Ippoliti – Numero 10 – Marzo 2018

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Il marinaio, unico sopravvissuto, pur di non essere sopraffatto dalle onde burrascose, si aggrappò a quel che rimase della sua imbarcazione e, a quel punto, si trovò nella più profonda oscurità. Non gli rimase che rivolgersi al cielo. “(…) Mamma, Mamma ‘e tutt’‘e Mmamme, aiutame tu!”2.
Improvvisamente la notte si fece giorno.
Un’immensa luce lo colse, e gli sembrò di udire una musica celestiale. Una bella signora, vestita di bianco, e cinta nel capo da dodici stelle, gli tese la mano; non v’erano dubbi: era l’Immacolata Concezione!

 

Allora l’acqua, prima ostile e nemica, divenne un valido alleato,
tanto che le onde lo cullarono, privo di sensi, fino a riva.

 

Si risvegliò, all’alba, sull’arenile, accanto alla banchina di Zi’ Catiello. A metà, tra il sogno e la realtà, fu avvistato da alcuni passanti, che accorsero in suo aiuto, con estrema gioia e stupore. Anche questa volta, la vita aveva vinto. Ripresosi, capì che ciò che aveva vissuto non era un sogno … e che quella era, sì, la Mamma di tutte le mamme. Chiamò i presenti “Fratièlle e Surelle” intorno a un falò e insieme cominciarono a recitare il Rosario alla Madonna. 

 

Basta rompere le barriere del pregiudizio e dello stereotipo, che annebbiano la vista, per entrare in contatto con un mondo strabiliante e ricco di

 

tradizioni che, con la loro attualità e forza, irrompono
nella vita di ognuno di noi.

 

È proprio quello che accade a Castellamare di Stabia dove, in un fulgido esempio di unione fra presente e passato, ancora oggi la tradizione svela quella forza viva che la anima e che risiede nella nostra contemporaneità.

Nella notte tra il 7 e l’8 dicembre, in questa splendida provincia napoletana, città delle acque – ben ventotto sorgenti di acque minerali differenti – la storia di Luigi prende vita. 

In un parallelismo fra cielo e terra, nei dodici giorni antecedenti a questa notte, corrispondenti alle dodici stelle di cui era cinto il capo della Mamma delle mamme, riecheggia, dalle prime luci del mattino, la cantilena dei Fratelli e Sorelle che, richiamando tutti i fedeli, li esortano a “dare la voce” a questa tradizione, che suona come un ringraziamento, proprio come secoli prima fecero il marinaio e le persone accorse.

 

La notte diventa di nuovo giorno. Una voce rompe il silenzio, squarciando il buio dell’oscurità.

 

Un richiamo alla preghiera, dunque, gridato a gran voce – ogni quartiere ha la sua “voce” – da un uomo che, camminando per le strade insieme ai fedeli, ogni giorno, annuncia nel canto la stella della Madonna in cui ci si trovi. In ogni angolo della strada, in ogni quartiere, in ogni casa, prende vita questo canto di gioia e di speranza. Sull’arenile della città, proprio come avvenne sull’arenile vicino alla banchina di Zi’ Catiello, si accendono i falò, detti “fucaracchi”, dove nascono momenti di condivisione, con musica e balli tipici.

 

O’ pale e miezz, la legna, viene raccolta dai ragazzi dei rioni
che, già diversi mesi prima, iniziano a ricercare tutto ciò
che possa rendere il falò vivido e imponente.

 

La voce dei Fratelli e Sorelle risuona in ogni rione, accompagnata, nella prima e nell’ultima notte, da una banda musicale che, in un unico suono di giubilo, invita i presenti a unirsi per ringraziare Colei che, secoli prima, salvò quel marinaio sconosciuto e riconoscente. Tutti gli stabiesi si riuniscono in strada e, nell’ultima notte – quando sono terminate le dodici stelle – attendono l’alba: percorrendo un’ultima volta il percorso votivo, intonano l’invocazione alla Madonna. 

Il paesaggio è incredibile. Castellammare di Stabia, città del mare, si colora di vivacità e ardore…

 

la maestosità del fuoco e i suoi vividi colori invadono
ogni angolo, ogni casa, ogni cuore.

