IL VOLO DELL’ANGELO di Lorenzo Salazar – Numero 12 – Ottobre 2018

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IL VOLO DELL’ANGELO

 

Esiste però un percorso alternativo, che richiede meno di due minuti, ma anche una certa dose di sangue freddo. 

 

Accanto alla naturale e selvaggia bellezza dei luoghi, da circa un decennio il Volo dell’Angelo costituisce uno dei principali fattori di richiamo delle Piccole Dolomiti Lucane (ci troviamo una trentina di chilometri a sud-est di Potenza) le cui cime, pur in scala ridotta, ricordano da vicino talune vette delle più blasonate cugine trivenete. Robusti cavi di acciaio hanno così riunito i due paesi, da sempre così vicini e così lontani, consentendo di “volare” dall’uno all’altro in ambo i sensi.

Si “decolla” da siti diversi e diversamente impervi, da raggiungere 

prevalentemente a piedi.


Il volo da Castelmezzano a Pietrapertosa (sicuramente il più eccitante e spettacolare dei due con la sua lunghezza di 1415 metri ed il suo dislivello di 130), si spicca da una cresta raggiungibile dopo una ascensione (definirla passeggiata è sicuramente riduttivo) di circa mezz’ora dal punto dove il minibus abbandona gli aspiranti emuli di Icaro raccolti al punto di ritrovo in paese od a quello di arrivo del rientro. Da essa, in attesa del proprio turno, si ha il tempo di scoprire gli incantevoli scorci offerti dalle Piccole Dolomiti e dal circostante Parco Regionale Gallipoli Cognato che si estende su una superficie di oltre 4000 ettari, equamente divisi tra la provincia di Potenza e quella di Matera.

 

La partenza del volo da Pietrapertosa si trova invece quasi in cima al paese. Una volta raggiunto l’ingresso di quest’ultimo, sempre grazie ad un minibus che muove dal sottostante arrivo della fune, potremo così scoprirne le strette viuzze e le botteghe che offrono prodotti tipici lucani.

La laboriosa cerimonia di vestizione prevede una imbracatura, un casco 

di protezione e l’affidamento, sino al vicino punto di partenza, 

della pesante carrucola che costituirà il nostro solo appiglio 

al cavo per tutta la durata del salto da un paese all’altro. 


L’esperienza è mozzafiato. L’augurio di “buon volo” ne segna l’inizio; subito dopo, annunziato dallo scatto metallico del moschettone, ci si stacca repentinamente dalla base di partenza. Si guadagna velocità in pochi secondi, trattenendo il respiro e giungendo rapidamente a toccare i 120 km/h. 

Riavutisi dallo shock iniziale si può godere un panorama superbo, col terreno 

sotto di noi che si allontana sempre più rapidamente. Appena il tempo 

di ammirare l’abisso, ascoltando il vento che riempie le orecchie, 

ed ecco che il fondo valle comincia a riavvicinarsi 

e la velocità a decrescere.


A quel punto, se avremo il coraggio di volgere nuovamente lo sguardo in avanti, potremo cominciare a scorgere il punto di arrivo che si avvicina ad una velocità che apparirà sempre e comunque eccessiva; il fiato è tagliato di nuovo, sino all’impatto… 

 

Chi invece proprio non se la senta di tentare l’esperienza di volo, potrà egualmente assaporare il gusto dell’avventura affrontando un percorso di trekking di circa 2 km. (detto “delle sette pietre”) che, recuperando l’antico sentiero contadino che collegava i due Comuni, scende dai 920 metri di Pietrapertosa ai 660 della sottostante valle del torrente Caperrino per risalire quindi ai quasi 800 di Castelmezzano. Per compiere l’intero circuito del volo di andata e ritorno occorrono non meno di 3 ore, ma non vi è ragione di perseguire inutili performances agonistiche che non lascerebbero il tempo di godere dei colori e sapori locali. Meglio, molto meglio, concedersi l’intera giornata e, 

ancora inebriati dall’esperienza del volo della mattina, perdersi tra le stradine 

del paese di “atterraggio” ammirandone gli scorci, sempre contornati 

dalle straordinarie cime delle Piccole Dolomiti.


Ci si potrà quindi rifugiare presso uno dei numerosi ristoranti locali che, nonostante il crescente afflusso turistico, mantengono elevato il livello della cucina locale ed un ottimo rapporto prezzo-qualità, come del resto quasi ovunque in Basilicata. 

 

Le numerose specialità lucane placano piacevolmente gli appetiti accesi dal cammino verso le basi di partenza. Su tutte troneggia il “crusco” – un tipo di peperone dolce e saporito che viene seccato sui balconi delle case di paese annodato in fotogeniche trecce – che viene qui declinato in tutti i suoi diversi abbinamenti, da originale succedaneo delle chips in aperitivo, ad accompagnamento delle “strascinate” fatte in casa od ideale coronamento purpureo del candido e saporoso baccalà che anche in questa parte del meridione costituisce insostituibile elemento della cucina delle regioni meno favorite dalla vicinanza al mare. 

 

Evitando le ore più calde per intraprendere il volo di ritorno, coltivando al contempo l’illusione di ridurre il pesante debito calorico ereditato dal pranzo, si potrà passeggiare alla ricerca di un caffè, continuando a godere del panorama rupestre.

Se a Pietrapertosa il contatto con le cime è immediato, scendendo le stesse 

sin dentro il paese che ad esse sembra armoniosamente aderire, 

Castelmezzano è stato recentemente inseritoda un giornale britannico 

tra i 19 borghi più belli d’Italia


(“…progettato non da un urbanista, I presume, ma da un gigante che ha preso un mucchio di graziose case e le ha spalmate tra le rocce”, così Lee Marshall sul Daily Telegraph). 

 

Le iniziative di taglio sportivo-avventuroso sembrano proliferare in tutta la Regione. A quello dell’Angelo si è di recente aggiunto il Volo dell’Aquila, con quattro persone alla volta che planano da San Paolo Albanese a San Costantino Albanese, nel Parco Nazionale del Pollino. A Sasso di Castalda invece – non lontano dalla statale che congiunge il Vallo di Diano, ancora nel Salernitano, con la costa ionica – due ponti tibetani, con gradini trasparenti stesi al di sopra del dirupo che costeggia il paese, hanno dato vita alla passeggiata del Ponte alla Luna, richiamando nuove frotte di ardimentosi del fine settimana.

La Basilicata (o per me la Lucania, come sempre si è detto in famiglia) 

è una delle regioni meno conosciute d’Italia. Proprio al rientro da un “Volo”, 

non molto tempo fa percorrevo una sperduta stradina di montagna in direzione 

di San Chirico Raparo, paese della nonna paterna; all’uscita di una curva, 

come nella scena di un film di James Bond, mi si spalancò improvviso 

di fronte l’immenso sito del giacimento “Tempa rossa”,


con decine di bulldozer intenti a spianare il terreno e drappelli di operai e tecnici in divisa azzurra disciplinatamente intenti ai propri compiti. Lo sfruttamento intensivo del più grande giacimento petrolifero su terraferma del continente, pur conosciuto dalla prima metà del ‘900, è iniziato solo in tempi relativamente recenti e ha indubbiamente costituito un fattore di relativo dinamismo economico che non ha mancato di scuotere gli apparentemente immobili equilibri locali.

Gli enormi investimenti hanno prodotto un effetto di ricaduta sull’economia, 

pagato però con la creazione di non sempre trasparenti 

appetiti di varia natura


ed un crescente impatto ambientale i cui effetti, nonostante le inchieste avviate dalla magistratura, non appaiono ancora pienamente misurabili; ad esso vengono ad esempio da taluno imputate le misteriose ed ormai ricorrenti morie di pesci del lago del Pertusillo, nella Val d’Agri. 

 

La capacità di attrazione esercitata da queste nuove attività che aggiungono un pizzico di avventura soft a portata di tutti al richiamo turistico delle tradizionali mete culturali – alcune delle quali, come Matera, oramai di rinomanza mondiale –  

può contribuire a bilanciare la progressiva affermazione nella Regione 

di una monocultura legata al petrolio (ed alle generose royalties 

dallo stesso generate) ed a prevenire l’abbandono di località 

ricche di fascino preservando le tradizioni locali.


Permane, come troppo spesso nel nostro Meridione, il problema delle infrastrutture; l’automobile o la corriera rimangono infatti quasi sempre gli unici o comunque i più rapidi mezzi a disposizione per raggiungere tanto la Capitale Europea della Cultura 2019 come gran parte delle principali località di interesse della Regione, con l’eccezione dell’incantevole Maratea che ha la fortuna di incontrare la linea ferroviaria tirrenica.

Inseguire l’utopia di un nuovo Texas, al quale prevedibilmente contrapporre 

un modello di sviluppo fondato su di una sorta di Disneyland diffusa, 

o confidare invece in una convivenza reciprocamente sostenibile –


sognando tute azzurre che attraversano il cielo delle piccole Dolomiti – nelle dimenticate terre che si stendono a sud dell’invisibile frontiera di Eboli? 

 

Intanto, “buon Volo”…!

 

 

 

separate in linea d’aria da meno di 1500 metri e da un orrido profondo centinaia di metri, occorre affrontare oltre mezz’ora d’automobile ed una serie interminabile di tornanti.

