NORD, SUD O SEMPLICEMENTE UN UNICO PIANETA di Aloisio Gaetani d’Aragona – Numero 1 – Luglio 2015

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Da secoli e secoli la fisionomia, i sentimenti, la forza e le debolezze dell’essere umano continuano ad essere essenzialmente sempre le stesse. Quando ci fermiamo di fronte ad un busto romano, ad un calco di un corpo fermato all’improvviso dall’eruzione, un quadro rinascimentale o anche una foto in bianco e nero di appena cento anni fa e ci obblighiamo a guardarli respirando più lentamente e con l’attenzione di tutti i sensi uniti, incluso il sesto, non ci sono dubbi che quanto stiamo osservando siamo proprio noi stessi e non solo nella somiglianza delle espressioni del volto ma nel profondo, così come a sua volta tra mille anni lo intuirà chi avrà voglia di curiosare nelle testimonianze del passato, circondato da cose e tecnologie che oggi sarebbe meglio non provare neanche ad immaginare.

NORD, SUD O SEMPLICEMENTE UN UNICO PIANETA

 

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E’ un po’ come cliccare su Google, formulare domande complesse e scoprire che prima di noi c’è sempre stato qualcuno che si è chiesto esattamente la stessa cosa, ma solo con altre parole, vestito in un’altra maniera, nato in posti diversi e lontani, circondato da altre cose; nel fondo sarà comunque sempre la stessa identica domanda intorno allo stesso, identico concetto con 

la stessa risposta.

Quello che crediamo di percepire così diverso da come siamo adesso è solo il contorno, l’apparenza ma la nostra essenza non è cambiata nel tempo e, probabilmente, non cambierà. L’idea che il vestire, il comunicare, il modo intero di vivere ci faccia pensare di essere così diversi da chi ci ha preceduto, magari anche solo di poco, non vuol dire che tutto sia cambiato e che non abbiamo niente a che fare con le generazioni precedenti, tentati a volte di fare anche dell’ironia; tutto il contrario.

Mi viene un po’ difficile quindi accettare che esistano ancora nel nostro Paese, come nel resto del pianeta, delle differenze nel progresso e nei modi di vivere, spesso limitanti, legati soprattutto ad una posizione geografica particolare e sentirmi in qualche modo obbligato a confrontare, cercando di riscattarli, gli infiniti meriti legati ad un pezzetto di mondo sovrapponendoli agli altrettanti infiniti meriti dell’altro.

Musica, pensiero, arte, figure folgoranti in ogni campo, eccellenze e genialità, senso innato dell’ospitalità, amabilità, creatività e immaginazione le abbiamo lungo tutto lo stivale e forse varrà la pena di accennare invece al grosso del tessuto umano, quello che vive senza seguire “virtute e canoscenza”.

Le differenze vere sono quelle tra pensiero illuminato, aperto, creativo e libero che confini e radici esclusive in uno specifico territorio non ne può avere e l’ottusità, la ripetitività e la pigrizia di milioni di persone che a loro volta non possono essere esclusivamente legate ad un fattore geografico.
Questi limiti si riferiscono qualche volta a punti sul pianeta nei quali si presentano più frequentemente, ma ne sono tutti allo stesso tempo pezzi integranti, meravigliosi ed unici con una storia altrettanto ricca e complessa, fondamentale negli equilibri della storia universale che li riunisce.
Solo il pensiero illuminato e libero si intreccia però con gli altri, si innalza, crea e lascia il segno.Nel nostro Paese le grandi differenze nel pensiero e nella scala dei valori corrispondono a sacche di stagnazione che non hanno casa a Milano anziché Palermo o a Roma invece di Napoli, ne’ le possiamo abbinare alla incapacità di saper odorare il vento, sfruttando le occasioni che a volte vengono depositate qui e domani lì, come spesso alcuni tendono a fare. Non sono le opportunità che fanno la storia o rendono un Paese progredito e diverso ma la capacità di saperle vedere, creare o intuire insieme alla fiducia in noi stessi, al coraggio e l’onestà intellettuale, le quali nascono quando si è ancora bambini dall’esempio, dai valori che altri ci hanno trasmesso, dalla conoscenza e dall’educazione ricevute nei nostri primi anni di vita.

Le grandi differenze a mio parere risiedono soprattutto nel protrarsi quasi infinito dell’accettazione, a volte quasi patologica, di tradizioni, dialetti ed usanze limitate o sbagliate, a prescindere dalla classe sociale di appartenenza; ne conseguono un rispetto diverso verso se stessi e gli altri e soprattutto la presenza o l’assenza di una solidarietà genuina verso ogni essere umano, sia nelle classi veramente umili che in questo modo continueranno inevitabilmente ad esserlo, sia in quelle privilegiate ma solo economicamente, che continueranno a credere di costituire per diritto acquisito la casta portante dell’ economia e del pensiero di un Paese, mentre non lo sono affatto e, al contrario, ne costituiscono il virus più pericoloso.
I limiti ed il danno che ne derivano per la società intera e per il mondo sono immensi.

Nulla di tutto questo ha a che vedere né con il livello sociale né con una regione o con l’altra, ma solo con il modo generale di vivere, di sognare o non, di sperare o non, di valutare a fondo le cose o non nella vita di tutti i giorni.

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Le dimostrazioni del potere, così come l’estrema povertà che è sorella dell’ignoranza, la fortuna e la sfortuna accettate come inevitabili, la salute o il suo contrario, gli sfarzi e le ricchezze spropositate o le ingiustizie sulle quali a volte esse si fondano, gli sperperi e l’arroganza a qualsiasi livello, la brutalità sia in alto come in basso senza distinzione, fanno capo soprattutto ad una educazione mancata proprio quando, poco prima dell’adolescenza, la mente era più aperta, pulita e generosa; il centro allora rischierà di non essere più l’uomo ma il potere da una parte e la rinuncia dall’altra, alcuni concetti di parte assoluti e indiscutibili versus l’ignoranza sterile e buia.
Uno spreco di esistenze di cui i più si rendono conto solo quando la clessidra è ormai vuota, che si perpetua nel tempo come il passaggio di un testimone di una staffetta infinita.

Mahatma Gandhi diceva che la massima espressione della saggezza è la gentilezza.Nulla toglie a chi ne fa derivare la propria forza, il proprio intuito e la concretezza dell’intelligenza pratica e concludente.
Finché però in troppi continueranno a confonderla con la debolezza che è tutto un altro discorso, non capendo che è invece esattamente il contrario, fino a quando in troppi continueranno a seguire alcune mode stupide, invece di creare nuove tendenze intelligenti e fattive, fino a quando il pensiero elitesco ed una certa intellettualità, spesso allineata e prepotente faranno la differenza, la spinta in avanti sarà irrimediabilmente ostacolata e tutto rimarrà sempre uguale.

A volte si può avere un’idea più accertata di un Paese o di una parte di esso, osservando semplicemente la qualità della pubblicità più diffusa, i luoghi comuni più accettati, i pensieri e le parole che più fanno presa sulla “gente”.

I grandi spiriti sono stati sempre ostacolati dalle menti mediocri, lo pensava un uomo straordinario di nome Albert Einstein.Una delle soluzioni a mio modo di vedere potrebbe essere quella di fare passare lentamente ma inesorabilmente le generazioni attuali che, francamente, valutate all’ingrosso, lasciano poche speranze, cambiando allo stesso tempo il modo di combatterne i vizi senza alzare la voce, ma solo con la forza delle idee concentrandosi intanto su un educazione dei più “piccoli” decisamente diversa, sia a casa come nelle scuole.Insegnanti ben pagati (perché non invertire gli emolumenti di alcuni funzionari pubblici con quelli degli insegnanti che potrebbero rappresentare la nuova elite) valutati e selezionati con estrema cura e attenzione sulla base della fusione di valori veri e senza età, aperti però allo stesso tempo ai grandi cambiamenti di oggi e di domani.Un riferimento speciale lo darei all’informazione di massa ed alla maniera di esprimersi dei personaggi dello sport e dello spettacolo (i bambini più piccoli ascoltano tutto) che potrebbero diventare (se ci accordassimo con loro) messaggeri di principi semplici, sani, moderni senza per questo perdere appeal o glamour (ammesso che li abbiano davvero) a causa del passaggio dalla volgarità alla gentilezza, dai luoghi comuni a pensieri un po’ più elevati e senza che ciò possa intaccare credibilità e seguito; si tratta di alzare un po’ il livello; prima o poi qualcuno dovrà farlo.Un discorso a parte meriterebbe il linguaggio e la feroce combattività dei politici, ma la palla l’avrà sempre in mano il primo ministro ed il presidente del nostro Paese che dovranno dare l’esempio cominciando da come si dirigono agli italiani, pronti ad avere la mano di ferro quando il messaggio inviato agli azionisti (noi) dai politici in generale e dal sottobosco che gli sta intorno si faccia indegno e fomenti confronto e scontro.

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Vorrei concludere immaginando un prato dove all’improvviso per uno scherzo del tempo e dello spazio che per un momento si siano distratti, si incontrino, solo per giocare e senza poter comunicare ed avere modo di percepire eventuali differenze sociali o di appartenenza, una decina di bambini di epoche storiche differenti, fino alla nostra. Ma guarda, sono tutti uguali, si stanno divertendo, si intendono e si immedesimano nel gioco… Ma allora perché crescendo sono poi tutti così cambiati? Com’è possibile che il mondo sia andato avanti qualche volta proprio al buio, altre volte con guerre interminabili, ci siano state delle lunghe epoche oscure ed altre inondate di luce e creatività come svegliandosi da un lungo sonno, dove a volte sono prevalse guerre di idee e convinzioni diverse mentre in altre epoche sembrava che all’improvviso tutti si capissero e ritrovandosi su un piano comune… Quei bambini sono ad un tratto cresciuti forse senza avere avuto una mano amica, continua, solidale e intelligente sulla spalla; per tante ragioni diverse quella scintilla di vita, quel pizzico di polvere di stelle si è andato perdendo e, per un motivo o per un altro, altre cose hanno preso il sopravvento. Le loro vite si sono andate in qualche maniera modificando e perdendo, lasciando che troppe volte le grandi mete infinite contenute nei rispettivi DNA venissero sostituite da brevi, leggerissimi e inutili lampi. Perché abbiamo continuato a guardare dall’altra parte e ci siamo dimenticati così spesso di noi, di quanto valiamo, della nostra unicità? Non ho parlato solo del meridione come mi era stato chiesto ed ho divagato, perché credo che il centro di tutto sia sempre e soltanto quella scintilla divina che porta dentro ognuno di noi indistintamente (ma non tutti lasciamo uscire nella stessa misura) che a sua volta è il fine e la soluzione di ogni cosa: passione e intuizione le si avvicinano. Il problema vero è che in troppi casi si è persa lungo la strada e credo che sia arrivato il momento di fare ogni sforzo per ritrovarla e aiutare gli altri a fare altrettanto, a piccoli passi con un ritrovato senso di solidarietà, semplicità e speranza. Se vuoi davvero la pace nel mondo e la serenità dentro di te, comincia stasera quando tornerai a casa; lascia le ansie fuori dalla porta e fai entrare nella tua famiglia solo pezzetti di allegria, serenità, affetto e luce con tanti piccoli gesti. Non è così difficile e funziona.In bocca al lupo.