 

In un’atmosfera suggestiva, davanti a spettacoli pirotecnici, che si proiettano nel cielo e nel mare, come in un gioco di specularità e simbiosi, la tradizione di Luigi si svela con tutta la sua attualità. Un’attualità fatta di vita, di gioia, di condivisione. Uno scintillio di canti e balli, un profumo confortante di antico e invincibile, scaturente dalla commistione di salsedine e legna, un vento di speranza da una tradizione, da una cultura che, nonostante le difficoltà, vuole innalzare al cielo la propria storia e la propria identità. Un parallelismo fra passato e presente, fra memoria e attualità, un turbinio di insegnamenti che si innestano nella notte dei tempi arrivando sino ai giorni d’oggi. Una città, quella stessa città che anni prima si unì al coro di Luigi, che non dimentica le proprie radici.

 

È un ringraziamento, un inno alla vita, un gesto di gratitudine
di un popolo che ha memoria e che non vuole dimenticare
la storia di quell’immenso miracolo chiamato Vita.

Tutto questo grazie al fuoco, simbolo di calore che riscalda corpo e anima, e del mare, quale metafora della vita che, tra alti e bassi, vale la pena di essere celebrata.

 

 

 

Luigi, detto “O’ Chiavone”, in una notte come tante, si trovò ad affrontare, con la sua imbarcazione (O’ paranziello), con tutto il suo equipaggio, una tempesta, di un’imponenza tale da non essersi mai vista. “(…) un colpo di mare spazzò via i marinai dalla coperta e poco dopo la barca fu inghiottita dal mare (…)”1

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IL FUOCO E            IL MARE

 

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1 “Antiche Tradizioni Stabiesi – Fratièlle e surélle” di Ciro Alminni – anno 1999.

 

2“Antiche Tradizioni Stabiesi – Fratièlle e surélle” di Ciro Alminni – anno 1999.

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I GIARDINI DEI POMI CITRINI di Giorgio Salvatori – Numero 10 – Marzo 2018

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 I GIARDINI DEI POMI
CITRINI

 

 

È “giardino” la parola più usata per descrivere gli agrumeti
di cui si ammantano, in un tripudio di sfumature dorate,
gli assolati declivi del Meridione.

 

Forse un legame inconsapevole con la leggenda o, secondo alcuni, la memoria degli anni in cui gli aranceti erano architetture arboree ornamentali, in Europa, poiché solo la varietà non edule del frutto, l’arancia amara, era conosciuta e coltivata in Occidente dopo la sua introduzione dall’Oriente. Quando e come questo avvenne, però, è storia ingarbugliata. Si sa soltanto che padre di ogni agrume è il cedro e che l’Asia è la sua patria d’origine. I romani lo conobbero ben presto, anche se ne facevano un uso officinale. Ogni altro agrume, secondo i botanici, deriverebbe da lui. Arance e limoni, però, trionfo di odori e di colori mediterranei, arriveranno più tardi. Prima come abbellimento di ville padronali, infine, ma è questa è storia relativamente recente, come frutti da gustare non soltanto con gli occhi, ma anche con il palato. Un amore non a prima vista, ma solido, quello del nostro Paese con i giardini delle Esperidi.

 

Strano, però, che le vicende legate alla introduzione e alla coltivazione degli agrumi in Italia siano state narrate da pochi e pazienti cultori 

della storia degli agrumi. Una lacuna colmata da una splendida pubblicazione delle Edizioni del Rosone 

e firmata da Nello Biscotti, 

 

pugliese, botanico, con al suo attivo già numerosi saggi sulla flora e la natura della sua regione. Il titolo è Storie di agrumi e paesaggi. I pomi citrini del Gargano. Se l’attenzione e la ricerca sono soprattutto focalizzati sui “giardini” del Gargano, appunto, terra di cui si sono nutriti il corpo e lo spirito dell’autore, la ricostruzione della penetrazione nel bacino del Mediterraneo dei leggendari pomi delle Esperidi è dettagliata e accurata. Biscotti non si limita a definire l’anno o il periodo in cui sulle tavole dei popoli del Mediterraneo si consumano le prime arance dolci (fine del diciottesimo secolo); narra la complessa genesi attraverso cui si giunge alla domesticazione dei pomi selvatici, all’acquisizione di questi frutti esotici nell’alimentazione quasi quotidiana delle nostre famiglie e alla scoperta delle loro proprietà di contrasto per numerose malattie umane.