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LA FONDAZIONE FORTUNATO di Francesco Antonio Genovese – Numero 12 – Ottobre 2018

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LA FONDAZIONE FORTUNATO

 

 

 

RIONERO IN VULTURE, GIUSTINO FORTUNATO e NINO CALICE

 

1. Rionero città di frontiera. In che senso? Aveva ragione il compianto Nino Calice quando affermava che Rionero in Vulture, oggi importante centro dell’articolazione urbana della Basilicata, è stato (lo è ancora?) un paese di frontiera, nel senso di un luogo urbano senza conti da regolare con centri sociali e di potere preesistenti, feudali o clericali, spregiudicata, diversamente da Melfi, dove la presenza plurisecolare di vescovi e feudatari aveva dato luogo ad una società verticale, gerarchica e perciò timida, portata alla dipendenza1. Dopo la secessione dal Vescovo di Rapolla, fatta per ragioni fiscali dal 1314 al 1330, passando sotto la circoscrizione di Atella (e già questo dice del carattere della città), accogliendo nuove genti di ogni tipo, dagli albanesi di Scutari alle maestranze di ogni genere e provenienza (irpina, sannitica o pugliese: un melting pot unico in quella Basilicata moderna) in occasione dei tagli al bosco del Gualdo o alle pendici del Vulture, di commerci vari, 

 

“Rionegro” divenne un paese aperto e mobile, passando dagli originari 500 ai 9000 abitanti nel secolo dei lumi, capace di sfuggire, per la sua connaturata diffidenza 

e inquietudine, anche all’opera missionaria di un S. Alfonso dei Liguori.  


Ne venne fuori una realtà urbana viva ma anche aspra, “senza esclusione di colpi, di intrighi, di malandrinerie, di calunnie, di bugie, di vendette”, in cui ogni volta “bisogna ricominciare daccapo”, ricucendo gli strappi “dei costumi, delle feste, delle classi, delle case, dei quartieri, delle piazze”2

2. La Famiglia Fortunato e don Giustino a Rionero.

 

Secondo la ricostruzione di Calice, neppure i Fortunato sfuggirono a questa realtà conflittuale, nonostante le apparenze ieratiche delle due ultime figure rappresentative di questa importante famiglia del nostro Sud e della nostra storia nazionale: Ernesto e Giustino. Nel capitolo intitolato Dove è finito il barone Rotondo? Calice racconta di una vicenda di ordinaria turbativa degli incanti. Nel 1837, la Mensa vescovile di Melfi mette in vendita i diritti di enfiteusi sui beni della tenuta di Gaudianello, in agro di Lavello (città che con Venosa, assieme alle due già menzionate, completa il quadrilatero dei grandi centri della Basilicata settentrionale), estesi ben 3900 tomoli (terre a bosco e pascolo), quelli che diverranno dal 1872 il cuore dell’azienda modello cerealicolo-pastorale organizzata e diretta da Ernesto Fortunato3.

 

Alla gara i Fortunato offrirono 2400 ducati e i Rotondo 2600 ducati (i Tedesco di Minervino non erano competitivi) ma la tenuta venne aggiudicata ai Fortunato, con lo stratagemma dell’elevazione posteriore dell’offerta, passata da 2400 a 2800 ducati, non senza che una tale opportunità (non del tutto trasparente) fosse divenuta possibile grazie a qualche intervento extra ordinem: un favore del vescovo di Melfi ad Anselmo Fortunato (allora, a Napoli, Presidente della Corte dei conti) o la promessa di non riscattare il canone enfiteutico4. E la promessa venne persino imposta agli eredi da don Giustino con il suo testamento5. Sta di fatto che,

 

vincendo quella gara, i Fortunato innescarono il volano dello sviluppo della loro potenza economica, quella stessa (intelligentemente e progressivamente amministrata da Ernesto: la guida imprenditoriale della famiglia) 

che consentì di garantire al più noto fratello Giustino di recitare 

un ruolo di grande importanza nella politica 

e nella vita civile nazionale.

 

Ci sarà poi da stupirsi tanto se, dopotutto, sui Fortunato, nel 1861, verranno riversate accuse di protezione verso i briganti e se gli accusati sdegnosamente abbandoneranno Rionero per trasferirsi a Napoli? Quello, Rionero, era pur sempre un Paese di frontiera, di lotte politico-sociali aspre, “senza esclusione di colpi, di intrighi, di malandrinerie, di calunnie, di bugie, di vendette”, in cui ogni volta “bisogna ricominciare daccapo”.

 

Il Palazzo Fortunato, perciò, resterà vuoto fino al 1878 quando avvenne la ricucitura tra la Città e il suo più illustre notabilato, con il sindaco (Pierro) 

che va incontro ai due fratelli fuori dal paese e va a riverire 

il candidato al Parlamento nazionale.

 

Ernesto, perciò, poté tornare a Gaudiano, a gestire l’azienda più avanzata dell’intera Basilicata (e fra le più avanzate dell’intero Mezzogiorno), mentre Giustino da parlamentare vivrà tra Napoli (la residenza di via Vittoria Colonna) e Roma, con brevi rientri estivi a Rionero e Gaudiano. Ci sarà da stupirsi ancora se nel 1917, passeggiando a Rionero con alcuni degli amici più fedeli, don Giustino verrà ferito da un esaltato che l’aveva accusato di essere responsabile, addirittura, della guerra? Ma stavolta Fortunato non tornerà più a Rionero, fino al giorno della sua morte, avvenuta il 23 luglio 1932. Purtroppo, occorrerà solo quella per conseguire finalmente il desiderio “di vivere nella gratitudine vostra, miei concittadini”6?

 

3. Rionero si è veramente riappacificata con Giustino Fortunato? 

 

A Rionero, sulla piazza principale c’è il Palazzo Fortunato, composto dal fabbricato di circa cinquanta stanze, da un giardino e da un cortile, per una superficie di circa 4000 metri quadri: un importante monumento architettonico che vide passare, ospiti della famiglia, personaggi storici di rilievo: Giuseppe Bonaparte, Ferdinando di Borbone, Giuseppe Zanardelli, Benedetto Croce, Gaetano Salvemini, Francesco Saverio Nitti.

 

Oggi il Palazzo ospita la Fondazione Fortunato e la Biblioteca di famiglia, forte di circa 11.000 volumi, tra cui molte cinquecentine e libri dal Seicento all’Ottocento; nelle scuderie, un Museo della Civiltà Contadina e l’archivio storico e fotografico della famiglia e del Comune di Rionero nonché, quasi un paradosso, 

anche una mostra permanente sul Brigantaggio.

 

La città sembra essere definitivamente riconciliata con il suo più importante personaggio, il grande intellettuale e meridionalista che gli ha dato prestigio e fama.

Ma le iniziative della comunità locale non si può dire che siano del tutto all’altezza del grande concittadino e della sua storia, basti vedere anche semplicemente il sito internet che dovrebbe orientare il visitatore ed il curioso, per non dire lo studioso del pensiero e dell’organizzazione familiare.

 

Ma forse sarebbe anche il caso di pensare ad un Parco Letterario Giustino Fortunato, per far conoscere i luoghi della sua vita

 

(perlomeno di quella non vissuta a Napoli): un’iniziativa – possibile anche solo in sede locale, sebbene non riferita strettamente ad uno scrittore o un poeta, ma a uno storico, a un politico e politologo di razza, a uno statista come pochi – che farebbe svanire del tutto il dubbio circa il fatto che la sua città natale abbia mantenuto ancora qualche ombra sull’intellettuale nazionale di cui può invece trarre incondizionato vanto.

Sembra allora che la città si sia fatta perdonare per quegli screzi sol perché un altro intellettuale e politico rionerese, Nino Calice, ha dedicato ai Fortunato alcune opere importanti della sua complessiva produzione storica e politologica.

Non solo. La casa editrice da Lui fondata ha anche stampato alcune opere di don Giustino e, tuttora, dopo la morte del fondatore, mostra di proseguire la sua preziosa attività

 

4. Un erede rionerese per don Giustino: Nino Calice.

 

La verità è che Nino Calice (1937-1997), professore di storia e di filosofia nei licei, ma poi anche consigliere regionale (eletto con il PCI), Sindaco del Comune di Rionero, deputato al Parlamento e poi Senatore della Repubblica, componente del Consiglio d’Europa, fondatore del centro studi Giustino Fortunato, storico, e protagonista di tante iniziative culturali e politiche, oltre che di importanti ricerche storiche anche sulla vita della Basilicata, è indubbiamente – si proprio Lui – il vero erede di don Giustino e non solo per le ragioni legate alla comune origine cittadina.

 

Il ponte di passaggio tra le due figure mi pare ascrivibile alla grande tradizione democratico-liberale nazionale, quella che ha avuto varie declinazioni, 

fino al sacrificio personale, di importanti e prestigiose figure,

 

da Salvemini a Fortunato, dai Fratelli Rosselli a Giovanni Amendola, da Gobetti a Nitti, di cui si è detto, in gran misura, erede il cessato Partito comunista italiano (o importanti parti di esso), che se ne è intestato, pur tra distinguo e precisazioni, il filo della continuità.

La coscienza di tale linea è ancor viva, come si è visto e sentito, nel corso di un convegno svoltosi di recente (il 5 dicembre 2017) nel Castello di Lagopesole (Avigliano), non lontano da Rionero, proprio dedicato alla figura di Nino Calice. Giorgio Napolitano, ad esempio, ha scritto del suo commilitone politico:

 

“Se noi avessimo dieci, venti Rionero nel Mezzogiorno, coltivate, dissodate 

da organizzatori culturali come Nino Calice, credo che sarebbe un po’ diverso 

il Mezzogiorno da quello che è,

 

o potremmo essere meno allarmati di come, purtroppo, dobbiamo esserlo. Io mi auguro che davvero i giovani, ai quali tocca l’impresa del rilancio della politica, prendano esempio dalla lezione di Nino Calice”. Emanuele Macaluso, a sua volta, ha dichiarato: “Quando penso a figure come Nino Calice penso subito a cos’è stato il Partito comunista italiano, perché io penso che Calice è stato quello che è stato, nella sua specifica complessità, perché c’è stato il Partito comunista. E il Partito comunista è stato quel che è stato perché ci sono stati uomini come Nino Calice”.