 

VIAGGIANDO VERSO IL SUD: LA MYRRHA DI ATI di Venera Coco – Numero 1 – Luglio 2015

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non poteva non sentire la necessità di forgiare per esso un nome che potesse tradurre il senso della propria scelta. Nella fucina del proprio pensiero ha preso forma un termine che più di altri ricorda la cultura mediterranea, la Mirrah che da sempre accompagna l’immaginario attraverso i deserti, le dune, le essenze e i colori di popoli dai mille segreti. Le leggere sfumature che ricordano l’ambra, l’ocra profumata delle ginestre che spezza le braccia robuste e scure della lava, la fragranza sparsa dalle sue ali polverose, non possono non ricordare le terre, che come in una danza, volteggiano sul Mediterraneo, abitate da popoli così diversi eppure così simili da intrecciare i loro canti.

Non a caso i canoni della bellezza classica esaltano il semidio Adone che nasce proprio dalla dea Mirra e perfino Ati – divinità della rinascita della vegetazione – usava impomatarsi i capelli con l’unguento dal nome divino.
Allora appare chiaro come quel nome, misterioso e soave, riesca ad indicare ogni piccolo dettaglio di una cultura che ripercorre le orme antiche per tracciare un nuovo cammino, uno slancio verso nuove interpretazioni, visioni che si proiettano verso il futuro, nel tentativo di rappresentare lo stile, l’inventiva e il talento di giovani designer.

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VIAGGIANDO VERSO IL SUD: LA MYRRHA DI ATI

 

Ed è proprio nel Sud Italia che si verifica questo miracolo; malgrado venga considerato ‘periferia di un’Europa produttiva’ è stato, quasi timidamente, il polmone che ha consentito alla Milano modaiola di andare avanti, gloriosamente. Qui si sono formati alcuni dei designers più influenti degli ultimi quarant’anni. Domenico Dolce a Polizzi Generosa in provincia di Palermo, Gianni Versace a Reggio Calabria, Marella Ferrera a Catania, Ennio Capasa a Lecce, Antonio Marras ad Alghero, tutti hanno permesso che il loro background fosse un punto di forza, non un’eredità di cui vergognarsi, tantomeno un “minus” di cui tener conto. 
Hanno saputo creare un espediente, una frenesia espressiva e comunicativa che solo chi vive al Sud può comprendere, un caotico ed eccitante big bang, un humus creativo che ha germogliato in tanti altri confini stilistici, rafforzandone la coscienza e la voglia di fare. Francesco Scognamiglio, Tommaso Aquilano, Fausto Puglisi, Maurizio Pecoraro, Marco De Vincenzo, Luisa Beccaria, Antonio Berardi, Carlo Alberto Terranova hanno raccolto il testimone per passarlo a loro volta al talento di altri giovani designer, che interpretano il loro essere “mediterranei” non come uno svantaggio, ma piuttosto come una meravigliosa risorsa. Nuove forme, nuovi colori e tessuti sono nati dall’estro di Claudio Cutugno, Ivano Triolo, Piccione•Piccione, AntPitagora, Vincent Billeci, Nhivuru, Francesco di Giorgi, Alessandro Enriquez, Daniele Carlotta e Sergio Daricello, fino alla realizzazione di un prodotto esclusivo nel quale sono presenti la forza e l’energia che questa terra conserva nelle sue viscere. La storia e la bellezza hanno reso unici questi luoghi, su cui aleggia il profumo della Mirrah. Basterebbe solamente tenere fra le dita i manufatti creati con tale maestria per riportare alla memoria di ciascuno le radici di una terra incantevole, spesso incompresa, che vuol guarire le sue ferite spargendo sale.

 

LA RICCHEZZA NASCOSTA NEL POVERO MEZZOGIORNO – PARTE 1 di Carlo Curti Gialdino – Numero 1 – Luglio 2015

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archeologica impietrita nel tempo dalla terribile eruzione del Vesuvio del 79 d.C.; non solo perché tutta la striscia prospiciente il mare della Campania, a partire da Napoli, metropoli sin dall’antichità e le testimonianze delle varie dominazioni, è un concatenarsi di ritrovamenti archeologici noti (Pozzuoli, Paestum) e meno noti (Pontecagnano e i suoi reperti Etruschi); e, saltando alla Sicilia vi sono stratificazioni mozzafiato, di civiltà anche autoctone sovrapposte a civiltà, come la mitica torta sette veli che si gusta a Messina; senza dimenticare che ogni altra Regione meridionale, in varie epoche, ha ospitato vestigia di un glorioso passato. 
Il Mezzogiorno, insomma, è uno scrigno di tesori mai davvero presi in considerazione per diventare volani di sviluppo, Pompei compresa, pur essendo, insieme al Colosseo, il sito archeologico italiano più visitato.

E non solo perché qui c’è Pompei e la sua area 

L’unico problema per il locale a piano terra destinato a coronare il suo sogno era la creazione dei servizi igienici. Lo scolo aveva problemi di riflusso. Per cui, il signor Faggiano arruolò i suoi due figli maggiori per aiutarlo a scavare ed investigare sulle cause dell’inconveniente. Aveva previsto che per i lavori ci sarebbe voluto giusto una settimana. Se solo non avessero impattato in una sorpresa… “Trovammo corridoi sotterranei ed altre stanze, quindi continuammo a scavare” dice il sig. Faggiano, che ha sessant’anni. La sua ricerca del canale di scolo, che iniziò nel 2000, divenne una storia familiare di ossessioni e scoperta.

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LA RICCHEZZA NASCOSTA DEL POVERO MEZZOGIORNO

PARTE I

 

Si organizza il minimo indispensabile, quello utile a tour promozionali in fiere del turismo, dalla milanese BIT ad altre più esotiche, rivelandosi questo tipo di politica arida di risultati, se non per chi se ne va in giro per il mondo a fare il promoter delle bellezze meridionali.
Eppure, all’estero, pur non possedendo neanche la millesima parte dell’intrigante intreccio fra storia, cultura, località godibili del nostro Sud, riescono a fare grandi flussi turistici.
Situata nel tacco dello Stivale italiano, Lecce era un punto nevralgico del Mediterraneo, ambita dagli invasori per tale posizione strategica. Dai Greci ai Romani, fino agli Ottomani, i Normanni ed i Longobardi.
Per secoli, una colonna di marmo del santo patrono di Lecce, Oronzo, ha dominato la piazza centrale della città, fino a che, gli storici, nel 1901, non hanno scoperto un anfiteatro romano che si estendeva sotterraneamente per tutta quell’area ed hanno spostato la colonna per poter fare gli scavi.
“I primi insediamenti a Lecce risalgono ai tempi di Omero, o almeno così dice la leggenda”, dice Mario De Marco, storico e scrittore locale, rilevando che gli invasori sono stati attratti dalla posizione d’oro della città e dalle prospettive di saccheggio. “Ognuna di queste popolazioni è venuta e ha lasciato una propria traccia”.
Severo Martini, assessore alla Pianificazione territoriale e all’Urbanistica del Comune di Lecce, afferma che i reperti archeologici vengono alla luce regolarmente e possono rappresentare un bel problema per la pianificazione urbana. Un progetto per un centro commerciale ha dovuto essere ridisegnato dopo la scoperta di un antico tempio romano sotto il sito del parcheggio. “Ogni volta che si scava un buco” dice “secoli di storia escono fuori come niente”. Come per la famiglia Faggiano.

Tutto quello che Luciano Faggiano desiderava, quando acquistò l’anonimo palazzo a via Ascanio Grandi 56, era di aprire una 

trattoria.

Un nome assai simbolico, in quanto proviene da greco e significa “Vedimi, sono la vita”. “Continuavo a scavare per realizzare il mio accesso alla fogna”, dice. “Nel contempo, però, ogni giorno speravamo di trovare nuovi manufatti”. Gli archeologi spinsero il signor Faggiano ad andare avanti. Oggi, l’edificio si è trasformato nel Museo Faggiano, un Museo archeologico privato, autorizzato dal Comune di Lecce.
Scale in metallo consentono ai visitatori di scendere nelle camere sotterranee, mentre le sezioni di pavimento in vetro servono ad ammirare le stratificazioni storiche dell’edificio. Rosa Anna Romano, una docente operante presso il Museo, è la vedova di uno speleologo dilettante che ha contribuito a scoprire la Grotta di Cervi, una grotta sulla costa vicino Lecce, verso Otranto, decorata con pittogrammi neolitici. Per saperne di più, vi consiglio di consultare il sito www.museofaggiano.it.
Con molta sorpresa, scoprirete che è tradotto in 9 lingue, compreso russo, cinese e giapponese. Certamente, il MiBACT del Ministro Franceschini ha da imparare, con quel suo sito ‘verybello’ che a stento parla inglese! Intanto, però, lo stesso Ministero ha comunicato la disponibilità di Fondi europei 2014 – 2020 per sostenere iniziative culturali nel Mezzogiorno. Ecco la comunicazione divulgata dal Ministero: “La Commissione Europea ha approvato il programma operativo “Cultura e Sviluppo” 2014 – 2020 cofinanziato dai fondi comunitari (FESR) e nazionali, per un ammontare complessivo di circa 490,9 milioni di euro, che vede il MiBACT nel ruolo di amministrazione proponente e Autorità di gestione. Il Programma Operativo Nazionale (PON) “Cultura e Sviluppo” 2014 – 2020 è destinato a 5 regioni del Sud Italia – Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia –  ed ha come principale obiettivo la valorizzazione del territorio attraverso interventi di conservazione del patrimonio culturale, di potenziamento del sistema dei servizi turistici e di sostegno alla filiera imprenditoriale collegata al settore. Gestito dal MiBACT, il PON dà attuazione alle scelte strategiche ed agli indirizzi definiti dall’Accordo di Partenariato (AdP) tra l’Italia e la Commissione Europea.