 

Un lungo viaggio che comincia in Cina, in India, nell’odierno Bhutan, 

in remote regioni del Sudest Asiatico, e che si conclude
nell’esaltazione trionfale che, dei pomi citrini,
sanno celebrare 
i Paesi del Mediterraneo 

e l’Italia in particolare.

 

Non mancano le curiosità. Prima tra tutte la spiegazione del nome “portogallo” che, ancora oggi in alcune regioni, viene usato per riferirsi all’arancia dolce. Una traccia lessicale del periodo in cui si riteneva che questi pomi agrodolci provenissero dal Portogallo, Paese tra i primi a trarre profitto del loro commercio. Fin qui, però, il lavoro di Biscotti si inserisce nel novero delle ricerche dotte mettendo pazientemente insieme i tasselli di un mosaico fatto di richiami storici, citazioni di studi pregressi, elaborazione di dati desunti da fonti specialistiche. Il grande merito della sua opera risiede soprattutto altrove. Ed è duplice. Il primo merito risiede nella fresca lettura mnemonica che l’autore svolge tra i suoi vividi ricordi d’infanzia sul Gargano, l’affresco di un’Italia rurale identica ovunque. Val la pena di trascriverne alcuni: “Il giorno più bello (d’estate, n. d. r.) era quello in cui dicevamo: – Domani ci trasferiamo al giardino – (in corsivo). Si era a luglio e l’idea di poter vedere il mare era fortissima, ma vi era dell’altro e ancora oggi non riesco a decifrarlo fino in fondo.

 

Era probabilmente l’idea di una campagna vissuta, abitata
da tanti bambini, uomini, donne, pescatori che vendevano
alici, sarde, telline, tante volte barattate
con un cesto di arance. 

 

La sera si riunivano in tanti a suonare tarantelle e chiacchierare, discutere, raccontare favole ai bambini. La gioia era probabilmente quella di poter stare con zii, cugini, nonne, tutti insieme a condividere 15-20 metri quadri di una casetta che ogni anno si pitturava con la calce all’interno e di rosso pompeiano all’esterno. C’erano ancora le arance ed ogni momento era buono per mangiarne una e, se si aveva molta fame, bastava strusciarla su una grossa fetta di pane, il tutto condito con tanto olio di oliva che non mancava mai”. Suona lontana questa armonia per chi vive oggi un’infanzia o un’età matura immerse nella inconsapevole distopia del caotico universo digitale. Eppure si tratta di memorie degli anni sessanta del secolo scorso, non di protostoria dell’umanità. Il secondo merito è nella descrizione accurata, la prima, nel suo genere, delle tante varietà di pomi citrini coltivati nel Gargano, dalla loro età dell’oro, quando erano considerati i più pregiati e si esportavano agrumi perfino negli Stati Uniti, fino alla loro decadenza, negli anni dello spopolamento delle campagne, quelli in cui il “giardino delle Esperidi” si cercava in città, nelle metropoli del Nord Italia e addirittura nelle miniere del Belgio, dove morirono tanti nostri connazionali.

 

Ecco allora sfilare davanti agli occhi del lettore, attraverso descrizioni accurate o suggestive immagini fotografiche, arance forti, “femminine”, rugose, a spina, “toste”, limoni lustrini, sanguigni, incannellati,
melangoli bizzarri e tanti altri ancora, dai nomi stravaganti 

e misteriosi, che ci attraggono o ci lasciano perplessi. 

 

E oggi? Oggi qualcosa si muove. La richiesta di arance del Gargano è in ripresa. “C’è perfino un’azienda di bevande analcoliche del Nord che reclamizza alcune bibite come aranciate con succo di agrumi del Gargano” -dice con orgoglio Biscotti e racconta di come questa timida ripresa sia frutto di un lungo e paziente lavoro di ricostruzione della rete di coltivazione, raccolta e commercializzazione degli agrumi del Gargano. Una ricostruzione avviata anche con provocatorie esposizioni pubbliche di frutti abbandonati nei giardini negli anni ottanta e novanta, incontri con rappresentanti politici regionali e nazionali, partecipazione ad una edizione del Salone Internazionale del Gusto a Torino, nel 2000, sostenuta dal graduale interesse di testate radiofoniche e televisive.