Più specificamente, sul rapporto tra Calice e Fortunato, uno storico di matrice cattolico-democratica, Giampaolo D’Andrea, ha affermato:

 

“Nino Calice ci ha lasciato una grande passione civile e per la storia della sua terra 

e del Mezzogiorno. Passione ereditata da tutta una tradizione che in Basilicata 

è molto viva e che lui riannoda spesso con quella di Giustino Fortunato.

 

Una lettura non dico sorprendente ma non consueta negli intellettuali della sua generazione e della sua ispirazione culturale è la rivalutazione che fa del meridionalismo fortunatiano insieme alla rivalutazione del meridionalismo classico e con le spinte alla modernizzazione che inevitabilmente sono venute. In uno dei suoi ultimi saggi fece una riflessione lucidissima sull’illuminismo diffuso in Basilicata e su quello che aveva rappresentato, caratteristiche di una riflessione culturale che ha influenzato anche le sue posizioni politiche nel dibattito sui temi che di volta in volta si presentavano alla sua attenzione. Ha cercato di inserire la Basilicata in un contesto più ampio del Mezzogiorno per riconnetterlo all’Italia e in sintonia con la tradizione dei grandi meridionalisti della nostra terra come Fortunato e Nitti non ha mai pensato alla Basilicata come un’isola né felice né infelice e mai ha pensato al Mezzogiorno separatamente dall’Italia. Questo era un punto fermo della posizione dei meridionalisti: non rivendicavano attenzioni per il Mezzogiorno ma solo perché il Mezzogiorno potesse contribuire meglio al futuro dell’Italia.”7

 

 

C’è solo da sperare che la città di frontiera, se tale essa è ancor oggi, nel suo continuo dubitare, non sia troppo irriconoscente anche con Nino Calice,

poiché sono certo che il più giovane intellettuale, vissuto nel secolo scorso, avrebbe approvato (e lavorato per) la creazione di un Parco letterario dedicato alla complessa e poliedrica figura di Giustino Fortunato. Un simile Parco, coinvolgendo una gran parte del territorio della Basilicata Settentrionale (le ricerche storiche di Giustino, da sole, creerebbero una mappa-reticolo dei luoghi storici da lui riscoperti e individuati, traendoli dall’oblio e dalla dimenticanza; senza dire dei luoghi delle Strade ferrate propugnati come direttrici di sviluppo o dell’azienda familiare di Gaudiano o dei giovani intellettuali lucani, provenienti da tanti piccoli centri, da lui seguiti, valorizzati ed incoraggiati), si inserirebbe nello stesso rilancio dell’immagine della Regione, perché percorsa da un tenace filo di pensiero liberal-democratico, di respiro nazionale. 

 

 

 

 

 

 

 

 

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1- N. Calice, Rionero. Pagine sparse e disperse, II ed. 2012, p. 41.

2- N. Calice, ivi, p. 50.

3 – N. Calice, Ernesto e Giustino Fortunato: l’azienda di Gaudiano e il Collegio di Melfi, Bari 1982. Dello stesso A. si veda anche: La famiglia Fortunato, in AA.VV, La Borghesia tra Ottocento e Novecento in Basilicata. Storie di famiglie, Rionero in Vulture 2006, pp. 87-102.

4 – Così N. Calice, Rionero. Pagine sparse e disperse, p. 57. La vicenda era già stata ricordata in Id. Ernesto e Giustino Fortunato, cit. pp. 20-21 ove riporta anche la partecipazione alla polemica di Basilide Del Zio e Gennaro Araneo.

5 – Id. Ernesto e Giustino Fortunato, cit., p. 21.

6 –  G. Fortunato, Agli elettori del Collegio di Melfi, 10 febbraio 1909.

7 – Sul convegno, si rinvia a quanto scritto dall’Agenzia giornalistica della Regione Basilicata: http://www.consiglio.basilicata.it/consiglioinforma/detail.jsp?otype=1120&id=3399954#ad-image-0.

 

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L’ECONOMIA DELLA BELLEZZA di Patrizia Di Dio – Numero 12 – Ottobre 2018

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L’ECONOMIA DELLA BELLEZZA

 

Palermo, la mia città, può essere presa a simbolo di una Italia che investe sulla sua bellezza e sulla sua capacità di meravigliare il mondo intero, nonché quale emblema delle grandi potenzialità del Sud che, tuttavia, non si sono ancora compiutamente espresse a vantaggio di chi ci vive.

Come il Sud, Palermo è metafora di città splendida e nello stesso tempo decadente, dalle enormi potenzialità e grandi stimoli, eppure spesso in indolente inerzia; memoria di ferita e lacerazione, eppure esempio di recupero fascinoso 

e stimolante, antico e moderno insieme.


Città in cui abbiamo il percorso arabo-normanno patrimonio dell’UNESCO da un lato e che ospita, dal 16 giugno al 4 novembre nel 2018, “Manifesta 12”, una delle più importanti iniziative di arte contemporanea al mondo, la biennale itinerante europea. E sempre quest’anno, è capitale italiana della cultura 2018. Insomma, emblema insieme del nostro passato e del nostro futuro, di crisi e di opportunità. Palermo è anche una storia di impegno in campo umanitario, dove Stato, istituzioni, forze dell’ordine fino al più semplice dei cittadini, agiscono senza esitazioni.

Mentre le discussioni in Europa e in Italia si imperniano su cosa e chi deve fare, 

qui si fa senza chiedersi a chi tocca, pensando solo che ci sono cose 

che non posso attendere.


Noi del Sud siamo fatti così ed è in fondo la nostra grandezza. C’è poi la convivenza, l’esempio materiale di interazione e interscambio tra diverse componenti culturali di provenienza storica e geografica eterogenee che, a Palermo, ha generato un originale stile architettonico e artistico, lo stile arabo-normanno. Di eccezionale valore universale, vi sono mirabilmente fusi elementi bizantini, islamici e latini, capace di volta in volta di prodursi in combinazioni uniche e sincretiche.

La nostra storia di accoglienza e integrazione è il nostro paradigma di bellezza.

 

Palermo è la città dove l’Arcivescovo, monsignor Lorefice, per il discorso in occasione del festino, che si celebra ogni anno da oltre 390 anni in onore di Santa Rosalia, la nostra santuzza patrona, ha espresso considerazioni sulla dignità, sul significato di umanità e sul valore di appartenenza a un sistema e a una comunità di “senso”: parole che ci toccano particolarmente, non solo per la forza innovativa e profondamente cristiana ma anche per l’anelito a porre le basi di un rinnovato modo di intendere le prospettive della nostra vita. Perché, come dice l’Arcivescovo, “le relazioni vere nascono e crescono dove c’è sintonia, c’è finezza, c’è rispetto, ascolto”. Insomma dove c’è bellezza!

La città di Palermo, luogo simbolo di incontro di culture, di religioni, della possibilità 

di vivere nel segno della solidarietà e della pace, esempio di riconciliazione 

e rispetto reciproco, muove nella direzione di un’Economia consapevole 

del livello valoriale della società che le dà vita. Valori che rispecchiano

 quella che chiamo Economia della Bellezza. 

 

Il Sud è considerato, appunto, sinonimo di Bellezza, in virtù del suo patrimonio culturale, artistico, monumentale, paesaggistico, ma anche per la sua alimentazione, il gusto, il design e la moda. La ripresa deve partire da questo immenso patrimonio materiale unito a quello immateriale di Benessere, per un nuovo modello economico, di cui imprenditori e imprenditrici illuminate sono interpreti e protagonisti. Ritengo anche che, nella prospettiva di un mondo futuro dominato dalla tecnologia, si debba coltivare il fattore umano, riportando l’individuo al centro delle dinamiche produttive e riservando alle relazioni umane un posto di prim’ordine nelle strategie aziendali. Per noi, dunque, l’Economia della Bellezza si esprime con una cultura d’impresa che sa guardare lontano e che promuove comportamenti virtuosi sempre più attenti all’individuo e alla comunità, permeata delle specificità femminili di cura, visione dell’altro, “ricerca di senso”, coraggio, istinto ecologico, cultura, relazioni, solidarietà.

L’economia della bellezza che desideriamo promuovere, quindi, è anche
Economia del nuovo Umanesimo, che rappresenta la necessità
di favorire, nel concreto, una visione dell’umanità con una
prospettiva 
arricchente, migliorativa, inclusiva,


fatta di amore, cura, passione, sensibilità, ascolto: l’arte, il paesaggio, il cibo, la musica, la lingua coniugati con il saper vivere, con la capacità di entrare in sintonia, di creare relazioni empatiche, di esaltare intuito, creatività e abilità, cioè i talenti che ci contraddistinguono nel mondo. È un immenso patrimonio di ricchezza, un giacimento ancora quasi del tutto da utilizzare in tutte le sue potenzialità.

Una irripetibile pluralità che determina, nel suo insieme, quello “stile di vita” 

che il mondo intero ci invidia e tenta di imitare.

 

Un tesoro unico che ci appartiene e che abbiamo il dovere di proteggere e valorizzare, per vivere meglio il Sud di oggi e per lasciare ai cittadini di domani un Sud migliore; ma soprattutto per costruire subito nuove opportunità che consentano ai nostri “cervelli”, e in generale a giovani e meno giovani, di non essere costretti ad andar via, abbandonando. 

