HERCULANUM DECOLLE ENFIN GRÂCE À UN PARTENARIAT PUBLIC-PRIVE di Giorgio Salvatori – Numero 3 – Gennaio 2016

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Herculanum recommence à vivre. Voici une autre réussite du Sud ignorée, ou presque, par les grands médias nationaux.
A partir de cette année, l’extraordinaire site archéologique de la Campanie offre au public quarante pour cent de plus de zones à visiter, soit une augmentation de près de 150.000 unités par rapport à 2000. Pour être précis, 384.000 contre 247.000 recensées au début du troisième millénaire. Un résultat exceptionnel. Résultat la « thérapie Packard ” et de la synergie public-privé qui donne d’excellents résultats.

Pourquoi le riche mécène américain a-t-il choisi Herculanum et non pas Pompéi, pour tester une collaboration internationale jamais tentée auparavant, et, apparemment, si difficile et délicate?

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HERCULANUM DECOLLE ENFIN GRÂCE À UN PARTENARIAT PUBLIC-PRIVE

 

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Tout a commencé en 2001, lorsque David W. Packard, le philanthrope américain bien connu, a fondé le Projet de Conservation Herculanum. Objectif: soutenir l’Etat italien à travers la Direction pour le Patrimoine Culturel de Naples et Pompéi dans son travail de protection et de valorisation du site d’Herculanum. Le projet repose sur la collaboration d’une équipe d’archéologues italiens et étrangers avec le soutien de la l’Ecole Britannique de Rome.

Pour au moins deux bonnes raisons: la première est que la zone de Pompéi est dix fois plus grande que celle de Herculanum. Par conséquent, elle se prêtait et se prête mieux à une action de soutien qui montre rapidement des résultats visibles. La seconde est que, mise à part sa taille, Herculanum, n’est pas moins importante que Pompéi et présente des caractéristiques uniques et précieuses, plus précieuses, même que celles de Pompéi. Lesquelles? Par exemple, le fait que Herculanum, à la différence de Pompéi, permet d’étudier la composition de la population grâce aux squelettes bien conservés de ses habitants surpris par le nuage de cendres et de gaz chauds qui les ont frappés lors de l’éruption du Vésuve en 79 après JC (le même qui a submergé les habitants de Pompéi). En outre, il convient de noter

Il s’agit d’un franc succès, résultat de la volonté de tous les participants à l’accord – Ministère de la Culture, Direction pour le Patrimoine, Fondation Packard – de travailler ensemble, sans a priori ni publicité inutiles.

Une caractéristique unique par rapport non seulement à Pompéi, mais aussi à tout autre site archéologique dans le monde.
Massimo Osanna, délégué spécial pour Pompéi, Herculanum et Stabia ne cache pas Sto arrivando! satisfaction.

L’enjeu est la préservation d’un bien commun inestimable, source de découvertes continues et laboratoire archéologique et didactique sans précédent.
L’espoir de Myrrha est que l’exemple du projet Herculanum puisse être suivi ailleurs en Italie. Afin de ne pas laisser à l’abandon, de manière irresponsable, des vestiges et la mémoire historique de notre prestigieux passé.

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que c’est seulement à Herculanum que la nuée ardente a enveloppé, mais pas détruit, le mobilier et les aménagements de la ville. Ceux-ci, de fait, sont restés en grande partie intacts, dans leur forme originale, dans des maisons privées et dans les lieux publics.

 

ERCOLANO FINALMENTE DECOLLA CON LA FORMULA PUBBLICO-PRIVATO di Giorgio Salvatori – Numero 3 – Gennaio 2016

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Ercolano torna a vivere. Ecco un’altra eccellenza del Sud ignorata, o quasi, dai grandi media nazionali.
Da quest’anno lo straordinario sito archeologico campano si offre al pubblico con un significativo 40 per cento in più di aree aperte ai visitatori che, rispetto al 2000, sono aumentati di circa 150mila unità. Per l’esattezza, 384mila contro i 247 mila conteggiati all’inizio del terzo millennio. Un risultato eccezionale. Effetto della ”cura Packard” e della sinergia pubblico privato che sta dando ottimi risultati.

Perchè proprio Ercolano, e non Pompei, è stata scelta dal facoltoso mecenate americano per sperimentare una collaborazione internazionale mai tentata prima e, apparentemente, così difficile e delicata?

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ERCOLANO FINALMENTE DECOLLA CON LA FORMULA PUBBLICO-PRIVATO

 

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Tutto è cominciato nel 2001 quando David W. Packard, noto filantropo statunitense, fondò l’Herculaneum Conservation Project. Obiettivo: sostenere lo Stato Italiano attraverso la soprintendenza speciale per i beni archeologici di Napoli e Pompei, nell’opera di tutela e di valorizzazione del sito di Ercolano. Il progetto si avvale della collaborazione di un team di archeologi italiani e stranieri ed ha il supporto della British School di Roma.

Almeno per due buone ragioni: la prima è che l’area di Pompei è vasta 10 volte quella dello scavo di Ercolano: quindi, quest’ultimo si prestava e si presta meglio ad un’azione di sostegno, con risultati visibili, in tempi rapidi. La seconda è che Ercolano, dimensioni a parte, non è meno importante di Pompei e, anzi, presenta caratteristiche uniche e preziose, più preziose ancora di quelle riscontrabili a Pompei. Quali? Ad esempio il fatto che a Ercolano, a differenza di Pompei, è possibile studiare la composizione della popolazione attraverso gli scheletri ben conservati delle persone sorprese dalla nube di ceneri e gas roventi che li investì durante l’eruzione del Vesuvio del 79 avanti Cristo (la stessa che sommerse la popolazione di Pompei). In più c’è da notare che

Si tratta di un successo incontestabile, frutto della volontà di tutti gli artefici dell’accordo – Ministero dei Beni Culturali, Soprintendenza, Fondazione Packard – di lavorare insieme, senza riserve e inutili protagonismi.

Una condizione unica rispetto non soltanto a Pompei, ma anche a qualsiasi altra area archeologica del mondo. Non nasconde la sua soddisfazione Massimo Osanna, Soprintendente Speciale per Pompei Ercolano e Stabia.

In gioco c’è la salvaguardia di un bene comune dal valore inestimabile, fonte di scoperte continue e laboratorio archeologico-didattico senza precedenti.
L’auspicio di Myrrha è che l’esempio del progetto di Ercolano possa essere seguito anche altrove, in Italia. Per non far deperire, irresponsabilmente, vestigia e memoria storica del nostro prodigioso passato.

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solo a Ercolano la stessa nube ardente avvolse, ma non distrusse mobili e arredi. Questi ultimi, anzi, restarono sostanzialmente intatti, nelle loro forme originarie, nelle case private e nei luoghi pubblici della città.

 

GATTOPARDO È IL VERO VOLTO DEL SUD? di Giorgio Salvatori – Numero 3 – Gennaio 2016

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“La cosa migliore che possono fare i giovani è invecchiare”. L’affermazione è di Benedetto Croce, e richiama, a sua volta, l’elogio della vecchiaia di Platone. Ma che c’entra la dialettica giovani-anziani nel dibattito sul Meridione? C’entra se, da una parte, si scommette sulla capacità dei giovani di scrollarsi di dosso la pesante scimmia della sudditanza alle classi corrotte o mafiose, e se, dall’altra, qualcuno insiste sulla incapacità dei primi di affrancarsi dall’insostenibile giogo della rassegnazione. 

 

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È IL VERO VOLTO DEL SUD?