 

Fino ad arrivare al riconoscimento IGP (indicazione geografica protetta) per due varietà tipiche, il limone femminello, nel 2006, 

e l’arancia bionda nel 2007.

 

Entrambe possono essere considerate eccellenze del Sud non soltanto perché uniche per colore, sapore, consistenza, resistenza alle avversità climatiche, ma perché rappresentano un mondo degno di essere conservato e tramandato per lo straordinario patrimonio di conoscenze che generazioni di agricoltori ci hanno consegnato. Un modello di coltivazione ammirevole, su terreni talmente impervi che sarebbe difficile ipotizzare altre produzioni agricole di eccellenza con le moderne tecniche di coltivazione. Ci sono tutti gli ingredienti perché “i pomi citrini del Gargano tornino ad essere risorse di qualità” -dice Biscotti, e si tratta dell’unica strada percorribile per salvare anche un paesaggio che resta ancora uno dei più belli e più intatti del Sud. Mutatis mutandis, si dovrebbe “tornare indietro per andare avanti’’. Era una frase, quasi un ossimoro che amava ripetere Tatanka Yotanka, alias Toro Seduto, il grande leader dei Lakota Sioux. Un insegnamento che sembra voler far proprio Nello Biscotti a proposito dei suoi pomi citrini dello Sperone d’Italia e che noi, di cuore, condividiamo.

 

 

 

 

 

LIBRO
AGRUMI

Tavola 1. Rappresentazione di un campione significativo della diversità che ha caratterizzato la storica agrumicoltura del Gargano. 1. Limone incannellato; 2. Limone ovale; 3. Limone fusillo lunario; 4. Limone tunno; 5. Limone sanguigno; 6. Limone lustrino; 7. Limone tondo vecchiarino; 8. Cedro liscio oblungo; 9. Limone tondo vecchiarino; 10. Arancia a pera; 11. Arancia scorciuta; 12. Arancia varlotto; 13. Mandarino meditteraneo; 14. Arancia sferica; 15. Arancia sanguigna; 16. Arancia virgata; 17. Arancia tosta depressa;18 Arancia Patrenostro; 19. Arancio forte; 20. Bergamotto.

in origine

sorvegliato da un drago e dalle figlie di Atlante: Egle, Eritea, Esperetusa, le Esperidi. Questa, in estrema sintesi, è la leggenda, anzi, una versione della leggenda. Una storia che nasce dalla mitologia greca, si intreccia con la leggenda dell’albero dell’immortalità e le vicende della guerra di Troia e giunge fino a noi, con i frutti dorati dei “giardini” del Sud. Pochi, infatti, dalla Sicilia alla Calabria, dalla Puglia alla Campania, usano il termine “agrumeto” per riferirsi alle coltivazioni di arance, cedri, limoni.

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L’ABRUZZO NON ESISTE di Marzio Maria Cimini – Numero 10 – Marzo 2018

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L’ABRUZZO NON ESISTE

 

sarebbe piaciuto a Giorgio Manganelli (1922-1990), che all’Abruzzo ha dedicato pagine terse e solenni, forse le più belle che siano state scritte su questa regione ascosa e spigolosa. Quando l’attraversò in lungo e in largo, nel 1987, scortato dall’automedonte Pino Coscetta, entrambi al soldo del Messaggero, trovò che l’Abruzzo fosse “specializzato nella produzione di freddo” e gli abruzzesi “bizzosi, protervi”, con collane di serpenti, latori di “qualcosa di acre e insieme di angolosamente elegante” 1 e gli piacquero non poco.