 

Questo Sud non può più attendere. Va riconosciuto, guardato con attenzione, raccontato con passione, per costruire prosperità. E dunque non solo pensando a quelle attrattive evidenti e generalmente riconosciute presenti nelle grandi città, come la mia Palermo, ma anche a tutti gli angoli più nascosti, e tuttavia non meno affascinanti, che costituiscono le caratteristiche riconnesse alle identità culturali e sociali tipiche delle piccole città e dei piccoli borghi.

Credere nell’Economia della Bellezza significa costruire un’identità 

competitiva per il Meridione,


contribuendo al rilancio del Paese e trasformando il suo straordinario potenziale in una risorsa strategica di sviluppo economico e sociale.

 

 

 

 

 

 

 

 

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LAMPEDUSA IL PESCATORE E SCHUBERT di Francesco Festuccia – Numero 11 – Luglio 2018

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LAMPEDUSA IL PESCATORE E ScHUBERT

 

E poi, ancora ingrandendo, ci si approda. Un punto piccolissimo, sembra uno scoglio buttato lì. Stringi ancora sull’immagine ed ecco Lampedusa. E poi, spostandosi ancora un po’, quel segno che guardando la mappa ci fa capire che siamo nell’estremo dell’Europa.

Ecco, partiamo da qui, in quel luogo dove ora c’ė la Porta d’Europa, 

un piccolo monumento in pietra, simulacro per i migranti, 

per tornare al 2001.


Lampedusa non era ancora nota come punto critico dell’accoglienza, ma si parlava solo di mare meraviglioso, selvaggio. Ci fermiamo per un attimo e in quel tempo per raccontarvi la meraviglia di una scoperta con un personaggio d’eccezione: il grande violinista Uto Ughi. 

 

Eravamo andati a Lampedusa per realizzare una lunga intervista che avrebbe poi fatto parte di un Tg2dossier. E qui il giornalista deve uscire dal suo ruolo, perché eravamo lì per cercare una bella location, un bello sfondo. Per poter raccontare questa grande emozione che ci colpì, noi volevamo solo che il Maestro dialogasse davanti a un’altra sua grande passione, oltre la musica: il mare. E lui era lì fuori stagione – era metà ottobre – perché lì poteva ancora fare il bagno e nuotare per tenere in allenamento il suo magico braccio. 

 

Ma lì, sulla barca, tirò fuori il violino e scosse la testa. “Non posso – disse – così all’aperto il suono si disperde. Dobbiamo tornare a riva e trovare un posto chiuso”. Mi prese un vero smarrimento. Eravamo con il Maestro in mare aperto, nel punto simbolico dell’estremo sud dell’Europa.

A quel punto guardai smarrito l’anziano pescatore che ci aveva portato fin lì. 

Il suo viso tormentato dai segni di mille battaglie in mare si illuminò. 

E mi sorrise. Disse qualcosa in lampedusano stretto. 

Forse “fazzu da me. Se firassi?” 


Cos’altro potevo fare? Il Maestro era impaziente e voleva tornare. Ma il pescatore calmo spostò la leva del comando del motore e puntò dritto. Lo guardammo perplesso, ma ora il vento era cambiato, avevamo superato quel punto più a sud d’Europa. E, come se fosse stato preso da un demone, continuò a ripetere sottovoce, accarezzandosi la sua barba bianca incolta, “se firassi”. Il mare si calmò e lì non tirava più vento, coperti dall’isola, e il ronzio del motore era sottofondo al nostro nuovo paesaggio.

La parte dietro, meno conosciuta e più inaccessibile di Lampedusa, 

perché da terra visto lo strapiombo non si può arrivare e per mare 

non è consigliato per chi non è esperto.


Basta un guasto, il vento e le correnti e in un attimo ci si trova in mezzo al mare che ci separa dall’Africa. 

 

Il nostro pescatore invece andava deciso, passando a pochi metri da quella roccia. “se firassi” mi disse ancora, con il viso ancora più illuminato, e ruotò la barca verso la roccia. Calò i giri del motore, poi lo spense. Ora ci stavamo accostando ancor più alla roccia e intravedemmo un passaggio. Borbottava, ancora, “se firassi, se firassi.” E fu la “meraviglia”. 

 

Entriamo piano, abbassando la testa, in una meravigliosa e inaspettata grotta. Il motore è spento e

la vecchia barca di legno scivola in quell’acqua azzurra illuminata, 

nel silenzio. Ci guardiamo, al pescatore si illumina il viso. 

Noi non possiamo che fare un “oh” di meraviglia.


E a qual punto il Maestro ci zittisce con un segno delle braccia. E poi comincia a battere le mani. Il suono rimbomba in maniera fantastica. E lui continua a battere le mani ritmicamente e il suo volto si illumina. Si ferma e ancora silenzio. Ricomincia a battere e dice qui c’è un’acustica perfetta, meglio che nell’auditorium di Vienna. Si piega sulla custodia di violino e tira fuori il suo strumento. Quasi per scusarsi dice: “Non è né il mio Stradivari e né il Guarneri…è un violino da combattimento che mi porto in viaggio per esercitarmi”. E cominciano questi straordinari momenti, Uto Ughi in maglietta e calzoncini lì in mezzo a quella grotta, sulla barca con il fondale accesso da una luce che arriva da un taglio di roccia, comincia a suonare un movimento di Schubert.

È un attimo e quella grotta si riempie di musica. Uto Ughi che suona senza fermarsi. Trasportato in un altro mondo con una ispirazione diversa dai soliti concerti.


Lì gli unici spettatori erano il pescatore che sembrava aver disteso le rughe del viso, l’operatore di ripresa che incredulo stava testimoniando qualcosa di irripetibile, e chi vi sta raccontando. E questa storia sembra tramutarsi in un miracolo laico, di quelli che poi fanno pensare alla grandezza e all’eternità dell’arte.

Ad un tratto cominciano a cadere delle piccole gocce, bagnano anche il violino


che il Maestro lasciando la musica un momento asciugava, con amore. Sembravano lacrime, forse di gioia, della grotta. Fui preso quasi da un’allucinazione: la musica celestiale di uno dei più grandi musicisti, il mare azzurro, la luce che entrava dal basso. Guardai il pescatore, mi disse ancora “se firassi”. Non è un miracolo. Sembrano lacrime, ma sono lacrime per noi. La chiamano a Lampedusa proprio la grotta delle lacrime.

È una grotta di cui nelle guide si parla poco o nulla, un fenomeno fisico dovuto all’umidità, gocce dal sapore dolce, come delle lacrime. Una storia quasi segreta, 

che viene raccontata da generazioni di pescatori, lacrime che arrivano 

dal profondo cuore di quel grande scoglio in mezzo al mare 

che è Lampedusa, oggi approdo per tanti migranti.


E magari di Lampedusa si parla per questo, o per l’isola dei conigli che è dalla parte opposta, ma non di questo anfratto selvaggio che è un piccolo capolavoro della natura, forse affascinante quanto la grotta azzurra di Capri, con un’acustica incredibile. 

 

Il maestro lo continuava a ripetere, lui non aveva mai suonato in una grotta, l’ha fatto e quelle lacrime di gioia cadevano anche su sul volto. “se firassi”, ci aveva detto il vecchio pescatore, facendoci credere in un miracolo. Sì, gli abbiamo creduto.

 

su Google Earth bisogna cliccare molto per arrivare ad intravedere quel puntino sperduto in mezzo al mar Mediterraneo, tanto al di sotto della Sicilia e tanto vicino alla Tunisia.

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BURRI A GIBELLINA IN CONTROLUCE di Alessandra Oddi Baglioni – Numero 11 – Luglio 2018

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BURRI              A GIBELLINA  IN CONTROLUCE

 

Una che ci vuole raccontare un Burri in controluce, un Burri dietro le luci accecanti che hanno illuminato le espressioni della sua arte. Un Burri vicino di casa, un Burri che siede alla stessa vostra tavola. Un Burri che vi prende per mano e vi spiega non la sua opera – perché quella lui non ha mai voluto spiegarla – ma vi spiega se stesso.

Eh già! Io Burri non l’ho conosciuto di persona, non l’ho conosciuto 

in carne ed ossa. Ma è un personaggio 

che mi ha sempre affascinato.


Ho cominciato piano piano ad avvicinare le persone che lo avevano incontrato, dapprima quelle ufficiali, poi gli amici, quelli delle partite di calcio, quelli degli appostamenti per la caccia. 

 

Al mio lavoro però mancava ancora un tassello, che per una donna è essenziale: mancava di parlare con chi aveva trascorso con lui le sere, con chi aveva condiviso gli attimi che rendono due esseri fusi in un solo pensiero. La moglie, l’enigmatica, l’estrosa Minsa, era morta. Altri con cui avevo parlato erano elusivi su questo tema. Finalmente un incontro ha da dato una svolta alle mie ricerche e, condotta per mano da una donna – anche lei grande artista, ho scoperto anche il cuore di Burri.

Pian piano mi si è ricomposto un mosaico; e credo di aver vissuto 

con la sua ombra, calpestato i suoi terreni, respirato la sua aria, 

addirittura mangiato ciò che mangiava lui: in una parola 

è come se avessi vissuto per sei mesi con la sua anima.


Ho cercato di raccontare “L’Umbrietà” di Burri, i suoi neri ed oro rispecchiavano i colori del rinascimento, le sue tele stracciate, l’estrema povertà della nostra terra, i territori aspri e difficili dell’alta valle del Tevere. Così, anche nel raccontare la sua presenza a Gibellina, ho voluto dare una immagine inusuale, convinta che la nostra Umbria, che pure è squassata continuamente dai terremoti, lo avesse segnato nelle sue decisioni.