 

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Myrrha ha sposato la prima tesi. E a sostegno della sua convinzione ha deciso di schierarsi al fianco di tutti quei giovani (e meno giovani) che, nel moltiplicarsi delle iniziative a favore di una nuova etica politica, economica e sociale, scendono in piazza per affermare, soprattutto al Sud, il diritto-dovere di voltare pagina. Non la pensa così, com’è noto, Ernesto Galli della Loggia, storico e politologo, uno dei maggiori “maitre a penser” italiani. Lo incontro sul freccia d’argento Bari- Roma. Gli ricordo, con stupore misto ad amarezza, la sua apodittica sentenza di condanna, espressa dalle colonne del Corriere della Sera, nei confronti della società civile meridionale, giudicata, nella sua interezza, priva di coraggio, di voglia di cambiare, di desiderio di battersi contro sprechi, mafie, inefficienza e corruzione. Non stupisce molto l’elenco delle prove (Corriere della Sera del 21 dicembre scorso) che Galli della Loggia produce a sostegno della sua accusa: disoccupazione doppia rispetto alla media nazionale, crollo delle iscrizioni universitarie, reddito individuale e familiare da terzo mondo, record di presenza di organizzazioni criminali, assenza di iniziative politiche e sociali efficaci contro il prosperare del malaffare. Sorprende, invece, la sua rassegnata consapevolezza della sconfitta. Provo ad elencargli gli esempi di contrasto, le manifestazioni anti-pizzo, i cortei degli studenti. Mi risponde citando Benedetto Croce e aggiunge: “I giovani si agitano, scendono in piazza, occupano e disoccupano, poi si disperdono in mille rivoli per essere riassorbiti dalla stessa palude che li ha espressi o per avere la sola scappatoia dell’emigrazione, dell’espatrio, della “fuga dal Sud”. Nessuna speranza allora? “I giovani”, mi ripete come un mantra, “devono solo invecchiare”. Lo incalzo: ci sarà pure una ricetta, una possibilità di riscatto che Lei intravede per il Meridione, e qualcuno, se non una generazione, un gruppo, una classe, un élite, disposta a rischiare…Non mi fa continuare. “Le ricette lasciamole ai politici. Il riscatto è una parola che non mi piace”. Non mi arrendo e ribatto: “Mi consenta di ricordarle, Professore, che ci sono strade lastricate di vittime, meridionali, della mafia, persone che si sono opposte consapevolmente, alla piovra. Anche loro prive di coraggio, di voglia di cambiare?” “Mi creda”, è la sua replica, “non è cambiato nulla e non cambierà nulla. I comitati e le associazioni anti-camorra e anti-mafia esistono da decenni e la situazione non solo non è mutata, ma, anzi, è peggiorata”. Provo a contrattaccare: “Mi scusi, forse non c’è compiacimento, una specie di “cupio dissolvi” in questa sua analisi, cupa, dei mali del Meridione, ma, come italiano, non si sente mutilato, annichilito, umiliato dalla supposta deriva del Sud verso latitudini più distanti dall’Europa?” “Sì, ma non posso farci nulla”. “Eppure”, ribatto, “Sono convinto che ci sarà una via d’uscita che lei auspica per il nostro Meridione”. “L’unica, improbabile, via d’uscita è nelle mani degli elettori del Sud. E’ dalle urne che può venire il cambiamento. Il voto è il solo strumento per portare al governo delle 8 regioni meridionali e in Parlamento, rappresentanti degni di questo nome, capaci di difendere interessi collettivi e non di parte, di farlo con onestà e competenza, al servizio della società civile e non dei vecchi poteri clientelari”. Professore, “Mi fa tornare alla mente le “possibilità sepolte sotto una pietra” di cui parlava Kafka nei suoi diari. E’ comunque una chance per il Sud, dopo il cupo presagio di morte che lei ha profetizzato, per il Meridione, sul Corriere della Sera. Grazie della conversazione. Ne posso riferire dalle colonne di Myrrha?” “Certamente, ma non è banale?” “Mah! Forse è solo uno scambio, frettoloso, di punti di vista” – concludo – “Però non è banale né il problema del futuro del Sud e neppure il suo pensiero sul malessere della società italiana contemporanea. Buon viaggio!” “Arrivederci”.

Questo, in sintesi, il resoconto della conversazione, avvenuta su un treno ad alta velocità, tra chi scrive e il Professor Ernesto Galli della Loggia. Ai lettori di Myrrha libere riflessioni ed eventuali commenti, con l’invito a pubblicarli, se lo desiderano, sulla nostra pagina di Facebook – MYRRHA – il dono del Sud.

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FENOMENI LUCE di Giusto Puri Purini – Numero 3 – Gennaio 2016

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…E dunque dopo tanto percorrere, tanto praticare, è del “Fenomeno Luce” che andrebbe disquisito… nel riconoscere alla sua invadenza ed alla sua mancanza (assenza), il valore di ciò che in arte si tace o si manifesta.
Questa continua alternanza è l’altalena della vita, e non limitandosi a percepire di questo fenomeno i valori visivi, ma anche quelli spirituali, ambientali, culturali e volumetrici, si accede alla soglia della porta della conoscenza, e scoprendola non piena, ma, soave e traforata, si attraversa, alla ricerca della luce che vi affiora; quindi, superata la soglia, si rivolge indietro lo sguardo ed attraverso lo stesso traforo, si scopre la luce lasciata… dall’impulso “innovativo” e dalla comprensione di ciò che si lascia ci si proietta verso il nuovo.

Da qui il millenario culto per il Dio dell’innovazione che portava con sé il segno dei tempi nuovi. L’isola si ancorò al fondo marino con immensi pilastri di cristallo e, sulla superficie, gli uomini con l’aiuto degli dei collaborarono a costruire l’isola della luce. In questo racconto, appare la zattera-isola, il nuovo e la luce insieme, il culto, la cultura ed il fiorire della civiltà…

Chi ne ripartiva, tornava alle sue terre arricchito del sapere. I metodi, per esempio, di interazione tra progettualità e cerimonialità, con una metodologia quotidiano-sociale, fonte di arricchimento collettivo tesa a sostenere anche durante lo scorrere della vita terrena l’anello impermalente che ci lega alle forze cosmiche, sono stati molteplici, e, molti sfrondati del loro “Divino” sono oggi i metodi con i quali esercitiamo le nostre magre, asciutte e specialistiche professioni.
Così allora, la Geomanzia, oggi Architettura, tesa a perpetuare i valori esoterici, in simbiosi con quelli astrologici, cerca ogni volta, nell’intreccio della lotta tra il vento e l’acqua (Feng shui) il luogo predestinato alla costruzione.
Accanto alle colline verdeggianti, ed in presenza di un corso d’acqua, il drago e la tigre si incontrano, e dal loro atto d’amore nasce un vortice di energia benefica, e sarà quello il luogo ideale prescelto per l’insediamento (zona esogena).

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FENOMENI LUCE

 

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La luce, quindi, anche come filo di Arianna della storia: ed essa, da lei abbagliata, ci racconta, sotto molteplici aspetti, il suo comparire nelle religioni come ammaliatrice degli spiriti, nella mitologia per significare i luoghi sacri; nei territori, nelle città, nei picchi montuosi, nella biologia per spiegare la vita; nella musica, nella pittura…dovunque! Anche nella fisica, ove si sostiene che, più un corpo si avvicina alla velocità della luce, più aumenta la sua massa, fino a divenire luce essa stessa, compaiono quelle grandi teorie ove innumerevoli spunti ed affinità le avvicinano alle antiche scritture.
Quindi immaginando della luce, un “incredibile” processo all’incontrario, tendente alla formazione di una massa, di una forma, in un inesauribile processo di raffreddamento, tra le infinite probabilità, sorgiamo noi e ciò che ci circonda.

