LA RICCHEZZA NASCOSTA DEL POVERO MEZZOGIORNO di Carlo Curti Gialdino – Numero 2 – Ottobre 2015

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‘misteriosa’ villa extraurbana rinvenuta nel 1963, oltre 50 anni fa, per puro caso, nel corso di lavori infrastrutturali. 
E’ completamente lontana dagli itinerari turistici, Casignana, neanche mille abitanti, e la sua collocazione evoca echi inquietanti. Si trova, infatti, nella Locride, in provincia di Reggio Calabria. Un nome spesso ricorso nella cronaca nera, che richiama alla memoria faide senza fine e un sistema malavitoso pervasivo. 
Sotto il profilo amministrativo, al momento, tutto è congelato e i Commissari prefettizi gestiscono l’ordinaria amministrazione, ovvero non si possono avviare iniziative atte a valorizzare questo prezioso tesoro cittadino, azione promozionale e culturale per cui da anni si batte l’on. Pietro Crinò, oggi consigliere regionale. 

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LA RICCHEZZA NASCOSTA DEL POVERO MEZZOGIORNO

PARTE II

 

 

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I mosaici ubicati in località Palazzi di Casignana, molto vicina al Mar Ionio fanno parte di una 

un tesoro preziosissimo, i cui mosaici gareggiano in bellezza, raffinatezza, straordinaria qualità artistica con quelli di Piazza Armerina e di Pompei.

E’ dello scorso 31 luglio, infatti, la delibera del Consiglio dei Ministri di prorogare lo scioglimento del Consiglio comunale di Casignana, per infiltrazioni della ‘ndrangheta. Inizialmente, il provvedimento era stato emanato il 18 aprile 2013. Una realtà sociale e amministrativa bloccata dalla situazione dell’ordine pubblico così degradato, pur avendo splendide prospettive per il tesoro archeologico che custodisce nel suo territorio, qualora se ne sapesse indirizzare bene il marketing territoriale presso le grandi agenzie di viaggio ed i siti turistici…
Ma torniamo al bello che i nostri avi seppero costruire (magari altrettanto ‘inquietanti’ di quelli di oggi nei loro vertici, ed altrettanto avidi, la storia ce lo insegna, ma con l’orgoglio di lasciare un segno alla posterità) e che noi, loro eredi, stupidamente vandalizziamo. 
Ci sono voluti 36 anni affinché, da quei casuali ritrovamenti in Contrada Palazzi, da parte delle maestranze della Cassa per il Mezzogiorno, impegnate nella posa di un acquedotto, il sito di 15 ettari fosse oggetto di una serie di campagne di scavo che ci hanno restituito

Al disvelamento di quest’opera, la Regione, inserendola nei Fondi europei, ha previsto un finanziamento di 2,5 milioni di euro, cifra che, in un paese normale, basterebbe senz’altro a recuperare un simile tesoro.

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L’assoluto isolamento della Calabria dalle rotte di un turismo non stagionalizzato, che non sia quello estivo, balneare, è la dimostrazione che, accanto alle cattedrali nel deserto industriali, esistono quelle culturali, archeologiche, straordinarie eredità di cui sembra non sappiamo cosa farcene. 
Gli stessi Bronzi di Riace che, al loro ritrovamento e nei primi tempi di esposizione, suscitarono clamore e file di turisti, ora sono stati restituiti al Museo da cui provenivano, sottoposto a lunghi restauri, ma a lungo sono stati un ammennicolo del Palazzo della Regione. 
Arrivare a Casignana è difficile. Ma soprattutto è difficile un’opera di marketing territoriale che tenga conto degli svantaggi competitivi dell’area. Manca persino un punto di partenza, ovvero un’amministrazione comunale in carica. Quei 2,5 milioni di euro al momento affidati al SUAP (Sportello Unico Attività Produttive) per realizzarne l’appalto servirebbero per continuare a scavare oltre gli 8mila mq già svelati;

per capire che ci fa un tesoro proprio lì; e di chi fosse quella villa, sorta in un pizzo di mondo piuttosto incongruo nella logica territoriale dell’antica Roma,

anche se si ritiene che essa sia sorta lungo la strada che collegava Locri Epizefiri e Rhegion (l’antica Reggio Calabria); ed è l’unico reperto romano in un mondo magno-greco.
L’attuale parco si compone di oltre 20 ambienti, con un cortile centrale, su cui si affacciano le terme, un giardino ove era collocata una fontana monumentale; i servizi; la zona residenziale vera e propria.
Le terme replicano quelle presenti nell’antica Roma: hanno i loro frigidariumtepidarium e calidarium. Accanto a quest’ultimo, c’è il laconicum, dove c’erano le saune (essudationes), dove il riscaldamento si realizzava attraverso i praefurnia (bocche da forno, collocati sotto il lastricato. Tutto questo sistema si è conservato fino ai giorni nostri ed è visibile ancor oggi.

Le vestigia più pregevoli sono rappresentate dalle pavimentazioni musive. Importantissima è quella della ‘sala delle Nereidi’,

dove, con tessere bianche e verdi viene rappresentato un thiasos marino da cui emergono quattro Nereidi (Ninfe marine), ognuna in groppa ad un animale simbolico: un leone, un cavallo, un toro ed una tigre.
Nella sala d’ingresso a Sud, è emersa l’immagine di un volto femminile, composta a tessere in colori vivacissimi e circondata da girali vegetali. 
Lascia sbalordita la bellezza della Sala delle Quattro Stagioni, ovvero la sala triclinare; ed è in corso di scavo l’anfiteatro. E’ stato altresì rivelato un altro pavimento, con un Bacco ebbro sorretto da un giovane Satiro, che versa vino da un’anfora. Non finisce qui. Vari avvistamenti casuali fanno ipotizzare che proprio lì davanti ci siano reperti in mare altrettanto preziosi. 
C’è anche la vecchia storia della Sfinge, di sofisticata fattura, ritrovata dallo scrittore Axel Munthe, capitato per caso proprio in questo luogo ed ora installata a Capri, a Villa San Michele. Non sarebbe il caso che tornasse a casa?

 

IL SAPORE DELL’INCOSTITUITO, OVVERO LA SULFARA TULUMELLO di Alessandro Gaudio – Numero 2 – Ottobre 2015

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È mediante uno strumento naturale di osservazione che si può connettere l’opera di un pittore, di un poeta, di un romanziere o anche di un filosofo, di un fotografo, di un musicista o di un artigiano a un luogo geografico, sempre che sia individuato con la massima precisione storica, oltre che geografica. Tale spazio particolare non è necessariamente quello in cui l’artista in questione è nato o nel quale svolge la propria attività, ma è a questa che si riannoda per un qualche rispetto ed è, ovviamente, situato a Sud. Muovendosi lungo il nesso tra arte e realtà a essa contingente, impugnando la storia, la geografia e la scienza della cultura occidentale e dei suoi limiti più estremi (quelle meridionali),

IL SAPORE DELL’INCOSTITUITO, OVVERO LA SULFARA TULUMELLO

 

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partecipa alla costruzione della realtà, anticipando gli approdi delle scienze umane o, magari, contribuendo a un loro assetto più funzionale.

È questa la via difficile di un moderno umanesimo che si snoda oltre i margini d’espansione della civiltà tardocapitalistica e che consente, al contempo, di sviluppare la coscienza di una nuova dimensione mediterranea; ovvero, di delineare una nuova mappa del Meridione che serva a guidare i lettori di «Myrrha» lungo un itinerario (intellettuale, ma non soltanto d’arte) mai percorso prima, un nuovissimo compendio dell’inattualità meridiana, nel cuore della cultura europea. Per far ciò, si riproduce un lavoro dell’artista scelto, accompagnato da una ricognizione critica che ne delinei sinteticamente le peculiarità ed, eventualmente, le connessioni con il luogo corrispondente.
Inizio con Agostino Tulumello, un artista nato nel 1959 a Montedoro, borgo situato a circa venti chilometri a ovest di Caltanissetta, vicino a Racalmuto, a Canicattì, a Serradifalco, in Sicilia.

I fili dell’opera intessuta da Tulumello − allo stesso modo − restituiscono l’estensione singhiozzante della realtà e del modo in cui essa viene percepita, avviluppata dai sensi come tra le spire brulicanti e ammaliatrici di un serpente d’acqua

Nelle sue opere egli è solito individuare un elemento visuale primigenio che, scelto per la sua elementarità, possa rinviare al processo (anche psicologico) della creazione, all’interno del quale si preparano le relazioni tra gli elementi, le gradazioni pittoriche e la prospettiva.