Il signor Faggiano trovò tracce di un mondo sotterraneo che risaliva a prima della nascita di Gesù: un tomba messapica (antica popolazione italica stanziatasi nella Murgia meridionale), un granaio romano, una cappella francescana ed altri dipinti dei 

Cavalieri Templari,

dalla vicenda così controversa, perseguitati dal re Filippo il Bello di Francia. Ma quella è un’altra storia. Se vi capita, approfonditela. La trattoria è ora diventata un museo, dove i ritrovamenti sono esposti. ‘Gli uomini di casa’ scoprirono un piano nascosto che portò ad un altro piano in pietra medievale, che portò a sua volta ad una tomba dei Messapi, i quali vivevano nella regione secoli prima della nascita di Gesù. Presto la famiglia scoprì una camera usata per conservare il grano dagli antichi romani e la cantina di un convento francescano in cui le suore, al tempo, preparavano i corpi dei morti alla sepoltura. Le Forze dell’Ordine arrivarono e bloccarono gli scavi, intimando di non addentrarsi in siti archeologici abusivi. Il presunto ‘tombarolo’ rispose loro che stava solamente cercando di costruire un tubo di scarico.
Passato un anno, finalmente gli fu permesso di riprendere la sua ricerca per il tracciamento della fogna, a condizione che i funzionari della Sovrintendenza partecipassero ai lavori. Emerse, così, un tesoro sotterraneo costituito da antichi vasi, bottiglie devozionali romane, un antico anello con simboli cristiani, manufatti del Medioevo, affreschi nascosti ed altro. “Abbiamo trovato – dice Luciano Faggiano – molto vasellame di epoche diverse. C’erano due tombe, ma una era stata svuotata già ai tempi della costruzione dello stabile, nel 1933.
Le poche monete, molto corrose, frutto degli scavi sono ora allo studio della Sovrintendenza. Non so, dunque, di che epoca sono. Mi ha colpito l’anello, che doveva essere un anello da sigillo, tant’è che lo abbiamo ritrovato ancora sporco di ceralacca. Era in oro, almeno laminato su altro metallo, con uno stemma indimenticabile: l’ostia consacrata. E’ impressionante, il disegno richiama molto quello che ora Papa Francesco ha assunto come suo stemma. Sarebbe bello che lo vedesse.
”La casa dei Faggiano ha livelli che sono rappresentativi di quasi tutta la storia della città, dai Messapi ai Romani, dal Medioevo fino all’età bizantina”, dice Giovanni Giangreco, funzionario del Ministero dei Beni culturali, ora in pensione, coinvolto nella supervisione degli scavi. I funzionari della Sovrintendenza, intuendo di essere di fronte ad una grande scoperta, portarono un archeologo sul sito, anche se i Faggiano si sono accollati i lavori di scavo, sostenendone le spese. Il signor Faggiano, cuoco provetto, continuava a sognare ancora una trattoria anche se, ormai, il progetto era diventato la sua Moby Dick. Intanto ha fondato un’Associazione culturale, denominata “Idume”, dal nome del fiume che scorre sotto la città di Lecce.

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L’Accordo individua tra gli obiettivi tematici la protezione, promozione e sviluppo del patrimonio culturale, considerato asset potenzialmente decisivo per lo sviluppo del Paese, sia in quanto fattore cruciale per la crescita e la coesione sociale, sia per gli effetti e le ricadute positive che esso è potenzialmente in grado di determinare nei rispetti del sistema dell’industria turistica.
Il Programma ha una dotazione finanziaria di 490,9 milioni di euro, di cui 368,2 milioni di euro a valere sui fondi strutturali europei (FESR) e 122,7 milioni di euro di cofinanziamento nazionale.
Il PON “Cultura e Sviluppo” 2014-2020 viene attuato attraverso una filiera corta e diretta: il MiBACT Amministrazione titolare del Programma si avvale delle sue articolazioni territoriali (Segretariati regionali, Poli museali, Soprintendenze) nell’ambito di una strategia di raccordo e di coordinamento con le Amministrazioni regionali delle cinque regioni interessate, con le quali saranno sottoscritti specifici Accordi Operativi di Attuazione (AOA)”.
Nulla cambia circa la necessità di coinvolgimento delle autorità regionali, in passato piuttosto inerti in materia, tant’è che ci sono state tantissime volte che si è corso il rischio di perdere i Fondi pur attribuiti, proprio a causa dell’incapacità progettuale delle stesse.
Si spera, invece, che ora, messe sotto il microscopio proprio per gli errori del passato, le Regioni siano più efficienti nella loro azione. Molto si potrebbe fare, però, se i cittadini, pur se attanagliati dalla crisi, fossero più propositivi e meno rassegnati. Propositivi come il signor Faggiano di cui vi ho raccontato.
Da queste pagine, parte un appello affinché vi sia maggiore partecipazione e minore lamentazione.
La filosofia dell’armiamoci e partite, se protratta, non consentirà al Sud di mettere in pista i suoi beni straordinari: un’eredità che è davvero un peccato dilapidare!

 

LA REGIONE MEDITERRANEA DESTINAZIONE PRIVILEGIATA PER GLI INVESTIMENTI STRANIERI di Gaia Bay Rossi – Numero 1 – Luglio 2015

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destinata ad accogliere, nei prossimi anni, investimenti superiori a quelli dell’Europa continentale, dell’Africa e dell’Asia. Difficile a credersi, ma stiamo parlando dell’area mediterranea, ad onta della crisi greca e delle difficoltà economiche di Spagna, Italia e Francia.
Le previsioni non sono nostre: provengono da una fonte internazionale che gode di una reputazione acclarata, la Ernst & Young. Secondo quest’ultima, infatti, la regione mediterranea rappresenta una delle destinazioni privilegiate per i progetti di investimento stranieri, e i risultati saranno tangibili e sotto gli occhi di tutti già a partire dal decennio 2020-2030.

Secondo Ernst & Young, la Regione è ricca di idee, energie e competenze non ancora sfruttate. 
Il Mediterraneo ospiterà più di 750 milioni di persone entro il 2040, con un potere d’acquisto sempre più crescente. Quella del Mediterraneo è considerata un’area più attrattiva dell’Europa (51%), dell’Africa (60%) e dell’Asia (52%).

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* I 27 Paesi presi in considerazione dal BaroMed sono: Albania, Algeria, Bahrein, Bosnia Erzegovina, Croazia, Cipro, Egitto, Francia, Grecia, Israele, Italia, Giordania, Kuwait, Libano, Libia, Malta, Montenegro, Marocco, Oman, Qatar, Arabia Saudita, Slovenia, Spagna, Siria, Tunisia, Turchia, Emirati Arabi Uniti.
** In linea con il Worldwide Tourism Organization (UNWTO), secondo una cui ricerca a lungo termine, gli arrivi di turisti nelle destinazioni del Mediterraneo nel 2030 raggiungeranno i 500 milioni. 
***Si vedano in proposito i dati ottimistici del Population Reference Bureau e gli studi del prof. Fawaz A. 
Gerges della London School of Economics. Il prof. Gerges è un accademico libanese-americano e autore con esperienza sul Medio Oriente, politica estera statunitense, relazioni internazionali, Al Qaeda e relazioni tra il mondo islamico e occidentale. Gerges è un importante intellettuale e uno dei più importanti studiosi al mondo del Medio Oriente. È apparso sulle reti televisive e radiofoniche di tutto il mondo, incluse la CNN, ABC, CBS, BBC e Al Jazeera.
“L’IS è molto più fragile di quanto Baghdadi ci vorrebbe far credere. La sua chiamata non ha trovato seguaci né tra i predicatori, né tra i dirigenti di organizzazioni islamiche jihadiste internazionali, mentre gli studiosi islamici – tra cui i religiosi salafiti più importanti – hanno respinto la sua dichiarazione come nulla. 
Finché IS ha una serie di successi, si può allontanare con la sua povertà di idee e diffusa opposizione da parte dell’opinione pubblica musulmana: promette utopia e la esprime vincendo. La sfida del gruppo è che una volta che i suoi progressi vengano controllati, la sua mancanza di un’ideologia coerente accelererà il suo degrado sociale”. (www.bbc.com/news/world-middle-east-30681224).

LA REGIONE MEDITERRANEA DESTINAZIONE PRIVILEGIATA PER GLI INVESTIMENTI STRANIERI

 

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“Se si continuerà a promuovere l’integrazione e la collaborazione all’interno dei Paesi del Mediterraneo, nei prossimi anni la mappa mondiale sarà arricchita dalla nascita di un nuovo mercato emergente.

In quella zona, infatti, la crescita economica è più rapida rispetto alle altre regioni e le opportunità di affari sono maggiori, spinte dalla crescita demografica e dall’urbanizzazione, con la nascita di nuove enormi città che sorgono negli Stati del Golfo, in Turchia e in Nord Africa.

Così comunica Ernst & Young, presentando la ricerca BaroMed Attractivness Survey 2015 “The Next Opportunity” (che ha coinvolto 156 dirigenti di 20 paesi del mondo) al Convegno internazionale Strategic Growth Forum, dedicato alle strategie di crescita dei Paesi dell’area mediterranea, alle possibili sinergie con quelli europei e al ruolo che l’Italia può assumere in questo contesto.
Il convegno ha visto protagonisti il 16 aprile 2015, a Roma, oltre 70 rappresentanti delle più importanti aziende dei Paesi dell’area mediterranea di fronte ad una platea composta da oltre cinquecento imprenditori. I dati emersi destano stupore, anche se, sorprendentemente, hanno avuto scarsa attenzione da parte dei media. 
Secondo la ricerca, tra il 2009 e il 2013, i Paesi del Mediterraneo, Medio Oriente e quelli del Golfo hanno attirato 17.110 progetti di investimenti stranieri diretti, principalmente realizzati nell’area dell’Europa mediterranea e dei Paesi del Golfo. Ben più consistenti saranno quelli che arriveranno nei prossimi anni.

Donato Iacovone, Amministratore Delegato di Ernst & Young in Italia e Managing Partner dell’Area Mediterranea, afferma:

Nell’immediato futuro si prevede una crescita positiva e gli investitori sembrano dimostrare interesse nella Regione. Grazie ad un mercato non ancora saturo e alle risorse presenti, non solo l’Europa e gli Stati Uniti, ma anche Cina e India considerano l’area come una meta altamente attrattiva per gli investimenti.”

Le aziende considerate più interessanti sono quelle appartenenti ai settori delle telecomunicazioni, dei media, delle tecnologie, della vendita al dettaglio, dei prodotti di consumo e dell’energia.
Sfruttando la posizione centrale tra Europa, Asia e Africa, la Regione sta sviluppando i settori dell’immobiliare, del turismo e del commercio al dettaglio con l’ambizione di diventare una destinazione primaria ed una delle più importanti mete turistiche del mondo**.
Ciò che rimane problematico, secondo gli investitori, sono i rischi all’interno della Regione: l’instabilità (una media del 53% nelle 5 sotto-regioni) e la mancanza di trasparenza (29%) sono i principali ostacoli agli investimenti e ad una crescita sostenibile. Tuttavia, nel medio periodo, tale livello d’instabilità dovrebbe diminuire. Concorrono in questa direzione diversi fattori, quali una sorprendente contrazione del tasso di fertilità regionale e la fragilità di un’IS oggi molto sopravvalutato.***
Sul sito Viaggiare Sicuri del Ministero degli Esteri, gli avvisi per le unità di crisi particolari nel mese di giugno 2015, sui Paesi che ci interessano, riguardano solo Israele, nella cui nota all’interno sono citati anche Libia, Libano e Siria (consigliano in ogni caso di consultare il sito dell’Home Front Command israeliano www.oref.org.il).
L’Italia non deve e non vuole rimanere a guardare, anche perché secondo Ernst & Young “nel 2050, le economie emergenti della Regione supereranno in termini di PIL, di crescita, d’innovazione e di adozione di tecnologie rivoluzionarie alcuni dei Paesi sviluppati”. 
Insomma, dialogo, patrimonio e diversità culturali contribuiranno alla crescita di una delle Regioni più affascinanti del mondo.