 

Non era nuovo alla scoperta dell’Abruzzo, Manganelli: l’attraversò con la sua Bakunina, un motorino anarchico, scendendo direttamente da Milano, sua città natale, dalla quale fuggiva, fuggendo da una madre ebrea convertita cattivissima (“qual è la differenza tra un condor e una madre ebrea? Entrambi ti mangiano il cuore, ma almeno il condor aspetta tu sia morto”), da una moglie che non lo amava, da una figlia in fasce, da un’amante un po’ matta che rispondeva al nome di Alda Merini, andando incontro al suo destino di grande scrittore, a Roma. Allievo, a Pavia, di quel Vittorio Beonio Brocchieri che alla guida di un monomotore solcava i cieli dei due emisferi puntando dritto ai Poli, Manganelli non era neppure minimamente progettato per il viaggio: pingue e nevrotico, attraversato da milioni di incubi e manie, manderà nondimeno corrispondenze mirabolanti e straordinarie dalle sue esplorazioni di mondi lontani e paradossali. Una volta che lasciò Roma per intraprendere uno dei suoi viaggi avventurosi disse che si sarebbe recato a Teramo.
 
In effetti l’Abruzzo è un luogo lontanissimo, per arrivarci senza valicare l’Appennino – che lì tocca i tremila metri del Gran Sasso d’Italia – bisogna compiere un giro intorno alla Terra, e non è detto che non sia 
la maniera più comoda e più veloce per raggiungerlo, se pure 
Boccaccio per indicare luogo nascosto e irraggiungibile 
scrive “più là che Abruzzi”2
 
E la sua distanza dal mondo, la sua albagia un po’ cisposa e un po’ voluttuosa ne fanno un oggetto strano, non pienamente definibile e tantomeno maneggevole. Anche chi v’è nato, solitamente attraversato da un amore selvatico e belluino per questa terra di “sassi, rocce, queste cose che hanno movimenti, spasimi e trasalimenti che durano millenni, e poi brividi di un secondo che fanno strage”3, ha sovente difficoltà a capire la sua terra, che si ostina ad osservare e dalla quale viene ricambiato solo da effimeri segnali d’amicizia, strette di mano calorose e fugaci. 
 
Non stupisce dunque che i foresti facciano fatica a comprendere la natura di questa terra di orsi, camozze e lupi. 
 
Che posto ha l’Abruzzo nell’Italia del XXI secolo? Anzitutto, 
ha un problema di collocazione. La storia del Novecento, curiosamente, l’ha fatta a poco a poco avanzare verso Settentrione: quanti sono oggi 
gli abruzzesi che definirebbero loro stessi pienamente meridionali? 
 
Temo pochissimi. L’Abruzzo d’oggi ha dimenticato i suoi mille anni sotto il Regno di Sicilia, poi quello di Napoli e infine sotto il Regno delle Due Sicilie. Eppure le bizzarre costruzioni degli uomini che appartengono all’ingegneria politica dopo il 1861 non hanno mai sottratto l’Abruzzo a questo suo pristino e antico legame con il Meridione della penisola. Regione più settentrionale del Regno duosiciliano e anzi irriducibile terra di confine (Civitella del Tronto, fortezza estrema posta sul confine col Regno Pontificio, resistette alle truppe sabaude duecento giorni, fino al 20 marzo 1861, ossia fino a tre giorni dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia da parte di Vittorio Emanuele II), l’Abruzzo regnicolo ha guardato cinquecento anni a Napoli quale suo riferimento morale e politico, mentre oggi pensa solo a Roma, a cui è velocemente collegata da due supersoniche autostrade, le più alte d’Europa, le più belle del mondo secondo la scrittrice premio Nobel Alice Munro, che le attraversò nel 2008 restandone incantata. Napoli e tutto il meridione sembrano oggi lontanissimi dall’Abruzzo, e non solo a causa della congenita difficoltà e lentezza dei trasporti su gomma e su rotaia che affligge il sud d’Italia, ma per ben più radicati sentimenti: l’Abruzzo d’oggi si sente appartenente ad un indefinito “centro Italia”, più simile alle Marche, all’Umbria, al Lazio che vantano tra loro apparentamenti storici assai vincolanti e illustri. 
 
Anche l’osservatore che abbia vaghe conoscenze dei popoli e delle terre aprutini – nessuno sa con esattezza i suoi confini e la sua toponomastica è flagellata dall’approssimazione – non è pronto ad ammettere l’Abruzzo tra le regioni del Mezzogiorno.
 
