BIOECONOMIA: UNA SFIDA PER IL MEZZOGIORNO di Piergiuseppe Morone e Francesca Govoni – Numero 8 – Luglio 2017

cat-economia
cat-ambiente

Come converrebbe la maggior parte degli storici, la prima fondamentale transizione si è verificata più di 10 mila anni fa quando l’Homo sapiens si è trasformato da cacciatore-raccoglitore in agricoltore e il genere umano ha imparato a coltivare e ad addomesticare gli animali. Questo è stato lo sviluppo più significativo nella storia dell’umanità, sviluppo che ha rappresentato uno spartiacque tra il Paleolitico e il Neolitico – spianando la strada ad una nuova era, a partire dalla quale la relazione umana con le risorse naturali sarebbe cambiata per sempre.

 

Da allora, molte altre rivoluzioni si sono verificate nella storia dell’umanità
e le grandi innovazioni, spesso insieme a nuovi modi di sfruttare
le risorse naturali, hanno indirizzato il cambiamento.

 

Passando dall’età del legno a quella del carbone, siamo entrati – quasi un secolo fa – nell’età del petrolio. Tale era, caratterizzata da un forte aumento in termini di ricchezza e di opportunità e da modelli di produzione e di consumo di massa, sta probabilmente volgendo al termine: la sostenibilità di questo modello, infatti, risulta fortemente minacciata dalle grandi sfide del nostro secolo.Più nello specifico, la popolazione mondiale, attualmente pari a circa 7,5 miliardi di persone, è destinata ad aumentare di quasi un miliardo entro il prossimo decennio e raggiungere i 9,6 miliardi entro il 2050. Al contempo, le grandi economie in rapida crescita (come Cina e India) diventeranno sempre più ricche e la classe media mondiale arriverà a triplicarsi entro il 2030 (la maggior parte di questa crescita sarà concentrata nei paesi in via di sviluppo). Per mettere questi trend in prospettiva, entro il 2030 i paesi asiatici rappresenteranno oltre il 65% della classe media mondiale, rispetto all’attuale 35%.Un effetto importante che scaturisce da questi trend è

 

l’aumento del consumo e della domanda di generi alimentari, di beni manufatti e delle fonti di energia. Tali circostanze determineranno
un aumento della pressione sul sistema economico e ambientale
mondiale attraverso almeno tre canali:

 

(1) le emissioni di gas a effetto serra (GHG), (2) la sostenibilità degli elementi chimici presenti sul nostro pianeta e (3) la gestione dei rifiuti prodotti dall’uomo.

 

In primo luogo, l’aumento in termini numerici della popolazione condurrà ad una maggiore richiesta di energia

 

(necessaria, tra le altre cose, per sostenere la crescente domanda nei settori dei trasporti, del manifatturiero e del settore agroalimentare), con conseguente incremento delle emissioni prodotte dall’impiego di combustibili fossili. Un ulteriore effetto negativo del trend in esame passa attraverso l’impiego delle aree verdi naturali: l’aumento della domanda di generi alimentari determinerà, infatti, uno sfruttamento sempre maggiore di tali aree, con conseguente intensificazione della deforestazione.

 

L’accelerazione prevista nella crescita della domanda mondiale comporta, inoltre, un’altra necessità: preservare la sostenibilità degli elementi chimici presenti sul nostro pianeta

 

al fine di garantire alle generazioni future le stesse opportunità di sviluppo dell’attuale generazione. Sebbene l’effetto più immediato dell’esaurimento di tali elementi sarebbe quello di una riduzione dei beni potenzialmente producibili, tale fenomeno ha delle rilevanti ricadute anche sul ciclo del carbonio, poiché molte tecnologie verdi (ad esempio le tecnologie legate allo sfruttamento dell’energia solare) utilizzano proprio questi elementi a rischio esaurimento.

 

Infine, l’aumento generalizzato dei consumi è associato ad un forte aumento della produzione di rifiuti.

 

Questa potrebbe raddoppiare entro il 2025 e, nonostante lo sforzo intrapreso dalla maggior parte dei Paesi OCSE, il volume dei rifiuti potrebbe aumentare ancora fino al 2050 a causa del cambiamento nella composizione della popolazione mondiale legato al progressivo fenomeno di urbanizzazione.Va a ciò poi aggiunto come i pur significativi sforzi intrapresi da molti Paesi ad alto reddito, rivolti a ridurre la produzione dei rifiuti, siano spesso in gran parte vanificati dalle tendenze esistenti nell’Asia Orientale (la regione a crescita più rapida del mondo per rifiuti). Basti pensare alla produzione di rifiuti solidi in Cina, destinata a passare da 520/550 tonnellate al giorno nel 2005 a 1,4 milioni di tonnellate al giorno nel 2025.

 

Alla luce di queste considerazioni, appare necessario intraprendere un percorso di cambiamento che si inserisca nel solco di una necessaria quanto opportuna transizione da una società basata sul consumo di massa, sulla produzione incontrollata di rifiuti e sullo sfruttamento dei combustibili fossili, ad una società caratterizzata, invece, dalla riduzione e valorizzazione 

dei rifiuti e da nuovi modelli di produzione e consumo.

 

Questo cambiamento tocca le corde più sensibili del nostro il tessuto sociale ed istituzionale e va oltre il mero cambiamento tecnologico. Di conseguenza, la questione da affrontare è se questa transizione sia realizzabile nel prossimo futuro e quali passi possono essere efficacemente intrapresi per portare tale transizione a compimento.

 

Come evidenziano gli studiosi della transizione, tre condizioni devono essere soddisfatte simultaneamente affinché possano realizzarsi grandi cambiamenti:

 

(1) le nuove tecnologie che sostituiranno le tecnologie preesistenti devono aver raggiunto un adeguato livello di maturazione e devono essere economicamente vantaggiose; (2) un numero significativo di attori (produttori, consumatori, policy makers, opinion leaders, etc.) devono condividere alte aspettative sul futuro della nuova tecnologia e sulla transizione in atto; (3) i principali stakeholders operanti nella società civile devono attivamente esercitare pressioni per il cambiamento. La coesistenza di queste tre condizioni rende possibili i cambiamenti di paradigma. Ma dove si inserisce l’Italia ed il Mezzogiorno in questa traiettoria del cambiamento? Il processo di transizione rappresenta senz’altro una sfida stimolante per l’Italia, dove è stata proprio l’industria, attraverso i suoi principali players (tra i quali Novamont, Mossi Ghisolfi, ENI-Versalis, ed il connesso indotto popolato da imprese di piccola e media dimensione attive nel settore dei biopolimeri e dei chemicals), a guidare il cambiamento portando avanti una tradizione di collaborazione con il mondo della ricerca. Basti pensare al caso di Matrica, una joint venture paritetica costituita proprio da ENI-Versalis e Novamont al fine di 

 

riconvertire lo stabilimento petrolchimico di Porto Torres in una bioraffineria integrata nel territorio per la produzione di prodotti ad alto valore aggiunto utilizzando anche feedstock di seconda generazione.

 

Un progetto, questo, dal grande impatto non solo ambientale, ma anche economico e sociale. La riconversione di siti petrolchimici ormai dismessi in bioraffinerie è la strada che si è seguita anche a Marghera e che si vuole seguire a Gela.

 

In questo contesto il Mezzogiorno può trovare nuovi stimoli alla crescita
che si concilino con la sostenibilità ambientale, economica e sociale. 

 

Proprio a Gela, la crisi del settore della raffineria tradizionale si è riversata sul territorio locale, con conseguenze pesanti a livello di occupazione che hanno accentuato gli effetti della grave recessione economica mondiale. 

 

Ripartire dalla bioeconomia è una concreta possibilità: con il Protocollo d’Intesa siglato nel 2014, Eni ha avviato un processo di trasformazione 

del sito industriale in una green refinery,  

 

dove dovrebbero essere prodotti biocarburanti utilizzando non solo olio di palma grezzo di importazione, ma anche oli esausti di cottura e grassi animali. E’ inoltre auspicabile, nel processo di transizione di cui si tratta, l’annunciata realizzazione di un impianto pilota per la trasformazione della frazione organica dei rifiuti solidi urbani del territorio in bio-olio. In questo modo, non solo si avrà a disposizione una quantità maggiore di feedstock da trasformare in bio-olio, ma si fornirà un supporto concreto alla valorizzazione del food waste locale. Tutti questi virtuosi processi di conversione lasciano presagire un’accelerazione nel settore della bioeconomia, che potrebbe essere ulteriormente facilitata da interventi mirati dei policy makers nella politica industriale, con ricadute positive sulle economie locali e su di un tessuto sociale altrimenti avviato ad una pericolosa disgregazione. 

 

La bioeconomia, dunque, può divenire un nuovo driver di sviluppo 

del Mezzogiorno: un’opportunità, questa, che i policy makers 

non possono sprecare.