La luce, nelle antiche scritture, ci è mostrata come sintesi finale dell’unione cosmica, dove tutto confluisce, e le nostre essenze si realizzano in quell’infinito…

golfo del Messico, mare Giallo, mare Andamano, mar Nero… luoghi lontani, territori ancora da scoprire in profondità; la tendenza: “in profondità”! Conquiste nuove del sapere, altri fenomeni luce dove applicare ciò che si va apprendendo. Ma è casa, la prima culla “home”, e quindi tornati nel “Mare Nostrum” possiamo vedere altre leggende, altri miti applicati al fenomeno luce, come i fabbri di Vulcano, Dio del fuoco, nel cuore dell’Etna, le luci dello Stromboli, che con le sue cicliche esplosioni (ogni 15/20 minuti) indicavano il percorso ai naviganti diretti verso l’alto Tirreno; le pietre megalitiche ad Arzachena in alta Sardegna disposte ad arco come le corna del bue sacro, a formare la tomba dei giganti, violata all’alba dal primo raggio di sole, attraverso la piccola fessura ad arco intagliata ai piedi della pietra più grande, colei che ripara il dormiente nel suo sonno eterno: ed ecco ancora, dall’interno il volto del dormiente percepire il primo raggio di luce… 
Gli elementi vitali, quindi, in comunicazione tra di loro, fori e trafori, permettono all’energia di continuare ad essere trasmessa.
Così pure il Ka-Ba dell’antico Egitto, energia che dall’interno (tombe) si trasmette verso l’esterno (Ka) e viceversa (Ba), perché anche ciò che non è più, sotto forma materiale, continui a fluire verso la grande luce finale.
La tomba di Ramsete, il culto di Amon e la poetica del sole. Questi e mille altri spunti “luminosi” per una lettura coordinata dei miti, delle leggende, delle cerimonie, dello sciamanesimo, che formano il nostro archetipo, le colonne di cristallo, sulle quali stabilizzare la nostra zattera-isola, vista come terra non ferma… Su queste basi è necessario fondare una vasta area di ricerca, basata sull’applicazione di un metodo che tenda all’utilizzazione della cultura e della conoscenza per applicare la lezione della mitologia alle successive fasi dell’evoluzione dei popoli del Mediterraneo;

Ed ecco che “Fenomeni Luce” vari, dall’Egeo, la porta della conoscenza, alle colonne d’Ercole, dalla velocità della luce al raffreddamento della materia, dall’infinitesimamente piccolo all’infinitesimamente grande, conducono alla percezione di quella irrealtà psicofisica detta: “impermanenza”.

L’essere e non essere, l’apparire (colpire) e sparire, la metafisica e la metamorfosi, sono fenomeni conseguenti a questa consapevolezza, ed è attraverso la porta traforata della conoscenza che si compie il rito di colui che ritorna un attimo con lo sguardo sui suoi passi e non vi sarà più paura del nuovo… le due facce di una stessa medaglia, un unico filtro luminoso ma nelle due diverse realtà da osservare. 
Ed anche qui, una manovra di ingegneria umana complessa, ci consegna le possibilità di percepire a fondo le “sensazioni professionali” che esercitiamo.
E’ la luce, insieme agli occhi, direttamente collegata alla nostra memoria conoscitiva, ai nostri dati, alla nostra capacità di produrre immagini, suoni o pensieri, a “divenire” nel nostro mondo fantastico, e prendere forma non solo come discorso progettuale (in pianta), ma con qualche cosa di, sempre in movimento, mutevole, fluido, impermalente…
…uno, cento, mille… Mediterranei.
Avvinto dalla luce adesso mi trovo nell’Egeo, nelle Cicladi, sono ciò che rimane del grande pianeta scomparso: Mu; ed esse affiorarono dal mare come gemme, formando un cerchio (ciclo) il cui centro è appunto Delos… la lucente.

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Penso oggi che più tempo impiega un corpo a raffreddarsi e più armonicamente si disporrà l’insieme dei nostri meccanismi fisico-biologici, migliori e più consapevoli saranno quindi le certezze di “essere” e di poter usare le capacità infinite di cui siamo dotati.
Ma ciò che il raffreddamento a timer armonico non ci avrà dato, si potrà ottenere con lo studio, la ricerca, l’applicazione, e a mano a mano che ci si libera del proprio ego e si accetta di far parte dell’universalità, si rientrerà in possesso di quegli strumenti per i quali siamo stati resi operativi. Si può dire ancora che la luce è pura energia, che l’energia deriva dalle esplosioni atomiche dei tanti soli figli di quella piccola esplosione, che fu all’origine del Big Bang…

La mitologia racconta che Delos era l’unica isola galleggiante, e che qui Letona, amata da Zeus, inseguita dall’ira della moglie Era, costretta dal divieto di partorire in qualsiasi terra ferma, vi si recasse e desse alla luce Artemide ed Apollo…

siamo nel Mediterraneo tra tante storie impermanenti… il Mediterraneo come esempio mondiale di club-sandwich culturale, strati di storia sovrapposti, sapori che si confondono… uno, cento, mille Mediterranei…

dalla creazione del loro habitat quotidiano, alle infrastrutture del territorio, alla creazione dei luoghi sacri (vedi Delos), primi veri grandi centri d’incontro tra genti diverse, vere Nazioni Unite del passato.

Il corpo e la terra in simbiosi; le nostre vene, dove viva scorre l’energia, il “Ci”, assimilato ai fiumi, ai corsi d’acqua, questo era l’architetto astrologo-cerimoniere.
Il “Fenomeno luce” si perpetua, anche se oggi l’uomo esternamente si spente, cavaliere com’è della “Coca Cola” e dei suoi ridicoli egocentrismi.

Com’è importante invece praticare le isole della luce che sono dentro di noi, ma come dice il buddismo tibetano, dette forze (che ci spingono verso l’illuminazione) appaiono in forme spaventose ai nemici della luce e della verità.
Volendo visualizzare oggi queste forme spaventose potremo pensare alla Psichiatria, allo psicosomatico, alla paranoia, allo stress, al razzismo… religioni e sensi di colpa e quant’altre forme di sgretolamento umano il mondo occidentale e moderno ha saputo assumere nella costante e ossessiva ricerca del muro pieno, dell’ostruzionismo.
Rendersi conto che la gran parte delle malattie esistenziali del nostro tempo, nascono dalla volontà di disattendere le leggi naturali che sono insite in noi, questa volontà cosciente di voler frapporre la “ragione”, quindi il razionale, seppur fondamentale in ogni essere pensante, ad ogni soffio di metafisica, di illuminazione, di camminare con le proprie gambe, è senz’altro causa, come è dimostrato oggi, di malattie profonde, che al limite intaccano il nostro sistema neurovegetativo e rendono precario il nostro sistema (immunitario). 
Ecco che l’ostruzionismo, l’ignoranza, portano automaticamente ad un conflitto luce-malattia (buio), anche malattia di sempre; c’è oggi nella società una sindrome del “non sapere più” o del “non aver mai saputo”.
“Barbara” è la condizione del brodo primordiale, che ha originato il mondo occidentale, e con le sue barbarie ogni distruzione è stata lecita, nel passato e nel quasi presente… ma oggi, dopo le utopie ottocentesche, e le distruzioni novecentesche, una società più equa, assistenziale, informatica si è pur creata in occidente; ma

l’attesa che la ricchezza ed il benessere possano divenire gli alleati dei “Fenomeni luce”, si sta rivelando una delusione cocente.