 

1 A. Pizarnik, Árbol de Diana [L’albero di Diana, 1962], in Ead., La figlia dell’insonnia, Milano, Crocetti, 2015, p. 38. Si riporta la traduzione di Claudio Cinti, curatore dell’unica raccolta antologica della poetessa argentina pubblicata in Italia: «Questi fili imprigionano le ombre / e le obbligano a render conto del silenzio / questi fili uniscono lo sguardo al singhiozzo» (ivi, p. 39). 
2 Sulla dimensione frattale esibita nell’opera di Agostino Tulumello e sullo schema iterativo e omotetico tipico del suo tratto si rimanda a A. Gaudio, Consistenza e caso. Idea e confini del neodadaismo da Cage a Pleynet e oltre, «Diacritica», a. I, fasc. 1, 25 febbraio 2015, pp. 49-60, in particolare pp. 52-54; ma si veda anche Id., Al di qua del linguaggio. La concezione scritturale dell’opera di Agostino Tulumello, «Rivista di Studi Italiani», a. XXXIII, n. 1, giugno 2015, pp. 793-796.

 

Nelle tele della serie di cui fa parte l’opera qui riprodotta, denominata Scrittura come cibo, egli tenta − come è sua consuetudine − di congelare alcuni degli elementi che poi precipiteranno nella figurazione e, pertanto, nella determinazione del gusto. Cosa accade nel processo di figurazione di un’opera d’arte prima che il gusto si orienti? Sembra che l’interesse di Tulumello verta intorno a tale questione; tuttavia, ci troviamo ben al di qua rispetto alla poesia gastronomica di Franco Verdi, esperimento ironico e irriverente nei confronti dell’atto creativo disimpegnato, precostituito e inscatolato; eppure, si può guardare a quell’operazione portata avanti dal poeta visivo veneto nel 1969 per comprendere meglio il valore del godimento per l’incostituito, proposto dal pittore siciliano. A questo stadio (quando ancora non ha fame), il processo sensoriale non va alla ricerca delle sottigliezze della modulazione del gusto, del sapore; mira, invece, a un concentrato di senso, inodore e insapore appunto, a un’immagine persistente o consecutiva che non segni il verso di una definizione; ricompone una totalità integrale, una grandezza sensoriale intera, colta nella sua indivisibilità non ancora orientata.
Guardando i segni grafici di Tulumello e facendo un ulteriore passo all’indietro, torna alla mente ciò che, nel 1962, sosteneva la poetessa di Buenos Aires Alejandra Pizarnik a proposito di un disegno di Wols, pseudonimo di Alfred Otto Wolfgang Schulze, pittore informale berlinese: «Estos silos aprisionan a las sombras / y las obligan a rendir cuenta del silenzio / estos silos unen la mirada al sollazzo».1

(della biddrina, magari, l’animale mitologico ferocissimo che vive nelle campagne di Caltanissetta), allorché il significato di quella realtà non ha ancora raggiunto un’estensione riconosciuta, un spazio di quiete. Lo spazio dell’opera di Tulumello coincide con l’inferno fisico fatto del dedaleo e folto andirivieni delle volute e dei nodi del serpente o, anche, delle esalazioni dello zolfo di Sicilia: esso è ridondante come l’eco dei colpi di piccone che, sino alla fine degli anni Cinquanta, risuonavano nelle miniere di Montedoro, nel cuore dell’altopiano gessoso-solfifero dell’isola; esso è opprimente così come l’alternarsi dei pieni e dei vuoti nell’attesa che il linguaggio dia forma ai versi della Pizarnik.
Il senso del progetto artistico di Tulumello è da includere, così, nella tradizione non figurativa e neodadaista che, muovendo dalle scritture bianche del pittore americano Mark Tobey, passa dai lavori poetico-visuali dell’artista belga Paul De Vree e, magari, arriva alle figure, geometriche o no, e agli ideogrammi dell’uruguaiano Clemente Padin e ad alcune espressioni della transavanguardia italiana (quella del già citato Verdi, ad esempio); esso non deve essere ricercato al di fuori di questa significazione originaria perché è proprio a partire da essa che ogni pensiero razionalizzato si dispiega: mostrando lo stato nascente dell’idea, l’artista di Montedoro riflette sulla funzione dell’immaginazione, sulla facoltà del possibile e, dunque, sull’efficacia stessa dell’immaginario. È in questo luogo che il tratto significante della scrittura si coniuga strutturalmente con il suo elemento figurativo, pur non essendo ancora decifrabile.2

 

LA SALUTE ECCELLENTE “MADE IN SUD” di Maurizio Campagna – Numero 2 – Ottobre 2015

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All’epoca della “sanità commerciale” l’eccellenza diventa spesso uno slogan pubblicitario e non una qualità oggettiva delle strutture sanitarie, misurata e monitorata. Le autodichiarazioni di eccellenza si sprecano tra professionisti e strutture tanto che si è perso il senso di un’espressione che dovrebbe, invece, indicare precisi standard qualitativi nell’erogazione delle prestazioni sanitarie ed essere attribuita, con parsimonia, soltanto dopo una valutazione scientifica degli output specifici delle strutture. Ma il processo di crescita del controllo democratico garantito dalla rete ha investito anche il settore sanitario. Si sono moltiplicati i “trip-advisor” della sanità e ciò ha garantito una maggiore possibilità di accesso ai dati da parte degli utenti alla ricerca delle strutture sanitarie migliori. L’avvertenza è sempre la stessa: tra le possibilità di conoscenza offerte dalla rete occorre fare una attenta selezione sulla base dell’attendibilità delle fonti. Così anche tra i siti che si occupano della qualità delle strutture sanitarie è bene distinguere i 

LA SALUTE ECCELLENTE “MADE IN SUD”

 

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L’eccellenza dell’Istituto Nazionale per lo studio e la cura dei tumori “Fondazione G. Pascale” di Napoli resiste ad ogni tipo di prova in rete. Non è virtuale, non è frutto di rumors tra internauti, è un’eccellenza reale e scientificamente misurata. A certificarlo sono i più importanti e accreditati siti di settore. La struttura sanitaria rappresenta un (vero!) polo di eccellenza per la cura dei tumori e un punto di riferimento principalmente, ma non esclusivamente, per tutto il Sud d’Italia. L’Istituto Pascale è un IRCCS (Istituto di Ricerca e Cura a Carattere Scientifico) di diritto pubblico trasformato in Fondazione. Il carattere scientifico, riconosciuto alla struttura sulla base degli specifici requisiti stabiliti dal d.lgs. del 2003 che ha provveduto al riordino degli IRCCS pubblici, consente alla stessa di accedere a un finanziamento statale appositamente finalizzato alla ricerca che si aggiunge a quello già erogato dalla Regione di appartenenza. 
La natura di Fondazione è il frutto di una scelta specifica della Regione che, su propria istanza, può trasformare gli IRCCS pubblici in Fondazioni di rilievo nazionale, aperte alla partecipazione di soggetti pubblici e privati e sottoposte alla vigilanza del Ministero della salute e del Ministero dell’economia e delle finanze.
L’Accademia dei Lincei, nell’anno 2014, ha assegnato al Pascale il prestigiosissimo Premio “Cataldo Agostinelli e Angiola Gili Agostinelli”. Si legge nella motivazione che l’Istituto è“ […] un’eccellenza nel campo della prevenzione, diagnosi e cura delle patologie tumorali, sia attraverso la ricerca clinica sia attraverso l’innovazione tecnologica e gestionale”. Il premio consegnato al prof. Tonino Pedicini, all’epoca Direttore generale, direttamente dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano rappresenta un riconoscimento importantissimo per tutto il Sud d’Italia perché la buona sanità non è soltanto “questione di camici bianchi”, ma anche di buona gestione amministrativa. L’Accademia dei Lincei ha voluto proprio premiare un insieme di competenze, non solo medico-scientifiche, ma anche gestionali.

Non a caso, il Pascale è stato insignito anche di un altro prestigioso riconoscimento nel 2013: l’Oscar di Bilancio della Pubblica Amministrazione – categoria Aziende Ospedaliere e degli IRCCS Pubblici, promosso da Ferpi (Federazione relazioni pubbliche italiana). Si tratta di un premio nazionale, unico nel suo genere, che ha l’obiettivo di segnalare e sostenere le best practices di rendicontazione adottate dagli Enti locali e dalle Aziende Sanitarie Pubbliche che danno prova non solo di buona amministrazione, ma anche di trasparenza e di efficacia nella comunicazione a cittadini e stakeholder.

L’Istituto partenopeo, dunque, come esempio di buona amministrazione pubblica del sud e per il sud che contribuisce considerevolmente ad abbattere luoghi comuni sulla gestione della res publica nel Meridione.

Ma allo stesso tempo il Pascale è la prova che ognuno deve fare la sua parte, che tutte le professionalità sono fondamentali nell’erogazione di servizi di qualità per i cittadini.
Il binomio cura e ricerca raggiunge risultati eccellenti nel centro partenopeo, risultati misurati con indicatori bibliometrici, in molti settori dell’oncologia, rappresentando non quella “speranza trappola”, ma una speranza opportunità per tutti i malati. 
La presenza di un istituto sanitario di eccellenza fa bene anche alla salute dell’economia del territorio. Senza assecondare una retorica buonista, la sanità è anche (casomai non solo!) un settore economico assai rilevante. La produzione del valore salute non può essere sottratta alle regole della produzione industriale dei servizi, anche sanitari, soprattutto se si tratta di prestazioni ospedaliere. Ecco l’importanza di aver adottato buone pratiche anche sul versante amministrativo. Le ricadute economiche sul territorio della filiera sanitaria sono consistenti non soltanto in uscita, quando cioè i pazienti locali sono costretti alle migrazioni sanitarie, ma anche in entrata, quando i servizi sono erogati in favore di utenti provenienti da altri territori.