Il più grande capolavoro europeo di land art poteva nascere solo 

da quella caparbietà che confronta l’uomo 

con la natura distruttrice.


Nel mio capitolo su Gibellina, estratto dal volume Controluce. Alberto Burri. Una vita da artista, edito da Donzelli, ho cercato di mostrare il momento in cui Alberto decide di occuparsi del territorio terremotato.

 

“Arrivai a Gibellina, alla nuova Gibellina, quella ricostruita a venti chilometri dal luogo della distruzione, nel primo pomeriggio, accolto dalla stella di Consagra. Una porta d`acciaio attraverso cui si intravedeva un cielo striato: la scultura sembrava impedire anche alle nuvole rosate di entrare in città. Diane aveva tanto insistito, Corrao mi chiamava quasi ogni giorno, ho dovuto accettare di andare almeno a fare un sopraluogo. Per fortuna c`era lei, Giovanna, l`unica in grado di capire l’angoscia che mi provocava quella desolazione: mi ricordava la guerra e la disperazione del dopoguerra. Ma lei con il suo sorriso, con le sue parole mi incoraggiava. 

 

Ero lì, seduto nella hall dell`albergo, incapace di muovermi, ma lei mi prese per mano, mi fissò negli occhi: «Pensa alla ricostruzione, a ciò che puoi fare per questa povera gente.» In quel mentre entrò Diane: «Andiamo, Zanmatti vuol farci fare un giro.» Vagammo per la città piena di cantieri. Ci fermammo nel portico del comune. Avevano voluto rappresentare la città ideale, e le ceramiche della Attardi richiamavano un colore rinascimentale, ma c`era qualcosa di discordante come un bellissimo pezzo musicale dove qualcuno stonava. Camminavamo in un immenso museo all`aperto, fuori dal tempo, vivo, ma la città… dov’era la città? 

 

Poi entrammo nella Chiesa di Quaroni. Mentre gli altri discutevano sulle rotondità della palla, io cercavo Dio in quel luogo, ma avevo l`impressione che se ne fosse tenuto lontano. L`avvolgersi su se stesso di quella palla non aveva nulla dello slancio verso il cielo dei miei campanili umbri. Diane cominciò a parlare con Giovanna: il gorgoglio delle parole rintronava nelle mie orecchie, uscii di scatto da quella chiesa alla ricerca di qualcosa di diverso. 

 

A cena dissi: «Basta andiamocene io non potrò mai intervenire in questo guazzabuglio, perché mi avete portato qui? Diane domattina ripartiamo.» Uscii infuriato, e Giovanna mi seguì mi prese per mano e cercò di calmarmi. Udimmo un leggero scampanellare e in fondo, di fronte alla montagna di sale di Paladino, da cui i cavalli spezzati cercavano invano di uscire, vidi passare un carretto siciliano luminoso nei suoi colori, tirato da un cavallo bardato a festa che faceva dondolare i campanellini dalle sue orecchie. Dietro di lui una processione di gente che cantava litanie, invocava la vergine e si dirigeva verso i luoghi della vecchia Gibellina, i luoghi spazzati via dal terremoto. Ci unimmo a loro, Giovanna stringeva sempre più forte la mia mano: in quel momento capii cosa volevo fare.

Gli occhi di quella gente che riflettevano il bisogno disperato di tornare 

alla loro Gibellina, che ormai era solo nei loro sogni mi aveva fatto venire un`idea. La mia opera avrebbe dovuto sorgere dove il terremoto aveva colpito, dalla rovina sarebbe sorto il simbolo della speranza, del futuro, di tutto ciò 

che sarebbe potuto accadere un giorno qui.


La mattina dopo mi diressi velocemente all`ufficio del sindaco: «Ho deciso, interverrò». Corrao tirò un sospiro di sollievo. Continuai: «Perimetreremo tutta la zona terremotata, la ricopriremo di cemento bianco lasciando emergere le vecchie vie. Farò in modo che dalle superfici bianche emergano i cretti.» Corrao impallidì: «L`idea è splendida, ma un`opera così colossale non posso affrontarla con le risorse modeste che mi sono state affidate.» Intervenne il mio angelo custode Diane: aprì una sottoscrizione internazionale, sollecitò gli emigrati denarosi: da tutto il mondo arrivarono i fondi. I lavori iniziarono alla fine del 1984 e continuarono per cinque anni.”

Dopo le importanti celebrazioni del grande artista Alberto Burri mi potrete chiedere cosa ci viene a dire una che Burri non lo ha conosciuto di persona.

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1 – A. Oddi Baglioni, Controluce. Alberto Burri. Una vita da artista, Donzelli Editore, 2015.

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MULTAQA: UN MEDITERRANEO OLTRE LE INCOMPRENSIONI di Giorgio Salvatori – Numero 11 – Luglio 2018

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MULTAQA: UN MEDITERRANEO OLTRE LE INCOMPRENSIONI

 

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e che sottintende la locuzione: “tra genti diverse”. Un punto d’incontro che si deve riportare al centro del Mediterraneo, ed elettivamente in Sicilia, terra di antichi approdi, di fecondi scambi economici e culturali, di osmosi di civiltà, a dispetto di un presente diverso, che si propone, quotidianamente, con immagini di diaspora umana e di conflitti etnici.

 

Una sfida, in ardita controtendenza, lanciata ad Agrigento dai rappresentanti 

delle tre grandi religioni monoteiste: Cristianesimo, Islamismo, Ebraismo, 

le stesse che hanno plasmato la vita dei popoli del bacino del Mediterraneo 

ed hanno contribuito a scrivere la storia e la cultura di tre continenti, 

Europa, Africa e, almeno in parte, dell’Asia.


Un ‘idea ambiziosa che ha come data di nascita il 1998, quando, nella città dei templi, si svolse il primo incontro sullo stesso tema e con lo stesso titolo: Multaqa, Mediterraneo di civiltà e di pace’’. L’iniziativa, oggi come allora, è di Emmanuele F. M. Emanuele, presidente e infaticabile animatore della Fondazione filantropica internazionale Terzo Pilastro. Utopia? Certamente, ma è dalle utopie che scaturiscono le metamorfosi possibili e auspicabili quando le rigidità sociali e culturali reclamano un cambiamento di rotta.

Non erano forse animati da una smisurata utopia uomini come Francesco d’Assisi, Ibn Arabi, Rumi, che, spiritualmente distanti dal furore delle “guerre sante’’ che, 

di lì a poco, sarebbero deflagrate tra regni cristiani e califfati islamici, 

si prodigarono per il dialogo, la comprensione, l’incontro, appunto, 

tra genti diverse per costumi, fede, etnia?


E perfino durante i conflitti più aspri, con il clangore delle spade in assordante crescendo, vi fu chi, come Federico II di Svevia, non rinunciò all’utopia della Multaqa da contrapporre al fanatismo e alla omologazione religiosa, economica e culturale del Mediterraneo se fosse prevalsa la dominazione di una sola corona o di un’unica tiara. Ed e’ proprio la distopia dell’oggi a rendere prepotentemente necessario, per gli uomini di buona volontà, ritessere le sottili trame del dialogo tra le genti del Mediterraneo.

 

Non deve perciò meravigliare se l’incontro di Agrigento si sia svolto con il rimbombo delle armi israeliane e delle proteste palestinesi lungo la striscia di Gaza o con l’eco del pianto incessante dei migranti in precaria navigazione verso l’Europa. Per nulla scoraggiati da questo drammatico contesto, ad Agrigento hanno riaffermato la comune volontà di dialogo, tra i popoli delle diverse sponde del Mediterraneo,

tre relatori d’eccezione: il Cardinale Giovanni Battista Re, vice Decano 

del Collegio Cardinalizio, il Rabbino Capo di Napoli, Ariel Finzi, 

l’Imam della Moschea di Ethem Bej, in Albania, Elton Karaj.


Proprio da quest’ultimo e’ giunto il messaggio più incoraggiante per le sorti delle genti del Mediterraneo. Karaj ha ricordato come dal 1912 convivano pacificamente in Albania i tre Credo prevalenti: Islamismo, Cattolicesimo ed Ortodossia, aggiungendo che per favorire un proficuo dialogo tra le religioni si incentiva costantemente un impegno accademico assiduo nelle facoltà di teologia. In precedenza, il Cardinale Re aveva affermato con vigore: “Quel Dio che ci ha creato non può essere motivo di contrasti tra le religioni: esse devono tutte cooperare per il benessere, il progresso, la pace e la cooperazione tra i popoli.

Ogni Credo ha le sue caratteristiche e dobbiamo essere fedeli alla nostra religione, ma allo stesso tempo e’ indispensabile avere fiducia e rispetto verso gli altri 

e salvaguardare la libertà altrui, questa e’ l’unica maniera 

per poter vivere insieme in armonia e serenità”. 


Il Rabbino Finzi ha preferito citare alcuni esempi illuminanti della lingua ebraica per affermare la stessa ineludibilità del dialogo e della comprensione tra le religioni. “Pace’’, ha detto Finzi, “si dice shalom nella nostra lingua ed ha la stessa origine di shalem, che significa completo. Una comune radice che rimanda al cuore del problema, il mondo non può essere ‘completo’ finché non regni la pace”. Finzi non si è soffermato ad analizzare le cause storiche e politiche delle aspre contrapposizioni che caratterizzano il confronto tra il suo Paese e le genti della Palestina; ha invece affermato che i fondamentali principi di democrazia e rispetto dei diritti umani cui si ispira lo Stato d’Israele includono anche le pari opportunità per le donne e l’accoglienza degli omosessuali. E in un contesto metapolitico come quello in cui si è svolto l’incontro di Agrigento non desta meraviglia che la cronaca degli scontri tra opposti fanatismi sia stata tenuta fuori dell’aula del convegno. 