 

LA_STORIA_DEL_GENERE_UMANO

BIOECONOMIA: UNA SFIDA PER IL MEZZOGIORNO

 

simbolo-palline-azzurre
MORONE2
GOVONI2

 

LA MANNA DAL SUD di Viviana Meloni – Numero 8 – Luglio 2017

cat-ambiente
cat-storia
cat-economia
La manna dunque fece il suo ingresso nella storia come cibo celeste e dono divino, caricandosi da subito di una spiritualità che l’accompagnerà sino ai giorni nostri come simbolo dell’alleanza tra l’uomo in cammino e Dio che si prende cura di lui. Durante l’attraversamento del deserto la manna cadeva abbondante ogni giorno e gli Ebrei, come racconta il sedicesimo libro dell’Esodo, la raccoglievano “ciascuno secondo il suo bisogno”. Al mattino del sesto giorno ne cadeva il doppio, perché il settimo giorno – lo Shabbat, istituito proprio la prima settimana di caduta della manna – gli Ebrei dovevano rispettare il riposo. Tuttora nelle case ebraiche, quando si prepara il cibo per il sabato, si cuociono due pagnotte, chiamate Challot, che vengono riposte fra due panni di cotone uno sopra e l’altro sotto per ricordare lo strato di brina che ricopriva al mattino la manna nel deserto.
 
 Oggi, anche senza levare gli occhi al cielo, è possibile visitare un luogo dove si trova questo alimento preziosissimo. E’ il Parco delle Madonie, in Sicilia, alle spalle di Cefalù e a un golfo di distanza da Palermo: dal tronco dei frassineti che vi crescono si estrae la manna sin dai tempi della dominazione araba, tra il nono e il decimo secolo.
 
Da allora la coltivazione dei frassineti si estese in tutte le regioni del centrosud fino ai monti della Tolfa nel Lazio e alla Maremma, e nel 1500 vi venne imposto un dazio doganale per aumentare le entrate del Regno. Oggi invece la manna si raccoglie solo in Sicilia, tra Pollina e Castelbuono, Cefalù e San Mauro, Geraci e Isnello. Ormai la superficie coltivata è ridotta e in pochi praticano l’antico mestiere dello “Ntaccaluoru”. La manna è dunque la linfa estratta dalla corteccia di una varietà di frassino chiamato Orniello. Il frassinicoltore attende che la pianta entri nel periodo di quiescenza estiva fino a spingerla allo stress idrico quando il terreno completamente asciutto si stacca dalle radici e le foglie verdi cominciano a virare verso il giallo. Quello è il momento per la prima incisione che viene praticata a circa dieci centimetri da terra con un coltello chiamato “mannaruolu”. Dalla metà di luglio alla fine di settembre, ogni mattina, si fanno le “ntacche” a distanza di un paio di centimetri l’una dall’altra: 
 
 dai tagli fuoriesce una melata azzurrina prima amarognola e poi dolce che, a contatto con l’aria e al sole della Sicilia, diventa bianca 
e prende la forma di piccole stalattiti, o cannoli.
 
La manna a cannolo è la più pregiata perché priva di residui. Poi c’è la manna in sorte (o manna di pala) che è quella che si va a depositare sulle pale di ficodindia disposte alla base del tronco. E per finire la manna rottame che scorre lungo la corteccia e viene staccata con la “rasula”. I cannoli di manna vengono messi ad asciugare, prima, all’ombra e, poi, al sole su degli stenditoi per far loro raggiungere il giusto grado di umidità. Infine, viene inscatolata in appositi contenitori di legno riposti in luoghi asciutti e pronti per la vendita.
 
 Le proprietà curative della manna erano conosciute sin dai tempi 
della scuola di medicina di Salerno.
 
Essa è in primo luogo un blando lassativo privo di effetti collaterali e molto indicato in età pediatrica. A differenza della senna (o cassia) contenuta in tutti i lassativi in circolazione – che alla lunga può causare problemi anche seri – la manna agisce contro la stipsi attirando acqua nell’intestino e facilitando dunque lo svuotamento del colon. E’, poi, un regolatore e rinfrescante delle vie intestinali in quanto è in grado di purificare l’apparato digerente da tossine, parassiti intestinali e residui di cattiva alimentazione. E’ un fluidificante emolliente, sedativo della tosse e un dolcificante naturale a basso contenuto di glucosio e fruttosio indicato per i diabetici. La manna si assume a pezzetti, sciogliendoli in bocca oppure diluendoli in una tisana o nel tè.   
 
Dal 2002 la manna è dal un Presidio Slow Food con un proprio disciplinare di produzione che ne garantisce la provenienza e la qualità. 
 
La “Manna eletta delle Madonie” rientra nell’elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali del ministero delle politiche 
agricole e forestali.
 
Il Presidio coinvolge sette produttori che usano il moderno sistema del filo di nylon su cui cola la manna, novità introdotta nella metà degli anni ‘80 che ha rivoluzionato la tecnica di raccolta consentendo di ottenere molto più prodotto puro di quando gran parte del raccolto scendeva lungo la corteccia riempiendosi di numerose impurità. Oltre ai sette produttori del Presidio, ce ne sono altri, qualche decina, fra cui parecchi anziani che lavorano alla vecchia maniera. Il raccolto complessivo è di 300-400 chili all’anno. Il presidio ha aiutato i produttori anche nella vendita diretta che prima non era possibile in quanto l’intero prodotto veniva conferito alla grande industria senza possibilità di contrattare sul prezzo. Per avere un’idea: il costo della manna-cannoli è di 16 euro per 50 grammi e di 8 euro per 20 grammi di prodotto. La manna da drogheria invece ha un prezzo di 18 euro circa per 100 grammi. 
 
 La manna è leggera e se ne produce un chilo con tre o quattro piante a stagione. Profuma di macchia mediterranea, ha un gusto fra il dolce 
e il lievemente amaro con un retrogusto di mandorla o miele 
e un colore tra il bianco e il giallo caramello a seconda 
del cultivar e del terreno.

Con la manna si fanno dolci, liquori e saponi (una importante casa cosmetica francese la impiega come componente della crema per le mani). Interessante è poi il suo impiego in cucina: nei ristoranti di Castelbuono si può gustare il filetto di maialino nero in crosta di manna con mandorle e pistacchi. Il pasticcere siciliano Nicola Fiasconaro, circa 20 anni fa, ha creato il Mannetto, dolce molto particolare ricoperto di una candida glassa di manna. Provare per credere. 

 

MANNA

LA MANNA DAL SUD

 

vivianameloni

 

Ma cos’è la manna? Se lo chiesero – “Man Hu?” letteralmente in ebraico: “cos’è?” – anche gli Israeliti in fuga dall’Egitto verso la Terra Promessa quando videro cadere dal cielo quel cibo sconosciuto che Dio aveva mandato loro per sfamarli e che da allora fu chiamata, appunto, “ManHu”. 

Ondine-F-Pag-Verdi
melata_di_stelle

 

IL SAN CARLO. NAPOLI CAPITALE DELLA MUSICA di Antonio Lopes – Numero 8 – Luglio 2017

Teatro di San Carlo, lavori di ristrutturazione ago.2008 - gen.2
cat-arte
cat-storia

 

 

IL SAN CARLO. NAPOLI CAPITALE DELLA MUSICA

 

Antonio_Lopes

 

Se Venezia aveva visto l’opera uscire dalle corti e diventare 

un fenomeno commerciale, il più importante centro musicale in Italia 

per tutto il XVIII secolo fu Napoli e, almeno fino a metà del XIX secolo, insieme a Vienna e Parigi, una delle grandi capitali 

della musica in Europa.

 
Napoli per tutto questo periodo è stata certamente la più grande città italiana, più grande di qualsiasi altra città europea eccetto Londra e Parigi, una città ampiamente cosmopolita. Nel 1734, un principe dei Borboni spodestò gli Austriaci e ristabilì l’egemonia della sua casata su tutta l’Italia meridionale, dove regnò con il nome di Carlo III. Uno dei primi provvedimenti del nuovo sovrano fu l’edificazione, nel 1737, del Teatro San Carlo su progetto di Giovanni Antonio Medrano. Il teatro, che può attualmente ospitare più di 2500 spettatori tra la platea, i cinque ordini di palchi e una galleria sovrastante, è il più antico teatro lirico attivo in Europa. La splendida sala, originariamente rivestita in azzurro con decorazioni in oro (i colori dei Borboni), suscitò subito molta ammirazione e meraviglia tra i tanti visitatori stranieri che ebbero modo di assistere agli spettacoli organizzati sempre con grande sfarzo.
 

Il compositore inglese Charles Burney, amico dell’Ambasciatore inglese Lord Hamilton (la cui moglie era stata l’amante dell’ammiraglio Nelson), scrive, nel suo “Viaggio musicale in Italia” del 1770, che “il teatro era sfarzosamente illuminato e incredibilmente affollato di un elegante pubblico […], le candele dei palchi riflesse dagli specchi 

e moltiplicate dalle luci del palcoscenico producevano 

un splendore abbagliante per gli occhi”.


Da quando il San Carlo aprì i suoi battenti, si affermò come il più importante teatro d’opera europeo, tenuto conto che la città che lo ospitava era, a sua volta, con i suoi quattro importanti conservatori risalenti al XVI secolo, una capitale della musica in Europa.   
 