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forum autogestiti dai pazienti che riportano le loro esperienze, del tutto soggettive, dai portali che traggono i loro contenuti da fonti ufficiali o che rielaborano dati raccolti con metodo scientifico.

La tutela della salute si colloca sul punto di intersezione tra tante discipline e le cure di qualità sono il frutto di un’armoniosa integrazione tra saperi.

Un polo di eccellenza, infatti, è anche un polo di attrazione che non solo impedisce la dispersione di risorse trattenendole sul territorio, ma addirittura ne fa arrivare di nuove.

Curarsi significa, infatti, spendere anche per i servizi ancillari come l’assistenza non sanitaria, i trasporti, il vitto e l’alloggio dei familiari al seguito. Si tratta di spesa che non è immediatamente riconducibile ai costi diretti della prestazione sanitaria, ma che indirettamente ne determina l’ammontare finale. In quest’ottica, la capacità attrattiva diventa capacità produttiva di ricchezza. 
La stessa considerazione deve ora essere estesa su una dimensione europea in ragione del recepimento nei paesi membri dell’UE della Direttiva 24/2011 sull’assistenza sanitaria transfrontaliera. In estrema sintesi, il sistema dell’assistenza sanitaria transfrontaliera disegnato dalla Direttiva dovrebbe garantire al paziente assicurato in uno degli Stati membri dell’UE la scelta di ricevere cure, programmate o non programmate, in uno Stato diverso da quello di appartenenza. Ciò potrebbe attivare una virtuosa dinamica concorrenziale tra strutture su scala europea. 
Un recente studio condotto dal Battelle Memorial Institute, istituto statunitense per la ricerca e lo sviluppo, con riferimento ad un’altra struttura di eccellenza sanitaria del sud d’Italia, dimostra come vi sia un nesso tra la produzione di servizi sanitari di elevata qualità e la crescita del PIL. Non solo: non sono trascurabili neppure i risultati in termini di risparmio di spesa. È noto, infatti, che il costo delle migrazioni sanitarie è sostenuto dai sistemi sanitari regionali di partenza. 
I risultati dello studio, sebbene riferiti ad una struttura della Sicilia e al Pil di questa Regione, possono essere trasferiti in altri contesti. Il messaggio forte e chiaro è che l’investimento in ricerca e tecnologia può essere volano di occupazione e motore per lo sviluppo. 
Senza contare l’investimento di tipo sociale.

La condizione di fragilità data dalla malattia è aggravata dal costo umano della migrazione sanitaria. È un dato di esperienza comune che nessuno vorrebbe curarsi lontano da casa.

La sanità infatti è un servizio naturalmente a vocazione territoriale e l’ospedale come industria non può essere delocalizzato! 
Il Pascale fornisce così un’importante opportunità di cure ai cittadini del sud per un gruppo di patologie tra le più gravi e invalidanti e che, peraltro, assorbono più risorse in ragione della “residenzialità” delle patologie oncologiche. 
L’auspicio per il futuro è che la grave sofferenza patita dal Sistema sanitario nazionale sia il motore di una razionalizzazione delle risorse e non di un mero e acritico razionamento, l’occasione per ammodernare l’amministrazione sanitaria o addirittura riformarla. Che le eccellenze come il Pascale possano continuare il loro lavoro sul territorio e per il territorio. L’eccellenza è tale, infatti, solo se accessibile. Se cioè è in grado di rispondere efficacemente alla domanda di servizi sanitari che si forma prima di tutto nella comunità di riferimento della struttura e poi altrove, se si è capaci di sviluppare mobilità sanitaria attiva.
L’esempio dell’Istituto partenopeo è un’esperienza in controtendenza nel panorama di un’amministrazione pubblica screditata agli occhi dei cittadini e un suggerimento per il futuro: investire nell’economia della conoscenza.

 

LA CASA DELLE MUSE di Antonio Genovese – Numero 2 – Ottobre 2015

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Sulla collina
Io certo vidi le Muse
Appollaiate tra le foglie,
Io vidi allora le Muse
Tra le foglie larghe delle querce
Mangiare ghiande e coccole.
Vidi le muse su una quercia
Secolare che gracchiavano.
Meravigliato il mio cuore
Chiesi al mio cuore meravigliato
Io dissi al mio cuore la meraviglia.

Ma io che da anni leggo i suoi versi e le sue prose (e li cerco nelle varie edizioni che gli uni e le altre hanno diffuso), sono finalmente lieto di vedere lo sforzo che questo piccolo Comune della Basilicata ha saputo compiere per richiamare, in quella modesta abitazione, in un luogo non comodo dello Stivale, gente di ogni luogo: perché la Poesia di Sinisgalli ha saputo varcare il tempo della sua vita e le aree della sua pratica.

E’ da credere che le Scuole sapranno farvi momento di visita e di studio, ma l’iniziativa degli enti territoriali di Basilicata meritano la sosta di lettori e curiosi di tutte le età.

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LA CASA DELLE MUSE

 

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      Questa estate, ho approfittato dell’ozio da vacanza per fare un’incursione a Montemurro, un centro della (sempre più nota, per i suoi giacimenti petroliferi, che tanto stanno facendo discutere) Valle dell’Agri, in Basilicata. Una valle in cui il fiume (che sbocca sul litorale ionico) trasporta con sé, assieme ad un rilevante carico di acqua (è il fiume più ricco, anche se non il più lungo, della Basilicata), memorie millenarie.

La Valle, che soprattutto nella sua prima parte, è aspra e costellata di monti coperti di boschi (i Belliboschi, a cui Sinisgalli ha intitolato una raccolta di suoi scritti autobiografici e no, che uniti a Fiori pari fiori dispari formano quelle «prose di memoria e d’invenzione», tanto care ai suoi lettori), è cosparsa di piccoli centri di remota civiltà, più o meno arroccati sulle alture, che tendono a fare sistema ed a formare una sorta di Città della Valle (un po’ sul modello della Città del Vallo di Diana, invero da essa non molto distante ed anzi collegata a diverse altezze), con servizi distribuiti e strutture comuni, attività culturali messe a rotazione, santuari religiosi accomunanti le genti valligiane, ecc. (la Moliterno di Petruccelli della Gattina e Giacomo Racioppi, la Montemurro di Giacinto Albini, Marsico Nuovo e Marsico Vetere, la Viggiano di Vito Reale, Sarconi, la Spinoso di Biagio Petrocelli, Tramutola, ecc.) 
Accanto ai monti coperti di boschi ve ne sono altri (ad es. il Vulturino) quasi del tutto nudi, e però assai belli e suggestivi, che fanno da riferimento e da contrasto selvaggio con quelli altri, interamente verdi e ricchi di biodiversità.

Non c’è dubbio che anch’essi facciano parte di quella vera e propria identità comune delle genti della Val d’Agri, che oggi si arricchisce di sempre nuovi tasselli: un richiamo anche per le generazioni che più hanno dato con la loro emigrazione, ed i loro discendenti d’ogni parte d’Italia e del Mondo.

E davvero di Muse (al plurale) si tratta, giacché il Nostro non incarnò solo un’anima ma tante assieme, quelle di: scrittore, poeta, ingegnere, disegnatore, editor, curatore di prodotti culturali, perfino cineasta (autore o coautore di fortunati cortometraggi premiati alla Biennale di Venezia nel 1948 e nel 1950) e sceneggiatore.

Una casa semplice, come quelle di cui il Poeta ha detto nei suoi versi e negli altri scritti, ancora del tutto dispersi, perché affidati alle vecchie preziose edizioni d’epoca, ma ormai necessitanti la formazione di una raccolta completa (ad esempio, un Meridiano, edito da quello che fu il suo editore principale), per il lettore d’oggi. 

Una casa che non ha mai ospitato quel mobilio e quei libri, che il Poeta-Ingegnere ha portato con sé nel suo girovagare (cominciò a farlo a dieci anni) e, soprattutto, nei suoi spostamenti tra Roma e Milano, dove si è svolta – pressoché interamente – la sua vita professionale, non solo di artista (anche visivo) ma anche di direttore di belle riviste, alcune legate al mondo aziendale (dalla rivista Pirelli, alla più fortunata Civilità delle Macchine), di curatore di collane (come «Scienza e poesia»), di collaboratore con l’industria italiana (Olivetti, Finmeccanica, Alfaromeo, ecc.). 

Il museo (che è stato denominato, in maniera suggestiva: la Casa delle Muse) è stato affidato alle cure della Fondazione Sinisgalli (creata dagli enti territoriali di Basilicata, essenzialmente), che organizza mostre, eventi, convegni, incontri di studio (se ne veda l’elenco di quelli tenuti, ad oggi, nel bel catalogo intitolato Leonardo Sinisgalli, la Casa delle Muse e la Fondazione, Villa d’Agri, 2014, pp. 30).

