Capri era allora una montagna in mezzo al mare, abitata da gente greca longeva, ricoperta di lauri, mirti, aranceti, alti pini.
Un’isola odorosa di resine, ricca di boschi e di grotte con cinghiali e capre. Un’isola che rendeva difficili eventuali attacchi via mare, che non aveva porti, ma solo approdi naturali e sorvegliati come quello di Tragara (tra i faraglioni e lo scoglio del Monacone). Un luogo ideale per quel monarca che, non sentendosi più al sicuro, voleva allontanarsi da Roma e dai suoi complotti. Andar via per sentirsi lontano e protetto dalle continue ostilità che serpeggiavano nei “palazzi” romani. La figura dell’Imperatore Tiberio ha sempre diviso il giudizio degli storici. Furono soprattutto Tacito e Svetonio a riportare fatti presunti e pettegolezzi dei nemici politici e del popolino romano. Pensiamo agli ultimi anni di vita trascorsi a Capri: Tiberio viene descritto come un mostro feroce in preda alla follia, un despota dalla personalità crudele e senza scrupoli, un sadico avvezzo ai vizi ed alla lussuria, nonché preda di continui peccati di gola. Si narrava che fosse stato tanto libero in fatto di lascivia che fosse soprannominato anche “Liberius”.
Dall’altra parte, invece, autorevoli scrittori e storici quali Plinio il Vecchio, Valerio Massimo, Seneca e Velleio Patercolo non accennarono minimamente a suoi possibili malcostumi, ma, al contrario, diedero di Tiberio un giudizio sostanzialmente positivo: quello di persona proba, distaccata, con un carattere chiuso, un uomo riservato e tormentato, che ovunque vedeva traditori e spie, ma al contempo generoso e con un alto senso dello Stato, attento ai bisogni del popolo romano e delle sue Province. Questo perché Tiberio, sotto Augusto, era stato anche un valente generale (c’è chi sostiene il migliore della sua epoca), capace di pacificare la Germania e tenere sotto controllo la situazione in Pannonia e Dalmazia. Un Imperatore che, successivamente, decise di seguire scrupolosamente i dettami augustei, che accentuò il potere imperiale nei rapporti con il Senato e soprattutto che mantenne la pace ai confini, chiudendo per lungo tempo il tempio di Giano. Sta di fatto che l’Imperatore, giunto a 68 anni, si trasferì a Capri, dedicandosi a trasformarla in un impenetrabile rifugio dorato e profondendo nell’isola ricchezze e tesori. Si dedicò da subito alla costruzione di strade, ville e palazzi destinati ad accogliere i suoi uffici, e di un nuovo porto, costruito a Marina Grande. Sui punti più elevati e strategici face costruire 12 grandi ville dedicate a divinità, ma quella di Giove,
“Villa Jovis”, sul promontorio orientale dell’isola, a 334 metri sul livello del mare,
fu il suo capolavoro, e per 10 anni il principale palazzo del governo di Roma.
Collocata su una rupe nel luogo più inaccessibile dell’isola, altissima sul mare, Villa Jovis era una costruzione che fungeva da palazzo imperiale, da imprendibile fortezza e da pretorio. Con lo stile tipico delle abitazioni signorili romane, arredata con mosaici, statue, marmi e decorazioni, la dimora si estendeva per 7.000 metri quadri ed era formata da enormi terrazze, giardini e ninfei che si allungavano sulle pendici del Monte Tiberio. Una residenza accessibile solo via terra mediante un angusto passaggio sempre ben controllato da numerosi soldati. Attraverso le comunicazioni del Senato, i rapporti di polizia e le relazioni dei suoi ministri, ma anche grazie alla sua rete di spie, alle lettere provenienti da amici e parenti e ad un faro utilizzato per le comunicazioni con la terraferma, da Villa Jovis l’Imperatore controllava ogni cosa. Così lo storico Gregorovius: “Da qui Tiberio vedeva tutto ciò che si svolgeva sull’isola e scorgeva anche le navi che venivano dall’Ellade, dall’Asia, dall’Africa, oppure giungevano da Roma”.
Il servizio delle comunicazioni ottiche, che si attuava altresì mediante un codice segreto con fumate di giorno e coi fuochi delle torce di notte, era affidato ad uno speciale corpo di vedette. Sulla costa del golfo di Napoli operava poi un sistema di torri costiere per le comunicazioni ottiche e di veloci liburne che consentivano all’Imperatore di ricevere rapidamente messaggi ed impartire ordini. Le giornate che Tiberio trascorreva a Capri erano laboriose. Verificava con cura le nuove leggi per Roma e dal suo studio ogni giorno risolveva i problemi provenienti dalle numerose Province dell’Impero. Appassionato cultore di letteratura e di filosofia, era circondato di grammatici, bibliofili e calligrafi con cui spesso discorreva ed a cui affidò la cura della biblioteca privata ospitata nel proprio palazzo. L’edificio era circondato di ninfei ed esedre, seguiva l’andamento del terreno, con forti dislivelli superati da numerosi piani e scalinate che consentivano di salire di roccia in roccia fino al punto più alto, ove era collocata la monumentale loggia imperiale.