Per tutto il XVIII secolo e per la prima metà del successivo, Napoli rappresentò un’irresistibile calamita per qualsiasi musicista avesse avuto l’ambizione di farsi notare. Si pensi a Georg Frederich Handel, nato in Sassonia, che operò a Napoli nel 1708; soggiornò a Napoli anche il compositore tedesco Johann Adolf Hasse, allievo del grande Alessandro Scarlatti, maestro della reale cappella musicale. Fu sempre a Napoli che Pietro Metastasio, il più influente librettista di opere serie del XVIII secolo, iniziò a lavorare prima di trasferirsi a Vienna. Nel 1770, Mozart, all’epoca quattordicenne, fu portato a Napoli, dove si trattenne per oltre un mese; nel frattempo, scriveva a Salisburgo che “il teatro era bellissimo” ma aveva notato che il re, durante la rappresentazione, “se ne stava seduto su uno sgabello per sembrare più alto della regina”.
 

Le vicende del San Carlo s’intrecciano con quelle del Regno di Napoli. Uno snodo fondamentale nella storia del teatro è rappresentato dall’entrata in città di Giuseppe Bonaparte, fratello maggiore 

di Napoleone, nel febbraio del 1806, alla testa di un corpo 

di spedizione franco-italiano.

 
Da questo momento si apre per il San Carlo un periodo di grande sviluppo grazie a due eventi fondamentali: la regolarizzazione del gioco d’azzardo da parte del governo napoleonico e l’assegnazione della gestione del teatro, nel 1809, a un ricco e intraprendente impresario milanese, Domenico Barbaja, che aveva già assunto l’appalto delle case da gioco a Napoli.La grande intuizione di Barbaja fu appunto quella di coniugare le due grandi passioni dei napoletani per il gioco e per l’opera. Nel 1808, con l’ascesa al trono di Gioacchino Murat, dopo la nomina di Giuseppe Bonaparte a Re di Spagna, Barbaja riuscì ad ottenere l’autorizzazione ad aprire un vero e proprio casinò dentro il San Carlo, a patto che ampliasse il teatro stesso con un ridotto adatto a ospitare i tavoli da gioco; per quanto riguarda la direzione del teatro, l’appalto comportava un lungo elenco di responsabilità, definendo le nuove opere, i cantanti  e il numero di orchestrali (con settantotto membri permanenti, divenne, infatti, una delle prime orchestre in Italia). Il governo finanziò anche nuove scenografie e macchine sceniche oltre a quelle pagate di tasca propria da Barbaja che si vide riconosciuta la proprietà di altri accessori, strumenti e costumi: una vera fortuna. 
 

In questo modo il finanziamento della produzione operistica poteva essere assicurato non soltanto con la vendita dei biglietti per i singoli spettacoli o in abbonamento (una novità per il costume italiano), ma anche dagli introiti derivanti dai giochi.

 
Contemporaneamente egli si adoperò per un miglioramento qualitativo delle opere rappresentate, scritturando i più grandi cantanti e i musicisti più promettenti con contratti remunerativi, ma anche di lunga durata. Ciò permise a Barbaja di costituire una vera e propria compagnia con compositori e cantanti di elevato valore artistico, in grado di offrire spettacoli di eccezionale livello. Tra questi, la grande intuizione fu di chiamare, nel 1815, un giovane musicista che già aveva fatto parlare di sé in Italia: Gioacchino Rossini. Il contratto prevedeva la composizione di due nuove opere all’anno e le funzioni di direttore musicale. Al San Carlo, durante il periodo rossiniano, furono rappresentate fra il 1815 e il 1822 diverse opere serie del musicista pesarese: Elisabetta Regina d’Inghilterra, Armida, Mosè in Egitto, Ricciardo e Zoraide, Ermione, La donna del lago, Maometto II, Zelmira; al Teatro del Fondo fu presentato, nel 1816, l’Otello, essendo il San Carlo andato distrutto da un incendio (sarà ricostruito in appena otto mesi più spendente di prima).

La stessa formula organizzativa consentì poi a Barbaja di esportare cantanti e musicisti in altri teatri; nel 1822, egli assunse la direzione dei teatri viennesi e vi fece debuttare con straordinario successo la compagnia napoletana con la Cobran (moglie di Rossini), Nozzari, Rubini, Nourrit e Lablache. La diffusione delle opere di Rossini e dei suoi cantanti del San Carlo raggiunse e conquistò anche Parigi quando, nel 1825, il compositore fu nominato direttore artistico del Theatre des Italiens. In quella veste organizzò una vasta serie di scambi di cantanti tra Parigi e il San Carlo. L’intuito che Barbaja aveva avuto con Rossini lo assistette poi anche con altri musicisti: chiamò a Napoli il debuttante Bellini e mise in scena gran parte della produzione di Donizetti. Egli continuò a occuparsi sempre di teatro fino alla morte, avvenuta per apoplessia, nella sua villa di Posillipo il 19 ottobre 1841.

Il San Carlo è sopravvissuto a queste vicende e, pur cedendo lo scettro dell’egemonia dei teatri lirici italiani alla Scala di Milano nella seconda metà del XIX secolo, ha continuato a rappresentare un fondamentale punto di riferimento per gli spettacoli operistici in Italia e in Europa, tenuto conto che ai suoi spettacoli hanno preso parte 

i più grandi cantanti, i direttori d’orchestra 

e i registi più famosi fino ai nostri giorni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Autore-fondo-immagine
Domenico_Barbaja

Si può ritenere che l’Opera sia una delle forme più complesse e affascinanti – ma anche più costose – di espressione artistica esistenti: la musica, il canto, la recitazione e la scena si fondono in un unicum che, da quando è nata in Italia all’inizio del XVII secolo, come raffinato svago di colti aristocratici (si pensi all’Orfeo di Claudio Monteverdi, rappresentato il 24 febbraio 1607 nel Palazzo Ducale di Mantova), si è poi rapidamente diffusa, appassionando tutti i pubblici, prima in Europa e poi nel resto del mondo. 

Le foto sono state gentilmente concesse dal Teatro San Carlo di Napoil

 

SAN LEUCIO. GENIUS LOCI (FR) par Helene Blignaut – Numero 7 – Aprile 2017

san_leucio

SAN LEUCIO. GENIUs         LOCI

 

cat-stile
cat-arte
cat-economia

La beauté conquiert et rend amoureux car, outre le charme de surface que perçoit le regard humain, elle cache et révèle une profondeur, une substance rayonnante, qui demande à ne pas être retenue, mais au contraire diffusée à ceux qui savent l’apprécier.

La beauté génère la beauté et, dans les endroits où elle parvient à se manifester dans la splendeur qui lui vient de sa propre histoire, chaque chose et chaque événement qui s’y insèrera en deviendra beau et brillera de la même lumière, suivant naturellement le plan prospectif généré par l’admirable contenant.

 

Il y a un lieu dans le sud de l’Italie, dont la beauté, comme dans un conte de fées, doit tout aux événements séculaires qui s’y sont déroulés et aux œuvres qui y furent créées. Des œuvres qui, aujourd’hui encore, sortent des mains des artisans savants pour être offertes à l’intelligence des amateurs dans toute leur profonde beauté atemporelle et qui perpétuent l’ambition d’une synthèse vertueuse entre le beau et le juste comme le revendiqua leur initiateur par excellence, le roi Ferdinand IV de Bourbon. Il s’agit de San Leucio, une banlieue de la ville de Caserte qui, sur l’ordre du roi, devint brusquement un unicum imprévisible unissant noblesse monumentale donnant sur des paysages verts pensifs et une communauté humaine qui reçut le privilège d’apprendre l’art du tissage de la soie et de la production d’objets extraordinaires.

 

Alors même que la colonie royale de San Leucio voyait le jour et commençait, à réaliser le rêve royal illimité, calme et laborieuse, 

jour après jour, dans son territoire exigu, le beau-frère 

et la belle-sœur de Ferdinand IV perdaient la tête 

sous la lame d’une révolution sanglante.

 

Notre roi avait épousé Marie-Caroline de Habsbourg-Lorraine, sœur de l’Autri-Chienne, comme le peuple français en révolte surnommait Marie-Antoinette d’Autriche, épouse de roi Louis XVI. Les échos du sang et de la terreur ne parvinrent cependant pas à arrêter la volonté de ce visionnaire qui, peut-être submergé par la pompe excessive du Palais Royal de Caserte, avait décidé de transformer le village en une splendide enclave dont l’existence et la merveille n’étaient toutefois pas une fin en soi. A cet endroit existait déjà une belle petite église ancienne. Il fit construire dans le quartier du Belvédère un pavillon de chasse et il envoya y vivre quelques familles afin qu’elles s’y consacrent. Le roi avait une mentalité moderne et il décida ainsi de donner vie à un modèle social absolument nouveau, imposant une structure urbaine harmonieuse avec une place circulaire et un système de rues radiales, promouvant l’autonomie économique avec la création d’une usine pour la production de soie de haute qualité, de quelque chose qui n’avait jamais été vraiment vu auparavant.

 

Non seulement visionnaire, mais aussi précurseur de cette égalité qui se fondait sur la dignité de pouvoir vivre de son travail, mais aussi sur la prévoyance sociale et la prise en compte (avant l’heure) des droits 

de l’homme avec des heures de travail quotidien réduites 

à onze heures au lieu des quatorze en vigueur dans le reste 

de l’Europe, avec un salaire égal pour les hommes et les femmes, l’éducation obligatoire et gratuite et une formation professionnelle 

qui tenait compte des capacités des jeunes.