In questo rinnovato interesse per la Valle, s’inserisce la bella novità di Montemurro: la creazione di un museo Sinisgalli, nella casa di famiglia, acquistata e recuperata alla bisogna.

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 In particolare, oggi la sua collaborazione a edizioni editoriali di pregio, con artisti contemporanei (Lucio Fontana, Orfeo Tamburi, Franco Gentilini, Domenico Cantatore, ecc.), ha reso spesso difficili da reperirle persino sul mercato del libro raro e di pregio.

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          La visita della casa di Sinisgalli, consente di ammirare – tra i riquadri della sua Biblioteca (quasi interamente recuperata) e composta di edizioni consultabili – anche una bella tela, acquistata dalla Fondazione Carlo Levi: un suo ritratto (del 1944), a olio, della sua concittadina Maria Padula, un’artista che merita ogni considerazione (anche la sua opera è in corso di catalogazione, grazie all’impegno della curatrice e figlia, la d.ssa Rosellina Leone, che ho avuto il piacere di ritrovare dopo anni). 

Tra libri e mobili del Poeta, è possibile ammirare tanti altri cimeli: abiti, foto, lettere, numeri di riviste, libri, ecc.

Le stanze sono coperte di didascalie, quadri che riportano i suoi principali versi, così che anche chi non ha mai praticato la sua Poesia possa essere in grado di comprendere la misura e la cifra dell’artista.

 

LA LUNGA VIA VERDE di Pierluigi Giorgio – Numero 2 – Ottobre 2015

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Abbandonati da decenni, escono dall’oblio e stanno per essere protetti e valorizzati. E’ stata infatti presentata ufficialmente a Roma, lo scorso maggio, una richiesta all’Unesco per inserire queste immense strade verdi nel patrimonio culturale dell’umanità. Una grande opportunità per chi si batte per conservare la memoria di un passato umile e, insieme, grandioso del nostro Paese e preservare storia, cultura e ambiente delle regioni che erano interessate dalle spettacolari transumanze di una volta, e cioè Abruzzo, Molise, Puglia. Myrrha ha chiesto ad uno dei maggiori studiosi di storia e costumi dell’Italia rurale, Pierluigi Giorgio, di raccontare la sua esperienza e i suoi viaggi lungo i tratturi. Quella che segue è la sua commovente testimonianza.

Percorsi di pellegrinaggio, del commercio itinerante e della conoscenza di altri popoli, usi, tradizioni. I campi di battaglia tra Sanniti e Romani; oggetto di controllo e regolamentazione dei passaggi animali ed umani, che si sono susseguiti nei secoli: Normanni, Svevi, Aragonesi, Borboni…
A contrappunto del percorso, mura di difesa e avvistamento di popoli antichi, le torri, i castelli, le cappellette, le chiese, i mulini, i fontanili, gli opifici… Autostrade erbose: senza auto, naturalmente!

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LA LUNGA 
VIA VERDE

 

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I tratturi non erano solo le vie delle greggi, ma sino a non moltissimi anni fa, le vene ove pulsava la vita di un territorio; arterie in cui fluivano civiltà, economia, cultura, scambio…

Il vecchio zi’ Felice non poteva credere che avrei percorso passo passo con loro, che erano abituati da generazioni, i 180 km. che dalle Puglie, li separavano da Frosolone; che avrei condiviso il sole, la pioggia, i bivacchi attorno al fuoco. Dovette ricredersi: l’ultima sera aveva le lacrime agli occhi! Me lo ricordo quando vide il documentario che avevo fatto realizzare, in silenzio: la fatica di una vita innanzi agli occhi di tutti! E la commozione, la gratitudine e anche il disappunto per un percorso sempre più in residuo, invaso dagli sterpi, inglobato dai frontisti (i contadini confinanti con le proprie terre); dalle concessioni della Forestale e – sembra incredibile dato il vincolo – a volte anche dal permesso di asfaltare…
E’ rimasto un urlo soffocato il suo, strozzato! Se l’è portato via con sé, tra le nuvole nel ’95 su tratturi sicuramente più ampi, senza confini. Forse è lì che scuote ancora la testa guardando le difficili transumanze dei suoi cari…
Passarono gli anni e per i tratturi non fu fatto niente, o forse veramente poco: salvo le parole, parole, parole. Anche le ultime taverne dei pastori, stanno inesorabilmente crollando. Si stanno sgretolando! Ma tutto ciò appartiene alla storia, all’identità di un popolo, del Molise: alla storia universale!…
Ho sempre pensato che la nostra regione non ha laghi pittoreschi come quello di Como o del Garda; non ha Dolomiti, ma possiede una risorsa unica, tutta propria, che se fosse stata protetta in tempo, oggi costituirebbe un’alternativa turistica per il Molise; particolarissima. 
I tratturi non esistono più in Puglia, miseri tratti in Abruzzo vanno cercati.

Ben 111 metri di larghezza: ai lati, a delinearne l’ampiezza e a impedire lo sconfinamento animale o coltivo, due lunghe fitte siepi longitudinali: i guardrails d’altri tempi. I luoghi di sosta? Gli autogrill, i motel d’altri tempi: vecchie taverne…

Era il 1986 quando m’infilai gli scarponi, zaino in spalla e volli per la prima volta percorrere circa 250 Km. di tratturi a piedi affascinato dall’idea che solo nella mia terra, il Molise, erano in buona dose ancora intatti, seppur comunque seriamente a rischio: come i Koala o certe forme endemiche flogistiche… Pubblicizzai l’evento: non sarebbe stato un semplice trekking ma una marcia provocatoria: riportare il problema “salvaguardia e cura” di tracciati antichi più di 2000 anni, all’attenzione della gente dei borghi che gravitavano sui tratturi, dei politici molisani del momento, dei media nazionali.
E la gente venne ad incontrarmi puntuale; ad ascoltare le storie che narravo; le proposte che suggerivo… A volte mi venivano incontro; a volte mi accompagnavano per qualche tratto, mi offrivano cibo, attenzione e sostegno… Capirono man mano di non vivere con le loro case, accanto ad un semplice prato d’erba; compresero che dovevano impedire la cancellazione dei tratturi e magari la loro stessa storia, con una colata d’asfalto su quel verde cordone ombelicale che li riconduceva alle proprie vicende umane; ad un’identità di popolo…

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Insomma un mondo semplice ma funzionale che oggi può tornare ad insegnarci l’armonica simbiosi tra uomo e territorio. Il senso del mio andare? Passo passo, seguivo il ritmo del mio cuore, le sensazioni a fior di pelle, il palpito della storia… Si, tanta gente venne, tanti borghi s’inventarono una festa d’agosto, un momento di riflessione e vi fu un “tam tam” pubblicitario fitto ed intenso, sicuramente a livello non solo regionale, ma largamente nazionale. Anche Maurizio Costanzo mi volle in trasmissione, intrigato dal fatto che un attore e scrittore, invece delle tavole di palcoscenico sceglieva di calcare… la cacca di armenti. Preferiva cioè recitare e narrare testi intrisi di messaggio legati al percorso attraversato e alla sua storia, nelle varie 14 tappe che si susseguirono in una teoria di giorni esaltanti. Insomma, finalmente se ne parlava! Proposi di salvare ed utilizzare i tratturi per il turismo, lo sport, lo spettacolo!

Tre anni dopo venni a sapere di una famiglia – i Colantuono – che ancora faceva la transumanza con circa 600 mucche: Molise-Puglia e ritorno. Me la feci presentare ed espressi il desiderio di seguirli, di raccontare, di fotografare la loro storia, di filmarla.

Recuperiamo, salvaguardiamo almeno i nostri, in linea con quell’illuminato decreto ministeriale che anni fa li sottopose a vincolo ritenendoli di notevole interesse per l’archeologia e per la storia politica, sociale e culturale.

Turismo e cultura, potrebbero dare lavoro a molte persone, giovani in particolare… Offriamo la possibilità a contadini ed artigiani di vendere i loro prodotti, di offrire ospitalità: non strozzandoli di tasse o altro. Incentiviamo il restauro delle vecchie masserie, non costruiamo nuove strutture; diamo sostegno e albergo ai nuovi trekkisti, ai cavalieri, a coloro che amano passeggiare per giorni senza incontrare l’asfalto; fare soste tra gente e cibi genuini. Suggeriamo veri itinerari, fattibili, a tutti coloro che in un ritmo lento ritrovato, cercano un’oasi di pace ove passo, pensiero e cuore possano viaggiare all’unisono. 
Molise, terra dal fascino discreto, terra di grande ospitalità che a mio avviso il turista cercherà come l’oro quando Umbria e Toscana – ad esempio – saranno sempre più inaccostabili per l’inarrestabile lievitazione dei prezzi e per la perdita di un volto proprio.
Qui avremmo e offriremmo la possibilità di

riassaporare gli umori di una terra, ricalcare le tracce degli antenati, ritrovare ritmi più umani nel dialogo e rispetto con la natura.