Come sotto un rullo compressore, valori e spessori antichi sono stati spezzati via, ed i loro sacerdoti “licenziati e messi in catene”.
Questo anche perché il pensiero, nel suo imbruttimento attuale, dai generosi sospiri socratici, alla mesta depressione pan-germanica, ha contribuito alla creazione di un pensiero “dominante” e tutto quanto non gli attiene, viene definito trasgressivo, quindi tollerato, ma ridotto all’impotenza. Il volto freddo del capitalismo aleggia su di noi, dopo tanto illusionare… 
Naturalmente vi sono eccezioni: ad eventi eccezionalmente repressivi, rispondono uomini eccezionalmente rappresentativi: per leggi fisiche che regolano il flusso della luce nello spazio, Einstein, Hawking; Tiensing Gyatsò per la luce dello spirito ed il riscatto dell’uomo; Piero della Francesca per la luce nell’arte, e poi altri nelle scienze, religioni, politica e poi, semplici maestri di vita del quotidiano, presi tra la gente, dovunque. Ecco quindi prodursi lungo questa strada, forme più complesse ed articolate del sapere, nuovamente primarie, in grado di comunicare non solo per date storiche o per ordini di capitelli, ma anche ad esempio attraverso i “vezzi” dei popoli; molto spesso manifestati dalle loro architetture.
Se dovessimo dunque ipotizzare l’esistenza di due strade maestre, non è che quella di serie B, il “nuovamente primario”, sia più praticabile di quella di serie A, ma attraverso la prima si manifesta meglio la continua “reincarnazione” della storia; come se un filo logico, un narratore unico, ci facesse prendere un ascensore verso il passato e viceversa, ed è questo filo di Arianna, quello che mantiene vive le tradizioni, che ci rende delle lente, lentissime metamorfosi di una architettura e di un territorio, della loro mutazione -dall’austerità al vezzo (penso alle colombaie delle torri di Mykonos) – merletti a definire i contorni delle architetture realizzati oggi in mattoni forati e poca calce, o quello che noi italiani abbiamo fatto nel Dodecanneso vestendo le architetture che nascevano ispirate alla neo razionalista Sabaudia, con i veli delle Mille e una notte,… i vetri colorati della finestra di Tangeri… il tufo giallo di Noto, dove una città è scolpita come una statua, i pergolati a vigna di Sorrento, le cupole dei camusi di Pantelleria… le bianche colonne rotonde dell’architettura Eoliana… Nulla contro la serie A!

Anzi quanti elementi sintetici, tipici dell’espressione di ogni diversa civiltà, si manifestano nelle facciate, negli snodi strutturali, nei contenuti, nella sontuosità della “Grande Opera”, nella compiutezza di un messaggio culturale complesso, veri pilastri, a testimoniare le glorie di ogni civiltà!

Ma spesso è l’espressione del potere che le ha create a mostrarcele come cattedrali nel deserto, opere realizzate nel loro significato più profondo, anche a dispetto di una committenza spesso ignara del contenuto artistico e spirituale, ma pronta a paludarsi ed a moltiplicare attraverso di esse la propria immagine.
Questo dualismo, arte e potere, è alla radice della costruzione della nostra e di altre civiltà. Forse nella costruzione della città-stato italiana, questo dualismo arte e potere e le due strade, di cui prima si ipotizzava (A e B), si fondevano, attraverso una conflittualità che si stemperava per divenire concausa di interessi.

Il principe e l’artigiano, l’artista ed il religioso, il mercante e l’astrologo, il guerriero ed il mistico, concorrevano in modo mirabile alla costruzione di un qualche cosa che potremmo definire “evoluzione”,

vedi Sigismondo Malatesta, il signore e Leon Battista Alberti, l’Architetto e la magia della funzione oriente occidente nei lavori malatestiani di Cesena, rappresentazione di un sistema di vita dove gli uomini virtuosi e gli dei si identificavano, lavorando ora per gli uni, in sfide tecnologiche e spregiudicate, ora per gli altri.
In altri casi, ove la corda dei rapporti intersociali era troppo tesa, e quasi sempre a svantaggio del popolo suddito, il potere immancabilmente produceva disequilibrio, e più di ogni altra, ne risentiva l’architettura, pronta ad esasperare suddivisioni sociali, con barriere territoriali e diktat urbanistici… 
Quindi, tornando un attimo ai “vezzi” delle sontuose facciate di cui prima, frutto, come si diceva, di committente ove la corda sociale era troppo tesa, essi ci raccontano del travaglio degli artisti che vi affidavano messaggi della loro autonomia di pensiero e di creazione.
“Vezzi”! dai volti grotteschi e sacrilegi degli altorilievi delle chiese dei secoli bui, ai putti del Barocco, alle volute effimere, ai bugnati sproporzionati e martellati, alle “false prospettive”, arte dell’inganno? Del raggiro architettonico? Non ci erano forse costretti? E non è la costrizione a spingere spesso l’uomo ad escogitare sempre più ingegnosi stratagemmi?
Ed anche arte del segno, della ricerca di un linguaggio solo fra iniziati, esoterico il filo di Arianna, delle isole della luce che era dentro di loro!
La “Serie B”, dunque, come “inconscio” portato in superficie dalla profonda necessità dell’uomo di praticare le proprie libertà, di proseguire quel dialogo diretto con l’ancestrale, e di preservare gli strumenti primari di comunicazione verso l’evoluzione delle “cose”, in perenne conflitto con l’altra via (Serie A).

Siamo schegge di stelle; quindi attori di una metamorfosi che appare inarrestabile, ognuno con il suo processo di raffreddamento, il suo manifestarsi nella propria unicità, ma tutti insieme provenienti dalla stessa sorgente cosmica: “La Luce”.

 

“UN DOPPIO MOVIMENTO” di Giusto Puri Purini – Numero 3 – Gennaio 2016

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La prima, racconta con il fluire del tempo, la mutazione dal Classicismo all’Astrattismo, la materia “sottile” che esplode e si decompone, fino a diventare essa stessa “movimento”… (vedi tra gli altri il “Futurismo”).
La seconda, il Cinema, Arte più giovane, fotogramma per fotogramma, racconta il mondo per inquadrarne il procedere e sottolinearne il fantastico. Un Cocktail per diventare architetti?
Ora che lo sono da tanti anni, percepisco l’importanza delle due componenti ed il valore del loro intrecciarsi. Unite alla Cultura formativa, possono far nascere la “quadridimensionalità”, ovvero, la dimensione dello “spazio profondo”.

“UN DOPPIO MOVIMENTO”

 

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Enrico Prampolini diceva di Mino Delle Site: “Il colore è il suo naturale mezzo d’espressione ed egli lo usa per realizzare la quarta dimensione, scoperta entusiasmante e vitale del Futurismo”.

Lui, Delle Site da Lecce è salito a scoprire il mondo, io sono sceso verso sud, dopo averlo scoperto, e qui in un doppio movimento ci siamo incontrati.

Scriveva Bodini: “Delle Site presenta brani della sua anima che si manifesta.”

Il colore, quindi, per Mino Delle Site, che da Lecce, meravigliosa, dorata e barocca, terra dai toni caldi ai mezzitoni, ne fa un artista globale. Saturo d’interessi molteplici, dai paesaggi, alla moda, al design, alla pubblicità e poi all’aeropittura, lo portano negli anni 30 a Roma e poi in giro per il mondo, con quell’arioso e scientifico passato della sua terra.
Lo incontro, attraverso le sue belle opere, grazie alla figlia Chiara Letizia, in occasione dell’allestimento di un Salone di Rappresentanza al Circolo del Ministero Affari Esteri, che inevitabilmente diventa “la Sala Delle Site“, grazie naturalmente all’attiva partecipazione dei fratelli Vattani, Ambasciatori.