 

Même le logement était gratuit et construit avec tout le confort possible à l’époque. La vaccination contre la variole était obligatoire. La gestion de cette entreprise, qui généra entre autre une sous-traitance notable, eut des conséquences importantes. Elle anticipait en effet l’affirmation des droits dont la revendication marquerait plus tard l’histoire politique et sociale du continent. Elle était une sorte de Ferdinandópolis avec un Code, dont les principes fondamentaux étaient: l’éducation, l’intégrité et le mérite, et où il n’y avait pas de place pour les distinctions hiérarchiques et de condition. Du patrimoine vivant des vers à soie qui étaient élevés dans le bâtiment des chenilles jusqu’à la préparation des écheveaux, aux machines de filature, aux métiers à tisser, à la soierie mécanique, la création de tissus luxueux pour vêtements et meubles prestigieux sut évoluer vers une extraordinaire gamme de brocarts de soie d’or et d’argent, de gros de Naples particuliers, et même un tissu innovant original qui fut appelé Leucide.

 

Avec l’introduction dans la première moitié du dix-neuvième siècle du jacquard, la technique de tissage qui fit la fierté de la France, furent créées des œuvres qui en ennoblirent les productions et qui se  

rapprochaient plus de l’art que de la réalisation 

d’objets d’usage courant.

 

Les couleurs étaient naturelles et l’inspiration culturelle des nuances inhabituelles imposait des définitions qui, déjà en en elles-mêmes, évoquaient des émotions et des désirs: vert saule, vert de Prusse, Séville, Eau du Nil … Des noms suggestifs de tissus pour tapisseries, rideaux, housses de canapés et oreillers, mais aussi des châles, corsets, mouchoirs et autres vêtements délicieux. Les tissus pour l’ameublement fascinèrent rois, reines et papes et ornent encore aujourd’hui les pièces du Quirinal, du Vatican, le palais de Buckingham, la Maison Blanche et d’autres endroits prestigieux. Des célèbres designers de la mode internationale se laissent encore séduire pour leurs créations les plus haut de gamme. L’histoire suit son court, l’évolution du progrès produit des décadences et des nouveaux départs; ainsi, avec l’avènement de l’unité de l’Italie, le rêve de Fernandópolis fut englobé dans le territoire du nouvel état. Mais la mythologie d’une matière née de la volonté inébranlable d’un roi ne pouvait pas succomber.

 

Aujourd’hui, les tissus de San Leucio demeurent un patrimoine exceptionnel et dans leur trame demeure intacte une vitalité de faire qui n’a jamais cessé de se nourrir elle-même. Avec l’utilisation appropriée des nouvelles technologies, et sans dénaturer son caractère artisanal, se créent des œuvres qui nous apportent encore la profondeur 

multiple de leur beauté, leur histoire, leur patrimoine utopique, 

 

mais aussi la sensibilité tactile ou l’épaisseur crémeuse de certaines textures, la consistance – qui semble parfumée – des grands motifs floraux, les tonalités sonores de la soie craquante. Des sensations qui stimulent une attention passionnée et heuristique pour découvrir d’autres sens. Les appartements royaux et la maison des tisserands sont visibles, transformés en musée. Toutefois, le consortium des entreprises qui descendent de ces anciennes familles est plus que jamais actif et disponible. Les événements culturels attirent des visiteurs du monde entier: en Juillet, le Festival Leuciana est une évocation en costumes historiques. En Octobre, le Festival du Vin, des Vignobles et de la Soie perpétue, de manière agréablement matérielle, le rêve qui inspira un ancien roi. Les usines et les ateliers abritent une foule de trésors à découvrir.

 

 

 

 

 

Crédits photos Complesso Monumentale di San Leucio

 

Simbolo-f-p-R
Helene Blignaut

 ITA | ENG | FR

la_soie

 

 

L’ARCHITECTURE DU SALENTO – LES TOURS DE DEFENSE par Giusto Puri Purini – Numero 7 – Aprile 2017

cat-arte
cat-storia
Giusto-Puro-Purini-storia
simbolo1

L’ARCHITECTURE DU SALENTO     LES TOURS         DE DEFENSE

 

Sainte Sophie devient la « Grande Mosquée » et une nouvelle et superbe grande puissance, cultivée et agressive, naît en Méditerranée orientale. Elle entrera rapidement en conflit avec la République de Venise, qui, jusque-là, avait librement navigué sur les mers de l’Adriatique à la mer Egée, avec ses flux de marchandises et ses innombrables implantations et domaines, disséminés de Dalmatie à l’Asie mineure et au-delà.   

 

Les Pouilles devinrent une plaque tournante stratégique pour les incursions ottomanes et, en dépit de l’occupation de la péninsule en 1484 par les Vénitiens (débarqués à Taviano), ces derniers ne réussirent plus à freiner l’élan des ottomans. L’algérien Khaized-Din (dit Barberousse) détruisit Castro et Marittima en 1537 et, sur la côte ionique, l’antique Ugento. Le système de défense des Pouilles, en particulier dans le Salento, était déficient et précaire. Composé d’ouvrages remontant à la Rome antique ou aux Byzantins (pour se défendre contre les Lombards et les Aragonais) construits au cours des siècles précédents sous forme de tours côtières et de fermes fortifiées, il n’était plus à la hauteur des besoins. C’est alors que sur la scène européenne, le conflit impitoyable entre le roi de France François Ier et Charles Quint, roi d’Espagne, se résolut en faveur de ce dernier le conduisant à gouverner une grande partie de l’Europe.

L’histoire du Salento est parsemée d’une multitude d’invasions au début, par des peuples qui s’y installèrent, comme les Messapes et les Japiges, puis, par les Grecs; des incursions des pirates sarrasins, des attaques et des pillages, jusqu’au grand péril ottoman, qui nourrissait notamment l’idée de réunifier l’Empire romain d’Orient avec Rome. Ce fut donc, au nom de l’empire de Charles V que le vice-roi du royaume de Naples, Pierre de Tolède, promut en 1532 une première ligne de défense massive et stratégique le long des côtes adriatique et ionienne des Pouilles, ce vaste promontoire qui s’avance au cœur de la Méditerranée. Tel un urbaniste des systèmes de défense, il fit réaliser un projet où chaque tour pouvait détecter et signaler à la suivante les dangers qui se profilaient à l’horizon. Cornes  de brume et cloches donnaient l’alarme, ou des signaux visuels, comme la fumée (de jour) et le feu (de nuit). Une deuxième ligne de défense était formée par les fermes fortifiées puis, plus à l’intérieur, des châteaux imposants parmi lesquels figure, aujourd’hui encore, celui de Achaïe. Les mesures du vice-roi furent renforcées en 1563 par l’ordonnance de Don Pedro Afan de Ribera

Cette Italie, dressée et baignée par les eaux en presque tous les points de son territoire, « s’offrait », point d’attraction et aimant pour d’autres populations.

The biblical exodus that millions of people carry out daily in recent years, puts in motion old grudges, fears and imbalances, and there is the need for a new conscience that will bring the great States (colonisers) to develop jobs and margins for a potential growth in the original places, in order to bring our Mediterranean back to being, as it was, a place for merchants, economic-financial exchanges, culture, religion, thought and work.

En 1529, après de multiples conflits et, finalement,  un accord avec le pape Clément VII, Charles V obtint la reconnaissance des possessions qu’il convoitait en Italie, y compris le royaume 

de Naples, qui comprenait ses Pouilles bien-aimées 

(où ne se rendit d’ailleurs jamais).

Le coût économique d’une telle entreprise était devenu si élevé que, par le biais d’appels d’offre, des titres furent conférés à ceux qui

prirent en charge la construction de tours, les « Capitaine des Tours», lesquels outre l’alerte contre les raids et la préparation des défenses avec canons et mousquets, pouvaient également percevoir 

des droits. Aux insolvables était « durement » 

refuser le droit d’être défendus.

Les tours, plus tard, serviront aussi à lutter contre la contrebande, en partie tolérée, pour empêcher le commerce illégal de sel en vogue à ce moment-là, compte tenu de la pauvreté des populations rurales et pour faire obstacle à la traite des esclaves. Les tours édifiées par Charles V, construites avec des morceaux de tuf réguliers, sont généralement carrées ou circulaires et leur base est en pente avec à l’intérieur habituellement deux étages et une terrasse crénelée. Des meurtrières et collecteurs d’eau complètent la façade. Les tours sont équipées d’une citerne souterraine pour recueillir l’eau de pluie. Dans certains cas elles sont devenues aujourd’hui des Capitaineries de Ports encore opérationnelles. Beaucoup sont (malheureusement) en ruines et d’autres ont été restaurées. Pour reprendre les mots de Mario Muscari Tomajoli « La construction d’observatoires fortifiés se retrouve dès Plutarque (125-50 avant JC) et fut également entreprise par les Romains, dont le commerce connut une crise due aux pirates jusqu’à 67 ans avant JC, lorsque la loi Gabinia permit à Pompée d’armer une flotte contre les pillards et de pacifier le Mare Nostrum . »

Ce système de défense n’existe pas uniquement dans les Pouilles et dans le Salento, et sur nos côtes et sur bien d’autres côtes de la Méditerranée il indique, comme une immense ponctuation 

sur les cartes, le rapport d’amour et de peur que 

la grande mer portait avec elle.