Come concludere? Mi rendo conto delle difficoltà organizzative, burocratiche e compagnia bella. Lo so, non sono un diplomatico, forse solo uno sciocco idealista legato ad alcun partito e non potrei e vorrei mai essere un politico; ma solo un artista con la sensibilità dell’artista; un uomo che conserva e protegge autonomia e che vive le cose dall’interno, con grande rispetto: sempre; che ha voluto relazionarsi con la gente – soprattutto con i più semplici – che ne ha attinto insegnamento, che si è voluto rimescolare con la terra. Una cosa però la so: se mancherà seriamente e immediatamente l’impegno, la volontà di proteggere definitivamente i tratturi facendone rispettare il vincolo; la lungimiranza di un progetto turistico fattibile; se non si affiderà a competenti professionisti del campo e non a improvvisati avventori politici il compito di “vendere” il pacchetto Molise, di credere nei tratturi, consci che un giorno tutto ciò “pagherà” – perché è questo che i nuovi turisti in genere, già stanno chiedendo – perderemo irrimediabilmente l’ultimo treno e con esso la magica lunga via verde. Resteranno solo le parole, i vani proponimenti; le chiacchiere a vuoto di chi dovrebbe essere preposto alla salvaguardia e all’utilizzo mirato.
Perché non ricostruire (riattare) tutto un lungo ininterrotto percorso fratturale per transumanze e turisti, recuperandone nei punti difficili, non più riscattabili, non dico 111 metri di larghezza come all’origine, ma almeno 3 a testimonianza e continuità di percorrenza? Valutando dove creare sottopassi e cavalcavia per non incrociare, a proprio rischio, l’asfalto e auto distratte e “frettolose”.

La richiesta presentata all’Unesco lascia ben sperare in un futuro di conservazione e valorizzazione delle grandi vie della transumanza.

Un passato di lavoro duro, umile, lento, di cui gli italiani non debbono vergognarsi, ma andare fieri. Dovremmo indicare i tratturi ai nostri figli come un esempio di armonia tra il lavoro dell’uomo e la conservazione dell’ambiente che, oggi, è assai raro scorgere nel tumultuoso sfruttamento della natura.
Il Molise crescerà con i tratturi e i tratturi con il Molise! Sono pronto a scommetterci…
E’ il momento di azioni pratiche: nonostante tutto, voglio ancora sperare!…

 

LE ARCHITETTURE MEDITERRANEE DIVENTANO ORDITO di Venera Coco – Numero 2 – Ottobre 2015

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Scostare il tessuto e scoprire la carnagione del Sud che ha assorbito, nella pelle e nella sabbia, tutta l’arsura di un sole indifferente al dolore, è la scoperta che alcuni stilisti hanno provato a raccontare. Stilisti che, attingendo dallo stupore dei loro sguardi, per creare invenzioni stilistiche, reinterpretano gli antichi fasti e gli intarsi che abili maestranze avevano creato per le chiese, le moschee e i palazzi.

Un vero e proprio eden, fatto di centinaia di piante provenienti da cinque continenti, piccoli ruscelli e costruzioni in stile moresco e Art Déco. Sedotto da “quest’oasi in cui i colori di Matisse si mescolano a quelli della natura”, lo stilista algerino trova la fonte d’ispirazione per i suoi preziosi caftani, come la djellaba, la tunica lunga con il cappuccio a punta, il jabador e il mantello burnus. Anche il designer franco-tunisino Azzedine Alaïa con la sua cosiddetta “soft sculpture”, fa rivivere sui suoi abiti la scultura soffice della stoffa da domare. L’architettura “arabisance” non viene rispettata alla lettera da Azzedine ma ciò che si capta immediatamente è quello speciale attaccamento all’essenzialità delle strutture berbere e al bianco, simbolo di rigore e purezza. I suoi abiti si avvicinano silenziosamente all’ambiente che li circonda, amalgamandosi ad esso. Le pieghe scolpite da Alaïa sono le stesse che il vento del deserto scava nella roccia, diventando anse nel corpo delle donne.

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LE ARCHITETTURE MEDITERRANEE DIVENTANO ORDITO

 

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Si tratta di creazioni nelle quali i colori riescono a riprodurre i toni della natura, gli accostamenti caldi e prorompenti che riportano alla memoria le luci abbaglianti di un territorio dalle stanche membra, che cede sia alla calura che all’incanto.

Svolazzi che diventano geometrie e che, pur mantenendo il rigore delle forme, si ritrovano intrappolati in un gioco di armonia.

Ed ecco che Yves Saint Laurent è riuscito a contaminare i suoi capi con i vividi colori del suo Giardino Majorelle a Marrakech.

A Cristóbal Balenciaga, invece, piaceva reinterpretare stili appartenenti ad epoche passate della storia spagnola

per poi arricchire le proprie collezioni, non a caso l’“Infanta”, s’ispira agli abiti ritratti da Diego Velázquez nei dipinti della principessa Margherita, e nella “Jacket of light”, si ritrovano i bolero dei toreri spagnoli. Nato a Getaria, ha interiorizzato la sua Spagna estrapolando elementi caratteristici del suo paese come il pizzo, il bolero e il contrasto tra rosso e nero. “The queen of textures”, così viene definita la stilista greca Mary Katrantzou, ha reso i suoi abiti strutturati una tela per stampe visionarie e dall’effetto trompe l’œil. La sua Atene rivive nella tridimensionalità e nelle forme geometriche, ma anche nei collage digitali che ripropongono i colori vivaci e i fregi mitologici che un tempo adornavano le sale dei templi greci. Appassionati di una delle tre Gorgoni, Medusa, e amanti del culto ellenico,

i reggini Gianni e Donatella Versace, dal 1978 ad oggi, danno vita a una libera commistione di elementi decorativi che vanno dalla Magna Grecia, al Barocco, fino alla Pop Art.

Il past forward diventa per loro una forma di sperimentazione, mescolando elementi couture a drappi da vestali, ma anche nuovi materiali, come pelle, maglia e minuteria metallica rigorosamente color oro e coloratissime sete stampate su cui sono impresse greche d’ordine corinzio e riccioli rococò. Il libanese Elie Saab, infine, ricrea su stoffe ricercate come pizzo, seta e chiffon, ricami con perline, paillettes e cristalli, talvolta solo per impreziosire determinate parti, altre volte i tessuti utilizzati ne sono completamente ricoperti. Elie risente dell’arte del ricamo, sfoggiata per impreziosire i costumi tradizionali durante le danze popolari dabke e raqs sharki, per costruire ogni suo dettaglio prezioso, seguendo però un mood incredibilmente femminile, sensuale e mai eccessivo. Gli abiti d’haute couture di Saab nascondono

bagliori lucenti color oro simili a quelli che rendono le danzatrici del ventre terre voluttuose di conquista.

I designer accostano quei pigmenti che ritrovano lo splendore di antichi popoli che lottavano per affermare la bellezza delle loro terre, abbellendole con pregiati intarsi, con maioliche, arabeschi e architetture simili ai luoghi del Corano. I tessuti si colorano dei toni del beige, dei marroni chiari, dei blu cobalto, dei silenzi, delle dune attraversate solo da un vento che scuote, con il proprio tormento, le vesti fascianti dei nomadi. Le collezioni nascono da queste terre e a questi luoghi ritornano per rendere uniche e pregevoli le movenze di chi si lascia catturare da uno stile che non teme confronti, perché sa che il Sud non è stato creato come un semplice luogo ma come archè divino.

 

I VITIGNI DI VICO DEL GARGANO di Nello Biscotti – Numero 2 – Ottobre 2015

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Chi scrive è un botanico, e operando nel Gargano mi sono ovviamente imbattuto anche sui vitigni. Il territorio si rivelava in tal senso uno straordinario campo di ricerche, poiché si conservavano fino a qualche decennio addietro vecchie vigne, “veri fossili biologici”, fatte con quei vitigni “storici”, testimoni dell’antica tradizione viticola del Promontorio. Tra queste “vecchie vigne” vi era anche quella ereditata da mio padre, ridotta ormai a qualche decina di are, e con ceppi ormai di 50/70/100 anni. Cominciai a conoscerli, studiarli, per capire le loro storie, anche umane a cui erano legati.

 

I VITIGNI DI VICO DEL GARGANO

 

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in realtà si trattava della “vite selvatica”, l’unico taxon aborigeno della famiglia Vitaceae di una estesa regione floristica che va dal Mediterraneo al Mar Caspio

Fatto emozionante è stato ritrovare qualche anno addietro un vecchio ceppo di Uva della Macchia, probabilmente di 200 anni, nello stesso luogo indicato dal nonno.