 

IL PARCO LETTERARIO CARLO LEVI. UNA PERLA DA RISCOPRIRE di Antonio Genovese – Numero 1 – Luglio 2015

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1. La prima volta che ci ho messo piede, su invito di una professoressa in pensione (che di allievi ne aveva menati tanti, in giro da quelle parti), mi sono chiesto come avessi fatto a non venirci prima. Infatti, avevo letto il Cristo di Carlo Levi, moltissimi anni prima, e quasi pensavo ad un mondo altro da quello in cui pure avevo vissuto negli anni fondamentali della mia formazione, nella Basilicata occidentale, dove l’influenza del pugliese è assai più sfumata e più avvertita quella del campano.
Ma il primo impatto non è stato con la lingua, con uno dei tanti dialetti della Basilicata (ancora non sufficientemente studiati, a mio avviso, nonostante gli studi di Bigalke e di Rohlfs1) ma con il paesaggio, perché, lasciandoci alle nostre spalle Stigliano (e il Parco Regionale di Gallipoli Cognato), siamo scesi verso le valli alluvionali, abbandonando il verde 

IL PARCO LETTERARIO CARLO LEVI. UNA PERLA DA RISCOPRIRE

 

Sembrava quasi di vivere molte delle pagine del romanzo, specie di quelle in cui l’Autore (rispolverate nozioni di medicina, che pensava di non dover mai utilizzare) racconta della sua missione notturna verso la frazione di Pantano, in visita di un malato grave (di malaria) che, purtroppo, non riuscirà a salvare. Il percorso, fra i calanchi in una nottata d’inverno, tra il nevischio, con la luce silenziosa della luna bianca, parla di queste argille che «precipitano verso l’Agri, in coni, grotte, anfratti, piagge, variegate bizzarramente dalla luce e dall’ombra», che poi l’artista ha anche cercato di raffigurare in molte sue opere pittoriche (quelle in terra di Basilicata sono visitabili presso il Museo nazionale d’arte medievale e moderna della Basilicata, che si trova a Matera, e ha sede a Palazzo Lanfranchi3 o, ad Aliano, nella Pinacoteca, che pure il tour del Parco consentirà di visitare) ma che ovviamente vanno vissute, compiendo tali percorsi en plein air, se del caso anche guidati da qualche accompagnatore: il più famoso di tutti è il prete, don Pierino (vero e proprio Virgilio, conoscitore di ogni dettaglio ma che non sempre rivela di buon grado, se non si entra in sintonia con lui).
Anche il visitatore, perciò, dev’essere avvertito che, come tutti i posti piccoli e remoti, non sempre bene indicati (anche quanto a segnaletica stradale), occorre armarsi di quella pazienza e gentilezza che non sembra avere avuto l’autore di un risentito pezzo giornalistico4.

intenso dell’ambiente alto collinare-montano, per calarci, guadando i fiumi Sauro e Agri, in un paesaggio quasi lunare: erano i calanchi2.

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2. La visita della casa di Carlo Levi è una tappa obbligata del percorso. Essa è rimasta la stessa di quando fu lasciata dal confinato politico nel 1936, assai prima di quanto lui stesso pensasse, quando già si era rassegnato a viverci a lungo. Dentro non ci sono oggetti, né suppellettili, né arredi (se si vuole, invece, vedere qualcosa dell’oggettistica del periodo, bisogna farsi aprire le porte del cd. museo della “Civiltà contadina” di Aliano, pure previsto nel tour), essendo rimasta completamente vuota: un vuoto che sicuramente emoziona così come emoziona il paesaggio che da quella porta si ammira e che si può meglio apprezzare dalla terrazza panoramica. 
Qui Levi dipingeva e costituiva l’attrazione di tanti giovani alianesi, oggi dispersisi nel mondo. Una questione che mi incuriosiva, avendo qualche anno prima, avuto tra le mani una pubblicazione del Servizio studi di Cariplo (Il Paese di Carlo Levi: Aliano, cinquant’anni dopo), Bari 1985, pp. 124 (che nel frattempo mi risulta essere stato anche digitalizzato e quindi più facilmente consultabile) dove si mostravano le enormi trasformazioni intervenute nel piccolo comune portato all’attenzione del mondo dal suo illustre ospite (suo malgrado). La distanza può essere ancor meglio misurata leggendo (e scorrendo le belle immagini riportate) il saggio di C. Magistro, Aliano e i suoi protagonisti Il racconto, tra storia e letteratura, dal dopoguerra alla caduta del fascismo, in Basilicata Regione Notizie, nn. 129-130 (p. 142 e ss.)5.
In realtà le polemiche contro l’Autore erano divampate subito, nel primo dopoguerra, dopo la pubblicazione del romanzo, che andava a ruba anche all’estero, come ben documenta Francesca R. Uccella in Cristo si è fermato a Eboli. Gagliano e il parco letterario di Aliano: metamorfosi di una memoria, in Quaderns d’Italià 13, 2008, pp. 147-1606 (l’Autrice studia la relazione e l’interazione reciproca tra Levi, l’opera – il Cristo – e la comunità di Aliano dal 1945, data di pubblicazione del romanzo fino al 2001, anno dell’ istituzione del Parco Letterario Carlo Levi).
Insomma, se da un lato, gli «alianesi» (o meglio, alcune parti qualificate di essi) hanno modificato la propria posizione, passata dall’originaria avversione fino all’inclusione del suo cantore, con l‘istituzione del Parco letterario, dall’altro lo stesso Levi ha fatto diventare l’esperienza del confino così centrale nella sua vita di artista e di politico, da scegliere poi di essere sepolto proprio ad Aliano (e la visita alla tomba dell’Autore è, necessariamente, una tappa per il visitatore che magari, ivi, potrà rileggere proprio i passi del romanzo che narrano delle sue limitate e controllate passeggiate in quel luogo (posto a picco sui calanchi!: resisterà – con il tempo – alla sfida con i fenomeni naturali?) e degli incontri, narrati con un certo interesse umano e letterario.

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3. Certo non è un mistero che Levi preferisse vivere a Grassano piuttosto che ad Aliano: ne parla nel Cristo; ne racconta del ritorno, quasi come un premio al confinato «modello». Vi si reca nuovamente (per terminare di dipingere alcune tele) e richiama alla mente tutti i ricordi della sua prima sistemazione: una realtà sicuramente più vivace e cittadina (che i grassanesi hanno voluto ricordare e far visitare, istituendo anche un proprio, secondo parco leviano7) e che non avrebbe voluto lasciare, se non vi fossero stati i provvedimenti punitivi presi dall’autorità di polizia, per la sua relazione con una donna sposata (ad un noto personaggio) e che lo raggiungeva da Torino per vivere il proprio rapporto, più o meno clandestino, sicuramente non gradito al regime (e forse ai benpensanti grassanesi!).
Resta il fatto che l’omaggio a Grassano, contenuto nel libro, è piuttosto un ricordo letterario (come anche, per certi versi, lo è il passaggio per Matera), ma non segnerà l’Autore nel suo profondo così come lo segnerà Aliano, al punto che il medico e dissidente torinese sentirà il bisogno di farne il centro della sua nuova esistenza, quantomeno come ricordo indelebile e come riflessione continua su quella formidabile scoperta etno-antropologica.
La scoperta ha poi alimentato tutta una vasta letteratura (che, ovviamente, qui non può essere richiamata, bastando solo far rinvio al lavoro, sopra menzionato, di Francesca R. Uccella ed alla bibliografia contenuta nelle note del suo bel saggio) ed ha persino prodotto una ricerca dei discendenti dei protagonisti dell’opera che ha portato ad una documentazione fotografica (di Antonio Pagnotta) di grande rilievo: frutto della ricerca socio-fotografica della sociologa Graziella Salvatore e del foto-reporter Antonio Pagnotta, “La Ruota, la Croce e la Penna”8.
E si potrebbe continuare, ancora a lungo.
Ma forse qui conviene arrestarsi e riprovare a parlarne dopo un tour nella Basilicata orientale.

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 1 cfr. F.R., Le lingue della Lucania, in http://www.regione.basilicata.it/giunta/site/giunta/detail.jsp?otype=1120&id=285326&value=consiglioInfor – 2 se ne veda qualche immagine, anche se solo parzialmente coinvolgenti – dato che l’esperienza va vissuta percorrendo tutta l’area ed immergendosi nella dimensione geologico-naturalistica – nel sito web del Parco Letterario: http://www.parcolevi.it/ – 3 http://www.visitmatera.it/palazzo-lanfranchi.html – 4 http://basilicata.basilicata24.it/lopinione/interventi-commenti/volevo-visitare-luoghi-fu-confinato-levi-cacciato-9791.php. – 5 ora in: http://consiglio.basilicata.it/consiglioinforma/files/docs/32/36/05/DOCUMENT_FILE_323605.pdf – 6 cfr.: http://webcache.googleusercontent.com/search?q=cache:YrOwPaKnjc4J:http://www.raco.cat/index.php/QuadernsItalia/article/download/129463/178846%2Bfrancesca+uccella+cristo&hl=it&gbv=2&&ct=clnk -7 http://www.comune.grassano.mt.it/Parco.php – 8 su cui, vedi http://www.italplanet.it/templateStampa.asp?sez=81&info=4915

 

LA RADICE DEL DESIDERIO di Giorgio Salvatori – Numero 1 – Luglio 2015

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metallo miniato, familiari all’occhio e alla gola che, da decenni, ci tentano dai banchi delle farmacie, delle erboristerie, dei negozi di dolciumi. Tutto parte da una radice estratta, per la prima volta, molti secoli fa. Una radice legnosa che, pulita, essiccata, lavorata, diventa una ghiottoneria amata da molti: personaggi celebri e comuni mortali, adulti e bambini. Ma può un bastoncino legnoso e bitorzoluto dare origine a una leggenda? Si, se ad estrarlo e trasformarlo sono mani esperte. Le mani sono quelle della famiglia Amarelli di Rossano, in Calabria. Una dinastia che dal ‘500 ad oggi ha costruito, sulla radice della “glycyrrhiza glabra” – la liquirizia per chi non avesse capito – un piccolo impero.