 

Ha lucidamente osservato il Professor Emmanuele F. M. Emanuele, chiudendo i lavori, che “Oggi la pace è ancora lontana, ma lo sforzo che l’umanità e noi in primis dobbiamo fare è quello di perpetuare diritti e valori che sono alla base del concetto di civiltà…

L’osmosi tra le civiltà nate nel bacino del Mediterraneo ha generato sensibilità comuni che hanno edificato l’Occidente per influsso 

delle culture provenienti dall’Oriente.


La poesia, la letteratura, l’arte, ma soprattutto il concetto di democrazia, la primazia delle leggi e la religione fanno parte di quel patrimonio che e’ diventato ormai parte della civiltà mondiale”. Emanuele ha poi lanciato una proposta ambiziosa: “Da anni propongo la Sicilia come la Bruxelles degli Stati Mediterranei…si tratta di un sogno, ma continuo a lavorare affinché ciò accada. Con la Fondazione Terzo Pilastro abbiamo contribuito al restauro della Cattedrale di Sant’Agostino ad Annaba, in Algeria…, sostenuto un progetto di irrigazione nelle aree pre-desertiche di Nabeul, in Tunisia…creato corsi ad Aqaba-Eilat in cui bambini arabi e israeliani studiano insieme…realizzato una Fondazione per la Ricerca sul Cancro a Malta, siamo intervenuti in Siria con il progetto Ospedali Aperti a Damasco, siamo presenti in Spagna e in prospettiva anche in Grecia”. 

 

 “Il Meridione – ha concluso Emanuele – rappresenta la naturale cerniera tra mondi che si affacciano sul nostro mare, ad esso bisogna guardare con l’intento di riconoscersi come comunità capace di trasmettere valori importanti sulla pace e sul rispetto reciproco…La mia speranza è che questo luogo in cui la civiltà è nata possa tornare ad essere motore della rinascita di un mondo in cui i valori della reciproca comprensione possano trovare opportunità di germogliare’’.

 

 

 

 

 

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Photo by http://www.geographicus.com/mm5/cartographers/homannheirs.txt – This file was provided to Wikimedia Commons by Geographicus Rare Antique Maps, a specialist dealer in rare maps and other cartography of the 15th, 16th, 17th, 18th and 19th centuries, as part of a cooperation project., Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=14688526

 

PALERMO, PONTE TRA LE CULTURE di Lucia Gotti Venturato – Numero 11 – Luglio 2018

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PALERMO, PONTE TRA LE CULTURE

 

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Palermo, greca, romana, araba e normanna, crocevia delle culture del Mediterraneo era la capitale di un regno enorme. La città contava allora duecentocinquantamila abitanti quando Roma ne aveva soli trentamila. 

Le feste, le celebrazioni, i fasti e i personaggi di quegli anni non poterono essere ripresi da una telecamera, ma i più grandi artisti dei paesi vicini e lontani 

li hanno documentati,


e oggi ne sono testimonianze i mosaici della Martorana, i dipinti delle formelle del soffitto a mukarnas della Palatina, i più recenti mosaici del Duomo di Monreale e l’elenco potrebbe essere senza fine se si pensa all’intera Sicilia. 

 

L’arte si è evoluta nei secoli e così pure le sue forme espressive, ma gli artisti non hanno abbandonato la Sicilia; pittori, scultori, fotografi e soprattutto registi continuano a volersi misurare con l’arte, la storia e le tradizioni di questa terra. Ecco cosa scrive Win Wenders mentre sta girando Palermo Shooting e si trova in visita al Museo Abatellis ammirando il Trionfo della morte: “Sono entrato in un museo che stava all’angolo di dove vivevo e ho trovato la mia sceneggiatura in un dipinto sul muro di cinquecento anni prima, dove c’era tutto: la morte con le sue frecce, le persone spaventate e un fotografo che non aveva paura, anche perché lui è il pittore ed è praticamente lo stesso. Tutta la mia storia era già stata dipinta da un pittore sconosciuto a Palermo cinquecento anni fa. Ho ringraziato e ho pensato che questa fosse la mia sceneggiatura. Poi ho sentito altre storie sulla città e ho capito che la vitalità di Palermo era dovuta al fatto che conosceva così bene la morte. Quindi forse fare un film che avrebbe contribuito a ristabilire l’immagine della morte, non solo negli affreschi ma in generale, avrebbe aiutato non soltanto la città ma anche tutti quelli che avrebbero visto il film.” 

 

Palermo, che nel suo DNA riassume l’eredità del mondo, che geneticamente incarna il ciclo della vita dell’uomo, ci è parsa luogo ideale per ospitare il 

Sole Luna Doc Film Festival, un festival di documentari che si proponeva l’obiettivo di fare luce sulla condizione dell’umanità e di approfondire la conoscenza 

delle culture “altre”, di favorirne l’incontro, il dialogo, l’interazione, 

di costruire nuovi ponti da attraversare e di indicare nuove vie 

da percorrere in grado di avviare processi 

di amicizia e inclusione tra i popoli.

Un’intuizione felice che ha contribuito a farlo divenire negli anni, un luogo riconosciuto a livello internazionale, un’area di libero scambio intellettuale e artistico, una corte privilegiata dove si mescola il pubblico più eterogeneo,

composto da intellettuali e artisti ma anche da gente comune e da turisti, 

così come da giovani studenti e da migranti.


La forza del progetto si riscontra anche nella partecipazione di questi ultimi, giovani e adulti, uomini e donne che ancora aspettano di accedere a uno status e che sono alla ricerca di uno spazio, di un territorio che li accetti, li accolga, li consideri parte integrante della società civile. Al festival si sentono a casa, scoprono attraverso i film proiettati l’attenzione che viene data alla loro condizione, 

a volte nelle immagini riconoscono gli alberi, i colori, i cieli della loro terra d’origine, altre sono accolti con musiche, cibi e bevande dei loro paesi.


Il festival ebbe il suo esordio nel 2006 a Santa Maria delo Spasimo e negli anni è stato ospitato nei più importanti siti storici della città, alla GAM, ex Convento di Sant’Anna, a Palazzo Chairamonte Steri e ai Cantieri Culturali alla Zisa, ritornando l’anno scorso allo Spasimo dove saremo di nuovo accolti per la tredicesima edizione dal 2 all’8 luglio 2018, nell’anno in cui Palermo è capitale della cultura e in piena attività con la Biennale Europea itinerante Manifesta12. In questi 12 anni abbiamo avuto l’onore di lavorare con siciliani come Nino Buttitta, Francesco Alliata, Ludovico Corrao, con registi come Christopher Nupen, il premio Oscar Mark Peploe, Gianni Massironi, Nima Sarvestani, Mohammad Bakri, Eyal Sivan, Stefano Savona artisti di fama mondiale come James Turrell, Wael Shawky, Karim Said, personalità come Adama Dieng, Frederic d’Agay, abbiamo prodotto documentari e video-art. Abbiamo fatto buona scuola avviando percorsi formativi con alcuni licei palermitani, coinvolgendo i loro studenti nelle giurie e in programmi di alternanza scuola/lavoro. La tredicesima edizione confermerà l’eccellenza della manifestazione con un programma di anteprime nazionali e internazionali, che offriranno tanti nuovi spunti di riflessione, sia nelle rassegne in concorso che fuori concorso.

Riceveremo ospiti prestigiosi come Ingrid Rossellini e Nima Sarvestani, 

membri della giuria internazionale, tanti amici e abitué ci raggiungeranno 

dall’estero e dal resto d’Italia. Sarà un’occasione per tutti di ritrovare 

una Palermo in grande attività, che da Capitale della Cultura, offrirà 

il meglio della produzione artistica mondiale del momento. 


Anche Sole Luna Doc Film Festival, a modo suo e rispettando i temi cari al progetto, esporrà
Il Sacro degli altri, una mostra di fotografie sui diversi culti religiosi praticati in città, proporrà Renegotiating Identities, una selezione di Video-art di sul tema dell’identità rinegoziata, una installazione sonora Crossfade, e una performance del disegnatore Gianluca Costantini, Auto da fé, nelle celle dell’Inquisizione dello Steri. 

 

In occasione di Manifesta 12, che ha come tema “il giardino planetario”,

Sole Luna Doc Film Festival ha scelto come simbolo dell’anno 

il gelsomino di Sicilia il Jasminum grandiflorum,


e lo ha fatto riprodurre in maniera ecosostenibile da ArtFicial, un’azienda siciliana che realizza cloni di opere d’arte con gli scarti del mais. Questo fiore, originario dell’Asia Meridionale e del Nord Africa, ha migrato di terra in terra, raggiungendo i Grandi Laghi, lo Yunnan e il Sichuan, arrivando anche in Guinea, nelle Indie Occidentali, nell’America centrale e quindi in Italia. Per sottolineare questo suo itinerare nei secoli,

abbiamo dato il nome al nostro distintivo di “gelsomino migrante” e tutti noi, 

operatori, artisti, ospiti, lo indosseremo durante la settimana del festival 

e inviteremo il nostro pubblico a condividere con noi anche questo momento 

del nostro percorso comune. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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era presente la nobiltà, il clero, la diplomazia di tutto il mondo conosciuto: le tiare si mescolavano ai turbanti, molte erano le lingue parlate, dal latino all’arabo, dal greco al tedesco, dal francese all’ebraico

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SUD ETERNO MITO di Paola Pariset – Numero 11 – Luglio 2018

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SUD ETERNO MITO

 

 

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della cultura dell’Italia, della Grecia, dei popoli del Mediterraneo, è rimasta propria del mondo tedesco, persino con l’avvento della Rivoluzione industriale del secolo XIX. Gli architetti del Movimento Moderno, i creatori del Werkbund di Monaco nel 1914, Muthesius, Behrens, van der Rohe, e poi Gropius, accettarono sì i princìpi ideologico-estetici della produzione seriale, dell’utile senza l’ornato (“ciò che è funzionale è anche bello”), della standardizzazione, della typisierung: ma vedendo in ciò un’estetica pari a quella delle

Questione di punti vista. Anche ciò che può sembrare incontrovertibile, acquisito, indiscutibile, si presta talvolta ad interpretazioni alternative. Cos’è, ad esempio, il “Sud” se non l’esito di una delle possibili prospettive con le quali guardare al territorio? Per Myrrha, infatti, il Meridione geografico italiano è un polo di attrazione e non sinonimo di arretratezza culturale, così come, nei secoli scorsi, il Sud, considerato depositario della perfezione artistica ed estetica, coincideva con la città eterna – Roma – ove stili e forme rimanevano inalterati nonostante le traversie storiche. A conferma di ciò, una vicenda singolare che ha ispirato anche una pièce teatrale.    