Lì percepisco le evoluzioni felici dell’aeropittura, i ghiribizzi cosmici, come li definisce Lorenzo Canova nella sua presentazione e quella delicatezza, tipica della terra salentina, dove ogni cosa è mutevole tra continue luci ed ombre.

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Ora ne parlo con cognizione di causa, essendomi in parte, dopo tanto girare, trasferito in un’antica masseria contadina, vicino a S.Maria di Leuca (Lecce), ristrutturata ed oggi, ecosostenibile, nel centro di quei vortici naturali, che caratterizzano gli ultimi 20 km del tacco d’Italia, tra due mari, lo Ionio e l’Adriatico.
Ecco, percepisco i luoghi dell’Arte e della formazione scientifica dell’artista, la sua appartenenza agli archetipi di quelle terre. Aleggiano come monadi nello spazio e sono messapiche, daune e peucezie, dall’Epiro veniva la madre di Alessandro il Grande, ad un tiro di schioppo da Otranto, andando a iniziare con il fiorire dell’architettura della pietra, dolmen, menhir, mura megalitiche, il grande ciclo formativo della cultura mediterranea.

 

UNA BOTTEGA DORATA NEL CUORE DI SCAMPIA di Alessandro Montone – Numero 3 – Gennaio 2016

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In un’oscurità – fatta di silenzio, desolazione ed indifferenza – c’è Scampia, un quartiere che ogni giorno combatte per un futuro diverso, offrendo al territorio e ai suoi giovani tante opportunità per colorare di nuovo il loro avvenire. Da sempre accostata a fatti di cronaca, portata come esempio di un Sud difficile, dove è impossibile creare opportunità positive, Scampia invece racchiude, in sé, virtù inesplorate e poco conosciute che la rendono grande nella sua intima e innata voglia di essere tra i fari e tra le guide concrete per la rinascita del Mezzogiorno.

Nel tempo, molte sono le realtà sociali, culturali, aggregative che sono sorte nei territori di Scampia; fra queste, un esempio virtuoso di questo processo di rinnovamento è sicuramente la

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UNA BOTTEGA DORATA NEL CUORE DI SCAMPIA

 

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Bottega Artigiana per il Libro: un luogo, uno spazio di rivincita e di rinascita che ha nella conservazione della cultura la sua missione.

La Bottega, dunque, è oggi quel luogo nel quale la cultura rinasce come metafora positiva di un quartiere che, nel silenzio dei media, ogni giorno contribuisce a riposizionare, in un’ottica di eccellenza, il Sud d’Italia.

Al suo interno un team di 9 persone: 3 formatori e 6 legatori.
L’attività della Bottega vive principalmente grazie alle commesse che le vengono affidate da Milano a Bologna, da Firenze a Roma e da Napoli. Fra le realtà istituzionali che ormai da anni si affidano alle capacità legatoria della Bottega c’è da menzionare la Biblioteca Angelica di Roma, che dal 2012 ha creato una positiva sinergia con gli artigiani di Scampia. Molti sono stati e sono i volumi ‘curati’ che hanno ripreso forza e vigore. 
Dopo un breve periodo di ‘convalescenza’, i libri, patrimonio dell’umanità, sono potuti tornare a svolgere il loro ruolo di guida e di conoscenza impreziositi da una nuova forza tattile e visiva, grazie alle quali potranno essere fruiti, ascoltati e vissuti in tutta la loro unicità.

Nata nel 2009, all’interno della Cooperativa “La Roccia”, la Bottega Artigiana per il Libro è un’attività di puro artigianato che punta a diventare un’eccellenza fra le realtà produttive della Campania e del Sud in generale. Il luogo dove sorge, in via della Resistenza è evocativo così come la cooperativa che la accoglie: la Roccia e Resistenza. Due termini, due parole che dicono tanto. Una Roccia, che rimanda alla forza, al suo essere indistruttibile e Resistenza che richiama tutti a non rinunciare, e a combattere sempre per farcela.

La Bottega è questo, uno spazio inclusivo e integrato, forte e determinato, che ha deciso di puntare al cuore del concetto più puro di evoluzione e di progresso di ogni società: la cultura.

E’ proprio attraverso questa che si concretizza e si completa nel tempo il viaggio di ogni uomo, donna e ragazzo nella comunità di un popolo, di una Nazione e nella vita di tutti. E’ nella conservazione, nella cura e nel restauro la forza della Bottega.
Nell’era dell’e-book, del digitale e dove con un click o una app tutto diventa fruibile in tempo reale, la legatoria della Bottega Artigiana punta sulla tradizione, punta sulle pregevolezze culturali che hanno reso grande il Sud e l’Italia nel suo complesso. Le pagine, la carta, gli odori e le lettere diventano un’orchestra di suoni leggeri per promuovere e preservare il nostro patrimonio librario.
Dopo una prima fase di pura formazione durata tutto il 2009, oggi la legatoria è un luogo di produzione artigianale con un proprio nucleo di esperti in progettazione, marketing ed economia:

una vera e propria start-up nella realizzazione di interventi di restauro sia di volumi antichi che moderni; nata, cresciuta e formatasi nel cuore di Scampia.

Se si volesse invertire l’assunto negativo secondo il quale il Meridione ha sempre bisogno di avere una guida per emergere, forse ci si troverebbe a parlare di un Mezzogiorno come motore delle energie migliori da tutelare, conservare e sviluppare. I fari positivi ci sono, basterebbe seguirli per trovare la strada del successo sociale.

 

LE COLONNE DELLA VITA di Giovanna Mulas – Numero 3 – Gennaio 2016

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LE COLONNE DELLA VITA

 

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ogni costituente si fonde in un’amabile armonia capace di sopravvivere alle sfide di un progresso che può essere rappresentato da quel turismo di massa oramai divenuto, come dichiara Maurice Aymard, una “invasione pacifica ma non innocente”: in nome di una veloce ricreazione è capace di annientare i fragili equilibri delle società esistenti, considerando il nostro meridione una ricreazione, un gioco, non una realtà da conoscere e nella quale perdersi.
O ritrovarsi.

Se è vero che siamo ciò che siamo stati, la storia, questo remoto crocevia culturale, non è altro che una incessante serie di interrogazioni rivolte al passato in nome dei problemi e delle curiosità di un presente che ci circonda e chiude. Questo è finalmente da assimilare, o saremmo foglie che non sanno di appartenere allo stesso albero.
In realtà tutto aderisce alla natura originaria, nonostante gli uomini pare che non abbiano mai assorbito nulla dalla storia, né agito in base ai principi da essa edotti:

Eppure è indispensabile, per l’Uomo, cominciare a comprendere che il temuto dolore non serve a togliere merito e dignità, ma a maturare, ad abbracciare quell’Attorno che è rappresentazione del Templio che è la nostra interiorità.

Ma la comprensione o meglio, l’accettazione della sofferenza, avviene se non ci distrugge, se non annienta lo spirito quindi il rispetto per le cose semplici, indispensabili. Per dirla alla Pessoa: Ci sono navi dirette verso molti porti, ma nessuna verso dove la vita non è dolore. 
Pare impossibile uscirne per quanti ne attraversano, a piedi nudi, il sentiero; ma passa, passerà: si farà più sopportabile. Occorre lasciare che scorra il tempo, Colui che tutto sana. Pare impossibile uscirne per quanti ne attraversano, a piedi nudi, il sentiero; ma passa, passerà: si farà più sopportabile. Occorre lasciare che scorra il tempo, Colui che tutto sana. 
Pensiamo alle Colonne d’Ercole, ritenute l’accesso verso un nuovo mondo, sorveglianti della rotta per luoghi sacri, simbolo di crescita, illuminazione mentale e spirituale dopo la prova, necessaria ad ogni uomo, del dolore. Secondo Platone, la perduta Atlantide era situata oltre le Colonne d’Ercole, nel regno dell’Ignoto, per Bacon, tra le colonne corre il sentiero che porta verso il superamento delle incertezza terrene, al perfetto ordine dell’Uomo Nuovo. 
“La città degli eletti filosofici si staglia dalla vetta più alta delle montagne della Terra, e qui gli dèi degli sapienti se ne stanno insieme in una felicità eterna”.