LA RADICE 
DEL DESIDERIO

 

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I dipendenti sono appena 50, ma – sarà per la forte coesione aziendale o forse per la tradizione che vede anch’essi, come i proprietari, passarsi il testimone di padre in figlio – il fascino discreto del marchio Amarelli ha ormai conquistato tutto il mondo: dall’Europa, agli Stati Uniti, dal Sud America ai Paesi Arabi approdando perfino in Giappone.
Il quartier generale è ancora quello di molti secoli fa: un palazzo dall’aspetto severo che denuncia la sua origine di struttura difensiva con caditoie, feritoie, mura massicce.
Dentro si lavora alacremente per produrre una serie di dolciumi, tutti a base di liquirizia, che spaziano dall’eterno e spartano tronchetto di radice naturale, da succhiare e masticare con imperturbabile lentezza, ai tanti pezzettini neri, colorati, multiformi, che, in una gamma incredibile di proposte, allettano lo sguardo e stimolano papille gustative e ghiandole salivari.
Quel dolce pizzicorino della glycyrrhiza offerto in mille forme e dando libero sfogo alla fantasia ed all’ingegno.
Oggi, a rappresentare la dinastia, c’è una volitiva signora, Pina Amarelli, capelli biondissimi, occhi azzurri e portamento elegante, che, per le sue doti personali e le tradizioni dinastico-aziendali, può vantare, unica donna in Calabria, il titolo di Cavaliere del lavoro.
Infaticabile imprenditrice, la nostra signora, vola ovunque si possa aprire nuovo spazio per ampliare la rete di conoscenza, e quindi di vendita, della rinomata liquirizia Amarelli.
Unica, a sentire il suo appassionato racconto, per qualità della pianta e metodo di estrazione e lavorazione.
“La raccolta è già di per sé stessa impegnativa – ci dice Pina Amarelli – perché il ramo sotterraneo aderisce al terreno in modo obliquo e richiede, quindi, la massima attenzione all’atto dell’estrazione.
Bisogna conoscere bene i luoghi dove cresce e approfittare dei periodi di pioggia, da ottobre a marzo, per operare lo scasso nel terreno, altrimenti impossibile o rischioso per la compattezza del suolo e la vulnerabilità della radice.

Nella remota e, per molti versi, ancora arcaica Calabria! I numeri, oggi, ci dicono anche che l’azienda Amarelli non ha subito scosse dalla crisi economica internazionale (le esportazioni sono aumentate nel 2014 del 7 per cento) e fattura addirittura 7-800 mila euro solo dalla piccola rivendita presente all’uscita del museo.
E la criminalità organizzata? Possibile che abbia lasciato indisturbata un’azienda con queste caratteristiche? “Problemi veri, pressioni dirette non ne abbiamo mai subiti -afferma la signora Amarelli – forse proprio in virtù del fatto che la nostra famiglia ha radici così antiche e ha sempre goduto di un rispetto che, spesso, si tributa a personalità dell’imprenditoria e della cultura lontane dal mondo dei partiti e della spartizione del potere.
Non mi riferisco, ovviamente, ai cavalieri fondatori della dinastia – continua Pina Amarelli, ma ai tanti che si sono avvicendati nella famiglia e nell’azienda.
Ne cito solo due: Giovanni Leonardo Amarelli, fondatore dell’Università di Messina nel ‘500, e, perché no, mio marito, Franco Amarelli, attivo nell’azienda, ma anche stimato docente universitario. Sono tutti lontani mille miglia dal sottobosco delle clientele” – taglia corto la Amarelli – e aggiunge: “la nostra forza, semmai, risiede nella continuità della tradizione della famiglia allargata. Da noi è facile trovare dipendenti che vantano quattro generazioni di lavoro nella nostra azienda. Una famiglia allargata, che mette al primo posto la condivisione degli obbiettivi da raggiungere, il calore umano, la collaborazione.
Se si lavora con questi principi il rispetto è assicurato, parola di Pina Amarelli”. Cosa vede Pina Amarelli nel futuro del sud? “Un gioco di squadra per fare sistema”. Accade nella Calabria dei numeri in negativo e delle cronache di mafia. Non solo un’eccellenza, ma un primato indiscutibile.

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Lavaggio, asciugatura e tritatura sono le fasi successive, dosando i tempi della lavorazione a mano con quelli della trasformazione industriale”.
Inevitabile, quest’ultima, per garantire standard igienico-sanitari di massimo livello.
“I risultati sono straordinari. La liquirizia Amarelli, senza alcun supporto di pubblicità diretta, televisiva o sulla carta stampata, è riuscita, piano piano, a conquistare i palati dei popoli dei cinque continenti, con una minore affermazione solo in asia – precisa la Amarelli – perché lì esiste una varietà di liquirizia più scadente che viene tradizionalmente usata per presunte finalità terapeutiche; tutte, ancora, da dimostrare”.
“L’uso dolciario e alimentare è invece nella tradizione italiana e occidentale senza trascurare le proprietà digestive e stimolatrici dei succhi gastrici che caratterizzano la nostra più pregiata glychirriza glabra.
Avidi consumatori della rinomata liquirizia calabrese, cui si attribuivano addirittura proprietà afrodisiache, erano personaggi famosi come Casanova e Napoleone – ci fa notare ancora la signora Amarelli – e la qualità della nostra glychirriza non si è perduta nel tempo se a rappresentare la Regione Calabria, all’Expo milanese, ci sono, in prima fila, anche i nostri prodotti”. Ma c’è di più.
All’ingresso del padiglione della Regione Calabria, campeggia perfino una statuina che raffigura lei, Pina Amarelli, “Lady liquirizia”, come ha titolato, con scarsa fantasia, un giornale locale.
Un tributo un po’ “fetish” alla signora della glycyrrhiza glabra.
Ma le ragioni di tanto attaccamento all’icona Amarelli, in Calabria, hanno una scaturigine ben più remota del secolo in cui, il ‘500, avvenne la prima estrazione a fini commerciali.
Il piccolo impero Amarelli avrebbe infatti un’origine feudale se è vero, come attesterebbe un documento scoperto nella biblioteca di famiglia, che la dinastia discende da un cavaliere crociato – forse un templare – che approdò in Calabria al seguito dei Normanni e lì trovò la patria per i suoi figli e per i figli dei suoi figli.
Vennero al mondo altri cavalieri, e poi letterati, mecenati, imprenditori.
La storia dell’inizio della lavorazione della liquirizia, e degli strumenti per la raccolta e la trasformazione, sono documentati in un museo ricavato nel severo ed antico maniero Amarelli.
Ed è anch’esso un successo: 35 mila visitatori l’anno, il più visitato tra i musei imprenditoriali italiani dopo quello di Maranello della Ferrari.

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IL NUOVO SUD, DOPO “VENT’ANNI DI SOLITUDINE”! di Giuseppe Soriero – Numero 2 – Ottobre 2015

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Il dibattito è già avviato non solo tra i meridionalisti, ma innanzitutto nella Politica e nel Governo.
I riflettori accesi in piena estate dalle anticipazioni del Rapporto SVIMEZ hanno disgelato dati eclatanti di “quella parte dell’Italia che sta peggio della Grecia”: dai 46,6 mila euro di valore aggiunto per abitante di Milano si precipita ai 12 mila in provincia di Agrigento. 
Già Romano Prodi, nella prefazione alla nuova edizione del volume “Sud, vent’anni di solitudine”, aveva richiamato l’attenzione sul “Racconto di due economie” illustrato dall’Economist: il prodotto interno lordo per abitante, in Calabria (16.462 euro) è ancora la metà esatta di quello di un cittadino della Valle d’Aosta (34.415 euro). Adesso, in presenza di primi incoraggianti segnali di ripresa della produzione, e dei consumi, è doveroso chiedersi se l’area meridionale sarà questa volta coinvolta positivamente negli scenari di sviluppo del Paese. Il Governo annuncia infatti nuovi investimenti nazionali ed europei assieme all’elaborazione di un “Master Plan” per l’area meridiana.

IL NUOVO SUD, DOPO
“VENT’ANNI DI SOLITUDINE”!

 

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MEZZOGIORNO SENZA MERIDIONALISMO?

Scritti e libri hanno alimentato un dibattito fazioso tra i sostenitori del mercato e quelli dello Stato: chi gridava allo scandalo per le troppe risorse verso il Sud e chi replicava, implorandone ancora di più.
E giacchè “non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l’ha generato”(Albert Einstein), sono da correggere i guasti indotti sia dal potere centrale che dalle classi dirigenti meridionali, risvegliando l’anima del Sud e suscitando fiducia tra le forze propositive cui si rivolge innanzitutto il messaggio suggestivo della rivista Myrrha. Le energie sane in campo sono tante.
Si può dire infatti che il Mezzogiorno, come l’ambiente descritto nel capolavoro di García Márquez, sia ancora oggi un luogo popolato da persone, quali il protagonista José Arcadio Buendía, «la cui smisurata immaginazione andava sempre più lontano dell’ingegno della natura, e ancora più in là del miracolo e della magia». E si può naturalmente parlare di un’area territoriale certo diversa dal villaggio di Macondo, ma non affatto irrecuperabile, nella quale come altrove «le cose hanno vita propria […] e si tratta soltanto di risvegliargli l’anima».

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RISVEGLIARE L’ANIMA DEL SUD.

Archiviando, innanzitutto, la singolare semplificazione sulla «diversità» identitaria dei meridionali che aveva istigato in alcune zone del Nord una diffusa interpretazione razzista. Certo, l’intervento pubblico straordinario verso il Sud è stato, nel passato, gelosamente tutelato come la «calamita», considerata indispensabile da Arcadio Buendía per «sviscerare l’oro della terra». Una buona parte dei cittadini meridionali, come nel romanzo di Márquez, non riuscendo a «consolarsi dell’insuccesso delle proprie calamite», concepì l’idea di «utilizzare quella invenzione come arma da guerra». E gli effetti qui sono stati devastanti nel moltiplicarsi di calamite clientelari che hanno precluso ogni argine alla penetrazione della corruzione e delle mafie.

MALI DEL SUD E MALI DELL’ITALIA.