(La redazione)

.

Ed a Roma, oltre che gli sconvolgenti monumenti archeologici e l’arte antica, c’era un avamposto tedesco straordinario, la casa di via del Corso 18 (oggi Museo), in cui aveva abitato per quasi due anni Wolfgang Goethe, nel 1786-88, durante il celebre Viaggio in Italia (poi diventato un libro-modello per l’Ottocento). Dopo la morte del poeta e drammaturgo, la casa è stata frequentata da intellettuali ed artisti e tuttora è sede di mostre a tema: dal 30 maggio 2018, ad esempio, essa ospita sino ad ottobre la mostra di R. Gschwantner, sulla Cascata delle Marmore e il porto di Traiano a Fiumicino, già mèta degli artisti del Gran Tour, a partire da Goethe. Ma, pur nella magica atmosfera della casa del poeta, un bel mattino del gennaio 1876, una coppia di ospiti tedeschi vi fu trovata morta nella propria camera. Ne riferisce il libro Via del Corso 18, Roma – Storia di un indirizzo di Dorothee Hock, mitica specialista del Museo Casa di Goethe a Roma, che in esso ha dato spazio e rigore documentario sia alla vita romana del grande tedesco che la abitò sia al “dopo”.

 

Ma torniamo alla tragica fine della coppia di Maximilian Schmidt e Luise Munstermann, morti nell’appartamento abitato da Goethe, lì dove lo spirito tedesco si era unito per sempre con l’eternità di quello greco-romano. Ad avvertire il potenziale drammaturgico dell’episodio, è stato il direttore artistico della stagione musicale della RomaTre Orchestra, Valerio Vicari, conquistato dalla vicenda narrata nel libro della Hock. Insieme con Giorgia Aloisio, ne ha redatto un testo teatrale, Amore e morte al Corso, andato in scena dapprima nel Museo Casa di Goethe nel maggio 2017, indi il 29 marzo scorso nel Teatro Torlonia presso via Nomentana. Guidati dalla accattivante ricostruzione di Valerio Vicari, ci chiediamo:

 

cosa spinse il maturo Schmidt, funzionario della Polizia di Stato tedesca, 

innamorato della figlioccia Louise, figlia di primo letto di sua moglie 

(che già gli aveva dato un bambino) a lasciare l’Alsazia per Roma, 

dove vivere un amore impossibile e morire 

nella casa che era stata di Goethe?


Furono l’amore per l’arte e la bella giovinezza di Louise, con la quale egli era fuggito lasciando la troppo rigorosa Germania: cosa ventilata dal Vicari sulla falsariga del libro di Dorothee Hock. 

 

Nei dialoghi, egli delinea molto bene i caratteri opposti della fanciulla, lanciata – nella sua irresponsabile felicità – fra i capolavori artistici di Roma, le immense Terme, i Musei, le pinete, le fontane, e del tormentato ex funzionario, che invece paventava lo scandalo generato dalla propria bruciante colpa. Intanto, in pochi mesi erano finiti i denari e avanzava la gravidanza di Louise. Vicari a questo punto – staccandosi dal testo della Hock – ha fatto leggere in scena il servizio del quotidiano romano “La Gazzetta della Capitale” del 25 gennaio 1876, che nella cronaca cittadina descriveva con commozione e pietà il ritrovamento dei due suicidi: la bionda giovinetta, biancovestita, sdraiata sul letto accanto al suo compagno in un abito scuro, che ne accentuava la durezza dei tratti del volto. Sul tavolo i calici, coi resti fatali di cianuro di potassio.

I due certamente non si sentivano di vivere oltre nella colpa, nemmeno nella conciliante Italia, dove pur si respirava la vita intramontabile della grecità.


Ma, più fortemente dei motivi sociali, in una giovane con un figlio in grembo, non doveva prevalere la volontà della vita sulla morte, verso cui l’innamorato decisamente la spingeva? La scelta invece fu di entrambi, poiché nella cronaca del predetto quotidiano non risultano segni di colluttazione: anzi le braccia di Louise, attorno al collo dell’uomo, sembrano indicare l’assolutezza di un amore, fino alla morte. Possibile mai, insomma, che una giovane incinta non difendesse la vita, soprattutto quella non più solo sua?

Ma infine il fascino e il di lei secondo amore per l’arte e per la sua culla nel Sud ebbero la meglio e le diedero il coraggio della morte.


Il cianuro comprato in Germania tempo prima (i cronisti ne lessero l’etichetta) rende indubbia la volontà dei due di togliersi la vita: né la casa di Goethe a Weimar bastò a persuaderli. Se il grande poeta era sceso a Roma per vivere l’arte sino in fondo, i due amanti ebbero bisogno di questo immenso aiuto, per morire insieme. 

 

E la Medusa Rondanini, simbolo immortale della “quieta grandezza” dell’arte greco-romana, in copia nella casa romana di Goethe, aleggiò sulla coppia di innamorati. E in un ultimo attimo, decise per loro.

 

 

 

 

 

 

 

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arti armoniche. Le quali riposavano ancora e sempre lì, nel modello greco, 

nel Sud e a Roma: già, perché se Paul Klee – giunto con la moglie in Liguria 

all’inizio del secolo – scriveva nei suoi Diari “Sono a Genova, sono nel Sud”, 

Roma era privilegiata terra “dove fioriscono i limoni”, 

il vero Sud tanto vagheggiato

 

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CORTE BORBONICA E “REAL CACCIA” DI PERSANO di Nadia Parlante – Numero 11 – Luglio 2018

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corte borbonica        e “real caccia”  di persano

 

Quella distesa verde e infinita, tanto ricca di selvaggina da fare invidia a qualsiasi altra, situata tra due fiumi, il mare e la città di Paestum, doveva essere sua. Ad ogni costo. Entrarne in possesso dal duca delle Serre, non fu cosa facile né veloce ma alla fine vi riuscì. 

 

A quel tempo, la piana del Sele, se pur caratteristica e selvaggia, era una landa acquitrinosa e malarica, isolata dai commerci e dalla capitale. Il sovrano vi fece edificare un sontuoso ma sobrio palazzo di caccia ed esso era stato appena terminato, che dovette lasciarlo. La morte del fratellastro lo richiamava sul trono di Spagna mentre affidava quello napoletano al terzogenito Ferdinando, di appena otto anni. 

 

Il distacco dal suo regno fu molto difficile per Carlo e lo fu ancor di più perché vi lasciava incompiute le sue riforme antifeudali e anticlericali oltre alle sue “reali delizie” di caccia, in primis Persano. Nel suo carteggio settimanale con il fidato primo ministro Tanucci, che aveva affiancato al figlio per aiutarlo a governare,

il re non mancava mai di informarsi di questo sito e della razza di cavalli 

che proprio qui si allevava. Arrivò più volte a definirlo un luogo unico 

ed era certo, anzi certissimo, che in tutto il mondo 

non ne esisteva un altro uguale.


Per permettere alla corte di raggiungere agevolmente Persano (e di conseguenza Paestum), il re fece costruire nuove strade e nuovi ponti di cui le comunità locali poterono usufruire uscendo finalmente dall’isolamento atavico e feudale nel quale vegetavano apatici da secoli. Di contro però, egli si appropriò in maniera esclusiva del bosco, del fiume e delle sue ricchezze, fonte di sostentamento per le popolazioni viciniori, i cui miseri raccolti venivano costantemente distrutti dai cinghiali e dagli altri animali selvatici della riserva. Militari e guardiacaccia le presidiavano di giorno e notte e frequentissimi furono gli scontri con i cacciatori di frodo locali che entravano nel bosco e nel cosiddetto “miglio di rispetto”.

 

Se la passione di Carlo per la caccia fu certamente la prima ragione 

della nascita di Persano, è fuor di dubbio che questo luogo, 

a differenza di altri siti reali borbonici, 

fu una corte “decentrata” 


a tutti gli effetti e svolse pertanto molteplici funzioni militari, amministrative, rituali. Prima fra tutte, il controllo militare di un territorio vastissimo a sud di Salerno, fino a quel momento preda dei grandi feudatari locali sul quale il re ora rivendicava il potere e l’ubbidienza alla corona. Inoltre, la vicinanza ai magnifici templi dorici di Poseidonia, da poco riscoperti e valorizzati, originalissimo patrimonio personale del re di Napoli, permetteva al sovrano, alla sua corte e alla diplomazia internazionale di far sfoggio di rarità archeologiche uniche e distintive del grande regno dei Borbone di Napoli.