Dunque dopo e solo dopo, appare la visione del mondo oltre ogni diversità e cultura: solo questa può e potrà cristallizzare un dato tipo umano al fine di donare all’intera Comunità.

Come scrive Luigi M. Lombardi Satriani: “…Assistiamo a sempre più intensi processi di carnevalizzazione della vita, che marcano nettamente la nostra temperie culturale e politica. Quanto più clownesca la sfera pubblica, tanto più carnevalizzata la vita sociale. Tant’è. Così appare il mondo che ci è dato vivere”.

Durante la fase di evoluzione l’Uomo soffre – perché rinnegare quella sensibilità che ci appartiene come e per Natura? – ma non teme: guarda dall’esterno il suo dolore.

La tradizione rinascimentale riporta che i pilastri recavano l’avvertimento “Nec plus ultra” (anche “non plus ultra” “nulla più in là”), che serviva da ammonimento per i navigatori a non proseguire oltre. “Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate”, ovvero Porta del Buio?. Si ribaltino immagine e pensiero; la Porta del Buio non diviene, forse, Porta della Conoscenza? Buio per la Luce dunque e ancora, disillusione o patimento, comunque attraversamento della propria parte inconscia, quindi rifiutata e temuta ché sconosciuta. L’idea di morte non genera forse immotivato timore dovuto alla comune ignoranza del dopo, se dopo esiste?. Anche qui la superbia umana ha il sopravvento sul raziocinio: voler necessariamente credere a un dopo è ritenere di essere degni di un dopo.

I pilastri si fanno metafora di equilibrio tra due forze opposte, “Stabilità” e “Forza”i due opposti di cui è costituita la natura umana. Sono espressioni attive e passive dell’energia divina, bene e male, il sole e la luna, luce e oscurità.

E’ in questi attimi del navigare l’Esistere che è bello incontrare un legame forte, più forte Di e Tra tutti Noi: 
e qui vedo l’Uovo, espressione figurata dell’embrione primigenio da cui sarebbe scaturita la vita, è ciclo che arriva al sangue e lo continua, dove la terra si ferma. 
Quando la foschia dell’illusione sfuma si apprende, ad esempio, a smascherare l’inutile abbaiare di un altro, a sgonfiarlo di ogni presunzione come farebbe lo spillo sul palloncino ché gonfio, tronfio come è, non riesce più ad accogliere niente altro che non sia la propria boria, e simulazione.
A volte il coraggio di svilire, spezzare il falso e l’apparenza, non rappresentano incoscienza o amore del pericolo quanto capacità di distinguere cosa è ‘male’ per un uomo o per l’intera Comunità, e cosa non lo è. Per dirla alla Seneca, il coraggioso custodisce la propria tutela e nello stesso tempo patisce con risolutezza gli eventi che hanno l’ipocrita apparenza di mali.

Nella ‘Forza’ sarà ‘Stabilità’ la mia dimora.

(Da ‘Riflessioni, Pensieri’)

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AL LIMITE DI UN TEMPO SENZA STORIA di Alessandro Gaudio – Numero 3 – Gennaio 2016

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A proposito dei suoi versi si è spesso parlato di «itinerario fenomenologico e psicolinguistico nell’autobiografia»1 e lei stessa era solita definire la sua scrittura «psicanalitica e subconscia»2, creando poi per essa la categoria della bio-parola, ovvero della bio-poesia. Sono tante le poesie che si rifanno a questo principio − ad esempio, quelle incluse in Mediazioni e ipotesi per maschere (Firenze, Vallecchi, 1985) − ma preferisco trascrivere una di quelle contenute nel terzo volume delle Proporzioni poetiche, antologia curata da Domenico Cara nel 1987 (Milano, Laboratorio delle Arti, 1987, pp. 137-138). Si intitola E non rinasceremo e la riporto qui di seguito, prima di ridiscuterne brevemente la disposizione all’indagine esistenziale per i lettori di «Myrrha».

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AL LIMITE DI UN TEMPO SENZA STORIA

 

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Nella noia di un ritmico esistere, per il tramite della sua operazione poetica, la Verbaro porta avanti il viaggio inquieto che parte dal suo Sud («Quella terra fantastica / persa tra tempi lunghi e spiagge aperte»)

In questa località psichica, che ha una propria spazialità, ma che è priva di una topografia rigorosa, si forma uno degli stadi preliminari delle immagini che prendono parte alla poesia di Giusi Verbaro.

Quella terra fantastica
persa tra tempi lunghi e spiagge aperte
su cui scrivemmo antiche profezie
io l’ho veduta crescere nel sangue
e tingersi di rosso
e poi impazzire al grido degli uccelli
al commiato dolente dell’estate

Questa morte che un vento sterminato
mi colma di occhi bianchi
e mani accese
si consuma straziata
lungo tracce di passi innumerabili
e angeli addormentati nell’attesa

(Senza memoria arrendersi
nei giardini di Tebe
aspettando le piogge)

e mai come stasera − sfiancata dalle nebbie −
poserò le mie fughe
al limite di un tempo senza storia

Non abbiamo proposto che saggezze
al vento secco che straziato incalza
da millenni a millenni
e il torpore ha spianato faglia a faglia
il miracolo inquieto dell’amore
che schiantasse radici
gonfie di linfa viva
sulla soglia di un giorno rinviato
ad altro giorno ancora
ad altro, ad altro…

e non rinasceremo
alla grazia solare dell’estate

e, passando di strato in strato, da «da millenni a millenni / […] faglia a faglia», conduce a un tempo-luogo «su cui il mito affiora a codificare nel simbolo l’implicito, l’inconscio, il non codificabile».3 La poesia, dunque, si configura come rappresentazione che, essendo legata alla parola, al linguaggio verbale, più che subconscia è, per meglio dire, preconscia. Ma in che modo la parola consentirebbe alla Verbaro di pervenire a ciò che è implicitamente presente nell’attività mentale? Si conoscono bene, del resto, le difficoltà che Freud stesso aveva dovuto affrontare nel definire lo spazio del subconscio e che lo avevano indotto ad abbandonare tale categoria, preferendole quella di preconscio ed è quest’ultima che qui si sceglie per definire lo spazio virtuale all’interno del quale si muovono i versi della Verbaro.

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Cos’è, d’altra parte, il subconscio? Ciò che è debolmente conscio? Oppure ciò che si trova nella psiche al di sotto della soglia della coscienza? Oppure ciò che ad essa è precluso?

Si potrebbe dire che lo spazio preconscio, restando implicito, qualifichi ciò che sfugge alla coscienza; ed effettivamente lo fa, mediante il vaglio di una censura che, a un estremo, evita che i contenuti inconsci trovino la via per il preconscio e la coscienza, facendoli passare come in una strettoia; all’altro, controlla l’accesso alla coscienza, essendo in grado di selezionare i contenuti sui quali esercitare la propria attenzione. La bio-parola della Verbaro individua e descrive il residuo cosciente delle preoccupazioni perturbanti presenti nella sua esistenza; il soggetto, così, è perfettamente in grado di rievocare i propri ricordi lungo un viaggio poetico − tra memoria e mito, al limite di un tempo senza storia − che adegua una località psichica (psychische Lokalität, diceva Freud) a un sapere cosciente ma che, cionondimeno, non è dotato di una scansione predeterminata ed esatta.