Il potere criminale ha saputo cogliere in tempo i ritmi della globalizzazione ed è riuscito a integrare capitali e risorse umane superando ogni dualismo dentro un sistema unitario con baluardi vistosi addirittura in Lombardia, in Liguria, in Emilia e a Roma capitale. Tutto ciò è accaduto proprio mentre la politica privilegiava un dibattito ideologico sul federalismo fiscale come misura risolutiva dell’utilizzo della spesa pubblica, soprattutto per rieducare il Mezzogiorno. 
Vale convincersi, pertanto, che né la politica, né la cultura, hanno più tempo per distrarsi, eternando stancamente meri conflitti territoriali tra “Nordisti” e “Sudisti” giacchè è arrivata l’ora di rivoluzionare il nesso tra politica, economia e pubblica amministrazione. La crisi internazionale ha clamorosamente squarciato il velo e lo scenario oggi è più netto: o le due aree del Nord e del Sud cresceranno insieme o la ripresa dell’Italia rimarrà sempre più tiepida proprio mentre il Mediterraneo è in ebollizione e spinge comunque verso la modifica di secolari equilibri.

UN NUOVO INTERVENTO PUBLICO E PRIVATO.

«Un’altra Europa è possibile» continua a scrivere Habermas nella direzione indicata con nettezza da Paul Krugman: «I nostri governi devono spendere di più, non di meno, assumere insegnanti, costruire infrastrutture, scegliere spese utili». L’analisi più rigorosa delle esperienze internazionali analoghe, dalla Germania all’Irlanda, ci dice che l’intervento dello Stato, solo se protratto nel tempo, con misure innovative e consistenti supporti finanziari, può ridurre drasticamente i divari territoriali interni fino ad annullarli.

Le novità di scenario vanno a questo punto valutate in tempo: la macroregione vera è quella euro mediterranea.

Hic Rhodus hic salta! Il Nord Africa, pur condizionato dalla evidente instabilità politica, cresce più dell’Europa ed è già all’attenzione dei capitali finanziari della Cina e dell’India tanto da indurre rispettabili studiosi a coniare il neologismo “Cindoterraneo”.

Qui, c’è la vera sfida culturale per chi voglia contribuire a innovare il Meridionalismo, sapendo ragionare sull’utilità europea del Sud: un’area che possa essere percepita nella sua validità da ogni cittadino europeo,

dai sistemi europei dell’economia, della finanza, dell’informazione, della scienza e della cultura. Il problema vero è se l’Italia, nel suo insieme, intenderà misurarsi in una competizione non scontata tra alleanze internazionali. Qui, più che altrove, è praticabile la riduzione del costo logistico totale, attraverso l’offerta di servizi integrati per affrontare la sfida globale dei mercati. Dopo l’ampliamento del Canale di Suez v’è la possibilità di raddoppiare in dieci anni i movimenti di merci (nel 2025 ben 56.880.000 di TEU); quale sistema portuale saprà trarne vantaggio? Solo la Spagna, la Francia, il Nord Africa o finalmente anche l’Italia? 
E giacchè le attuali deficienze logistiche implicano per noi “un costo superiore dell’11%, circa 12 miliardi di euro, rispetto alla media europea” (studio Cassa DD.PP.), il pieno utilizzo delle infrastrutture meridionali è la precondizione per tornare a crescere; mediante la specializzazione di filiera di alcuni poli produttivi e di tutti i porti meridionali da Gioia Tauro a Taranto, da Napoli a Cagliari a Catania, con una strategia di sistema, utilissima anche ai porti del Nord, da Genova a Trieste e proiettando finalmente la rete di Alta Velocità da Salerno verso Gioia Tauro e la Sicilia.
Si richiedono oggi, pertanto, coraggio civile e culturale, analoghi a quelli delle classi dirigenti che nel secondo dopoguerra diedero impulso al miracolo economico; per suscitare adesso il proficuo coinvolgimento di tutte le energie culturali, progettuali, operative espresse da sindacati, imprenditori, università, associazioni culturali. Con analogo spessore dell’impegno nazionale profuso per l’Expo di Milano si lavori insomma per esaltare la scelta di Matera 2019, indicando nuove capacità operative e anche nuovi riferimenti simbolici alle nuove generazioni.

 

IL SILENZIO DEL SUD di Giorgio Salvatori – Numero 2 – Ottobre 2015

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Lo Stato non è solo finanziamenti pubblici, ma anche leggi e doveri uguali per tutti. Pochi, al sud, reclamano il rispetto di questa regola. C’è un grande silenzio su questo nodo cruciale da parte della grande maggioranza della società meridionale. 

 

IL SILENZIO DEL SUD

 

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Questa, in estrema sintesi, l’accusa di Ernesto Galli Della Loggia, dalle pagine del Corriere della Sera, in un editoriale del 9 agosto scorso. Analisi impietosa, cui si sovrappongono i dati, inquietanti, contenuti nel rapporto Svimez, la società che si occupa delle ricerche sul Mezzogiorno, secondo cui il sud, dal 2000 al 2013, ha visto aumentare il suo Pil del 13 per cento contro il 24 dell’agonizzante economia greca. “È sparito il sud” ha titolato, in copertina, l’Espresso del 10 settembre scorso e, nel sottotitolo, ha affondato il coltello: “crollo demografico, fuga dei cervelli, economia immobile, imprenditoria assente. Un terzo del paese è scomparso dalle mappe”. Se le cose stessero veramente così Myrrha potrebbe salutare i suoi lettori e scrivere un epitaffio: “ci siamo sbagliati, interrompiamo le pubblicazioni”. Noi, però, non pensiamo che il Sud sia scomparso, sommerso dalle sue piaghe storiche, dal suo fatalismo, dalla sua rassegnazione. Lo abbiamo scritto già sul primo numero della nostra rivista. Le tante manifestazioni spontanee, di giovani e di meno giovani, che, in assenza di convocazioni politiche o sindacali, si stanno moltiplicando in Campania, in Calabria, in Sicilia, dimostrano che una parte considerevole della società meridionale vuole uscire dal torpore e battersi per il cambiamento. Si tratta di studenti, imprenditori, comuni cittadini che chiedono proprio quello che Galli della Loggia invoca, cioè un’etica e una programmazione politica che, finora, sono mancate, nelle “sette regioni dell’antico regno borbonico”, come sottolinea Luigi Vicinanza nell’editoriale dell’Espresso dello scorso settembre. Se siano maggioranza o minoranza i meridionali non rassegnati all’immobilismo e al dominio della illegalità è problema secondario, almeno in questa fase, lenta, ma che a noi appare decisa, di presa di coscienza e di trasformazione sociale e culturale. Non si tratta di vedere il bicchiere mezzo pieno a differenza di chi, come Galli della Loggia, lo vede mezzo vuoto o addirittura privo di una fonte a cui attingere acqua. D’altra parte, le nostre analisi, non cercano di nascondere e neppure di edulcorare l’amaro sapore dei fallimenti e dei veleni di cui il Sud è cosparso per effetto dei tanti piani di sviluppo mai realizzati, degli sprechi, delle mafie che hanno spadroneggiato condizionando la politica, l’economia e l’occupazione nel Meridione. Carlo Borgomeo, in un articolo ospitato in questo numero (e già in sommario prima della divulgazione dei dati Svimez), afferma che il problema del sud è stato finora, sostanzialmente affrontato in termini di Pil, di divario economico tra un nord sviluppato e un meridione arretrato e immobile. “Bisogna invece chiedersi” – scrive Bogomeo – se si tratta soprattutto di questione economica, di reddito, o non riguardi piuttosto il grado di coesione sociale, di senso comunitario, di cultura della legalità diffusa e, più decisamente, di qualità della convivenza civile.

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Questa, in estrema sintesi, l’accusa di Ernesto Galli Della Loggia, dalle pagine del Corriere della Sera, in un editoriale del 9 agosto scorso. Analisi impietosa, cui si sovrappongono i dati, inquietanti, contenuti nel rapporto Svimez, la società che si occupa delle ricerche sul Mezzogiorno, secondo cui il sud, dal 2000 al 2013, ha visto aumentare il suo Pil del 13 per cento contro il 24 dell’agonizzante economia greca. “È sparito il sud” ha titolato, in copertina, l’Espresso del 10 settembre scorso e, nel sottotitolo, ha affondato il coltello: “crollo demografico, fuga dei cervelli, economia immobile, imprenditoria assente. Un terzo del paese è scomparso dalle mappe”. Se le cose stessero veramente così Myrrha potrebbe salutare i suoi lettori e scrivere un epitaffio: “ci siamo sbagliati, interrompiamo le pubblicazioni”. Noi, però, non pensiamo che il Sud sia scomparso, sommerso dalle sue piaghe storiche, dal suo fatalismo, dalla sua rassegnazione. Lo abbiamo scritto già sul primo numero della nostra rivista. Le tante manifestazioni spontanee, di giovani e di meno giovani, che, in assenza di convocazioni politiche o sindacali, si stanno moltiplicando in Campania, in Calabria, in Sicilia, dimostrano che una parte considerevole della società meridionale vuole uscire dal torpore e battersi per il cambiamento. Si tratta di studenti, imprenditori, comuni cittadini che chiedono proprio quello che Galli della Loggia invoca, cioè un’etica e una programmazione politica che, finora, sono mancate, nelle “sette regioni dell’antico regno borbonico”, come sottolinea Luigi Vicinanza nell’editoriale dell’Espresso dello scorso settembre. Se siano maggioranza o minoranza i meridionali non rassegnati all’immobilismo e al dominio della illegalità è problema secondario, almeno in questa fase, lenta, ma che a noi appare decisa, di presa di coscienza e di trasformazione sociale e culturale. Non si tratta di vedere il bicchiere mezzo pieno a differenza di chi, come Galli della Loggia, lo vede mezzo vuoto o addirittura privo di una fonte a cui attingere acqua. D’altra parte, le nostre analisi, non cercano di nascondere e neppure di edulcorare l’amaro sapore dei fallimenti e dei veleni di cui il Sud è cosparso per effetto dei tanti piani di sviluppo mai realizzati, degli sprechi, delle mafie che hanno spadroneggiato condizionando la politica, l’economia e l’occupazione nel Meridione. Carlo Borgomeo, in un articolo ospitato in questo numero (e già in sommario prima della divulgazione dei dati Svimez), afferma che il problema del sud è stato finora, sostanzialmente affrontato in termini di Pil, di divario economico tra un nord sviluppato e un meridione arretrato e immobile. “Bisogna invece chiedersi” – scrive Bogomeo – se si tratta soprattutto di questione economica, di reddito, o non riguardi piuttosto il grado di coesione sociale, di senso comunitario, di cultura della legalità diffusa e, più decisamente, di qualità della convivenza civile.