Ho bussato infinite porte istituzionali (Comune, Parco, Provincia, Università) ma nessun interesse per lunghi anni a partire dal 1998. Disponendo di una piccola cantina che era di mio padre, mi sono cimentato personalmente in questa scommessa. Il risultato? Un vino in bottiglia, appena 500/700 bottiglie. Il vino, rosso, elevato in acciaio, denominato MACCHIATELLO di Mastrocianni, è un esperimento di vinificare, con un approccio scientifico, un uvaggio caratteristico, antico, del territorio: circa il 60% fatto da 4 vitigni storici (l’Uva della Macchia, Nardobello, Uva nera tosta, Malvagia nera); il rimanente 40% da 22 vitigni diversi, tutti con la caratteristica di essere particolarmente aromatici. Una testimonianza di un numero, che non sapremo mai, di vitigni storicamente coltivati sul Promontorio del Gargano, un crocevia di flore, uomini con i loro semi, le loro piante.

la collezione è oggi partner del progetto “biodiversità” (Regione Puglia) che mira a conoscere, salvaguardare e recuperare quanto rimane (con notevole ritardo) della storica diversità di specie e cultivar agrarie. L’unica collezione di vitigni storici del Gargano.

A Vico del Gargano era consuetudine fare vigne a prevalenza di ceppi antichi di Malvasie nere, e soprattutto, con il vitigno localmente individuato come Uva della Macchia, capace di vegetare ottimamente anche sulla spiaggia. Mio padre, mio nonno raccontavano che era stato trovato spontaneo (prima metà dell’800), in una contrada denominata “Macchia” (Torrente Macchia, tra Peschici e Vieste), di qui il nome del vino.

Indagini dello scrivente (Ente Parco del Gargano, 1998), hanno portato all’individuazione di ben 66 biotipi tra cultivar, accessioni, ecotipi (Biscotti, Biondi, 2008; Biscotti et al., 2010); di recente indagini volte alla tipicizzazione su base morfologica e genotipica del germoplasma, di 10 dei 25 vitigni esaminati, sono stati già riconosciuti come genotipi (Progetto Ager, Biscotti, et al., 2013; V Convegno Nazionale di Viticoltura tenutosi a Foggia, maggio 2014)

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Un caso di spontaneizzazione dunque che poteva dimostrare l’ultra secolare presenza della vite sul Gargano. In un documento, un poemetto (Elegia), De Vico Garganico (1607, 432 versi, distici elegiaci), di recente portato alla luce, l’autore, Carlo Pinto, salernitano, vescovo di Cuma, ci descrive uno scenario agricolo di Vico del Gargano di grande interesse per la storia della vite sul Gargano. Scrive in proposito: “Qui ove volgi lo sguardo trovi viti: in questi territori va errando Bacco”; e il vino, già conosciuto come Vicanum è “tantae bonitatis, ut laudatissime Vicanum nominetur”. La produzione stessa doveva essere rilevante se aggiunge che “di questo nettare puoi caricar mille navi che solcano il mare”. I casi di spontaneizzazione da noi rinvenuti sono numerosi: vecchi ceppi a margini di coltivi, qualcuno in boschi, che un tempo erano vigne, di cui non sappiamo assolutamente niente se non grappoli bianchi, neri, rossi, tutti da studiare. Spontaneizzazioni da una parte, ma d’altra anche casi di inselvatichimento di forme coltivate; è stata questa la prima interpretazione di diversi ceppi rinvenuti lungo solchi vallivi, margini di torrenti; ci sbagliavamo,

(articolo in corso di stampa su Informatore Botanico Italiano, SBI); da questa vite (Vitis vinifera subsp. silvestris) siamo partiti per creare quella infinità di vitigni o di uve coltivate che esistono oggi in tutto il mondo. Le conoscenze in Italia sulla sua eco-geografia e la struttura genetica sono ancora non del tutto definite; si ha intanto un primo quadro sulla sua attuale distribuzione: un totale di 161 siti e con appena 814 individui, generalmente concentrati nella parte centro-meridionale della penisola; nel Gargano ne abbiamo rivenuto fino ad oggi almeno 35 individui. Questa un’altra storia da ricostruire e scrivere poiché alcuni ceppi, secolari, autentici monumenti botanici della specie, sono stati rinvenuti all’interno di una secolare faggeta (faggio e vite possono dire molto in termini di paleoclimi, o di paesaggi vegetali antichi). Tutte queste storie ruotano intorno alla mia piccola vigna, ciò che restava di un grande vigneto di oltre 1,5 ettari ancora produttivo negli anni 70 del 900, costituita per il 50% di Uva della Macchia, e per il restante in primo luogo di ceppi antichi di Malvasie bianche e nere, e poi Sommariello nero, rosso, Bell’Italia, Pudicin tener, Uva nera tosta, Nardobello, Chiapparone, Moscatiddone bianco, Moscatiddone nero, Dundurino, Moscato Saraceno e tanti altri ancora di cui si è perso ogni traccia di memoria storica. L’unica strada da percorrere per “salvare” qualcosa era quella di moltiplicare in ogni modo, questi vitigni. Con il fratello nel 1999 realizziamo una piccola collezione di questi vitigni e fare un vino, il Macchiatello, era l’unica strada per salvare questi testimoni di storie umane, di valori storici, scientifici: “Si raccolgono le cose per il vivere dei mortali, e fra l’altre buoni vini vermigli” (Leandro Alberti, 1561). “I vini poi vi sono dovunque non meno per copia che per bontà mirabili, rossi per lo più e di media forza, ma sinceri nella sostanza sicché, senz’alcun condimento, durano fino al terzo anno e anche molto di più” (Andrea Bacci, De Naturali vinorum historia). Prospero Rendella in Tractatus de vinea, vindemmia et vino, (1603) parla dei vini di Rodi, Vico e Vieste, e Monte. La vigna è una realtà diffusa per tutto il ‘700.

Nel 1768 si documenta che “nel Monte Gargano si hanno vini preziosi delle terre di Rodi Peschici, San Giovanni, Monte, Vico e Cagnano” (Giuliani 1768).

La vigna si pianta ovunque per tutto l’800. “Nel contado di tutti comuni del Gargano si pianta la vigna e sollecitamente dà il suo frutto pieno di liguore pregevolissimo…. ma i vini migliori per robustezza, durata, trasporto e abbondanza insieme son quei che si hanno da Viesti, Vico, Ischitella, Sannicandro e San Giovanni R.” (Della Martora 1823); “Abbondano le Comuni di Viesti, Vico, Ischitella, San Giovanni Rotondo, San Nicandro confermerà qualche anno dopo Giuseppe Libetta – di ottimi vini”. 
Raccontando (febbraio 2004) questa mia storiella in una e-mail al grande Luigi Veronelli, qualche anno prima di morire, mi rispose dopo appena un quarto d’ora e mi volle incontrare per assaggiare il mio Macchiatello. La soddisfazione fu tanta che il Macchiatello si meritò di essere inserito come “attenzione” immediatamente nella rinomata Guida (I vini di Veronelli) con un apprezzamento scritto dallo stesso Veronelli: “Ho assaggiato il Macchiatello a base di Uva della Macchia; segna albo lapillo i vino mantici. Se riesci a trovarlo bevilo” (Vini Veronelli, 2005). Le particolarità? Tanti aromi e profumi, aspetti così rari sui quali è disperatamente impegnata la ricerca enologica.

Il vino intanto migliorava in ogni annata; impariamo a farlo, con l’ausilio di qualche ricercatore (Francesco Soleti) e soprattutto con ripetute analisi di uve e vino.

Poi mi cominciano a cercare: assaggiatori, enologi, “esperti”. Com’è il Macchiatello? Molti di dicono “particolare”, qualche altro aggiunge: “ci fa ricordare certe viti selvatiche franche di piede”; tutti concludono: “Un prodotto sicuramente originale”. A maggio del 2011 mi fece visita Pierce Carson, giornalista, cercatore di tipicità italiane, il quale mi dedicò un articolo su Napa valley, nota rivista on line americana e, dopo aver assaggiato qualche bottiglia, scrisse: “Aaaah, but the 2008, what a wine. It had lovely floral notes, perhaps violets, even spring wildflowers. There was oodles of fruit … I tasted mulberries and cherries with succeeding sips. A rich wine. They were pleased with my delight. But before we stole away into the darkened lanes of Vico, the Biscottis had one final surprise”. L’estate dello stesso anno la mia piccola cantina fu invasa da diversi statunitensi, pronti a comprare tutta la mia piccola produzione, che rimane per scelta e per necessità piccola. Hanno frequentato la cantina anche molti francesi e tutti sorpresi di questo “vino italiano”. Le analisi bio-chimiche, ripetute per diversi anni, caratterizzano un vino (tecnologie artigianali) con una sorprendente quantità di polifenoli totali (2500 mg/l). Nel settembre 2014 ci raggiunge Bruno Gambacorta che ci dedica un servizio mandato in onda nella sua rubrica Eat Parade del gusto; tante telefonate, tante richieste di acquisti, ma il Macchiatelo non può essere qualcosa di più di una testimonianza. Intanto un altro passo avanti:

Una storia comune come tante? chissà quanti altri vitigni locali meritano queste attenzioni! Parliamo di risorse attraverso le quali si possono ricostruire piccole economie locali come quella di diversi comuni del Gargano: in un modello di economia integrata (agricoltura, turismo, ecc.), anche la viticoltura, ovviamente di qualità (storia, cultura, sapori non omologati) può occupare un posto rilevante. Del resto vite e vino possono raccontare meglio di ogni altra cosa storia, archeologia, botanica; la storia della vite e del vino è trasversale alla stessa storia umana e il Gargano, i suoi vitigni, possono dire qualcosa anche in questo senso.