 

Sa première place dans la civilisation, l’histoire, la fertilité de la nature et les coutumes lui imposait aussi d’avoir un système 

de défense et c’est ainsi qu’aujourd’hui ces constructions admirables inscrites dans le rythme fluide des paysages 

sont devenues des signes indélébiles de l’histoire. 

 

Samsung foto 5220

 ITA | ENG | FR

La_catastrophe

 

MORREMO TUTTI QUI di Alessandro Gaudio – Numero 8 – Luglio 2017

cat-storia
cat-cultura
cat-arte

MORREMO TUTTI QUI

 

Alessandro-Gaudio_storia
2_foto_morremo_tutti_qui

erano piaciute le deformazioni espressioniste e grottesche della narrazione, ma ciò non era bastato per accordarle, infine, dignità di stampa, in quanto «la cornice di storia paesana [soffocava] − a detta di Calvino − l’interesse delle pagine più vive».[1] Questo difetto e altri convinsero Lazzaro, traduttore e poco conosciuto scrittore, nato nel 1912 in un più che sperduto paesino calabrese, a lasciare il manoscritto in un cassetto, fino a quando non venne pubblicato postumo, nel 1987, a diciotto anni dalla morte del suo autore. Pur tuttavia, a distanza di altri tre decenni, appaiono ancora evidenti quelle virtù intraviste dai lettori di allora.[2]

 

Al centro della vicenda c’è la vita − tanto miserabile quanto grottesca, nella descrizione che ne fa lo stesso Lazzaro − di un indefinito villaggio del meridione d’Italia, avvinto in un mortale silenzio, i cui mille abitanti 

vengono sterminati da una misteriosa e fulminea epidemia.

 

È servendosi delle armi dell’ironia e dell’allucinazione che lo scrittore di Motta Filocastro[3] quasi arriva a suggerire come le cause del tragico evento vadano fatte risalire all’attitudine di quegli uomini per superstizione e fatalità o, più sinteticamente, a una bestemmia o, meglio ancora, a una specie di eccesso di immaginazione. Non può essere considerata trascurabile la portata di un espediente di ordine creativo in grado di legare così finemente l’oscurità della miseria alla luminosità della fantasia.

 

E, d’altronde, neanche un’evasione di massa salverebbe il villaggio di 

Mille anime dalle persecuzioni dei santi o dall’attesa senza fine dei loro miracoli. Né, tutto sommato, risolverà alcunché 

la scomparsa dei suoi abitanti:

 

bisognerebbe, piuttosto, ristabilire il corso del tempo, ricollocarsi nel ritmo della vita, oppure − secondo Michele, amico e maestro del protagonista − «mutare il corso del sole e delle stelle, la direzione dei venti, l’animo degli uomini»;[4] purtroppo, non si può. Tale consapevolezza provoca uno sgomento diffuso che, progressivamente, finisce in una inesorabile brama di morte, di autodistruzione, quasi di ritorno a uno stato inorganico.

 

Lazzaro racconta di una esistenza inerte, resa ancor più opprimente dall’immobilismo fascista (cui più volte si riferisce, neanche troppo sommessamente, lo scrittore)[5] e popolata da corpi senza vita, 

oltre che da fantasmi.

 

Sogni, ombre e magàrie incombono sul villaggio, di volta in volta percepito come «un terribile e gigantesco ragno con volto umano che urla spesso di dolore»,[6] come un «carcere della miseria»,[7] «un morto lago da cui emergono grigi fantasmi senza epoca»,[8] spesso colto in «un’immobile e vitrea luce lunare, e, lontano, il mare come un gran lago di mercurio chiuso dalle ombre azzurre delle isole e dominato da Mahammetta»,[9] che non è che uno di quei fantasmi.    

 

Eppure, si tratta di fantasmi − la Vergine di Romania, San Nicola di Bari, San Rocco di Mileto, San Giuseppe il Corto, San Giuseppe il Lungo e molti altri − le cui proprietà e azioni sembrano essere sottomesse alle medesime leggi del mondo visibile e che non posseggono, dunque, uno statuto soprannaturale. Sarà per questo che da essi non si genera alcuna azione, né essi costituiscono un motivo di evasione in un mondo misterioso all’interno del quale la ragione non possa penetrare. Un quadro così interamente improntato sulla reificazione collettiva dell’immaginario presuppone, sul versante opposto, un’idea di letteratura che, ironicamente, si ponga come osservazione razionale difficile da mettere nel sacco, ma che, tuttavia, allo stesso modo del quadro che delinea, è incline a quell’amarezza che erompe tanto dalla scrittura quanto dalla miseria.

Certo è che laddove, da un lato, troviamo la disperazione del villaggio, quell’«irreparabile merdaio»,[10] con le ottusità e l’apatia che pervadono chi vi abita, dall’altro, c’è l’enorme spettro dell’immaginazione,

 

dal quale l’autore di Mille anime recupera la materia − fatta di memorie, miti e superstizioni − diffusa tra il popolo, con l’intento di normalizzarla, il più delle volte mediante l’ironia. Esemplare, nel realismo fantastico che riesce a prefigurare, quella di un contadino che, entrato in chiesa a ora insolita, parla in questi termini ai suoi fantasmi:

 

O Vergine di Romania, se non sei una svergognata, mandaci la pioggia. O San Nicola di Bari, se non sei più cornuto delle tue vacche, 

 mandaci una goccia d’acqua.[11]


In nessuna occasione, tale processo di normalizzazione, è bene precisarlo, sfocia in una considerazione votata all’indulgenza; anela, invece, alla rottura del cerchio, a mostrare che quanto meno sia possibile porsi contemporaneamente nel tempo e fuori di esso. Possibilità che sembrerebbe essere negata dal finale del romanzo (e anche dall’inesorabile frase di Michele che ho scelto come titolo per questa nota), ma che forse risulta, anche solo per un istante, avvalorata dall’idea dalla quale la narrazione è generata e dalla struttura d’insieme acutamente canzonatoria per la quale Lazzaro propende e che neanche Calvino aveva compreso sino in fondo.

 

 

   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

simbolo1

 [1] Lo rivela lo stesso Lazzaro in una nota del 1968, pubblicata poi in appendice a P. Lazzaro, La stagione del basilisco [1968], Milano, Jaca Book, 2003, pp. 139-142; nella nota è inclusa una lettera di Calvino, datata 17 maggio 1957, dalla quale è desumibile il parere di lettura cui si fa rifermento (p. 142). [2] Delle mille anime di Motta Filocastro, da una prospettiva antropologica, si parla anche in V. Teti, Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati, Roma, Donzelli, 2004, pp. 361-370. [3] Si tratta di una frazione di Limbadi, paese di poco più di tremila abitanti, oggi in provincia di Vibo Valentia, situato tra Tropea e Rosarno. Dall’alto del centro abitato, sede di confino politico negli anni del fascismo, si vede tutta la piana di Gioia Tauro e il porto. Sul muro di una casa abbandonata di Mandaradoni, altra frazione di Limbadi, sta lentamente sbiadendo un dipinto che ritrae la faccia del duce (e che era accompagnata dalla seguente didascalia: « Solo Iddio può piegare la volontà fascista, gli uomini e le cose mai»). Sono state scattate nel 2017 da Annalisa Lentini le foto che ritraggono il Mussolini di Mandaradoni e uno scorcio di Limbadi.[4] P. Lazzaro, Mille anime, Milano, Jaca Book, 1987, p. 45. Anche il titolo di questo intervento è parte del concetto espresso qui da Michele. [5] Il riferimento, si intende, è sempre condotto in chiave ironica, come, ad esempio, nella frase che si trascrive: «Gridarono alalà quasi tutti, sconcertati dal tono di lui e dal mistero che quella incognita parola introduceva nel nostro Villaggio. […] E qualche caposcarico andava recitando la seguente banale filastrocca: Alalà, Alalà / tua sorella l’ha fatta o la farà?» (ivi, p. 87). [6] Ivi, pp. 24-25. [7] Ivi, p. 45. [8] Ivi, p. 46. [9] Ivi, p. 72. [10] Ivi, p. 9. [11] Ivi, p. 15.

 

 

MILLE_ANIME2

 

I CAVALLI SCULTOREI DI PERSANO di Alduino di Ventimiglia di Monteforte – Numero 8 – Luglio 2017

foto1
cat-storia
cat-ambiente

I CAVALLI SCULTOREI DI PERSANO

 

 

 

    

Sono i Cavalli della Razza di Persano.Testimoni di un lungo periodo della storia italiana turbinoso e importante, ricco di sconvolgimenti che hanno visto i combattenti a cavallo compiere grandi imprese, a subirne le conseguenze, e anche a sognare, hanno rischiato
più di una volta 
di scomparire.

 

Una storia antica che ha visto per secoli l’avvicendarsi di uomini attorno a cavalli leggendari, protagonisti di eventi, a volte importanti, a volte ludici, a volte diplomatici e bellici. Dopo l’età borbonica è nata l’Italia Unita e questi cavalli ne sono stati partecipi, rappresentando, nell’ambito equestre, un’eccellenza, simbolo ed espressione vivente della cultura equestre, della storia, dello stile e dell’eleganza italiana.    