 

Tra faraoniche cacce al cinghiale e suggestive colazioni all’aperto allestite 

nelle rovine di Paestum, alla presenza di imperatori, principi e ministri, 

furono celebrati importanti avvenimenti, stipulati trattati, strette alleanze 

che ebbero ripercussioni sull’Europa intera. 


Lo studio comparato dei documenti d’archivio conservati presso gli archivi torinesi e campani, unito all’indagine degli immensi epistolari tanucciani e carolini, ha permesso di tracciare un profilo dettagliato del sito, del palazzo e dei suoi abituali frequentatori, restituendone una visione europea, in grado di ridefinire la sua effettiva funzione all’interno della complessa rete amministrativa e simbolica dei siti reali dei Borbone. 

 

Attualmente, il palazzo della Real Caccia ospita il “Reggimento Logistico Garibaldi” ma grazie alla disponibilità del comando militare, appare sempre più disposto ad aprirsi al pubblico, per mostrare le sue originalità architettoniche, storiche ed artistiche che nel XVIII secolo, ne fecero uno dei luoghi più amati ed apprezzati dei Borbone di Napoli e di Spagna.

 

 

 

 

 

 

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Quando il giovanissimo Carlo di Borbone, da poco diventato re di Napoli, vide l’immenso bosco di Persano ne rimase assolutamente affascinato.

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1 – Ed. Studi Storici Il Saggio, Castellabate 2018

 

NUNZIATELLA PRIMATO NAPOLETANO IN EUROPA di Alessandro Montone – Numero 11 – Luglio 2018

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NUNZIATELLA PRIMATO NAPOLETANO IN EUROPA            

 

“La “Nunziatella” è il cuore pulsante della formazione militare nel cuore di Napoli, una organizzazione viva e vitale, eccellenza italiana apprezzata anche all’estero, per la quale stiamo pensando ad un futuro che parla d’Europa” Così il Ministro della Difesa Roberta Pinotti il 18 Novembre scorso a Napoli in occasione del 230° anniversario dalla fondazione di questa famosa scuola. 

 

Infatti tra le proposte di cooperazione rafforzata in Europa c’è quella avanzata proprio dal nostro Ministro che ha candidato la “Nunziatella” a polo di formazione per gli ufficiali europei “unendo così la difesa del futuro con la sua tradizione più nobile”. E dal Presidente del Casd (Centro Alti Studi per la Difesa) il Generale Del Casale, è giunta una conferma meno sfumata:

 

Il progetto Grande Nunziatella sarà una scuola militare europea sotto il controllo operativo del Casd”. Una scuola militare italiana, per essere più chiari, 

molto antica ed estremamente allettante per la futura formazione 

dei giovani cadetti del vecchio continente.


Ma come si è formato questo saldo prestigio convalidato dal recente progetto europeo? 

 

“Preparo alla vita e alle armi” è il motto che compare dal 1937 sullo stemma araldico della Scuola Militare Nunziatella, Nata nel 1787 con il nome di Reale Accademia Militare e, da allora, fucina di famosi uomini d’arme e di ottimi professionisti. Ha sede nel “Rosso Maniero” sulla collina di Pizzofalcone, proprio dove nel VIII° secolo a.C. nacque “Parthenope”, l’originario nome greco del primo nucleo abitativo della città di Napoli! La possente struttura affonda le sue grosse arcate di sostegno nella roccia tufacea, “…in faccia a Capri, con ai piedi il mare e a sinistra la costiera di Sorrento. È ben difficile, almeno in Europa, che si possa trovare un punto simile”. Così descriveva il luogo Wolfang Goethe quando si recò a Napoli agli inizi del 1787, proprio pochi mesi prima che Ferdinando IV di Borbone vi fondasse la “Reale Accademia Militare”. Così, dal rimaneggiamento del vecchio convento sede del Noviziato dei Gesuiti che si affiancava alla splendida chiesa barocca della “Nunziatella”, come i napoletani della zona chiamavano la chiesa della “Santissima Annunziata”, nacque l’imponente costruzione che dal monte Echia guarda al centro del golfo di Napoli con l’aspetto di una fortezza inespugnabile.

Dalla sua fondazione ad oggi ha attraversato oltre due secoli di storia d’Italia, anch’essa restando coinvolta nei mutamenti militari e socio culturali legati all’alternanza di dominazioni, regimi e governi diversi:


dai Borboni alla Repubblica Napoletana, da questa a Bonaparte e di nuovo ai Borboni, e passando per Garibaldi, i Savoia, la I^ guerra mondiale, il ventennio fascista, la II^ guerra mondiale, è giunta ancora vitale e attiva nell’Italia repubblicana di oggi. Cambiò quindi più volte nome: “Reale Accademia Militare”, “Real Convitto Militare”, “Reale Accademia Militare”, “Scuola Reale Politecnica e Militare”, “Real Collegio Militare”, “Collegio Militare di Napoli” e finalmente “Scuola Militare Nunziatella”. Cambiarono gli stemmi araldici, cambiarono i motti e le divise ma la Scuola continuava nel suo compito educativo: anche dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 la Nunziatella rimase l’unica Scuola Militare consentita. I giovani al suo interno, ieri come oggi, militarmente irregimentati (costituiscono infatti il I° Reggimento d’Italia, onore che consente loro di aprire la sfilata del 2 Giugno a via dei Fori Imperiali a Roma) sono da sempre liberamente istruiti ai valori di Patria e Libertà. Tanti i famosi insegnanti che contribuirono alla libera formazione intellettuale dei giovani allievi, uno per tutti: Francesco de Sanctis! 

 

I giovani allievi, sin dalla fondazione della Scuola e secondo l’indirizzo del suo primo comandante Generale Giuseppe Parisi, dovevano “…essere anche introdotti alle scienze filosofali per rassodarli nel raziocinio e formarli nella coscienza dei propri doveri e nel sistema sociale e politico.”

La libertà di pensiero e la formazione del carattere furono sempre le costanti 

nella vita dei giovani allievi, tant’è che “… per l’assolutismo borbonico, 

la Scuola, fu un vero cavallo di Troia, dal quale uscirono alcuni 

tra i combattenti più ardenti di libertà ed italianità,

 

quali furono Guglielmo Pepe, Pietro Colletta, Mariano D’Ayala, Enrico Cosenz, Carlo Pisacane…” come scrive il generale Tito Battaglini nella sua “L’organizzazione Militare delle Due Sicilie” (Modena 1940). Persino durante la guerra per l’unità d’Italia, nel 1860, i suoi allievi in armi si schierarono su fronti avversi, alcuni favorendo o partecipando attivamente alla cacciata dei Borboni, altri fedeli al re, morendo per la sua difesa nell’assedio di Gaeta. 

 

Sempre molto alto fu il contributo di sangue versato dai figli della “Nunziatella” in tutti i conflitti e tante le prestigiose onorificenze loro attribuite: 38 medaglie d’oro, 490 d’argento, 414 di bronzo al Valor Militare; 1 medaglia d’oro al Valor Civile. Tante le importantissime cariche da loro ricoperte: 18 Ministri, 14 Senatori, 14 Deputati, 4 Presidenti del Consiglio, 1 Presidente Corte Costituzionale, il I° Presidente Nazionale Antimafia, un candidato al Premio Nobel, un premio Oscar. E ancora: 2 Capi di Stato Maggiore della Difesa, 2 dell’Esercito, 2 della Marina ed 1 dell’Aeronautica, 3 Comandanti dell’Arma di Finanza, 2 Comandanti dell’Arma dei Carabinieri e 14 Vicecomandanti, 4 Dirigenti Generali dei Servizi di Informazione. Molti altri ancora sono famosi nei più disparati campi, dallo spettacolo alla alta finanza, dalle docenze universitarie alle grandi costruzioni, dal design automobilistico a dirigenze di prestigiose aziende e a brillanti carriere militari. I più blasonati: Vittorio Emanuele III° Re d’Italia e Amedeo Duca d’Aosta. Anche l’allievo Vittorio Emanuele di Savoia come l’allievo Amedeo di Savoia-Aosta, allora come oggi e come gli allievi prima di loro, si alzava ogni mattina all’alba al suono della tromba per iniziare la faticosa giornata fatta di ordine e disciplina, corse e adunate, studio e addestramento ginnico e militare; poco il tempo per rilassarsi, poche le ore di libera uscita! 

 

Eppure allora come oggi,

ogni anno sono migliaia le domande per partecipare al concorso di ingresso 

alla Scuola che, dopo una severa selezione, apre le porte 

a circa 90 giovani quindicenni vogliosi di crescere.

 

Tre anni di Liceo Classico o Scientifico, da trascorrere insieme nelle aule, nelle camerate, nelle palestre, dando il meglio di sé nello studio, in ogni disciplina sportiva praticata e in ogni addestramento militare. Così sino alla “Maturità”, il bivio della scelta: proseguire con la carriera militare o dedicarsi ad attività professionali in ambito civile? Scelte senz’altro impegnative ma effettuate in piena consapevolezza, dopo i tre anni trascorsi alla Scuola. Scuola che dall’ 8 Settembre 2009, dopo anni di indecisioni, aderisce anch’essa alle “quote rosa” concedendo l’ingresso al gentil sesso. Quell’anno superarono le prove di ammissione le prime 13 allieve, prime di una crescente schiera.

 

Il 22 Febbraio 2012 l’Assemblea Parlamentare del Mediterraneo dichiarava 

la Scuola Militare Nunziatella “Patrimonio storico e culturale 

dei Paesi del Mediterraneo”.

 

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un’eccellenza del Sud e futura eccellenza in Europa!

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