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CONSTRUIRE UN MEZZOGIORNO MEILLEUR di Carlo Borgomeo – Numero 2 – Ottobre 2015

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La question du développement du Mezzogiorno est une ancienne question, mais qui reste toujours ouverte, même si au cours des dernières années elle a semblée être particulièrement négligeable, presque marginale dans le débat politique et institutionnel.
Depuis toujours, nous avons été habitués à considérer le problème en termes d’écart économique entre le Sud et du Nord, donc, en substance, en termes de PIB. Mais étant donné les résultats de cette approche, il serait d’autant plus souhaitable de s’interroger sur la nature réelle de l’écart. Il faut se demander s’il s’agit principalement d’une question économique, de revenu, ou plutôt de degré de cohésion sociale, de sens de la communauté, de la diffusion de la culture de la légalité et, plus spécifiquement, de la qualité de la vie en société.

 

CONSTRUIRE UN MEZZOGIORNO MEILLEUR

 

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Depuis la fin de la Seconde Guerre mondiale le développement envisagé pour le Sud a été, en fait, « dirigé de l’extérieur”, peu pertinent pour les réalités locales, manquant d’attention aux sujets émergents et d’une inattention inquiétante à la qualité. Au contraire, le développement est un processus lent qui devrait être construit avec la participation des nombreuses personnes qui ne peuvent pas être considérés comme des «bénéficiaires» mais des protagonistes.

C’est un facteur déterminant et non un appendice du développement. Habituellement, personne n’est ouvertement hostile ou opposé aux politiques sociales, mais dans les faits, nous voyons qu’elles ne sont mises en œuvre que lorsque l’économie est florissante ou en phase de croissance. Au contraire, maintenant nous assistons à des désinvestissements et à des coupes. Mais s’il n’y a pas une communauté cohérente, il n’y a pas d’amour pour les règles et il ne peut pas y avoir de développement.
Le phénomène important de décrochage scolaire, la faible capacité d’attirer et retenir les « cerveaux » au Sud, l’abandon et la négligence des biens publics, l’incapacité à valoriser notre patrimoine, ne sont que quelques exemples d’une culture politique myope qui, en plus de causer des dégâts directs à l’économie (il suffit de penser aux coûts pour gérer les « urgences » ou limiter les dégâts), prive le Sud et le pays d’un potentiel de développement énorme. Un exemple significatif en est la gestion de la garde d’enfants, qui, étant donné l’importance de l’écart entre le Nord et le Sud et le reste de l’Europe devrait être la priorité d’une politique un tant soit peu attentive à «l’avenir» de l’Italie. En Calabre, la couverture des services de crèches est d’un peu plus de 2%, tandis que dans l’Émilie-Romagne, le pourcentage d’enfants pris en charge par ce type de services est de 27,3%. Un énorme gaspillage de potentiel humain qui vaut également pour beaucoup d’autres régions du Sud comparées au Centre-Nord. Il faut ajouter aussi que le Conseil Européen de Lisbonne avait fixé pour 2010 un objectif de couverture en crèches de 33% dans chaque État membre. Un écart de citoyenneté, pourrait-on dire, qui commence à un âge précoce et qui continue en croissant et s’ajoute à d’autres problèmes, jusqu’au baccalauréat et au-delà. Quel sens a-t-il alors de développer de riches systèmes incitatifs pour attirer les investisseurs dans des régions desquelles, très souvent nous voudrions que nos enfants s’en aillent?

s’occuper sérieusement des questions sociales est une forme d’investissement pour le développement d’une région.

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Je ne le crois pas. Je pense que désormais aucune perspective crédible de développement n’est possible si nous ne partons pas de la conviction que la véritable priorité, dans le Sud, est la cohésion sociale. La question de la Sud est devenue, si elle ne l’a pas toujours été, un problème social: de nouvelle pauvreté, de besoins différents, de fragmentation du tissu civil.
Est-il logique, alors, d’imaginer des politiques pour attirer les investissements dans des régions à la culture administrative très faible et avec une communauté fortement désagrégée? Est-il logique de « faire circuler d’argent » dans des systèmes incitatifs et des subventions, sans sélection et sans (véritable) vérification des résultats, avec des systèmes administratifs et institutionnels incapables de dépenser et, surtout, rarement en mesure de le faire bien? Est-il juste, dans une perspective de développement, de mettre en œuvre diverses mesures pour soutenir les revenus, non pas dans une logique de soutien transparente, mais de mille manières, souvent ambiguës et clientélistes, qui aboutissent souvent à générer de nouvelles distorsions dans le marché du travail? Est-il logique d’ignorer qu’une part substantielle du PIB du Mezzogiorno se trouve dans l’économie souterraine (qui ne coïncide pas nécessairement avec la criminalité) et de n’essayer aucune politique autre que des mesures répressives cycliques et partiellement efficaces?
Encore une fois, je ne le crois pas. Nous devons partir, tout d’abord, de la conviction que

Il faut engager une bataille culturelle et politique pour le Sud qui, tout d’abord, vise à aller au-delà de l’écart de PIB entre le Nord et le Sud et qui modifie la hiérarchie des interventions, des priorités, avec la conviction que la cohésion sociale, l’affirmation d’une logique communautaire adaptée ne sont pas des conséquences, mais des conditions préalables indispensables au développement.
Il faut refaire de la Politique (avec un grand P), récompenser l’exercice de la responsabilité, plutôt que les déclarations de loyauté, en développant une culture permanente de réseau, de confrontation, de débat, et d’écoute. En somme, nous devrions investir à nouveau dans les classes dirigeantes. Dans ce défi, le secteur tertiaire devrait jouer un rôle important, parce que – au-delà des cas sensationnels qui font l’actualité – il est capable d’exprimer un possible renouveau, porteur d’expériences et de bonnes pratiques qui, en fait, sont des éléments constitutifs de la vraie politique dans les territoires. Et je ne me réfère pas seulement aux aspects de solidarité et d’intégration, même s’ils sont importants, mais aussi aux dynamiques de réseau qui augmentent les possibilités de l’économie civile et le développement d’un bien-être commun.
Si nous imaginons un modèle qui ne cherche pas à tout prix un niveau de richesse improbable mais le développement ordonné et durable de nos territoires, alors nous pourrons construire un Mezzogiorno meilleur.

Il est clair que les importantes différences de richesses disponibles constituent une source formidable de différences dans les conditions de vie et il est fondamental de rappeler que le pays, malgré tout, a une obligation de solidarité avec le Mezzogiorno. Mais nous devons évaluer la validité de cette approche : est-ce la bonne, est-elle viable, est-elle culturellement gagnante et politiquement productive?

 

BUILD A BETTER SOUTH di Carlo Borgomeo – Numero 2 – Ottobre 2015

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The problems of Southern Italy (the so called “Mezzogiorno”) are old, but, nevertheless, always new. Are we sure that conventional ideas about the Mezzogiorno are still valid – after so many years of policy failures? The gap between Northern and Southern Italy has increased, rather than reduced. Is this gap only a matter of income, or is it more of a social issue, a matter of quality of the civil society? We cannot imagine to attract new funding if the territories do not provide the essential services to the people, if there are no investments on education and culture, if we do not foster civic-mindedness, if we do not aim for social cohesion. 

BUILD A BETTER SOUTH

 

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The development of the Mezzogiorno is an ancient topic, yet it remains open even if in recent years it has appeared feeble, barely marginal if compared to social and political debates.
The problem has always been assessed in terms of financial gap between North and South, so basically in terms of GDP. Considering the outcomes of this approach, though, we should be questioning the real nature of this gap. We must wonder if it is mainly financial, income-based, or maybe if it is rather affected by the degree of social cohesion, of sense of community, of distribution of legal knowledge and, more specifically, of civil coexistence.
It is clear that the strong differences in terms of available wealth are an adamant point of differentiation between the living standards, and it is right to say that Italy, no matter the circumstances, has a joint liability towards its Mezzogiorno. But one must first analyze the effectiveness of this approach: is it the right one? Is it feasible? Culturally successful and politically productive?
I personally believe not. I think that by now no realistic outlook of development will be possible if we don’t start from the belief that Southern Italy’s true priority is social cohesion. The Mezzogiorno issue has become, or has always been, a social issue: regarding new destitutions, different needs, fragmentations of the social canvas.

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Does it therefore make sense to imagine policies that will lure investments in territories with poor cultural administration and strongly broken up communities? Does it make sense to “spin some money around by promoting subsidies and benefits, without any selection or serious follow up of the results, with administrations and institutions that are unable to spend money, let alone in a good way? Is it right, when considering a policy of development, to actuate numerous income-supporting measures not trying to obtain a transparent assistance but rather through many unclear, client-based ways, that often cause further distortion in the labour market? Does it make sense to ignore that a substantial portion of the Southern GDP is made up of underground economy (not necessarily of a criminal nature) instead of trying out some sort of policy, if not cyclical and partially effective repressive measures?
Even in this case, I believe it does not. First of all we must up-bring the belief that seriously taking care of the social world is a way to invest in the development of a territory. It is a crucial aspect of the development itself, not an annex of it. Usually no one is blatantly against or in opposition to social policies, but factually we can only see these taking place in situations of flourishing or growing economy. Instead, we witness disinvestments and cut-offs. But without a cohesive community we cannot have love for rules and therefore development.