 

Molti degli uomini che hanno vissuto con questi cavalli non si sono rassegnati quando, nel 1972, con una decisione quanto meno inopportuna, i cavalli di Persano sono stati trasferiti al il Centro Militare Allevamento Raggruppamento Quadrupedi di Grosseto che per brevità lo chiameremo d’ora in poi CMARQ: avevano perduto i compagni di viaggio che, con i loro nitriti, avevano riempito e allietato la loro esistenza e dai quali avevano saputo trarre insegnamenti e sapienza. Così i persanesi si sono riuniti e hanno fondato l’associazione “Persano nel Cuore”: per non dimenticare e tenere vive le tradizioni e la grande cultura equestre nata nella Campania Felix. Nello stesso tempo, in Toscana, a loro insaputa, c’era chi cercava di recuperare la Razza dei cavalli.   

 

La nobile razza, fondata da Carlo di Borbone nel 1751, nell’arco della sua storia, fu salvata ben 5 volte: nel 1799 (rivoluzione napoletana) da Ferdinando IV di Borbone; nel 1816 da Ferdinando I delle Due Sicilie; nel 1874 dai Gaetani di Sermoneta e da Vittorio Emanuele II; nel 1900 ricostituita dal Governo del Regno d’Italia; dal 1981 da Alduino di Ventimiglia d Monteforte.

 

La “Razza Governativa di Persano” fu ricomposta nel 1900 a Persano, per D.M. del Regno d’Italia. Ed essa trae origine dalla ancor più antica “Real Razza di Persano”.

 

Quest’ultima fu oggetto di studio e programmazione sin dall’anno 1735 da parte di Carlo di Borbone, sovrano illuminato di due regni: quello di Napoli e quello di Sicilia, ma la sua nascita fu sancita solo più tardi, nel 1751, a Persano, luogo da cui prese il nome.    

 

Presto la Razza assunse una rinomanza internazionale e raggiunse il suo apice tra gli anni 1780-1825, quando fu introdotta, per mezzo di riproduttori maschi (stalloni), in molte razze europee oggi di grande fama. Gli esperimenti per la costituzione dell’embrione, di quella che sarà nominata in seguito Real Razza di Persano, furono condotti nella tenuta di Carditello, affittata a tale scopo dalla corona borbonica già dal 1740. L’intenzione era quella di creare un allevamento e un cavallo di Stato, e così fu fatto.   

 

Attraverso moltissime vicissitudini e momenti critici, la Razza è sopravvissuta fino all’anno 1995, in cui lo Stato italiano decise di interrompere definitivamente la lunga tradizione. 

 

Sotto il regno di Ferdinando IV e, più esattamente, nell’anno 1784, 

 la tenuta di Carditello fu trasformata in funzione dell’eccellenza della 

Real Razza di Persano. Dovendo operare la selezione delle fattrici 

e degli stalloni in base al loro uso per la guerra, fu costruito 

anche un ippodromo.

 

La selezione avveniva attraverso le prove funzionali su cinque parametri importantissimi: la maneggiabilità, l’equilibrio mentale e il coraggio con cacce di vario genere; la resistenza, con il percorso di 200 km Carditello-Persano-Carditello; la velocità, con gare da effettuarsi nell’ippodromo incorporato nella grande struttura architettonica. Fu iniziata a Carditello la costruzione di un complesso di fabbriche, dedicato esclusivamente ai cavalli con scuderie di 1500 cavalcature, di un ippodromo e di un piccolo Palazzo reale dal quale il Re poteva accedere direttamente alle scuderie per controllare i cavalli e emanare gli ordini per l’allevamento. Vi erano anche degli spalti da cui il pubblico poteva assistere alle corse e alle prove di bravura dei cavalli. Inoltre, il complesso di Carditello, non lontano da quello della Reggia di Caserta, si prestava alle visite delle ambascerie e delle delegazioni straniere; era un luogo dove il Re poteva far vedere quell’eccellenza equestre e mostrare, così, le possibilità e la potenza del Regno di Napoli.     

 

Nel 1874, la Real Razza di Persano fu venduta sulla piazza di Eboli con asta pubblica per decreto del Ministro Ricotti. Comprendendo il grande errore commesso, 

 

il Governo, nell’anno 1900, la ricompose nello stesso Deposito di Persano, denominandola non più Real Razza di Persano, come era stata fino al 1874, bensì, più propriamente allora, Razza Governativa di Persano. La Razza Governativa ebbe un nuovo marchio con cui distinguersi.

 

Lo Stato acquistò gli animali, con cui fu ricostruita la razza, dai soggetti privati che li avevano acquistati ad Eboli e salvati. Fu formato il nucleo più importante della nuova razza, in misura del 60% sul totale degli animali costituenti il nucleo delle fattrici e per il 50% su quello degli stalloni.     

 

Dopo due guerre mondiali, delle quali i cavalli della Razza Governativa di Persano furono protagonisti, si arriva al 1981, anno in cui, accertato il poco interesse da parte dello Stato nel mantenere quel patrimonio storico e genetico fortemente legato a una importante biodiversità, fu creato un nucleo parallelo di cavalli prelevandolo dalla mandra di Grosseto della Razza Governativa di Persano. La scelta oculata dei soggetti per tale operazione fu determinata dal loro grado di “purezza” rispetto alla razza di appartenenza: cioè, cavalli con elevato valore biologico, portatori di patrimonio genetico non ancora inquinato da incroci effettuati con cavalli di puro sangue inglese (p.s.i.).   

 

Infatti, già dopo il 1972, quando la mandra fu trasferita da Persano a Grosseto, gli unici accoppiamenti autorizzati furono quelli con stalloni di p.s.i. o con anglo-arabi di dubbia provenienza, e mai con stalloni della razza di appartenenza. Il Generale Francesco Ortu, che aveva firmato nel 1972 l’autorizzazione per il trasferimento dei cavalli da Persano a Grosseto, rendendosi conto dell’errore compiuto, cercò di ricomporre la Razza Governativa di Persano nel periodo del suo ultimo Comando presso il CMARQ (Centro Militare Allevamento Raggruppamento Quadrupedi) di Grosseto, favorendo gli accoppiamenti in razza e richiamando, quando geneticamente valide, le cavalle dai vari enti militari a cui erano state trasferite.   

 

Dopo di lui però, ancora una volta, la razza ritornò in uno stato di abbandono e, se non fosse stato per il nucleo di stalloni e fattrici salvati a Luriano, nel 2003, non si sarebbe potuto procedere al riconoscimento della razza da parte dell’Europa e alla costituzione del Registro Anagrafico di Razza (Libro Genealogico).   

 

Molte delle fattrici trasferite in quegli anni a Luriano, tenuta non distante da Grosseto, dove venne effettuato il salvataggio della razza, furono selezionate tra quelle nate a Persano e non ancora frutto di incroci con p.s.i.. A Grosseto, al CMARQ, non vi erano riproduttori maschi della Razza, se si esclude l’esploratore Picciotto (che non aveva però lo status di stallone). L’unico stallone riconosciuto allora era Pascià, già in forza presso l’I.I.I. di Catania. Pascià era nato a Persano ed era stato dato in comodato all’allora Deposito Stalloni di Catania. Tornando dopo il servizio effettuato all’Ente Militare, che nel frattempo era stato trasferito a Grosseto, mi fu possibile portarlo a Luriano come feci in seguito con Picciotto, ufficialmente diventato stallone all’età di 30 anni, grazie al tempestivo intervento del Generale Francesco Ortu.   

 

Attualmente, la mandria si compone di 70 soggetti, tra fattrici, puledri e stalloni. Un risultato straordinario, frutto di un faticoso e complesso lavoro cominciato anni fa con l’individuazione e il recupero di circa 30 cavalli, sparsi in varie regioni italiane che, senza il mio intervento, sarebbero stati destinati ad una inesorabile scomparsa. Sarebbe stata una perdita irreparabile per la nostra nazione.

 

Oggi, all’Italia e ai suoi governanti si presenta una grande opportunità storica, culturale, turistica, politica ed economica: ricreare un polo attrattivo unico e internazionale in cui fare storia anche attraverso spettacoli di arte equestre, unendo una struttura architettonica 

 originale con i cavalli originali per i quali il complesso 

di Carditello fu edificato.

 

Ciò porterebbe l’Italia, oggi agli ultimi posti in campo equestre, a fare di colpo un grande balzo in avanti, a riappropriarsi del suo patrimonio storico e di una sua eccellenza. Carditello e i cavalli di Persano, con la loro unicità, sarebbero infatti in grado di attrarre una considerevole fetta di turismo nazionale e internazionale sufficiente a cambiare il volto e l’economia dei luoghi in cui sorge il complesso architettonico, tristemente noti come “la terra dei fuochi”. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

anacora_oggi_dopo_tre_secoli2

e, con l’armonia delle loro forme, rammentano i capolavori scultorei del periodo ellenico classico e di quello rinascimentale. Poi, attraverso i loro elegantissimi movimenti, rinviano alle virtuose arie del periodo barocco. Protagonisti insuperabili delle impetuose cariche della cavalleria napoleonica e delle campagna di Russia dell’ultimo conflitto mondiale.

simbolo1
Alduino_Monteforte2

 

LA FONDAZIONE LEONARDO SINISGALLI di Biagio Russo – Numero 8 – Luglio 2017

La Fondazione, nata nel 2008 per promuoverne vita e opera, e operativa dal 2010, ha un’attività geograficamente molto ampia e va al di là dei confini regionali. Anche in virtù di uno spirito cosmopolita coerente con lo straordinario personaggio che intende restituire ai fasti di una cultura, quella del Novecento, che lo ha visto testimone e protagonista. Tantissimi e differenti gli eventi realizzati finora in tutta Italia, a testimonianza della credibilità che l’Istituzione culturale montemurrese si è conquistata, con mostre e convegni: a Macerata, Roma, Benevento, Milano, Torino, Vigevano, Forlì, Siena, in collaborazione sia con Università, che con Associazioni, Enti locali, Istituti di Istruzione ecc. Contemporaneamente, notevole è stata l’attività di ricerca e la produzione editoriale, con sette pubblicazioni, tra cui due Quaderni, di notevole valore scientifico, che offrono gli strumenti indispensabili per la conoscenza di Leonardo Sinisgalli a visitatori, studiosi, ricercatori e docenti.