Ciò avviene perché la poetessa, nei versi qui trascritti così come in altre occasioni, brandisce l’estraneità di ciò che le è familiare, situandosi in un altrove privo di ordinamento − dove il vento diviene sterminato e straziato e straziata è anche la morte, dove i passi sono innumerabili e il miracolo dell’amore è inquieto − la cui idea non può essere immediatamente analogica, ma che, nondimeno, le consente di instaurare un rapporto produttivo con il suo Io e con l’ambiente che lo circonda. Ciò, peraltro, chiarisce la funzione che − a detta della stessa Verbaro − ha avuto la poesia nel corso della sua esistenza: vale a dire, come preannunciato all’inizio, mappa, bussola, rotta, ragione e mezzo d’indagine di un’intera esistenza.

 1 S. Lanuzza, Lo sparviero sul pugno. Guida ai poeti italiani degli anni ottanta, Milano, Spirali, 1987, p. 256.
2G. Verbaro Cipollina, Le alchimie dello stregone. Appunti e riflessioni sulla poesia italiana degli anni ’80, Soveria Mannelli, Catanzaro, 1984, p. 60. Il saggio dal quale si trae la definizione riportata introduceva già la bella antologia intitolata Poeti della Calabria e curata dalla stessa poetessa nel 1982 per i tipi di Forum / Quinta Generazione; la citazione figura a p. 20.
3È quanto sostiene la stessa Verbaro Cipollina nella nota introduttiva a Mediazioni e ipotesi di maschere, silloge del 1985 già citata più in alto (p. 9).

 

LA COSTITUZIONE MANCATA A NAPOLI di Cesare Imbriani – Numero 3 – Gennaio 2016

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Cesare-Imbriani
Stato-Napoletano

Avrei potuto, anzi forse dovuto titolare le poche cose che dirò: “i Borbone e le Costituzioni mancate” o, meglio, “i Borbone e le occasioni mancate”, riferendomi così ai vari problemi di politica interna e internazionale, un insieme di nodi irrisolti o mal gestiti la cui somma si è riflessa alla fine nel dissolvimento del Regno delle due Sicilie. Basti ricordare la “questione dello zolfo”, che vide coinvolte con differenti ruoli le due maggiori potenze dell’epoca, Inghilterra e Francia, oppure la necessità della riconquista della Sicilia manu militari da parte di un sovrano della dinastia restato nel dire comune (dopo il bombardamento della città di Messina) con l’appellativo di Re Bomba, o ancora le mancate risposte ad una laicizzazione costituzionale in una Europa che era una polveriera di richieste di rappresentatività democratica.
Ho scelto invece di riferirmi alla Costituzione Napoletana del 1820/21 per tre ordini di motivi:
1- Perché, nei fatti, ritengo che, insieme ai noti problemi interni del Regno delle Due Sicilie (legati essenzialmente al mancato costituzionalismo ed anche ai problemi della annessione in una logica di stato unitario del Regno di Sicilia), la fine dello

 

LA COSTITUZIONE MANCATA
A NAPOLI

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In definitiva si può ritenere che il 1820/21, per dirla con un termine molto usato in economia, rappresenti una sorta di benchmark interpretativo. In tale periodo re Ferdinando, stretto dai suoi rapporti con l’Austria per la attuazione ed il rispetto degli impegni derivanti dal Congresso di Vienna, ma anche da quelli della restaurazione del Regno fece esporre il figlio Principe vicario Francesco che, quale suo mandatario, promulgò una Costituzione sul modello di quella spagnola di Cadice.

Ciò però si realizza in un quadro di costanti e mancate risposte istituzionali e politiche da parte dei Borbone alle problematiche interne specie al costituzionalismo, di cui quello del 1820/21 fu una occasione a mio avviso stoltamente mancata, perché avrebbe consentito alla Casa regnante di collocarsi dal lato giusto della storia.
2- Certo, e siamo al secondo motivo, anche (per alcuni, soprattutto)

l’ottuso rifiuto di una effettiva modernizzazione istituzionale – dopo il periodo rivoluzionario del 1789 e quello murattiano dell’inizio del secolo – ebbe un ruolo fondamentale e favorì nel momento della dissoluzione del Regno

davanti alla avanzata delle truppe garibaldine (in palese violazione del diritto internazionale) un comportamento di non interventismo, un benign neglect all’incontrario, delle varie potenze: tale atteggiamento riguardò oltre a Francia e Gran Bretagna (come poteva essere prevedibile), persino l’Austria, frenata nel suo intervento anche dalle superiori capacità della flotta inglese. La Prussia era invece distante, ancora in crescita ed alla ricerca di un consolidamento di ruolo in Europa; la Spagna era ormai troppo debole e poco ascoltata nel contesto dell’equilibrio dei poteri. Solo la Russia cercò di intervenire diplomaticamente davanti all’evidente sopruso militare e politico che veniva perpetrato, anche in ricordo dell’atteggiamento a lei favorevole del Regno delle Due Sicilie in occasione della Guerra di Crimea, quando di contro il Piemonte le si era schierato contro con Francia e Gran Bretagna; ma ciò non bastò.
3- Ecco, quindi, e siamo al terzo motivo, l’importanza politica della vicenda del 1820/21 e della

Costituzione

(concessa dopo moti insurrezionali di matrice carbonara che coinvolsero guarnigioni nella zona di Nola – gli ufficiali Morelli e Silvati, il prete Minichini – e poi in Irpinia), la quale

avrebbe collocato il Regno napoletano dal lato delle monarchie costituzionali, prima di tutte nell’Italia Continentale.

Per il vero, una prima Costituzione sulla falsariga di quella inglese fu concessa dai Borbone alla Sicilia nel 1812,quando la parte continentale del loro Regno era sotto il dominio francese nella persona di Murat. Tale costituzione viene quindi correttamente ricordata come l’assetto costituzionale italiano che anticipò il normale decorso di democratizzazione già implicito nelle dinamiche risorgimentali; purtroppo la Sicilia, nell’ambito delle sue continue vicende indipendentiste, quando si concretizzò una Costituzione ispirata da Lord Bentinck, la vide dismessa nel successivo accorpamento unitario del Regno di Borbone. Ed è ben noto che la mancata risoluzione, almeno in termini federali, della questione siciliana fu un altro fondamentale motivo di debolezza del Regno napoletano.

all’inizio del 1821, Re Ferdinando l si recò a Lubiana, al Congresso convocato con fini di Restaurazione dopo i moti insurrezionali di quel periodo; promise solennemente nel partire da Napoli, che avrebbe difeso e giustificato la Costituzione nel consesso delle altre nazioni.