 

The growing phenomenon of early school leaving, the inability to attract and keep “brains” within our regions, the abandonment and negligence towards public assets, the incapability of appraising our heritage are just a few examples of a short-sighted policy that, in addition to affecting the economy (just think about costs when dealing with emergencies or when trying to limit damages), deprive Italy and its South of an enormous development potential. An example above all is the management of child-related services, with a gap between North and South and the rest of Europe so big that having a policy even vaguely interested in Italy’s “future” should be a top priority. In the southern region of Calabria the coverage of nursery schools is just over 2%, whilst in the north-eastern Emilia Romagna the percentage of children taken care of by childcare services is 27.3. A huge waste of opportunities that affects many other regions of the South compared to Italy’s central and northern ones. Moreover, the European Council in Lisbon set as a 2010 objective the 33% coverage regarding nursery school services for each Member State. A citizenship discrepancy, we could say, that starts for the earliest of ages and that carries on, growing and intertwining with other difficulties, up until adulthood and beyond. What is therefore the point in tuning rich subsidies to land investors in territories from which even we would often want our children to flee?

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From the end of World War II onwards the development imagined for Southern Italy has been, in fact, hetero-directed: little relevance to local thrusts, poor interest to emerging subject and a worrying inattention to quality. On the contrary, development is a slow process that should be built involving many parts that cannot be considered “beneficiaries” but protagonists.
We have to start a cultural and political battle for Italy’s South that will, in first place, set the objective to go beyond the gap of GDP between North and South, and change the hierarchy of the interventions and priorities, in the certainty that social cohesion and the setting of a righteous communal logic are not consequences but indispensable preconditions for development.
We must go back to doing Politics (with a capitol P), rewarding the exercise of responsibilities rather than the declarations of loyalty, developing a permanent knowledge of the net, of comparison, of debate, of listening. In other words, we should go back to investing in the Establishment. In this challenge the Leaders of Society must play an important role because – a part from the occasional striking news – in it we find those capable of expressing a possible new reality, bringing together experience and good deeds that, in concrete, are pieces of true politics in the territories. And I am not talking about solidarity and inclusive aspects, that are nevertheless important, but also other network dynamics that can increase financial paths and the development of a communal welfare.
If we keep in mind a model that does not chase unconvincing levels of richness to be obtained at any cost, but the organized and lasting development of our territories, we could build a better Mezzogiorno.

 

COSTRUIRE UN MEZZOGIORNO MIGLIORE di Carlo Borgomeo – Numero 2 – Ottobre 2015

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Il tema dello sviluppo del Mezzogiorno è una questione antica, ma sempre aperta, sebbene negli ultimi anni appaia particolarmente debole, quasi marginale rispetto al dibattito politico e istituzionale. 
Da sempre, siamo stati abituati a leggere il problema in termini di divario economico tra Sud e Nord, quindi sostanzialmente in termini di PIL. Ma visti gli esiti di questo approccio, sarebbe quanto meno auspicabile interrogarsi sulla natura reale del divario. Bisogna chiedersi se è soprattutto questione economica, di reddito, o non riguardi piuttosto il grado di coesione sociale, di senso comunitario, di cultura della legalità diffusa e, più precisamente, di qualità della convivenza civile. È evidente che le forti differenze in termini di ricchezza disponibile costituiscono una causa formidabile di differenziazione nelle condizioni di vita ed è sacrosanto ribadire che il Paese, nonostante tutto, ha un obbligo di solidarietà verso il Mezzogiorno.

COSTRUIRE UN MEZZOGIORNO MIGLIORE

 

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Dal secondo dopoguerra in poi lo sviluppo immaginato per il Sud è stato, di fatto, “eterodiretto”: poca rilevanza alle spinte locali, scarsa attenzione ai soggetti emergenti e una preoccupante disattenzione alla qualità. Al contrario, lo sviluppo è un processo lento che andrebbe costruito con il coinvolgimento di tanti soggetti che non possono essere considerati “beneficiari”, ma protagonisti.

Io credo di no. Penso che ormai nessuna credibile prospettiva di sviluppo sia possibile se non si parte dalla convinzione che la priorità vera, nel Sud, è la coesione sociale. La questione meridionale è diventata, se non è sempre stata, una questione sociale: di nuove povertà, di diversi bisogni, di frammentazione del tessuto civile.
Ha senso, quindi, immaginare politiche di attrazione di investimenti in territori a scarsissima cultura amministrativa e con una comunità fortemente disgregata? Ha senso “far girare un po’ di soldi” in incentivi ed agevolazioni varie, senza selezione e senza verifica (seria) dei risultati, con circuiti amministrativi ed istituzionali incapaci di spendere e, soprattutto, solo raramente in grado di farlo bene? E’ giusto, in una prospettiva di sviluppo, attuare svariate misure di sostegno del reddito, non in una logica di trasparente assistenza, ma in mille modalità, molte volte ambigue e clientelari, che spesso provocano ulteriori distorsioni nel mercato del lavoro? Ha senso ignorare che una quota consistente del PIL meridionale è fatto di economia sommersa (che non coincide per forza con quella criminale) e non tentare alcuna politica, se non cicliche e parzialmente efficaci misure repressive? 
Anche in questo caso credo di no. Bisogna partire, innanzitutto, dalla convinzione che

occuparsi seriamente del sociale è una forma di investimento per lo sviluppo di un territorio.

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E’ un aspetto determinante e non un appendice dello sviluppo. Solitamente nessuno è palesemente ostile o contrario alle politiche sociali, ma nei fatti notiamo che queste vengono praticate esclusivamente in condizioni di economia fiorente o in una fase di crescita. Di contro, assistiamo invece a disinvestimenti o tagli. Ma se non c’è una comunità coesa, non c’è amore per le regole e non può esserci sviluppo. 
Il consistente fenomeno della dispersione scolastica, la scarsa capacità di trattenere e attrarre i “cervelli” al Sud, l’abbandono e l’incuria dei beni comuni, l’incapacità di valorizzare il nostro patrimonio, sono solo alcuni esempi di una cultura politica miope che, oltre a provocare effetti diretti all’economia (basti pensare ai costi per gestire le “emergenze” o contenere i danni), privano il Sud e il Paese di un enorme potenziale di sviluppo. Un esempio su tutti è la gestione dei servizi all’infanzia, con un divario tra Nord e Sud e resto d’Europa così grande che dovrebbe essere la priorità di una politica minimamente attenta al “futuro” dell’Italia. In Calabria la copertura di asili nido è poco più del 2%, mentre in Emilia Romagna la percentuale di bambini presi in carico dai servizi per l’infanzia è del 27,3%. Un enorme scarto di opportunità che vale anche per tante altre aree del Sud rispetto a quelle del Centro-Nord. C’è da aggiungere, poi, che il Consiglio Europeo di Lisbona ha individuato per il 2010 l’obiettivo del 33% di copertura relativa al servizio asili nido in ciascun Stato membro. Un divario di cittadinanza, potremmo dire, che parte dalla tenera età e che prosegue, crescendo e intrecciandosi con altre criticità, fino alla maturità e oltre. Che senso ha, quindi, mettere a punto ricchissimi incentivi per attrarre investitori in territori dai quali molto spesso noi stessi vorremmo che i nostri figli andassero via?

Bisogna avviare una battaglia culturale e politica per il Sud che, in primo luogo, si ponga l’obiettivo di andare oltre il divario di PIL tra Nord e Sud e che cambi la gerarchia degli interventi, delle priorità, nella convinzione che la coesione sociale, l’affermarsi di una corretta logica comunitaria, non sono conseguenze, ma indispensabili premesse dello sviluppo.
Occorre riprendere a fare Politica (con la P maiuscola), premiando l’esercizio delle responsabilità, piuttosto che le dichiarazioni di fedeltà, sviluppando una permanente cultura della rete, del confronto, del dibattito, dell’ascolto. Insomma, bisognerebbe ritornare a investire sulle classi dirigenti. In questa sfida il terzo settore dovrebbe giocare un ruolo importante, perché – al di là degli eclatanti casi di cronaca – sa esprimere una possibile novità, portatrice di esperienze e buone pratiche che, nei fatti, sono pezzi di politica vera nei territori. E non mi riferisco solo agli aspetti solidaristici e inclusivi, pur importanti, ma anche alle dinamiche di rete che incrementano percorsi di economia civile e lo sviluppo di un welfare di comunità. 
Se abbiamo in testa un modello che non insegue a qualunque costo improbabili livelli di ricchezza, ma lo sviluppo ordinato e duraturo dei nostri territori, potremo costruire un Mezzogiorno migliore.