 

Cuore pulsante dell’attività della Fondazione è la Casa delle Muse 

di Sinisgalli. La struttura museale domina la cresta 

che affaccia sul fosso di Libritti,

 

di fronte alla piccola abitazione dove Leonardo Sinisgalli nacque nel 1908 e sulla cui parete è possibile leggere, a caratteri capitali, i versi della sua poesia più celebre dedicata al gioco del battimuro “Monete rosse”.   È possibile visitare la “Sala degli amici artisti” (con disegni e acquerelli di Giulio Turcato, Domenico Cantatore, Lorenzo Guerrini, Bruno Caruso, Antonello Leone, Franco Gentilini), “Il focolare degli affetti” (con testi memoriali e poetici, fotografie, oggetti vari e utensili), la “Sala Leonardo” (con l’esposizione dei 70 volumi originali e rari, oltre alle copertine delle riviste aziendali), la “Biblioteca di Sinisgalli” (con i suoi 3.000 libri, la macchina da scrivere, il ritratto ad olio di Maria Padula, le pubblicità e i disegni), la Sala “Vincenzo Sinisgalli” (con la mostra dedicata ad Agnese de Donato, dal titolo “Intimo Sinisgalli”).   

 

La Casa delle Muse, inaugurata il 20 ottobre del 2013, è stata meta per circa 8.000 persone, soprattutto studenti e docenti, provenienti da ogni parte d’Italia.

 

Per celebrare la poliedricità, un vero e proprio furor, degli interessi di Leonardo Sinisgalli, la Fondazione sin dal 2012 ha ideato un contenitore-ponte tra la cultura umanistica e letteraria. 

 

In autunno, si organizzano eventi (dalla pubblicità alla fisica, dalla poesia alla matematica, dall’arte alla tecnologia ecc.) caratterizzati da un approccio dialogico e contaminante tra arti e discipline, con docenti, studiosi, scrittori e musicisti, provenienti dal mondo accademico, artistico, letterario e scientifico. Nell’ultima edizione del Furor, ad esempio, è stato organizzato un convegno dal titolo “Per una cultura dell’incontro nelle arti”. Ad aprire i lavori è stato l’artista Giuseppe Caccavale, docente presso l’École Nationale Superieure des Arts Décoratifs di Parigi, con un intervento dal titolo Dalla figura alla parola: Il Viale dei Canti, incentrato sull’opera multimodale da lui realizzata presso l’Istituto di Cultura Italiana a Parigi, attraverso la riproduzione grafica e sonora dei versi di cinque poeti italiani: tra cui Leonardo Sinisgalli.    

 

Il mondo della scuola per la Fondazione rappresenta un interlocutore privilegiato. D’altronde le poesie e i racconti di Sinisgalli pullulano di fanciulli e monelli. E anche quando dirigeva riviste e gli uffici di pubblicità delle grandi aziende, spesso ricorreva al loro estro, ai loro disegni, al loro stupore. Dal 2013 infatti proponiamo lectiones magistrales, destinate in modo particolare agli studenti dell’ultimo anno delle scuole superiori. La quinta edizione delle Lezioni del Novecento (ciclo speciale), aperta a un pubblico più vasto oltre che a quello scolastico, ha portato in cattedra cinque grandi ospiti, di caratura internazionale: Silvio Ramat dell’Università di Padova, Clelia Martignoni dell’Università di Pavia, Riccardo Mazzeo, saggista ed editor della Erickson, nonché traduttore di Bauman, Miguel Benasayag, filosofo e psicanalista franco-argentino e Agnes Heller, una delle più grandi filosofe viventi, allieva di G. Lukács  ed esponente della Scuola filosofica di Budapest.   

 

L’attività della Fondazione corre lungo tutto l’anno. E anche nelle sere d’estate non rallenta. Proponendo veri e propri inviti alla lettura, con presentazioni di libri e incontri d’autore.


Tra i graffiti della Scuola fondata dal maestro Giuseppe Antonello Leone e il lavatoio costruito negli anni Trenta, un pubblico numeroso 

e attento segue le nostre proposte librarie, sotto le stelle, 

nell’atmosfera magica dell’Orto di Merola. 

 

Sinisgalli amava l’arte di un amore profondo, per tutta la vita ha frequentato gallerie e pittori, si è circondato della loro presenza e delle loro opere, ha commissionato disegni e illustrazioni per le sue riviste aziendali, ha pubblicato recensioni su quotidiani e riviste, e scritto tantissime presentazioni di cataloghi per mostre. Inoltre, nell’ultima fase della sua vita si è abbandonato al disegno, come arte consolatoria, diventando egli stesso un “disegnatore”. Per questi motivi e non solo la Fondazione ha aderito a gennaio al circuito Acamm (dall’acronimo dei quattro paesi e delle quattro realtà museali presenti: Aliano, Castronuovo Sant’Andrea, Moliterno e Montemurro), sotto la guida dello storico dell’arte Giuseppe Appella, in una logica sinergica di sistema che valorizzi, con mostre d’arte ed eventi culturali, il patrimonio esistente in un’ottica non periferica, ma nazionale.   

 

Sono stati realizzati finora tre importanti omaggi artistici: a Guido Strazza, artista italiano di spicco nel panorama contemporaneo, in occasione della grande mostra antologica alla GN. Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma; a Mario Cresci (fotografo), in contemporanea con l’antologica alla GAMeC di Bergamo); e infine a Fausto Melotti, in parallelo con la retrospettiva dal titolo EDEN, che la Galleria-Museo Hauser & Wirth di Zurigo, ha dedicato al noto artista roveretano.

 

Certo la Fondazione, a detta di chi ci osserva da vicino e da lontano, costituisce uno straordinario ombelico culturale, un vero e proprio presidio, flessibile e poco costoso, nel mosaico di una Regione 

che intende aprirsi, attraverso Matera, capitale della cultura 2019, 

ad una dimensione europea e a un turismo colto e intelligente. 

 

Ma Il vero obiettivo della Fondazione resta legato alla questione dei diritti editoriali del poeta-ingegnere. Senza la ristampa della sua opera omnia, tutto il percorso fatto finora, sarebbe completamente inutile. 

 

Faremo di tutto affinché Sinisgalli, come lui stesso scrisse per la sua epigrafe… possa risorgere “fra tre anni o tre secoli, fra tempeste 

di grandine nel mese di giugno”.  

 

È una promessa, ma soprattutto un debito.

_furor-2014-3
cat-arte
cat-storia

LA FONDAZIONE LEONARDO SINISGALLI

 

biagiorusso
un_piccolo_istituto_per_un_genio

Un “Leonardo del Novecento”, è stato definito Leonardo Sinisgalli. Infatti, i suoi interessi, dalla poesia alla matematica, dalla grafica pubblicitaria alla radio, dal cinema alla critica d’arte, dall’architettura al disegno, lo rendono così moderno e affascinante che si registra intorno alla sua figura un interesse elevatissimo, da parte di docenti, di cultori, di editori, di galleristi, di studenti, di matematici, di letterati e artisti. 

Autore-fondo-immagine

 

TRAPANI E LA PESCA IN TONNARA di Lorena Coluccia – Numero 8 – Luglio 2017

Ci sono storie che sembrano leggende e uomini che incarnano figure epiche. Quella della pesca con il sistema delle tonnare fisse è una tradizione che profuma di mito, un rito sempre uguale a sè stesso, dove esperienza e superstizione, sudore e spiritualità, convivono miracolosamente. 

 

La Sicilia è stata terra di tonnare per secoli e Trapani contava più di 20 impianti. Tonnara è parola dalla semantica ricca e articolata, così come lo sono le attività e le emozioni a essa correlate: tonnara è il termine usato per indicare il complesso sistema di reti che intercettano i tonni rossi del Mediterraneo; ma – per estensione – tonnara è anche il luogo in cui quelle reti si calano e, ancora, il nucleo di edifici di appoggio all’attività e alla lavorazione del pescato.

 

Al di là delle definizioni, la tonnara, per Trapani, rappresentava un microcosmo fatto di uomini – il rais, i tonnaroti, ma anche i mastri d’ascia, i sommozzatori, gli artigiani – e di azioni che, insieme, determinavano la fisionomia di un territorio, la sua economia, il suo sapere, i suoi costumi.