Ma se l’Abruzzo, meridionale e napolitano per storia, costumi, lingua, cucina, dimentica d’appartenere al Sud, ed è negletto e trascurato dal Centro, e alieno e giustamente inaccolto dal Settentrione, cessa d’esistere. Non so se l’Abruzzo sia effettivamente un dono del Sud, ma di certo del Sud è figlio legittimo e non scapestrato: del Meridione conserva la cucina sapida e ingegnosa, fatta di cibi rituali assai legati alla terra e alle stagioni, con una sostanziale distrattezza per i frutti del mare; del Meridione parla la lingua, la cui radice partenopea si avverte ovunque, inasprita dal passaggio dei monti; del Meridione porta i costumi, impreziositi dai lavori a tombolo e da arcaici schemi geometrici; del Meridione condivide, infine e soprattutto, la storia, una lunga storia fatta di seduzioni antiche e di furori ben temperati, a cui ha fornito acute intelligenze e non poche mani d’artista, che contribuirono non distrattamente a compiere i destini pre e post-unitari del Mezzogiorno d’Italia, con esiti quasi sempre felici. 
 
Non è possibile immaginare una storia d’Italia senza considerare il suo ingombrante Meridione, non è possibile immaginare 
una storia del Meridione senza l’Abruzzo.
 
E allora perché questa Regione di un milione e trecentomila abitanti, di poco più piccola della Campania e di poco più grande della Basilicata, è così desiderosa d’affrancarsi dal Sud, pronta ad abbracciare altre storie, altre tradizioni, altre lingue? Forse è il destino di tutte le terre di frontiera, mescolarsi agli altri, non definire con chiarezza i contorni della propria appartenenza, mimetizzarsi e confondersi per il timore di vedersi un giorno assaliti dall’altrui ferocia. È forse questo anche il motivo della sua atavica ospitalità nei confronti di quanti venivano dall’altra parte del Mare Adriatico, non temibili come i Saraceni in Puglia, ma contrappunto commerciale, sponda amica, portatore di Santi Patroni, come quel San Cetteo che protegge Pescara, Porta Aprutii e sera Regni, con ogni probabilità originario dei Balcani, così come dai Balcani viene quell’uso di mangiare le pecore, le stesse pecore che davano una lana di così alta qualità da essere gelosamente protetta e richiesta dai Medici di Firenze e che hanno rappresentato per secoli la maggiore fonte di ricchezza, sulla via del Tratturo Magno, per larghe porzioni della sua popolazione. 
 
Il Tratturo Magno, questa via antichissima, “quasi un erbal fiume silente”4 nelle parole del più abruzzese dei poeti, del più italiano 
dei cuori, Gabriele d’Annunzio, che milioni di pecore e migliaia 
di pastori, per mille anni e forse mille altri ancora, 
 
hanno percorso per fuggire i rigori invernali di questo esportatore netto d’inverno e di freddo che è l’Abruzzo, dai massicci del Gran Sasso e della Majella fino alle spiagge adriatiche e poi giù, ancora, verso i tepori del Tavoliere delle Puglie. È questa la via che conduce a Meridione, è questa la via che gli abruzzesi devono tornare a percorrere per ricongiungersi con la propria storia e andare fiduciosi incontro al destino. È questa la via che, “su le vestigia degli antichi padri”5, porta all’identità più profonda, segna una collocazione nell’Italia di oggi e in un Mondo dai confini sempre più sbiaditi e mutevoli, valica i confini politici delle regioni e conduce ad una nuova concezione degli spazi, costituendo entità spirituali e amministrative nuove e antiche al tempo stesso. Senza memoria delle sue appartenenze illustri l’Abruzzo non esiste.

 

1 -Tutti gli articoli che Giorgio Manganelli scrisse per il quotidiano “Il Messaggero” nel 1987 sono oggi raccolti ne La favola pitagorica, Adelphi, Milano, 2005, da cui sono tratte le citazioni riportate in questo scritto.

 

2 – V. G. Boccaccio, Decameron, Giornata ottava-Novella terza: «Disse allora Calandrino: “E quante miglia ci ha?” Maso rispose: “Haccene più di millanta, che tutta notte canta.” Disse Calandrino: “Dunque dee egli essere più là che Abruzzi.” “Sì bene” rispose Maso “sì è cavelle.»

 

3 –  Ancora G. Manganelli, op.cit., p. 106

 

4 –  G. d’Annunzio, I pastori, da Alcyone, Fratelli Treves, Milano, 1903.

 

5 –  Ibidem.

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