Un’enorme terrazza con la sala del triclinio ed un belvedere che dominavano
tutta l’isola ma, soprattutto, dai quali si ammirava
lo spettacolo del Golfo di Napoli,
una curva che va da capo Miseno, con le isole di Ischia e Procida, fino alla costiera sorrentina, a quella amalfitana ed al Cilento. Era lì che Tiberio trascorreva intere giornate in profonda solitudine, rinunciando addirittura alla presenza della sua scorta, della sua servitù e del segretariato imperiale, dedicandosi, invece, a passeggiate solitarie lungo il belvedere della sua villa. Sul suo terrazzo aveva fatto piantare alberi di lauro, perché riteneva che durante i temporali le folgori non avrebbero colpito le piante di alloro.
Nella loggia imperiale Tiberio aveva l’abitudine, prima di sedersi a tavola, di bere a digiuno del vino per stimolare l’appetito, una sorta di aperitivo ante litteram. Sulla sua tavola erano presenti frutta e ortaggi, pere, uva passa, cavoli e cetrioli. Di questi aveva una vera passione, li mangiava con frequenza quotidiana e, per questo, si era fatto costruire speciali cassette munite di ruote in cui li coltivava, cosicché in inverno potesse spostare le piante per esporle al sole.
Non lontano dalla loggia imperiale, quasi all’improvviso, il baratro,
una rupe di 300 metri a picco sul mare, chiamata poi
la “Carneficina del Mostro”, o “il Salto di Tiberio”,
ove si narrava che l’Imperatore
vi facesse precipitare
le proprie vittime.
Gli eventuali sopravvissuti sarebbero stati poi finiti in mare da marinai armati di arpioni e bastoni. Si raccontava anche che a Villa Jovis Tiberio disponesse di numerose camere da letto, tutte adorne di statue e di libri con le posizioni amorose, come i molles libros scritti dalla poetessa greca Elefantide. Numerosi anche i dipinti lascivi come quelli di Pausia. Svetonio addirittura narra che Tiberio, in una divisione ereditaria, davanti alla scelta tra un quadro rappresentante una scena erotica della ninfa Atlanta con il re Meleagro ed un milione di sesterzi, senza indugio avesse scelto subito la pittura, mettendola nella camera da letto.
Al centro della villa c’erano le cisterne dedicate alla raccolta dell’acqua piovana, usate sia come acqua potabile, sia come riserva destinata alle terme. L’impianto idrico si estendeva lungo tutto il lato del palazzo e quello destinato a bagno era composto da una serie di cinque ambienti paralleli al corridoio; nel calidarium vi erano due absidi, una con la vasca, un’altra con il bacino di bronzo per le abluzioni. Secondo Svetonio, in alcune grotte Tiberio si intratteneva, come ben noto nei costumi della Roma antica, anche con giovani fanciulli. Ma come altre dicerie, anche questa non è supportata da ulteriori fonti, se non il solito Svetonio. Invece
è certo che l’Imperatore amasse fare le abluzioni, soprattutto nella Grotta Azzurra, dove teneva colte conversazioni ed organizzava raffinati conviti.
Ne era affascinato. Trasformata in un grandioso e silenzioso ninfeo sorto nel mare, fra giochi di luci e raffinati effetti solari filtrati dall’azzurro del mare, aveva fatto ornare la grotta di molte statue rappresentanti sirene, tritoni, ninfe e divinità. Opere d’arte ispirate al mondo classico, che applicate alla parete rocciosa, all’altezza del livello marino, apparivano uscite spontaneamente dalle acque. Abbandonata per decine di secoli, la villa venne riscoperta nel XVIII secolo, sotto il regno di Carlo di Borbone, e subì dei devastanti scavi durante i quali vennero asportati molti preziosi pavimenti in marmo. Villa Jovis fu poi oggetto, nel 1932, di un intervento di recupero, diretto dall’archeologo Amedeo Maiuri. Furono rimosse le macerie che si erano nuovamente accumulate sulle rovine della villa, che ne risultarono rivalorizzate. Ad Amedeo Maiuri è stata intitolata la strada che, partendo dal centro della contrada di Tiberio, conduce alle rovine.