 

La tonnara è un’elaborata architettura subacquea composta da un lungo braccio di rete, il pedale, steso perpendicolarmente alla costa, che termina su un grande rettangolo chiamato isola, dentro cui i tonni si indirizzano quando trovano il cammino sbarrato dal pedale. L’isola è composta a sua volta da più camere, l’ultima delle quali, la camera della morte, è quella in cui avveniva il rito della mattanza.Tutte le azioni legate a questa antica tradizione – la preparazione di reti e imbarcazioni, il calato, il controllo, la pesca, il salpato – sono accompagnate da preghiere, azioni scaramantiche, riti propiziatori, canti (le emozionanti cialome) che, in equilibrio tra sacro e profano, definiscono un patrimonio antropologico non riproducibile. Oggi a Trapani non si calano più tonnare e anche gli edifici che, un tempo, supportavano questa attività sono diventati altro: nei casi più fortunati, sono esempi straordinari di architettura industriale (è il caso dell’ex Stabilimento Florio di Favignana, la cui visita vale un viaggio) o di strutture ricettive e d’accoglienza (come Scopello o Bonagia); nei casi peggiori, sono costruzioni in disarmo, edifici abbandonati a sè stessi e al tempo.

 

In tutta la Sicilia vi è un’unica realtà, proprio a Trapani, che ha conservato la sua originale funzione, quella di lavorazione e inscatolamento del tonno 

in scatola. Si tratta della tonnara di San Cusumano, oggi azienda 

Nino Castiglione, sulla cui torre si scorge ancora l’originale tonno 

di metallo che, in cima a un’asta, indica la direzione del vento.

 

Dal suo movimento dipendevano le speranze dell’omonimo fondatore di poter contare su un maestrale favorevole o le paure di dover temere il vento di scirocco che allontanava i tonni dalla costa. Oggi questa azienda, nata dall’amore di don Nino per la tonnara, è il primo produttore in Italia di tonno in scatola a marchio delle maggiori insegne della grande distribuzione e occupa 230 persone; numero che, in un angolo del sud così periferico, significa molto più che in qualunque altra parte del paese.

 

Ma, sebbene l’azienda rappresenti un’avanguardia in termini di automazione 

e tecnologia, sicurezza alimentare e innovazione, continua ad ambire al recupero della tradizione della pesca con la tonnara fissa.

 

Sistema che ha volontariamente interrotto nel 2003, a differenza di altri soggetti economici, con l’obiettivo di restare al 100% sostenibile e nel rispetto delle misure dell’Unione Europea per la salvaguardia del tonno rosso del Mediterraneo, definito specie a rischio. Fortunatamente tali misure (l’assegnazione all’Italia di quote tonno ridotte a poche tonnellate) ha funzionato così bene che in meno di un ventennio vi è stato un significativo ripopolamento della specie, tanto da indurre l’Europa ad aumentare le quantità di tonno rosso pescabile. Si riaccende, quindi, la speranza per l’azienda Nino Castiglione e per il territorio tutto di recuperare un patrimonio di conoscenze e tradizioni che altrimenti rischia di essere perduto per sempre.

 

Sia chiaro: la tonnara non contemplerà mai più il rito della mattanza, considerato troppo sanguinolento da chi non ne conosce i metodi e lo giudica solo sulla base dell’apparenza; ma il sistema di pesca ha invece qualche possibilità di essere recuperato.

 

Tutte le principali istituzioni nazionali ed europee, e le più importanti associazioni ambientaliste, hanno, infatti, finalmente convenuto che tale tecnica è la più ecosostenibile al mondo. Le maglie larghe delle reti che trattengono solo pesci di grossa taglia; lo sbarramento costituito dal pedale che interrompe il cammino dei tonni solo per un breve tratto; l’impossibilità di inseguire la preda (come avviene con le tonnare volanti); l’ancoraggio al fondale tramite pietre che non lo danneggiano (come invece fanno le reti a strascico); la continuazione del processo di riproduzione anche all’interno delle reti, garantiscono il rispetto del sistema marino e della specie, scongiurandone il depauperamento.

 

Attività sostenibile anche rispetto alle produzioni tipiche: è associata alla pesca con tonnara, infatti, anche la creazione di prodotti di nicchia come tunninamosciameficazzabottargalattume; nomi che rievocano una tradizione gastronomica antica, un tempo in cui il tonno era un dono del mare che non andava sprecato e di cui si lavorava ogni parte.

 

Nella primavera del 2016 la Nino Castiglione, come partner tecnico del comune di Favignana e dell’Area Marina Protetta delle Isole Egadi, ha calato la tonnara sullo specchio acqueo davanti a Favignana, proprio nel luogo da sempre deputato a questa attività. È stata una tonnara a scopo scientifico e di monitoraggio – indispensabile a scongiurare la cancellazione definitiva di Favignana dalla lista dei siti vocati a questo sistema di pesca – senza l’assegnazione di quote e, quindi, senza possibilità di commercializzare il pescato.

 

Ora, ciò che bisogna augurarsi è che l’isola ottenga le quote tonno, così da rendere l’operazione economicamente sostenibile e, in questo modo, garantire la sopravvivenza di un patrimonio che Trapani, la Sicilia, l’Italia tutta 

non possono permettersi di perdere.

 

 

 

 

 

 

FOTO di Stefano Benazzo_79
cat-economia
cat-ambiente

 

TRAPANI         E LA PESCA IN TONNARA

 

lorena_coluccia
foto_di_stefano_benazzo
tra_passato_glorioso

“I pescatori, che hanno la faccia solcata da rughe che sembrano sorrisi e, qualsiasi cosa tu gli confidi, l’hanno già saputa dal mare”
(Fabrizio De André)

simbolo-palline-azzurre

 

PASQUALE SCURA – Di Michele Minisci – Numero 8 – Luglio 2017

cat-storia
cat-sud

PASQUALE SCURA,

 

Un Arbëresh protagonista del Risorgimento Italiano

 

michele_minisci_tit
pasquale_scura
il_popolo_vuole

Erano queste le chiare ed inequivocabili parole che chiamavano il popolo delle provincie continentali dell’Italia meridionale al plebiscito indetto l’8 ottobre 1860 per l’unificazione col resto d’Italia.

Parole coniate dal Guardasigilli Pasquale Scura e verbalizzate da lui stesso nel decreto che promulgava il plebiscito promosso da Vittorio Emanuele e dal Dittatore dell’Italia Meridionale, Giuseppe Garibaldi, controfirmato dal Prodittatore Giorgio Pallavicino Trivulzio, dal Segretario Di Stato degli affari esteri Francesco Crispi, da Luigi Giura – ministro dei lavori pubblici, da Amilcare Anguissola – ministro della guerra, da Raffaele Conforti – ministro dell’interno e dallo stesso Pasquale Scura, nella veste di ministro di grazia e giustizia.

 

Un personaggio, quindi, di primo piano nella storia del Risorgimento italiano, Pasquale Scura, nato nel piccolo paesino calabrese di Vaccarizzo Albanese, di origini arbëresh – gli albanesi arrivati in Italia 

a metà del ‘500-, e morto a Napoli il 12 gennaio del 1868.

 

E nel 150° anniversario della sua morte, a gennaio del 2018, il piccolo Comune arbëresh vuole rendere omaggio al suo illustre concittadino con tutta una serie di eventi politici e culturali, con il coinvolgimento dell’Università della Calabria, della Regione, del Ministero di Grazia e Giustizia e quello dei Beni Culturali, nonché di noti personaggi della cultura e di studiosi della storia d’Italia come Paolo Mieli e Stefano Rodotà, quest’ultimo proprio di origini arbëresh.

 

Un evento che vuole essere non solo testimonianza ma soprattutto analisi degli ideali e della cultura liberale che disegnava l’Unità d’Italia, magari anche in senso federalista, plurale, ma unita, come sognava il Cattaneo e non solo.

 

Un personaggio illustre, lo Scura, la cui conoscenza è oggi favorita dagli studi e dalle ricerche compiute da studiosi come Francesco Perri (autore di un volume a lui dedicato di 447 pagine) o Vincenzo Librandi, entrambi nativi di Vaccarizzo Albanese, i quali, avendo fatto luce su quelle parti della sua biografia che sono rimaste in disparte, trascurate o ignorate, hanno contribuito a ricomporre questa figura nella sua pienezza e complessità. 

 

Queste celebrazioni su Pasquale Scura possono e devono essere lette nelle sue variegate modulazioni, senza enfasi, dopo aver ricordato certamente le grandi speranze di una vera unità d’Italia, ma con compiutezza e severità, inquadrandole oggi anche nell’annosa “questione meridionale”, perché i difficili tempi che stiamo vivendo lo richiedono con forza. E vogliono in un certo qual modo riparare al torto subìto dalla figura dell’illustre personaggio. 

 

Ciò che accade molto spesso è che non sempre c’è chi mette in evidenza i meriti di personaggi importanti e spesso determinanti nella storia di una nazione, di un popolo. “Ma specialmente nell’ottica di quell’arduo progresso attuativo del nostro Mezzogiorno – come ci suggerisce il professore Pietro de Leo, ordinario di storia medioevale presso l’Università della Calabria – non semplice e facile, atteso che ancora oggi è plausibile chiedersi se Cristo sia ancora fermo sui binari…a Eboli o presso la contigua autostrada”.

 

 

 

 

 

 

simbolo1