 

PIC-NIC CON L’ORSO di Giorgio Salvatori – Numero 2 – Ottobre 2015

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Che l’orso bruno sia un gran ghiottone lo sanno tutti. Ma di che cosa è goloso il nostro orso marsicano? Di miele, certamente, ma anche di pere e di mele selvatiche, di fragole, di frutti del sorbo, di bacche. Attrazioni irresistibili, per il più grande mammifero dell’Appennino centro meridionale un po’ come l’irrefrenabile voglia che si scatena, in noi umani, quando, all’improvviso, scorgiamo un vasetto di nutella incustodito in attesa del primo, impetuoso affondo del cucchiaino. I ricercatori del Parco Nazionale d’Abruzzo conoscono perfettamente sia le preferenze alimentari dell’orso sia i luoghi dove, a seconda delle stagioni, il nostro golosone va a caccia della sua “nutella”. Così, coadiuvati da guardaparco, agenti forestali e volontari, predispongono punti precisi di avvistamento per censire i plantigradi che ancora vivono nella storica area protetta. Tra agosto e settembre sono soprattutto le zone dove matura il ramno, una bacca di colore violetto di cui l’orso è particolarmente goloso, a essere sottoposte a stretta sorveglianza.

Per quattro settimane, all’alba e al tramonto decine di esperti e di appassionati, tutti selezionati e autorizzati dall’Ente Parco, si sparpagliano ovunque siano presenti in abbondanza i ramneti per tentare di avvistare il raro mammifero e conteggiare adulti già registrati,

Taciturno, abituato a fare più che a parlare Stefano Tribuzi è un naturalista autentico, l’esatto contrario di alcuni ecologisti salottieri, tante chiacchiere, molta vita cittadina e poca natura. Volto asciutto, baffi curati, ricorda un po’ l’attore americano Errol Flynn, adorato dalle nostre madri e nonne. Arrivò qui, da Roma, giovanissimo, negli anni settanta. Non è più andato via. La sua vita è con gli orsi e con i lupi, e questo tutti i direttori che si sono avvicendati nel Parco lo sanno, e sul suo bagaglio di esperienze hanno sempre contato per i censimenti ed i progetti di conservazione più importanti. Le epifanie della natura è la sua lezione, vanno conquistate, con passione, con fatica. È forse grazie a questa predisposizione d’animo che nello stesso Parco, anni fa, mi sono imbattuto nella visione magica e congiunta di tre lupi, emersi da chissà dove, e di un’aquila reale che quasi sfiorò la mia testa picchiando, ad ali spiegate, verso la valle sottostante. Molti però scambiano i parchi per un grande zoo, dove gli animali sono in mostra oppure per un luna park della natura, una immensa area verde dove apparecchiare una chiassosa tavola per il pic nic o, ancora peggio, un luogo dove scorrazzare rumorosamente in auto o in moto. Nessuna preoccupazione per il disturbo recato alla fauna selvatica o al rischio di investire uomini e animali. “Questo è uno dei problemi più seri e complessi che il Parco deve affrontare d’estate” dice Dario Febbo.

“Non basta il groviglio di competenze comunali, provinciali e regionali con cui, ogni giorno dobbiamo confrontarci. Far capire ai turisti che le strade tortuose che attraversano il Parco non sono un circuito per gimkane, su due o quattro ruote, è impresa ardua.

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PIC-NIC CON L’ORSO

 

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È dunque l’orso bruno marsicano, (Ursus arctos marsicanus), la popolazione più vulnerabile e più preziosa, unica in Italia e nel Mondo, sia che si tratti di una sottospecie sia che si riveli agli studiosi come una specie autoctona.

quelli sfuggiti agli avvistamenti precedenti e, soprattutto, i nuovi nati, questi ultimi ancora più preziosi degli adulti. Perché è un patrimonio di immenso valore che si tenta di far accrescere e prosperare, uno straordinario dono del nostro Sud. Altrove, in Europa, (ad eccezione di alcuni Paesi del Nord, come la Svezia, la Finlandia, o dell’Est, come la Slovenia e la Croazia) l’orso bruno è ancora più raro, o è addirittura scomparso. È svanito dalla Danimarca e dall’Inghilterra, ad esempio, dove l’assenza è ormai una desolante realtà dall’epoca medievale, dal Belgio, dall’Olanda, dal Portogallo, dalla Svizzera (qui vengono segnalati solo erratismi occasionali). In Paesi come l’Ungheria e la Polonia, i numeri sono talmente esigui da non contare statisticamente. Il nostro orso bruno marsicano potrebbe essere addirittura una specie a sè stante. Gli studiosi non si sono ancora messi d’accordo su questo punto, ma se così fosse, si tratterebbe di un patrimonio ancor più prezioso, da difendere e da tutelare con ogni mezzo. Qualcuno potrebbe obiettare che in Italia esiste un altro orso, il Bruno Europeo, in progressiva espansione numerica lungo la fascia alpina, ma questa popolazione, è frutto, in gran parte, di recenti reintroduzioni, e appartiene alla specie Ursus arctos, cioè all’orso ancora presente, con popolazioni rilevanti, nelle regioni del Nord dell’Europa.

“La lotta è impari” afferma Tiziana Altea – “e il rischio è che tra qualche anno, nonostante i nostri sforzi, si debba assistere alla perdita di questo splendido animale che è il simbolo stesso del Parco”.

Tiziana Altea, capo dell’Ufficio Territoriale per la Biodiversità di Castel di Sangro, dirige il lavoro dei forestali che tutelano, insieme con il personale del Parco, l’integrità ambientale e faunistica dell’area protetta. “Bracconaggio, turismo di massa, consanguineità, tutto sembra congiurare contro la sopravvivenza dell’orso”, continua la dirigente forestale, “noi, però, stringiamo i denti e lavoriamo per il suo benessere e per assicurargli un futuro”. È una donna tosta Tiziana Altea, infaticabile, motivata. La incontriamo in uno dei presidi più belli e meno noti del Corpo Forestale, Torre di Feudozzo, al confine con il Molise. Alloggi confortevoli, giardini curati, scuderie con cavalli di razza tra i quali i famosi e rari cavalli di Persano. Una piccola Svizzera che è il miglior biglietto da visita per il visitatore, italiano o straniero, che abbia la fortuna di scoprire questo angolo di natura silenziosa e custodita dalla sapiente mano di una donna capace. Altea mi propone di partecipare ad una delle escursioni curate dal Corpo Forestale per censire gli orsi. Parto con grande entusiasmo e poco allenamento per una meta impervia e poco frequentata: una cresta del Monte Miele che raggiungo a fatica dopo una salita mozzafiato (nel senso letterale) e che risulterà avara di sorprese. Tanti cervi, tra i quali due maschi dai palchi imponenti, ma nessun orso. Pazienza, stessa sorte il giorno precedente, a Spineto, a due passi da Pescasseroli con le sue moltitudini chiassose di fine agosto. Qui, accompagnato da una guida di straordinaria esperienza, Stefano Tribuzi, l’unica creatura che si manifesta in lontananza, attraverso le lenti poderose del nostro cannocchiale, è ancora una volta un cervo maestoso e solitario. All’alba del giorno precedente due ragazzi alla loro prima escursione, nello stesso punto di osservazione e con la stessa guida, avevano avuto la rara fortuna di avvistare un’orsa con il suo piccolo.

“Il mondo delle creature selvatiche è così”, commenta laconico Tribuzi, “benedice chi vuole e quando vuole non bisogna scoraggiarsi. Io ho pazientato 12 anni” –aggiunge – “prima di avvistare, a distanza ravvicinata, il mio primo orso marsicano”

Ma quanti orsi marsicani sopravvivono sull’Appennino centro meridionale? “Nel Parco, dove si stanno elaborando in questi giorni i dati del censimento, dovrebbero essere una cinquantina, cui vanno aggiunti” – afferma Dario Febbo, direttore della storica area protetta – “Una decina di individui segnalati, qua e là, nel Velino Sirente, sui Monti Ernici, sui Simbruini, sulla Majella”. Anche qui, come nel caso del capriolo italico (https://www.myrrha.it/articolo-salvatori-lunga-marcia-verso-salvezza-piccolo-capriolo-gargano) le leggi della biologia animale non ci fanno intravedere un futuro certo. Eppure questo è l’antico, leggendario, meraviglioso sovrano dei monti e dei boschi dell’Appennino Abruzzese. Ogni specie di mammifero che scenda sotto i cento individui è a serio rischio di estinzione affermano, purtroppo, gli zoologi. Per la maggiore probabilità di incroci tra consanguinei che indeboliscono la specie, per la minore capacità di difesa di fronte a eventi eccezionali meteorologici e climatici, per la maggiore vulnerabilità alla pressione antropica, al bracconaggio, alle morti accidentali per investimento da auto o da treno (è accaduto anche questo) ai decessi per avvelenamento. “Mai arrendersi, però”- dichiara battagliero Dario Febbo – “mai darsi per vinti”. Lui e i suoi collaboratori ce la stanno mettendo tutta per salvare dall’estinzione il più vegetariano e il più pacifico degli orsi di tutto il mondo. Perché l’estinzione, recita un vecchio slogan del WWF, è “per sempre”. Attorno a lui, oltre a una sessantina di guardiaparco e di ricercatori, una schiera di formidabili collaboratori a cominciare dal Corpo Forestale dello Stato.

Multe e ammonizioni non sono sufficienti. Ci vuole un cambio di mentalità. L’orso, più di tutti, ha bisogno di spazi vasti e tranquilli, mal sopporta il disturbo di turisti rumorosi e maleducati e neppure incontri ravvicinati e vetrine televisive”. Il riferimento è alle tante, pressanti richieste di mostrare al pubblico del piccolo schermo la nuova mascotte del parco. Si chiama Morena, ed è una piccola orfanella di orso trovata dalle guardie, tre mesi fa denutrita e disidratata, presumibilmente abbandonata dalla madre, accanto ad una strada transitabile del Parco. È stata recuperata e rifocillata, ma ora si stanno adottando mille cautele per farle superare il periodo della semi-cattività, e infine restituirla alla natura. Prima condizione: non farle subire l’imprinting umano, cioè l’eccessiva confidenza, l’abitudine al contatto e al nutrimento garantito dall’uomo. Senza questa precauzione sarebbe condannata a vivere in un recinto o a vagare, di notte, tra le case dei paesi in cerca di bidoni di rifiuti nei quali rovistare”.

La legge dei media, però – osserva Febbo – è spietata, obbedisce soprattutto al richiamo dell’audience, e il pubblico televisivo desidera credere in una natura che non esiste, il mondo di yoghi e di bambi.

Pochi sanno che un cucciolo di orso, vero, non creato da un disegnatore di fumetti o di cartoni animati, non sopporterebbe di essere preso ripetutamente in braccio e mostrato alle telecamere, a meno che non lo si voglia condannare alla schiavitù perpetua, in cattività, soltanto per il nostro divertimento”. Febbo mi mostra la curva degli indici di natalità di questo pacioso e solitario plantigrado. Le misure di protezione adottate a partire dal 1923 l’anno di istituzione del P.N.A., hanno consentito all’orso marsicano di sopravvivere e di resistere al crescente accerchiamento antropico e urbanistico. Le nascite, però sono state quasi interamente vanificate dalle morti causate, direttamente o indirettamente, dagli uomini. Dal nuovo censimento, perciò, si attende non il miracolo, ma il rinnovamento delle speranze.