Era una Costituzione con evidenti limiti istituzionali, ma rappresentò un’occasione importante perché era determinata in un clima sicuramente lealista rispetto all’istituto monarchico. Gli stessi deputati dell’epoca, tra cui Giuseppe Poerio, padre del più noto Carlo (storicamente conosciuto, perché alcuni anni dopo divenne un simbolo internazionale della repressione delle libertà attuate dai Borbone) erano per la massima parte fedeli all’istituto monarchico, seppur recependo le abbondanti tracce dell’illuminismo locale.
In ciò Napoli dopo le esperienze rivoluzionarie del 1799 e l’epoca murattiana, piena di cambiamenti ideali e strutturali, si era sempre differenziata idealmente e culturalmente dall’altra “capitale agognata”, Palermo, dove invece il riconoscimento del Regno passava attraverso un complicato gioco di richieste di rappresentatività politica e gestionale, al fine di ripristinare autonomie statuali, che configgevano con l’atteggiamento fortemente unitario, da un punto di vista politico ed economico, dei Borbone.
Ma i patti sottoscritti non furono rispettati:

la Costituzione del 1820, seppure nei suoi limiti, era la cosa giusta al posto giusto, nel momento giusto, da un lato, per allentare la sudditanza verso l’Impero Austro-ungarico (che a sua volta si dissolse nel 1918,cioè meno di sessanta anni dopo il Regno delle due Sicilie); dall’altro, per far divenire lo Stato napoletano un Attore rispettato ed autorevole del processo di unità nazionale, che all’ epoca perseguiva anche vie federaliste;

Viceversa, la sua richiesta di intervento giustificò una spedizione di truppe austriache, che attraversò la penisola e si scontrò con l’esercito napoletano guidato dal generale Guglielmo Pepe nei pressi di Rieti e poi alle gole di Antrodoco.
La sconfitta dell’esercito costituzionale comportò il ripristino di un regime di monarchia assoluta nel Regno delle due Sicilie; le dolorose esecuzioni di vari rivoltosi, seppur leali ad un istituto monarchico costituzionale, la diaspora dei Deputati del primo Parlamento napoletano ed il pagamento per molti anni del corpo di spedizione austriaco (una sorta di beffardo tutoraggio, come ancora oggi si vede nel contesto delle relazioni internazionali) furono i dolorosi residui di una vicenda che peserà negli anni a venire, sconnettendo la intellighenzia risorgimentale del Sud dai destini dei Borbone. Per inciso, il generale Pepe lo ritroviamo nel 1848 a difendere Venezia per poi morire nel 1855 esule a Torino.
Insomma,

tutto ciò avveniva ben prima che il Piemonte si impossessasse di quel ruolo che ci condusse all’unità nazionale.

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TAMBURO, IL RITMO DEL CUORE di Titta Mancini – Numero 3 – Gennaio 2016

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Infatti, è essenzialmente poverissimo nella fattura, costruito con materiali facilmente offerti all’uomo dalla natura – pelle animale (di capra o capretto), legno e, a volte ma non sempre, pezzetti di latta o altro metallo di poco valore per i piattini (o cimbali) di accompagnamento lungo il bordo. 
Il nostro tamburello italiano o tamburo – ce ne sono di diverse circonferenze – è detto ‘a cornice’ proprio per la cornice di legno che contorna la pelle animale sulla quale il percussionista batte il tempo, dando origine alla vibrazione sonora, che costituisce la musica del tamburo, o se vogliamo, la sua voce.

TAMBURO, IL RITMO DEL CUORE

 

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Il tamburo è l’unico strumento musicale presente in tutte le culture del mondo, dagli indiani d’America all’estremo Oriente, dal nord Europa all’Africa, e il Mediterraneo dall’Italia al mondo arabo. Questo, in ogni epoca della storia. Ci sono testimonianze primitive dell’uso di strumenti a percussione di forma circolare. A noi vicine, le immagini dell’epoca fenicia o romana:

Una danza continua, le cui movenze ricordano i nostri antenati, il viaggio che dalla semina conduce al raccolto. Che lo si eserciti come ballo o che soltanto lo si apprezzi per il valore simbolico.

Sono soltanto esempi. L’iconografia ne è ricca, sia popolare laica, sia cattolica cristiana.
Dalle origini mitologiche all’uso nei campi, più di recente. La storia del nostro paese e, in particolare, del Sud, ci consegna la musica popolare come madre di ogni ritmo. Non a caso l’universalità dello strumento descritto, come si diceva, presente in ogni continente, nasce proprio dalla sua peculiarità:

le sacerdotesse fenice usavano suonare il tamburello nei riti propiziatori per la fertilità; i romani lo utilizzavano ad accompagnare le feste dionisiache, vino, canti e musica nelle ville di Pompei, e lo raccontano gli stessi affreschi salvati dalla distruzione della città antica.

Ci sono anche uomini e donne, per lo più anziani oggi, che hanno creato maniere di suonare, stili, che portano quindi il loro nome, alla maniera di…
Si accennava al mondo dei campi. Dal medioevo ad oggi la musica popolare, con il suono del tamburo, semplice, potente, evocativo, profondo o acuto, è servita a più scopi. Sul ritmo nascono rime e invocazioni, proteste e incoraggiamenti, riti propiziatori di derivazione pagana in favore della fertilità in senso lato, dell’amore come forma di corteggiamento, provocazione, sfida. Il lavoro nei campi e la fatica di guadagnarsi il pane, la necessaria ricompensa e la protesta in caso contrario, in nome di una sociale giustizia. Sono tutti temi che hanno attraversato il canto popolare dando corpo, voce e musica proprio a questi sentimenti di comunanza.

Il culto mariano, soprattutto nella regione Campania, ha riadattato la musica popolare in chiave religiosa, sacra; il popolo con le cosiddette ‘tammurriate’ (e qui il tamburo usato è di dimensioni più grandi, la tammorra) si rivolge direttamente alla Madonna

Il tamburo non è l’unico strumento del mondo popolare – spesso ad esempio è accompagnato da piccole nacchere o castagnette (così dette nel vesuviano), indossate e suonate dai danzatori sul ritmo della percussione – ma è certamente, il tamburo, l’oggetto musicale che meglio rappresenta nella sua stessa struttura la filosofia della musica nata dal popolo: una musica ancora viva nel nostro Sud e che continua a garantire il legame profondo che unisce l’uomo meridionale alla sua storia. E’ una musica circolare. Come il sole, come la luna, come il ciclo intero della vita.

il tempo sul tamburo rievoca, o addirittura imita, il ritmo del cuore. Il primo e più antico suono che l’orecchio umano abbia mai percepito, addirittura in se stesso.

(sette Madonne, secondo la tradizione quasi leggendaria, sette Sorelle, sei belle ed una nera), per una grazia che si chiede cantando e suonando. 
Il suonatore e i danzatori: nella cultura salentina, leccese, il tamburo accompagna invece il violino perché la musica ripetuta e ipnotica risvegli nella tarantata, quasi sempre donna, le capacità innate di guarigione, contro il veleno del ragno. E qui parliamo di pizzica: il morso vero o presunto, reale o immaginato, sempre certamente simbolico, l’espiazione del male e la liberazione attraverso la musica. 
Difficile sintetizzare in poche righe la sacralità che accompagna l’uso del tamburo anche laddove il rito o l’iniziativa musicale prende forma da una semplice necessità di aggregazione, come la festa, una tarantella via l’altra; c’è sempre nel sottofondo del ritmo il passo antico di una sonorità che ci appartiene, nel profondo. Quasi magica. Come la terra, la nascita, il cuore che batte.

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E forse ancor prima di nascere. Ecco il battere sulla pelle animale. E non c’è niente di scritto in questa musica che si tramanda di generazione in generazione, di padre in figlio, di nonno in nipote. E’ a trasmissione orale e manuale: il movimento delle mani, quella che regge lo strumento e quella che lo percuote, dall’impugnatura alla riproduzione del suono in tempo binario o terzinato, si impara osservando e provando assieme al maestro della tradizione, in genere un riconosciuto ‘grande vecchio’ del paese,

così al Sud, dove ancora è molto forte la cultura della musica sul tamburo e altrettanto forte la gelosia che accompagna la sapienza. Tecniche conosciute da centinaia di anni, ma riposte nelle mani di pochi.

Per accordare un tamburo servono acqua e fuoco, acqua per allentare la pelle, fuoco per renderla più tesa. Umidità e calore. E torniamo alle origini, per fare musica.