Qualche cucciolo in più farebbe la differenza, a condizione che tacciano per sempre le armi micidiali dei bracconieri e si plachino gli scalmanati della velocità e gli alchimisti dei veleni. Che cosa sarebbe, altrimenti, il Parco, senza l’orso?

Un bellissimo volto dal sorriso sdentato, un castello abbandonato, un reame senza il suo sovrano. La fiaba resiste, certo, ma il rischio, dietro l’angolo, è che conservi il suo bell’incipit: “C’era una volta un re”, ma non il suo finale: “e vissero tutti felici e contenti”. Giorgio Boscagli, lo zoologo che, negli anni ottanta, raccolse in un libro le prime statistiche sulla presenza dell’orso marsicano nel nostro Appennino, scrive nella prima pagina del suo saggio. “Se una sera vedrai all’orizzonte la mia sagoma scura aspetta, osserva, non muoverti, potrebbe essere l’ultima mia apparizione”. Il re, per nostra fortuna, è ancora là, nascosto tra monti e boschi fra i più belli del mondo. Sta a tutti noi aiutarlo a regnare libero e solitario, non possiamo accettare l’idea di vederlo confinato, per sempre, in un Museo.

 

MEDITERRANEO CENTRO DELLE DIVERSITÀ di Giusto Puri Purini – Numero 2 – Ottobre 2015

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Palestina a Roma, il viaggio di S. Paolo.
Poi, l’esperienza ai “Vivai Del Sud” come Art-Director, in un contraltare di ombre sfavillanti, al design milanese, allora imperante, rigoroso e scarno.
Il mio punto di partenza di questa lunga ricerca senza fine è stato un libro, divenuto un cult degli anni 60, edito in USA, “The Hole Earth Catalogue”, accompagnato da uno splendido “Architettura Spontanea” di Bernard Rudowsky.
Nel Mediterraneo, quell’edificare nuragico, quei trulli di pietra, le Pagliare salentine e tante altre tipologie simili, sprigionavano un fascino che solo una vera armonia con la natura circostante poteva sprigionare.
Il Sud diventava così un osservatorio privilegiato, ed era l’habitat a far scorrere fra le genti quel minimo comune denominatore. Cambia lo scenario e il pensiero va al Nostro Mare, ai 1-10 -100 – Mediterranei, sparsi nel mondo, dove condizioni simili avevano creato Civiltà Simili, fino a raggiungere, nonostante rivalità e conflitti, eccellenze in tanti campi.

Dall’Himalaya quindi, “nuovo” antico centro, verso di noi (occidente) come un sasso in uno stagno attraverso fasce circoncentriche di culture e civiltà complesse, fino al Mediterraneo, alle colonne d’Ercole, superate psicologicamente e storicamente solo nel 1492, dall’altra parte, verso il continente americano, dove le colonne d’Ercole asiatiche rappresentavano per i popoli in movimento un “unicum” terrestre, continuo, e oggi è in distanza reale come da Stromboli vedere Panarea.
In questa collocazione strategica delle cose, come un grande progetto del passato, appare più naturale, originale per noi del Mediterraneo, proporre un viaggio a ritroso dai Greci verso oriente, alla ricerca di quelle tracce unificanti che diano ragione al progredire all’incontrario della storia e delle sue influenze.

immaginare un nuovo centro più “Mediterraneo” degli altri, il più alto, il più forte, il più vario climaticamente, centro di produzione di fonti vitali quali l’acqua, la terra, l’aria e il fuoco.

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MEDITERRANEO CENTRO DELLE DIVERSITÀ

 

Giusto-Puro-Purini

Questa e altre sono

le responsabilità di MYRRHA, raccogliere quelle tracce originarie, per avviarci verso una nuova contemporaneità dei mezzogiorni, che prodotta dal territorio e dalle genti che ci vivono, contribuisca, con quelle nobili origini, alla trasformazione del mondo in direzioni il più possibile sostenibili.

Ma, se similitudini tra le poleis sono una certezza, che nasce dalle analogie delle necessità, diverso è il discorso sulle ideologie, sulle religioni, che dovrebbero essere le cinghie di trasmissione delle varie conoscenze, e dei suoi vari stati di sviluppo, e al contrario offuscano, ora da una parte ora dall’altra, con interventi drastici, l’immagine con la quale hanno assunto il loro ruolo egemonico tra le genti.
Se prevalesse la politica del “senso comune”, quello con la C maiuscola, a dispetto delle faziosità pratiche e della microconflittualità, in un’area come quella del Mediterraneo, rimarrebbero, alla fine, le diversità individuali e culturali sempre più appariscenti e spettacolari, come anche le sfumature e le similitudini… si fonderebbero piramidi con colonne, palme con bastoni, vezzi con potenzialità costruttive, i vuoti con i pieni, le ombre con la luce, i colori, in un infinito gioco delle parti, un crogiolo pieno da cui pescare con passione.

Come un’atomizzazione del territorio, collegati da flussi energetici, così ci appaiono gli insediamenti umani del Mediterraneo ed è questo infine il segno di molteplicità, intesa come scuola, fucina delle esperienze umane, come sviluppo del viaggio e della ricerca, e oltre a noi verso Est, l’immane pianeta oriente, più antico, più vasto, più alto, con altrettanti paradisi,

(French quarter, S. Charles, ecc.).
Immaginare tutto ciò, insieme ad influenze indiane, africane, francesi, inglesi, creole… un altro Mediterraneo e così via… Ed è questo il senso della ricerca (così come appare nell’Oltre il 7), suggerendo di collegare a questi viaggi, ed a questi spunti, un progettare continuo, un essere presente con strumenti adeguati, dubbi e certezze (impermanenze) suggerendo porte da aprire, sguardi da volgere, attivare i nostri sensi, raccontare le storie che fluiscono da nuovi incontri, costruire molteplici direzioni.
E, viaggiando oltre i Greci, quindi, verso la Ionia; l’Asia Minore e oltre; riuscire a far pace con la cultura d’origine, quella Greca, la nostra, nonostante si sia impadronita nei secoli di verità profonde, provenienti dal lontano oriente, e dopo averle acquisite, abbia alzato un baluardo verso quelle culture, considerando barbare le terre dalle quali Alessandro Magno, tanto aveva appreso (per esempio il Dio unico) in così poco tempo.
Scoprire, inoltre, affascinati, le favole dei miti, e, con l’architettura, le loro componenti terrene, come il mito della “Chimera”, drago e leone, sconfitta da Bellerofonte, con un dardo di piombo, con l’aiuto di Pegaso il cavallo alato, e precipitare sui monti della Lycia accanto ad Olimpia, lasciando al suolo 600 bocche di fuoco ancora fiammanti oggi, e descritte da Erodoto, in viaggio via mare da Side verso Alicarnasso, trent’anni dopo l’epica impresa di Alessandro Magno (330 a.C.).

 

Questo “non essere” cultura sedentaria ne ha spinto alcuni, nei tempi più remoti, verso il nord prima, e verso oriente poi, ancora… verso lo stretto di Bering, e le pianure nord americane, determinando la nascita e lo sviluppo di nuovi popoli, allungatisi e frazionatisi in un’infinita migrazione verticale… fino all’australe 

Patagonia…

Il Sud è nel mio DNA e nella mia mente da sempre. Un’attrazione irresistibile per quelle leggende e quei miti! Ho avuto un padre triestino-mitteleuropeo e una madre salernitana. Il Sud è entrato nella mia vita, come longitudine e latitudine, durante i miei studi alla facoltà di Architettura a Valle Giulia, e proseguito come scenografo di Roberto Rossellini con “Gli Atti degli Apostoli”, dove si descrive, dalla 

con centri del mondo come il Kaylas nell’Himalaya, ove il “macro” del pianeta si esalta, e i fiumi fluiscono senza fine verso i quattro punti cardinali della terra, e con loro fluisce il sapere, antichi intrecci, di dialogo cosmico mai interrotto, quel fruscio di qualche cosa che è arrivato anche a noi e forse ad altri.
E poi, oltre l’estremo Oriente, l’America invasa in tempi più recenti ancora dal “suo Oriente”, ma questa volta siamo noi, i popoli dell’occidente, ad avere incrinato l’idilliaco vivere delle popolazioni indiane, ricche di grandi civiltà e depositarie di antichi segreti. Vi abbiamo condotto in catene gli africani, e da questa unione impossibile è nato il nuovo continente, dove il magnifico e l’orribile si sono spesso avvinghiati in furiosi corpo a corpo, per fare sorgere comunque un laboratorio umano d’incredibile spessore, che da questa esperienza sta conducendo oggi la sfida mondiale agli altri continenti e alle vecchie sedimentazioni.
Mi viene in mente, tra gli altri “Mediterranei” il Golfo del Messico con New Orleans, regina in USA della musica, città “entertainment” del passato.

Il fatto di collegare impianto architettonico e giardino attraverso continui confronti e interazioni, ha reso possibile assimilare i segnali di un’architettura filtrante che sdrammatizzasse la severa occupazione di spazio del corpo centrale, con elementi leggeri che ne fossero come un’intercapedine e, quindi, anche matrice di una nuova possibilità di progettazione anche a livello di scale diverse, dai padiglioni effimeri ad interi quartieri di case minute (2 piani) e leggiadre, soffuse di Palladismo e ricche di armonia

Da qui l’idea dei due orienti, se visto dal nostro osservatorio mediterraneo, marginale in qualche modo rispetto al movimento vorticoso delle genti sino, mongole, tibetane.
Esse sono per noi il profondo oriente; quindi diviene “oltre oriente” per noi anche la terra degli maquis sugli altopiani messicani, e gli sciamani di corvo Rosso nelle “Black Hills”.
Le similitudini etniche sono stupefacenti, quelle semantiche e spirituali altrettanto…
Coloro invece che sono rimasti e hanno vegliato nei millenni all’ombra del Kaylas, nel centro del mondo al centro delle vette più alte, lì dove l’impatto della deriva dei continenti è stato più forte (subcontinente indiano con continente asiatico) sono il popolo tibetano, detto per eccellenza “il popolo degli uomini” così come si definiscono gli indiani delle praterie americane.
Questo popolo degli uomini è oggi calpestato come tanti altri popoli in terre ancora più lontane, ad Oriente… e come ci accaniamo contro la foresta Amazzonica, privando la terra del suo ossigeno, così falciamo i popoli antichi, cinghie di trasmissione di quella impertinenza, di cui avremo bisogno, oscurando i pochi fenomeni luce a noi rimasti.
Andare quindi verso oriente in un viaggio orizzontale attratti da un’antica verità, un’origine storico-geografica comune, una culla dei popoli, che attraverso il suo dispiegarsi, illustri come un grafico i movimenti vorticosi degli uomini;